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Obama va giù duro sulla difesa
Il niet di Obama è piuttosto preciso, e lo mette tra le priorità del colloquio con il presidente del Consiglio Renzi che con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.”Non possiamo pagare solo noi”, dice riferendosi alle “esigenze” di difesa del mondo occidentale. Per la difesa comune, gli Stati Uniti spendono troppo e l’Europa sempre di meno, in un momento in cui le spese destinate alla sicurezza europea rischiano di lievitare di nuovo con la crisi in Ucraina e le crescenti tensioni con la Russia. Al termine dell’incontro bilaterale a Villa Madama, a Roma, Obama non cita direttamente gli F35 di cui l’Italia intende ridurre il numero, ma sottolinea con vigore che “non ci puo’ essere una situazione in cui gli Usa spendono piu’ del 3% del loro Pil nella difesa, gran parte concentrato in Europa”, mentre “l’Europa spende in media l’1%”. E ricorda che gli Stati Uniti sono appena usciti da due guerre, in Iraq e in Afghanistan, e stanno attraversando un momento di transizione piuttosto delicato. Secondo le ultime cifre della Nato, la spesa Usa e’ addirittura al 4,1% del Pil, rispetto ad una media dell’1,6%, e un obiettivo condiviso del 2%, con risparmi evitando doppioni di spesa. Insomma, invece che tagliare la spesa Obama impone all’Italia la strada di evitare gli sprechi, per ottenere “una maggiore efficienza”. Renzi ha risposto affermando di condividere “il pensiero del presidente Obama, quando dice che la liberta’ non puo’ essere considerata gratis”. E per questo l’Italia ha sempre fatto la sua parte, consapevole delle proprie forze. Ma, ha aggiunto il premier, “il tema dell’efficienza dei costi della pubblica amministrazione e della difesa sono sotto gli occhi di tutti e, nel rispetto della collaborazione, provvederemo a verificare i nostri budget”.
La denuncia di “Rete italiana per il disarmo”
A tastare il polso alla situazione reale è la Rete italiana per il disarmo impegnata nella campagna “Taglia le ali”. “Nonostante la discussione in corso in Parlamento e presso l’opinione pubblica, il Ministero della Difesa – si legge in un comunicato – prosegue nella sua marcia di acquisizione dei caccia F-35, addirittura confermando contratti sul lotto numero 9 (da definirsi solo nel 2015). Tutto questo mentre il Governo Renzi sembrava sul punto di ripensare il programma e il Documento presentato dal PD chiedeva una sospensione dei contratti”. Per “Taglia le ali alle armi” si tratta di un comportamento “inaccettabile e che dimostra come le pressioni di chi vuole mantenere alte le spese militari scavalchino qualsiasi sensata considerazione sui caccia F-35 La notizia proviene direttamente da fonte del Dipartimento della Difesa statunitense e, a meno di smentite mai fatte in passato per avvisi dello stesso tipo, si configura molto grave. L’Italia ha continuato la propria serie di acquisti, in questo caso per “parti, materiali e componenti di supporti”, relativa al cacciabombardiere F-35. Una decisione ed una firma avvenute in assoluto disprezzo sia del dibattito politico e pubblico in corso in questi giorni, (con i ripensamenti annunciati dal Governo Renzi e il recente documento del PD sulle spese militari) sia – e soprattutto – in piena inosservanza delle prescrizioni Parlamentari dello scorso anno”.”Ricordiamo infatti che le Mozioni votate sia alla Camera che al Senato a meta’ 2013 prevedevano l’interruzione di qualsiasi “ulteriore acquisto” relativo al programma dei caccia F-35. In realta’ il ministero della Difesa, in particolare il segretariato Generale della Difesa che ha la responsabilita’ della gestione della nostra partecipazione al programma JSF, non aveva rispettato tali prescrizioni anche nel corso del 2013″, conclude il comunicato.
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Con una circolare dello scorso febbraio il Ministero dell’Interno ha illustrato alle Prefetture il regolamento sull’accordo di integrazione, rendendo così esecutive le procedure di verifica del cosiddetto “permesso di soggiorno a punti” entrato in vigore nel marzo del 2012 con il decreto dell’allora ministro Maroni. Si tratta di una verifica che riguarda al momento soltanto circa 26 mila migranti (tra questi poco più di 2 mila nella provincia di Bologna). Eppure, l’accordo di integrazione e il relativo permesso a punti costituiscono il futuro orizzonte del razzismo istituzionale volto a definire le nuove gerarchie dello sfruttamento del lavoro migrante.
Ad eccezione di quanti hanno il permesso di soggiorno per asilo e per motivi umanitari, oppure di quanti hanno esercitato il diritto al ricongiungimento familiare o hanno ottenuto un permesso di soggiorno CE di lungo periodo o la carta di soggiorno, tutti i migranti entrati in Italia dopo il 10 marzo 2012 (data del decreto Maroni) sono obbligati a sottoscrivere un accordo di integrazione, firmando una Carta dei Valori e impegnandosi così a raggiungere (partendo da 16 punti) un minimo di 30 punti per non perdere il permesso di soggiorno e non essere espulsi. Dopo due anni dalla firma, lo Sportello Unico dell’Immigrazione è, infatti, chiamato a verificare il rispetto dell’accordo calcolando i punti conquistati e quelli persi. Che cosa stabilisce la Carta dei Valori? E soprattutto come si conquistano o si perdono punti?
La “Carta dei Valori, della Cittadinanza e dell’Integrazione” descrive l’Italia come una comunità di persone e di valori: una sorta di paradiso in terra! Tra i molti valori che rendono gioiosa la vita in paradiso, ci sono: libertà, giustizia, uguaglianza, solidarietà, dignità, la parità tra uomo e donna, i diritti umani e persino quelli sociali, come se il welfare non fosse ormai un miraggio per tutti, precari, operai e migranti. In effetti, quando entrano per la prima volta in questo paese, i migranti forse non sanno che esistono i centri di identificazione ed espulsione (CIE) dove si può essere rinchiusi per mesi senza aver commesso alcun reato, ma soltanto per aver perso il diritto a restare. Non sanno che per rinnovare il permesso dovranno dimostrare continuamente di avere un contratto di lavoro, di avere un reddito sufficiente, una casa con una certa metratura e di aver versato i contributi. Non sanno neanche di dover pagare centinaia di euro a ogni rinnovo per ogni membro della loro famiglia e di dover aspettare mesi (anche se la legge stabilisce un tempo massimo di sessanta giorni) per avere in mano un foglio di carta che talvolta è persino consegnato in scadenza. Non sanno inoltre che non potranno riscattare i contributi versati in anni di lavoro, nel caso perdessero il permesso o decidessero di tornare nel loro paese (a meno di accordi bilaterali stipulati dal governo italiano, ancora però con pochi paesi). Non sanno che dovranno aspettare più di dieci anni per avere la cittadinanza, semmai riusciranno a ottenerla. Non sanno che i loro figli nati e cresciuti qui non sono cittadini, ma dovranno sottostare come loro al ricatto del permesso di soggiorno una volta compiuti 18 anni e terminati gli studi. Non sanno neanche che può succedere che i loro figli siano respinti dalle scuole, si dice per “mancanza di posti”, nonostante il diritto alla scuola dell’obbligo sia stabilito dalla Costituzione. La Carta dichiara inoltre la parità di genere, ma le migranti che entrano per ricongiungimento familiare non sanno che per lo Stato italiano “esistono” soltanto nel permesso di soggiorno del marito. Però la poligamia è vietata. Non sapendo tutto questo, senza dubbio, i migranti aderiranno più che volentieri ai valori di una Carta che li vuole integrare in un paese che affonda le sue radici nella “tradizione ebraico-cristiana”, ma che comunque garantisce la libertà religiosa.
Dopo aver sottoscritto la Carta e stipulato l’accordo di integrazione, i migranti entrano in paradiso direttamente nel girone dei giochi a premi. Ecco alcuni esempi. Dopo due anni, chi dimostrerà di conoscere bene la lingua italiana – avendo conseguito titoli scolastici oppure semplicemente pagando un corso in una scuola d’italiano – conquisterà dai 10 ai 30 punti a seconda del livello di conoscenza. Chi avrà frequentato istituti tecnici o corsi universitari, oppure chi insegnerà nelle università, otterrà fino a un massimo di 50 punti. Diversamente, chi avrà conseguito semplicemente un diploma di istruzione secondaria o avrà aggiornato le proprie competenze con corsi di formazione professionale conquisterà soltanto un misero premio di 4 o 5 punti. Infine, sono previsti 6 punti per chi avrà un regolare contratto di affitto o di acquisto di una casa, e 4 punti per chi sceglierà un medico di base. Sanzioni penali e pecuniarie per reati e illeciti amministrativi e tributari di vario tipo comportano invece la perdita di un minimo di 2 punti fino a un massimo di 25.
A questo punto le regole del gioco a premi dovrebbero essere chiare. Dopo due anni, chi avrà raggiunto 30 punti sarà “libero” di vivere in paradiso pur dovendo sottostare al ricatto del permesso di soggiorno legato al lavoro. Chi invece non avrà raggiunto 30 punti retrocede in purgatorio, rimane cioè sotto “giudizio” e avrà tempo ancora un anno per redimersi. Alla scadenza dell’anno, se i termini dell’accordo di integrazione non saranno rispettati, il suo permesso di soggiorno sarà revocato e si ritroverà in mano il foglio di via: sarà espulso. La revoca del permesso è immediata nel caso di punteggio pari a 0 dopo due anni dalla stipula del contratto. Alla fine del gioco quello che è chiaro è che il paradiso descritto dalla Carta dei Valori non è altro che l’inferno delle nuove gerarchie del razzismo istituzionale, non solo tra migranti e italiani, ma tra gli stessi migranti.
Quando è entrata in vigore ormai più di dieci anni fa, la legge Bossi-Fini ha introdotto in modo più stringente di quanto non fosse in passato il legame tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro: il permesso di soggiorno è così diventato un vero e proprio ricatto che, in particolare in seguito alla crisi economica, ha costretto i migranti ad accettare qualsiasi lavoro, senza qualifiche e sicurezze, con salari sempre più bassi e tempi di lavoro sempre più intensi. In questo modo, mettendo in competizione tra loro migranti, operai e precari italiani, il ricatto del permesso di soggiorno non ha soltanto impoverito il lavoro migrante, ma ha indebolito tutto il lavoro. Oggi, quando i migranti – in particolare nel settore della logistica – hanno nuovamente dimostrato che è possibile rompere il ricatto del permesso lottando insieme per conquistare salario e abolire la legge Bossi-Fini, l’accordo di integrazione e il “permesso di soggiorno a punti” intendono rafforzare quel ricatto stabilendo nuove e profonde gerarchie. Anche se per il momento coinvolgono poche decine di migliaia di migranti, in prospettiva queste nuove norme avranno un preciso risvolto politico: posizionare i migranti dentro specifiche gerarchie che corrispondono alla loro istruzione, alle loro competenze professionali, al loro comportamento sociale. Se la legge Bossi-Fini ha reso i migranti tutti uguali come forza lavoro usa e getta funzionale alle esigenze dei padroni, l’accordo di integrazione e il permesso a punti vorrebbero stabilire quali migranti possono conquistare il diritto di restare e in quale posizione nel mercato del lavoro, a seconda della loro capacità di adeguarsi alle esigenze delle imprese e alle regole della società. Per certi versi, queste norme hanno anticipato e ora funzionano in modo complementare alle recenti riforme del lavoro (ultimo in ordine di tempo il decreto del ministro del lavoro “cooperativo”) che hanno ulteriormente individualizzato e precarizzato il lavoro, scaricando completamente sul lavoratore la responsabilità di conquistare un’occupazione dando buona prova di sé nella formazione, nel lavoro e nel mercato. Di nuovo, allora, la sfida politica che i migranti lanciano a tutti – movimenti, associazioni, sindacati – è quella di riconoscere e sostenere le rivendicazioni del lavoro migrante contro i centri di detenzione, il ricatto del permesso e la precarizzazione di tutto il lavoro: migranti, precari e operai italiani devono lottare insieme per rompere le gerarchie dello sfruttamento.
Coordinamento Migranti – Scuola di Italiano con Migranti XM24 – Sportello Legale XM24
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27 marzo 2014 di palermo Lascia un commentNOTAZIONI DEL PRESIDENTE NAZIONALE ANPI
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Nel mirino anche altri magistrati di Palermo, Trapani e Caltanissetta
di Giorgio Bongiovanni – 27 marzo 2014
Pietro Tagliavia, uomo d’onore di Brancaccio; Cosimo Vernengo, boss di Santa Maria di Gesù; Vito Galatolo, figlio del capomandamento dell’Acquasanta; Girolamo Biondino, fratello del braccio destro di Totò Riina, Salvatore; Tommaso Lo Presti, capomandamento di Porta Nuova; Nunzio Milano, boss di Porta Nuova; Giuseppe Guttadauro, capomandamento di Brancaccio. Sono questi alcuni nomi presenti nella lista degli uomini di mafia, scarcerati di recente, su cui si concentra l’attenzione delle Procure.
Chi di questi boss potrebbe essere pronto a raccogliere il mandato di morte che Totò Riina, dal carcere Opera di Milano, ha decretato nei confronti del pm Antonino Di Matteo, parlando con il capomafia della Sacra Corona Unita, Alberto Lorusso?
Chi tra questi uomini ha la possibilità di organizzare un attentato nei confronti dei magistrati del pool trattativa, di altri colleghi di Palermo, Caltanissetta o Trapani?
Chi, tra questi boss in circolazione, assieme a Matteo Messina Denaro ha la potenza di fuoco per armarsi di bazooka o sparare un missile terra-aria da lanciare da una delle colline di Palermo, prendendo di mira la palazzina del giudice Di Matteo così come tentarono (fallendo grazie a Dio) di uccidere l’allora procuratore capo di Palermo, Gian Carlo Caselli, nel 1995? Cosa impedirebbe ai mafiosi di colpire l’auto del magistrato con un congegno a distanza mentre viaggia con la scorta privo del bomb jammer?
Cosa nostra, l’organizzazione criminale più potente in Italia assieme alla ‘Ndrangheta, e tristemente, la più famosa del mondo, ha questa capacità militare a propria disposizione?
Ha davvero l’interesse di raccogliere l’ordine-invito del Capo dei capi, Riina?
La risposta, teoricamente, è sì. Ma nei fatti la mafia non ha alcun interesse strategico reale per mettere in atto l’ordine di Riina.
Certo, potrebbero crearsi comunque certi presupposti che non vanno presi alla leggera.
Partiamo da un assunto, ovvero che nessuno di questi capimafia tornati in libertà è uomo di “Cupola”.
Escluso Matteo Messina Denaro non ci sono nomi “eccellenti” che hanno preso parte alle riunioni della Commisione provinciale o regionale di Cosa nostra. Tuttavia sia i vecchi boss, che i giovani rampanti potrebbero rispondere all’appello di Riina decidendo di “fare il salto” ed “ergersi” come nuovi leader in Sicilia. Per i vari Settimo Mineo, Salvatore Gioeli, Nunzio Milano, Rosario Inzerillo, Emanuele Lipari, Gaetano Badagliacca, Tommaso Lo Presti, Girolamo Biondino, Vito Galatolo, Nicolò Salto, Pietro Vernengo, Cosimo Vernengo, Francesco Francoforti, Giuseppe Guttadauro, Giuseppe Giuliano, Pietro Tagliavia, Giovanni Asciutto, Nicola Ribisi e Carmelo Vellini, e tanti altri figli o nipoti di boss mafiosi o nuovi capi assolutamente sconosciuti, compiere una strage sarebbe una straordinaria dimostrazione di potere.
Un attacco “delirante” che porterebbe in un batter d’occhio l’eventuale autore al centro del cuore di Riina, rispondendo alle sue direttive stragiste, e al tempo stesso scalerebbe il vertice della nuova Cosa nostra, mettendo da parte persino il superlatitante Matteo Messina Denaro.
Tuttavia un tale “golpe” esporrebbe a gravi rischi i mafiosi che sentirebbero, nell’eventualità che avvenisse una nuova strage, immediatamente il fiato sul collo degli inquirenti e dello Stato che li stanerebbe, catturandoli, processandoli e condannandoli ad una vita da ergastolani.
Per questo motivo uccidere Di Matteo, o qualsiasi altro magistrato, in trincea nelle Procure a rischio in Italia sarebbe oggi sconveniente. Per questo motivo la mafia preferisce, salvo qualche regolamento di conti interno, dedicarsi ai propri affari, trafficare droga, compiere estorsioni o agganciare qualche politico compiacente che ne possa garantire la sopravvivenza. E soprattutto riscuotere quelle cambiali che lo Stato ha firmato durante la trattativa delle stragi del 1992-1993.
Tuttavia i pericoli nei confronti di Di Matteo, dei magistrati del pool trattativa, di quelli che indagano sulle stragi del 1992 e del 1993, e sulla cattura dei latitanti, restano altissimi.
E se non è la mafia ad avere l’interesse per compiere una strage ecco che l’obiettivo va spostato “oltre la mafia”, o meglio, verso la “mafia-Stato”.
Giovanni Falcone, ai tempi del fallito attentato all’Addaura, parlò di “menti raffinatissime” implicate nel progetto di morte. Oggi come allora “menti raffinatissime” potrebbero avere tutto l’interesse per organizzare una nuova strage. L’alibi è già pronto e l’ha fornito proprio Salvatore Riina: “Facciamola questa cosa, facciamola grossa”. Il “parafulmine” perfetto.
Perché se da una parte c’è uno Stato che protegge Di Matteo ed i magistrati di Palermo, Caltanissetta e Trapani, dando loro potere di indagare e compiere arresti nei confronti della mafia e dei collusi con essa, di processare imputati boss e complici eccellenti, dall’altra c’è uno Stato “deviato” molto potente. Uno “Stato-mafia” composto anche da figure appartenenti al mondo politico, della magistratura, della finanza, delle forze militari, dei servizi segreti, delle logge deviate che potrebbe avere tutto l’interesse di destabilizzare nuovamente il Paese tornando ad uccidere in maniera eclatante, magari servendosi dell’ambizione di vecchi e nuovi capimafia.
Il procuratore di Palermo Messineo, commentando la condanna a morte di Riina a Di Matteo, parlò di “chiamata alle armi”. Noi siamo d’accordo anche se va compreso profondamente chi risponderà alla stessa. Cosa nostra, apparentemente, starebbe “rispondendo picche” ma lo Stato deviato, lo stesso su cui stanno cercando di far luce tre Procure d’Italia (Palermo, Caltanissetta e Firenze), potrebbe avere ben altri argomenti da spendere.
Più che il processo trattativa possono essere forse proprio queste nuove inchieste a “togliere i sonni” non solo a soggetti già imputati nell’attuale procedimento sulla trattativa (con l’acquisizione di ulteriori prove a loro carico), ma anche di ignoti personaggi dal volto coperto e ancora incensurati.
Oltre a questo, esiste un intreccio perverso della potente finanza “nera”, criminale, con quella “bianca”, dello Stato. Le organizzazioni mafiose dispongono di immense quantità di capitale liquido. Solo la ‘Ndrangheta, secondo uno studio dell’istituto Demoskopika, ha un giro d’affari complessivo di 53 miliardi di euro annui, un esercito di circa 60 mila affiliati e quasi 400 ‘ndrine operative in 30 paesi, ma in totale sono 150 miliardi di euro, arrotondati per difetto, i soldi che ogni anno “fatturano” le mafie. Un costante flusso di denaro che è fondamentale per gli interessi finanziari di entrambi, lo Stato e la mafia, che continui a scorrere indisturbato. Anomalie di questo sistema, come il pm Di Matteo, sarebbero dunque da fermare prima che il processo per la trattativa Stato-mafia si spinga troppo oltre e vengano alla luce patti e segreti inconfessabili.
Ecco quindi che l’ipotesi “Stato-deviato” torna con forza.
Per quale motivo non può essere verosimile che “Servizi deviati” possano porre in essere un attentato contro i pm di Palermo e Caltanissetta pur di proteggere altri funzionari di Stato infedeli?
E’ verosimile che alcuni membri di Cosa nostra possano essere usati come pedine in un eventuale attentato?
Del resto è già accaduto in passato. Il pentito Salvatore Cancemi, oggi deceduto, mi raccontò (e soprattutto lo raccontò ai processi per le stragi del ’92-’93) che Riina nelle stragi venne “portato per la manina” mentre Spatuzza, più di recente, ha raccontato di figure a lui sconosciute, probabilmente esterne a Cosa nostra, nella preparazione dell’attentato di Via d’Amelio. Ecco perché, nuovamente, potremmo assistere ad una nuova strage con lo Stato-mafia che muove i fili, sporcandosi ancora una volta le mani di sangue, utilizzando come sempre sicari e boss.
Foto © Castolo Giannini
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I partiti italiani che fanno riferimento all’Alleanza liberal democratica europea sono svariati, la galassia liberale si era raggruppata, in un progetto unitario, svariati mesi fa: il progetto in questione era “In cammino per cambiare” e vedeva insieme il Pli (Partito Liberale Italiano), Fare per Fermare il Declino, il Partito federalista europeo, Uniti verso nord, la Federazione Liberale e la lista civica piemontese Progett’Azione. Il progetto, poi, è venuto meno per gli attriti tra Michele Boldrin, coordinatore di FiD, e Stefano de Luca, segretario del Pli. La lista Alde candida a Presidente della Commissione Europea l’ex premier del Belgio Guy Verhofstadt e gli incontri preparatori per la formazione dell’agglomerato liberale sono stati fermamente voluti dallo stesso ex premier che, circa un mese fa in una conferenza stampa alla Stampa estera, ha presentato la lista liberal democratica che correrà in Italia per le Europee. Alla conferenza stampa erano presenti tutti i movimenti della galassia liberale: Fid, Centro democratico, Pri, Pli, Pfe, federazione liberale, Ali, Scelta Civica. La lista, dunque, avrebbe preso il nome di Scelta Europea: ci sarebbe stato il simbolo dell’Alde, il nome del politico belga e i simboli di Centro democratico e FiD. Sarebbe stato così, ed è ancora così se non che una parte della galassia liberale, pur consistente, ha optato per una scelta diversa.
Il gruppo di Scelta Civica si è separato dalla lista Alde, proprio nella giornata di ieri. E durante una conferenza stampa alla Camera dei Deputati, ha presentato il simbolo che correrà alle elezioni europee: Scelta civica per l’Europa. Il ramo del parlamento europeo è lo stesso, l’Alde, Andrea Romano lo ripete anche quando Edoardo Petti di ‘Formiche’ gli pone la domanda: “Sosterremo la candidatura di Guy Verhofstadt” ponendola come migliore “tra quella proposta dal Pse e dal Ppe perché rappresentano vecchie culture politiche che si sono dimostrate incapaci di rinnovare l’Europa”. Scelta civica va per la sua strada, dunque, e il Partito Liberale Italiano decide, a sua volta, di ritirarsi dalla lista Alde. Stefano de Luca, raggiunto da ‘Controlacrisi’, ha dichiarato che il Pli non ha più dato appoggio alla lista Alde “perché è un guazzabuglio”. “Si sono divisi anche in due liste, ieri – come Pli – abbiamo redatto un documento che invitava le due liste, cioè quella dell’Alde e quella di Scelta civica, a riunificarsi perché è l’unica possibilità per il mondo liberale di riuscire a portare un risultato”. Quindi il Pli non appoggia né l’una né l’altra lista: “Al momento, la decisione presa ieri è questa, avendo invitato le due liste ad unificarsi”. Lo stesso De Luca afferma che non sosterranno Guy Verhostadt: “al momento siamo fuori. Abbiamo dato un forte invito a ricomporre questa frattura perché nessuno dei due gruppi, allo stato attuale, potrà raggiungere il 4%. La nostra idea è quella di fare una lista unica che abbia possibilità di superare lo sbarramento. Questa divisione mi sembra una follia”.
Stefania Schipani, presidentessa del Pfe, in una lettera inviata a ‘Formiche’ dichiara: “La presentazione della lista Alde rappresenta un esperimento politico interessante che mira a far confluire, sotto un progetto comune, diverse forze politiche attraverso un percorso di unione e che può dar voce ad una parte rilevante dell’elettorato non appartenente alla sinistra, alla destra e alla demagogia grillina. Chi sceglie la disunione ovviamente se ne assume anche la responsabilità in questo momento storico delicatissimo per il nostro paese e per l’Europa. E’ proprio la convergenza di forze politiche diverse fra loro il valore aggiunto della nostra proposta e avremo modo di spiegarlo agli elettori”. A ‘Controlacrisi’, la Schipani afferma: “Nella lista Alde, inizialmente, era presente anche Scelta Civica. Devo ancora mettermi in contatto con Verhofstadt per capire cosa ne pensa, ma l’azione di Scelta Civica è stata condotta in totale autonomia”.
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C’è poi il punto dolente delle discariche: vi finisce ancora il 41% dei rifiuti municipali prodotti in Italia, contro una media Ue del 34%. Fra i grandi paesi, la Germania (0%) è un esempio di virtù, avendo virtualmente eliminato le discariche, mentre la Francia è al 28%, la Gran Bretagna, con il 37%, si avvicina all’Italia, che comunque va molto meglio della Spagna (63%). I paesi peggiori sono nell’ordine la Romania (99%), Croazia (85%)
Malta (87%), Lettonia (84), Lituania (79), Slovacchia (77), Bulgaria (73%). I paesi con le migliori performance, dietro la Germania, sono il Belgio e la Svezia (1%), l’Olanda (2%), e poi Austria e Danimarca con il 3%.
Negli inceneritori finisce il 20% dei rifiuti italiani, contro il 24% della media Ue. Fra i grandi paesi, l’incenerimento è usato di più in Germania (35%) e Francia (33%), e di meno in Gran Bretagna (17%) e in Spagna (10%).
I paesi che ricorrono di più a questo metodo (il peggiore dopo le discariche) sono la Danimarca e la Svezia (52%), l’Olanda (49), il Belgio (42) e il Lussemburgo (36). L’Austria è allo stesso livello (35%) della Germania. Sette Stati membri non hanno inceneritori: Bulgaria, Grecia, Croazia, Cipro, Lettonia, Malta e Romania. In Lituania e Polonia l’incenerimento riguarda solo l’1% dei rifiuti municipali.
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