La Resistenza non è stata “rossa”, ma un movimento di popolo a cui hanno partecipato comunisti, socialisti, cattolici, azionisti. Tuttavia il contributo del PCI è stato decisivo: su 256.000 partigiani (in Italia e all’estero), 153.000 erano garibaldini, e su 70.930 caduti 42.558 erano garibaldini. Documenti, immagini, video, su: http://www.sitocomunista.it

Un’autobiografia raccontata e discussa con Nicola Tranfaglia di Pietro Ingrao.

“Yes, we can … fight”. Le panzane di Renzi sugli F35. Obama lo rimette in riga | Autore: fabio sebastiani da: controlacrisi.org

Tra le panzane di Matteo Renzi, che Obama chissà perché chiama “visione”, dopo quella sulla legge elettorale ora cade anche quella sugli F35. Il presidente degli Usa gli ha dato una tirannia d’orecchi. E l’ex sindaco di Firenze se l’è ben stampato in testa. Tanto che da Bruxelles, dove l’Italia ha partecipato alla conferenza annuale dell’Agenzia europea di difesa, il sottosegretario Domenico Rossi fa sapere che entro fine anno sara’ pronto il “libro bianco” della Difesa per “individuare le reali esigenze di tutti i sistemi d’arma” nel quadro delle alleanze, documento che – “insieme all’indagine conoscitiva del Parlamento” – “permettera’ di definire le esigenze quantitative dei vari sistemi, tra i quali gli F35”. Tradotto in “italiano” vuol dire che il taglio nell’acquisto degli F35 non c’è.

Obama va giù duro sulla difesa
Il niet di Obama è piuttosto preciso, e lo mette tra le priorità del colloquio con il presidente del Consiglio Renzi che con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.”Non possiamo pagare solo noi”, dice riferendosi alle “esigenze” di difesa del mondo occidentale. Per la difesa comune, gli Stati Uniti spendono troppo e l’Europa sempre di meno, in un momento in cui le spese destinate alla sicurezza europea rischiano di lievitare di nuovo con la crisi in Ucraina e le crescenti tensioni con la Russia. Al termine dell’incontro bilaterale a Villa Madama, a Roma, Obama non cita direttamente gli F35 di cui l’Italia intende ridurre il numero, ma sottolinea con vigore che “non ci puo’ essere una situazione in cui gli Usa spendono piu’ del 3% del loro Pil nella difesa, gran parte concentrato in Europa”, mentre “l’Europa spende in media l’1%”. E ricorda che gli Stati Uniti sono appena usciti da due guerre, in Iraq e in Afghanistan, e stanno attraversando un momento di transizione piuttosto delicato. Secondo le ultime cifre della Nato, la spesa Usa e’ addirittura al 4,1% del Pil, rispetto ad una media dell’1,6%, e un obiettivo condiviso del 2%, con risparmi evitando doppioni di spesa. Insomma, invece che tagliare la spesa Obama impone all’Italia la strada di evitare gli sprechi, per ottenere “una maggiore efficienza”. Renzi ha risposto affermando di condividere “il pensiero del presidente Obama, quando dice che la liberta’ non puo’ essere considerata gratis”. E per questo l’Italia ha sempre fatto la sua parte, consapevole delle proprie forze. Ma, ha aggiunto il premier, “il tema dell’efficienza dei costi della pubblica amministrazione e della difesa sono sotto gli occhi di tutti e, nel rispetto della collaborazione, provvederemo a verificare i nostri budget”.

La denuncia di “Rete italiana per il disarmo”
A tastare il polso alla situazione reale è la Rete italiana per il disarmo impegnata nella campagna “Taglia le ali”. “Nonostante la discussione in corso in Parlamento e presso l’opinione pubblica, il Ministero della Difesa – si legge in un comunicato – prosegue nella sua marcia di acquisizione dei caccia F-35, addirittura confermando contratti sul lotto numero 9 (da definirsi solo nel 2015). Tutto questo mentre il Governo Renzi sembrava sul punto di ripensare il programma e il Documento presentato dal PD chiedeva una sospensione dei contratti”. Per “Taglia le ali alle armi” si tratta di un comportamento “inaccettabile e che dimostra come le pressioni di chi vuole mantenere alte le spese militari scavalchino qualsiasi sensata considerazione sui caccia F-35 La notizia proviene direttamente da fonte del Dipartimento della Difesa statunitense e, a meno di smentite mai fatte in passato per avvisi dello stesso tipo, si configura molto grave. L’Italia ha continuato la propria serie di acquisti, in questo caso per “parti, materiali e componenti di supporti”, relativa al cacciabombardiere F-35. Una decisione ed una firma avvenute in assoluto disprezzo sia del dibattito politico e pubblico in corso in questi giorni, (con i ripensamenti annunciati dal Governo Renzi e il recente documento del PD sulle spese militari) sia – e soprattutto – in piena inosservanza delle prescrizioni Parlamentari dello scorso anno”.”Ricordiamo infatti che le Mozioni votate sia alla Camera che al Senato a meta’ 2013 prevedevano l’interruzione di qualsiasi “ulteriore acquisto” relativo al programma dei caccia F-35. In realta’ il ministero della Difesa, in particolare il segretariato Generale della Difesa che ha la responsabilita’ della gestione della nostra partecipazione al programma JSF, non aveva rispettato tali prescrizioni anche nel corso del 2013″, conclude il comunicato.

La Nato ci costa 70 milioni di euro al giorno | Fonte: Il Manifesto | Autore: Manlio Dinucci

Rapporto Sipri. Ogni ora si spendono tre milioni di euro per difesa, armi e Alleanza atlantica. Ecco quanto paga l’Italia. Senza contare F35 e missioni militari all’estero

«La situa­zione in Ucraina ci ricorda che la nostra libertà non è gra­tuita e dob­biamo essere dispo­sti a pagare»: lo ha riba­dito il pre­si­dente Obama, a Roma come a Bru­xel­les, dicen­dosi pre­oc­cu­pato che alcuni paesi Nato vogliano dimi­nuire la pro­pria spesa mili­tare.

La pros­sima set­ti­mana, ha annun­ciato, si riu­ni­ranno a Bru­xel­les i mini­stri degli esteri per raf­for­zare la pre­senza Nato nell’Europa orien­tale e aiu­tare l’Ucraina a moder­niz­zare le sue forze mili­tari. Ciò richie­derà stan­zia­menti aggiun­tivi. Siamo dun­que avver­titi: altro che tagli alla spesa militare!
A quanto ammonta quella ita­liana? Secondo i dati del Sipri, l’autorevole isti­tuto inter­na­zio­nale con sede a Stoc­colma, l’Italia è salita nel 2012 al decimo posto tra i paesi con le più alte spese mili­tari del mondo, con circa 34 miliardi di dol­lari, pari a 26 miliardi di euro annui.
Il che equi­vale a 70 milioni di euro al giorno, spesi con denaro pub­blico in forze armate, armi e mis­sioni mili­tari all’estero.
Secondo i dati rela­tivi allo stesso anno, pub­bli­cati dalla Nato un mese fa, la spesa ita­liana per la difesa ammonta a 20,6 miliardi di euro, equi­va­lenti a oltre 56 milioni di euro al giorno. Tale cifra, si pre­cisa nel bud­get, non com­prende però la spesa per altre forze non per­ma­nen­te­mente sotto comando Nato, ma asse­gna­bili a seconda delle cir­co­stanze. Né com­prende le spese per le mis­sioni mili­tari all’estero, che non gra­vano sul bilan­cio del mini­stero della difesa. Ci sono inol­tre altri stan­zia­menti extra-budget per il finan­zia­mento di pro­grammi mili­tari a lungo ter­mine, tipo quello per il cac­cia F-35.

Il bud­get uffi­ciale con­ferma che la spesa mili­tare Nato ammonta a oltre 1000 miliardi di dol­lari annui, equi­va­lenti al 57% del totale mon­diale. In realtà è più alta, in quanto alla spesa sta­tu­ni­tense, quan­ti­fi­cata dalla Nato in 735 miliardi di dol­lari annui, vanno aggiunte altre voci di carat­tere mili­tare non com­prese nel bud­get del Pen­ta­gono – tra cui 140 miliardi annui per i mili­tari a riposo, 53 per il «pro­gramma nazio­nale di intel­li­gence», 60 per la «sicu­rezza della patria» – che por­tano la spesa reale Usa a oltre 900 miliardi, ossia a più della metà di quella mondiale.

Scopo degli Stati uniti è che gli alleati euro­pei assu­mano una quota mag­giore nella spesa mili­tare della Nato, desti­nata ad aumen­tare con l’allargamento e il poten­zia­mento del fronte orientale.

Oggi, sot­to­li­nea Obama, «aerei dell’Alleanza atlan­tica pat­tu­gliano i cieli del Bal­tico, abbiamo raf­for­zato la nostra pre­senza in Polo­nia e siamo pronti a fare di più». Andando avanti in que­sta dire­zione, avverte, «ogni stato mem­bro della Nato deve accre­scere il pro­prio impe­gno e assu­mersi il pro­prio carico, mostrando la volontà poli­tica di inve­stire nella nostra difesa col­let­tiva». Tale volontà è stata sicu­ra­mente con­fer­mata al pre­si­dente sta­tu­ni­tense Barack Obama dal pre­si­dente delle repub­blica Napo­li­tano e dal capo del governo Renzi. Il carico, come al solito, se lo addos­se­ranno i lavo­ra­tori italiani.

Forza Italia e il rebus simbolo e candidature. Intanto va giù nei sondaggi Autore: marco piccinelli

Brutte notizie in casa Forza Italia: i sondaggi mostrati stamattina dalla trasmissione ‘Agorà’ (Rai Tre) mostrano il partito dell’ex Cavaliere del Lavoro Silvio Berlusconi cedere qualche punto percentuale.
Il messaggio di Forza Italia arriverebbe al 20% e spiccioli dell’elettorato, o meglio: alla parte di esso che ancora intende recarsi alle urne per la tornata elettorale europea del maggio prossimo.
Ma i sondaggi, che pure Silvio Berlusconi guarda con molta più attenzione di qualunque altro ‘attante politico’, sono solo la punta dell’iceberg del volo mancato di Forza Italia.
Nell’impeto di riprendere in mano un progetto che si stava terribilmente inclinando e descritto sui mezzi di informazione attraverso categorie ornitologiche (vd. falchi e colombe), Berlusconi aveva puntato sul rinnovamento a Forza Italia del precedente partito: il Popolo della Libertà.
Le grane, però, per Berlusconi non sono semplicemente quelle legate ai sondaggi: essendo incandidabile, giacché condannato, si deve correre necessariamente ai ripari.
I componenti di Forza Italia, cosiddetti ‘forzisti’, sanno bene che qualora non ci fosse Berlusconi candidato sarebbero costretti a raccogliere le briciole di una tornata elettorale, già magra di affluenza, come può essere quella europea.
Lasciare il nome ‘Berlusconi’ sul simbolo che si troverà sulla scheda elettorale, come se niente fosse, è comunque un azzardo, ‘Silvio’ non si può candidare e far rimanere impresso il nome sul partito suona quasi come una menzogna e potrebbe far invalidare il voto, come scriveva Amedeo la Mattina su ‘La Stampa’ del 20 marzo: «Rimane la possibilità di mettere il nome di Berlusconi nel simbolo («Forza Italia per Berlusconi») ma ci sono delle controindicazioni: molti elettori potrebbero scrivere il nome Berlusconi come preferenza e questo andrebbe a invalidare il voto».
Giovanni Toti, nel frattempo, in qualità di consigliere politico di Forza Italia, twitta: “Leggo sui giornali: Forza Italia, tutti contro tutti! Ragazzi…avete sbagliato pagina, non è’ il PD!! Da noi #nessunodevestaresereno!!”; si invola in dichiarazioni come “Silvio Berlusconi è più in campo che mai”, ma la sostanza è una: il partito, senza il leader ora condannato, potrebbe evaporare in un attimo.
I figli di Berlusconi, come candidati alle elezioni europee, comunque, potrebbero essere la soluzione estrema per il salvataggio del partito, un appiglio ma da Marina a Pier Silvio, però, è tutto un diniego.
Sebastiano Messina nel suo ‘Bonsai’ di ‘La Repubblica’, il 26 marzo provava ad ironizzare così: «E’ interessante l’idea del simpatico Rotondi di mettere in lista per le europee — al posto del capostipite — i figli di Berlusconi: tutti e cinque, uno per circoscrizione. Si può fare anche di meglio, volendo. Dal momento che bisogna trovare 73 candidati — tanti sono gli europarlamentari da eleggere — sarebbe magnifico presentare delle liste monocognome: tutti Berlusconi, dal primo all’ultimo, così non si scontenta nessuno. Basterebbe attingere agli elenchi telefonici, dove troviamo quattro Berlusconi a Bordighera, due a Soprana, cinque a Vigo di Cadore e tre a Roma. Purtroppo non ce n’è nessuno in tutto il Sud, ma per fortuna c’è la Lombardia, dove ne vivono 83 solo a Veniano, 50 a Lurago Marinone e 20 a Saronno. Pure troppi. Si potrebbe tirare la monetina. Testa, sei in lista. Croce, fai il figurante a “Verissimo”».Ora ‘Silvio’ prova a convincere Barbara, ipotesi mai tramontata per la successione familistica del partito: meglio lei che i capi locali nelle varie regioni.
Anche perché i coordinatori regionali possono sempre prendere in mano la situazione che, nella maggior parte dei casi, non coincide più con la visione di Berlusconi e il caso della Campania ne è un esempio.
E’ manifesto, ormai, che la rinascita di Berlusconi non passava per la cruna dell’ago della ricostruzione del ‘sogno forzista’, tornando alla composizione del partito del ’94: il baratro è ad un passo e per evitarlo ci vogliono manovre sapienti.

Reato di soggiorno per punti da:Coordinamento Migranti – Scuola di Italiano con Migranti XM24 – Sportello Legale XM24

Reato di soggiorno per punti

pallottoliereCon una circolare dello scorso febbraio il Ministero dell’Interno ha illustrato alle Prefetture il regolamento sull’accordo di integrazione, rendendo così esecutive le procedure di verifica del cosiddetto “permesso di soggiorno a punti” entrato in vigore nel marzo del 2012 con il decreto dell’allora ministro Maroni. Si tratta di una verifica che riguarda al momento soltanto circa 26 mila migranti (tra questi poco più di 2 mila nella provincia di Bologna). Eppure, l’accordo di integrazione e il relativo permesso a punti costituiscono il futuro orizzonte del razzismo istituzionale volto a definire le nuove gerarchie dello sfruttamento del lavoro migrante.

Ad eccezione di quanti hanno il permesso di soggiorno per asilo e per motivi umanitari, oppure di quanti hanno esercitato il diritto al ricongiungimento familiare o hanno ottenuto un permesso di soggiorno CE di lungo periodo o la carta di soggiorno, tutti i migranti entrati in Italia dopo il 10 marzo 2012 (data del decreto Maroni) sono obbligati a sottoscrivere un accordo di integrazione, firmando una Carta dei Valori e impegnandosi così a raggiungere (partendo da 16 punti) un minimo di 30 punti per non perdere il permesso di soggiorno e non essere espulsi. Dopo due anni dalla firma, lo Sportello Unico dell’Immigrazione è, infatti, chiamato a verificare il rispetto dell’accordo calcolando i punti conquistati e quelli persi. Che cosa stabilisce la Carta dei Valori? E soprattutto come si conquistano o si perdono punti?

La “Carta dei Valori, della Cittadinanza e dell’Integrazione” descrive l’Italia come una comunità di persone e di valori: una sorta di paradiso in terra! Tra i molti valori che rendono gioiosa la vita in paradiso, ci sono: libertà, giustizia, uguaglianza, solidarietà, dignità, la parità tra uomo e donna, i diritti umani e persino quelli sociali, come se il welfare non fosse ormai un miraggio per tutti, precari, operai e migranti. In effetti, quando entrano per la prima volta in questo paese, i migranti forse non sanno che esistono i centri di identificazione ed espulsione (CIE) dove si può essere rinchiusi per mesi senza aver commesso alcun reato, ma soltanto per aver perso il diritto a restare. Non sanno che per rinnovare il permesso dovranno dimostrare continuamente di avere un contratto di lavoro, di avere un reddito sufficiente, una casa con una certa metratura e di aver versato i contributi. Non sanno neanche di dover pagare centinaia di euro a ogni rinnovo per ogni membro della loro famiglia e di dover aspettare mesi (anche se la legge stabilisce un tempo massimo di sessanta giorni) per avere in mano un foglio di carta che talvolta è persino consegnato in scadenza. Non sanno inoltre che non potranno riscattare i contributi versati in anni di lavoro, nel caso perdessero il permesso o decidessero di tornare nel loro paese (a meno di accordi bilaterali stipulati dal governo italiano, ancora però con pochi paesi). Non sanno che dovranno aspettare più di dieci anni per avere la cittadinanza, semmai riusciranno a ottenerla. Non sanno che i loro figli nati e cresciuti qui non sono cittadini, ma dovranno sottostare come loro al ricatto del permesso di soggiorno una volta compiuti 18 anni e terminati gli studi. Non sanno neanche che può succedere che i loro figli siano respinti dalle scuole, si dice per “mancanza di posti”, nonostante il diritto alla scuola dell’obbligo sia stabilito dalla Costituzione. La Carta dichiara inoltre la parità di genere, ma le migranti che entrano per ricongiungimento familiare non sanno che per lo Stato italiano “esistono” soltanto nel permesso di soggiorno del marito. Però la poligamia è vietata. Non sapendo tutto questo, senza dubbio, i migranti aderiranno più che volentieri ai valori di una Carta che li vuole integrare in un paese che affonda le sue radici nella “tradizione ebraico-cristiana”, ma che comunque garantisce la libertà religiosa.

Dopo aver sottoscritto la Carta e stipulato l’accordo di integrazione, i migranti entrano in paradiso direttamente nel girone dei giochi a premi. Ecco alcuni esempi. Dopo due anni, chi dimostrerà di conoscere bene la lingua italiana – avendo conseguito titoli scolastici oppure semplicemente pagando un corso in una scuola d’italiano – conquisterà dai 10 ai 30 punti a seconda del livello di conoscenza. Chi avrà frequentato istituti tecnici o corsi universitari, oppure chi insegnerà nelle università, otterrà fino a un massimo di 50 punti. Diversamente, chi avrà conseguito semplicemente un diploma di istruzione secondaria o avrà aggiornato le proprie competenze con corsi di formazione professionale conquisterà soltanto un misero premio di 4 o 5 punti. Infine, sono previsti 6 punti per chi avrà un regolare contratto di affitto o di acquisto di una casa, e 4 punti per chi sceglierà un medico di base. Sanzioni penali e pecuniarie per reati e illeciti amministrativi e tributari di vario tipo comportano invece la perdita di un minimo di 2 punti fino a un massimo di 25.

A questo punto le regole del gioco a premi dovrebbero essere chiare. Dopo due anni, chi avrà raggiunto 30 punti sarà “libero” di vivere in paradiso pur dovendo sottostare al ricatto del permesso di soggiorno legato al lavoro. Chi invece non avrà raggiunto 30 punti retrocede in purgatorio, rimane cioè sotto “giudizio” e avrà tempo ancora un anno per redimersi. Alla scadenza dell’anno, se i termini dell’accordo di integrazione non saranno rispettati, il suo permesso di soggiorno sarà revocato e si ritroverà in mano il foglio di via: sarà espulso. La revoca del permesso è immediata nel caso di punteggio pari a 0 dopo due anni dalla stipula del contratto. Alla fine del gioco quello che è chiaro è che il paradiso descritto dalla Carta dei Valori non è altro che l’inferno delle nuove gerarchie del razzismo istituzionale, non solo tra migranti e italiani, ma tra gli stessi migranti.

Quando è entrata in vigore ormai più di dieci anni fa, la legge Bossi-Fini ha introdotto in modo più stringente di quanto non fosse in passato il legame tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro: il permesso di soggiorno è così diventato un vero e proprio ricatto che, in particolare in seguito alla crisi economica, ha costretto i migranti ad accettare qualsiasi lavoro, senza qualifiche e sicurezze, con salari sempre più bassi e tempi di lavoro sempre più intensi. In questo modo, mettendo in competizione tra loro migranti, operai e precari italiani, il ricatto del permesso di soggiorno non ha soltanto impoverito il lavoro migrante, ma ha indebolito tutto il lavoro. Oggi, quando i migranti – in particolare nel settore della logistica – hanno nuovamente dimostrato che è possibile rompere il ricatto del permesso lottando insieme per conquistare salario e abolire la legge Bossi-Fini, l’accordo di integrazione e il “permesso  di soggiorno a punti” intendono rafforzare quel ricatto stabilendo nuove e profonde gerarchie. Anche se per il momento coinvolgono poche decine di migliaia di migranti, in prospettiva queste nuove norme avranno un preciso risvolto politico: posizionare i migranti dentro specifiche gerarchie che corrispondono alla loro istruzione, alle loro competenze professionali, al loro comportamento sociale. Se la legge Bossi-Fini ha reso i migranti tutti uguali come forza lavoro usa e getta funzionale alle esigenze dei padroni, l’accordo di integrazione e il permesso a punti vorrebbero stabilire quali migranti possono conquistare il diritto di restare e in quale posizione nel mercato del lavoro, a seconda della loro capacità di adeguarsi alle esigenze delle imprese e alle regole della società. Per certi versi, queste norme hanno anticipato e ora funzionano in modo complementare alle recenti riforme del lavoro (ultimo in ordine di tempo il decreto del ministro del lavoro “cooperativo”) che hanno ulteriormente individualizzato e precarizzato il lavoro, scaricando completamente sul lavoratore la responsabilità di conquistare un’occupazione dando buona prova di sé nella formazione, nel lavoro e nel mercato. Di nuovo, allora, la sfida politica che i migranti lanciano a tutti – movimenti, associazioni, sindacati – è quella di riconoscere e sostenere le rivendicazioni del lavoro migrante contro i centri di detenzione, il ricatto del permesso e la precarizzazione di tutto il lavoro: migranti, precari e operai italiani devono lottare insieme per rompere le gerarchie dello sfruttamento.

Coordinamento Migranti – Scuola di Italiano con Migranti XM24 – Sportello Legale XM24

SMURAGLIA sul progetto di “abolire” il Senato

27 marzo 2014 di palermo Lascia un commentNOTAZIONI DEL PRESIDENTE NAZIONALE ANPI

CARLO SMURAGLIA:
► Sul progetto di “abolire” il Senato: un problema delicato e complesso, da
affrontare con ponderazione e con rispetto per la Costituzione
Sono costretto a tornare ancora una volta sulla questione della cosiddetta “abolizione” del
Senato.
Riassumo le osservazioni che ho già fatto in precedenza, per maggiore chiarezza:
a) esistono dubbi sulla legittimità di questo Parlamento ad eliminare addirittura una delle due
Camere; quanto meno si dovrebbe porre il problema della “opportunità” che questo
Parlamento faccia riforme così impegnative sul piano costituzionale;
b) vi è la necessità, generalmente riconosciuta, di eliminare il bicameralismo “perfetto” (due
Camere che fanno le stesse cose) anche se bisogna riconoscere che, mentre di solito il
bicameralismo perfetto amplia in modo insopportabile i ritmi e i tempi del procedimento
legislativo, la storia di questi anni ci fornisce solidi esempi di situazioni in cui “le correzioni”
da parte dell’altra Camera, rispetto a quella che per prima aveva deliberato, sono state
positive ed addirittura determinanti. In ogni caso, sul punto non mi soffermerei troppo, anche
5
perché c’è ormai un diffuso orientamento almeno verso un bicameralismo con funzioni
“differenziate”;
c) una riforma costituzionale di grande peso, come quella che attiene alla eliminazione o
trasformazione di una delle due Camere, non può essere neppure concepita per semplici
ragioni di risparmio di spesa. Il problema è quello della funzionalità, non quello dei costi.
d) una possibile riforma del “Senato” è stata oggetto di studi e riflessioni da parte di esperti, che
hanno prospettato diversi modelli di differenziazione. La Commissione dei cosiddetti “saggi”,
nominata dal precedente Governo, ha dedicato a questa problematica parecchie pagine della
relazione conclusiva, riferendo su modelli, opinioni prevalenti, opinioni dissenzienti e così via.
Prescindendo dalle conclusioni, che potrebbero anche risentire del clima politico e
dell’investitura ricevuta, perché non tener conto del lavoro di elaborazione compiuto? Oppure
si vuol continuare nel sistema di ricominciare tutto daccapo ogni volta che cambia il
Governo, perfino per ciò che riguarda studi e ricerche?
e) una riforma importante, come quella del Senato, richiede anzitutto rispetto per il lavoro dei
Costituenti, conoscenza dei problemi che si pongono e dei loro risvolti su tutto il sistema
disegnato dalla Costituzione: ma richiede soprattutto riflessioni approfondite, con la
determinazione necessaria per arrivare in fondo, ma anche con i tempi necessari perché tutto
venga fatto a ragion veduta e, appunto, con la massima ponderazione.
Non a caso, il legislatore costituente ha richiesto (art. 138) due letture per ogni Camera, con
un intervallo di tre mesi tra la prima e la seconda deliberazione. Si voleva, in sostanza,
garantire riflessione, eventuali ripensamenti, adeguati contatti col mondo della esperienza
giuridico costituzionale e così via. Imporre accelerazioni eccessive nuoce di per sé al lavoro e
soprattutto alla bontà dei risultati.
f) respinta ogni ipotesi di improvvisazione, è necessario puntare su una diffusa partecipazione
al lavoro di riforma, da parte dei parlamentari, da parte dei partiti e da parte dei cittadini.
Una partecipazione che deve, per la delicatezza della materia, essere consapevole (in parole
povere, bisogna che ognuno dei partecipanti conosca il problema, le difficoltà e le soluzioni
possibili, senza semplificazioni e senza “conformismi” (che significano adeguarsi alla volontà
del Governo o della maggioranza, senza porsi nessun problema);
g) sulle riforme costituzionali la parola spetta in primis al Parlamento.
Il Governo dovrebbe esprimere un parere conclusivo, su un progetto e non impostarlo,
presentarlo alle Camere e imporre i propri tempi, proprio per la ragione essenziale che il
problema dovrebbe essere sottratto al dominio della contingenza politica e delle scelte
governative, pena lo stravolgimento del sistema che vige nella nostra Repubblica. La
Costituzione, ovviamente, può imporre maggioranze numericamente qualificate, ma nel
presupposto che non può valere solo la forza dei numeri, in materia costituzionale, ma
occorre una partecipazione effettiva al lavoro di elaborazione ed alle scelte che esso richiede.
Queste le premesse da cui sono partito più volte e che, di volta in volta, ho illustrato. Perché
ci torno sopra anche oggi?
Per una ragione molto semplice: leggo sulla stampa che il Presidente del Consiglio ha
annunciato che venerdì partirà il lavoro di riforma del Senato e che conta di ottenere una
prima lettura entro maggio.
Mi sembra, allora, che tutte le proposizioni da cui sono partito minaccino di essere stravolte,
per vari motivi che non è difficile evidenziare.
Finora si è parlato, genericamente, di “eliminazione” del Senato, si è prospettato, altrettanto
genericamente, qualche modello (ipotetico) di una specie di Camera delle autonomie, prima
si diceva composta di Sindaci e, dopo, da componenti dei Consigli regionali.
6
Poco o nulla si è detto su ciò che questi signori dovrebbero fare, se il potere legislativo
dovrebbe essere solo della Camera e se, per una serie di questioni, il nuovo organismo
dovrebbe assorbire il lavoro che oggi svolge la Conferenza Stato-Regioni.
Ancora meno si sa sul modo con cui questa Camera dovrebbe partecipare ad alcuni atti
fondamentali, come l’elezione del Presidente della Repubblica, l’elezione di alcuni membri
della Corte Costituzionale e del Consiglio superiore della Magistratura, e così via.
Si è parlato, vagamente, anche di integrazioni possibili con altri componenti, non si sa bene
da chi nominati, né si è detto che cosa si pensa di fare dei Senatori “a vita”, attualmente in
carica, che magari – pur essendo Senatori a vita – verrebbero eliminati assieme al Senato,
per ragioni di risparmio (!). All’improvviso, ci si dice che un testo è ormai pronto, che nei
prossimi giorni verrà presentato, per l’approvazione, alla direzione di uno dei partiti di
maggioranza (il più consistente), nell’ambito – penso – di una mezza giornata; per poi essere
sottoposto subito al Parlamento, naturalmente dal Governo, che – nello stesso momento –
detterebbe i tempi, stabilendo che la prima lettura deve essere fatta entro maggio (un mese
in cui, fra due campagne elettorali, il Parlamento, praticamente, lavorerà ben poco, oltre a
doversi occupare del documento economico, che ha inevitabili scadenze).
Vengono allora, d’istinto, alcune domande:
– Chi ha elaborato questo testo, con quale contributo di esperti e con quali conoscenze del
vistoso materiale disponibile?
– Questo testo sarà del Governo o d’iniziativa parlamentare, concordata – appunto – tra gli
esponenti dei gruppi parlamentari che sono al Governo?
– I componenti dell’organismo dirigente del PD che dovrà esaminare il testo e decidere se
vararlo, sono a conoscenza del testo stesso (e magari dei precedenti in materia), oppure
dovranno decidere subito, sulla semplice indicazione del “Capo”?
– Lo stesso vale per gli altri partiti governativi: quando avranno il tutto, quando lo
esamineranno?
Viene forte il dubbio che il testo dovrà essere preso quasi a scatola chiusa ed approvato
senza discussione, perché altrimenti i tempi non potrebbero essere rispettati. Se è così,
questa è democrazia e questo è rispetto per la Costituzione? Sinceramente ne dubito.
Ma, superato questo scoglio non da poco, come farà ad approvarlo in poco più di un mese, il
Senato, che – oltretutto – dovrà giudicare su se stesso ed è plausibile ed umano che abbia
qualche remora? Anche in questo caso, ci saranno tempi strettissimi, emendamenti limitati,
discussione semplificata e accelerata, perché altrimenti si andrebbe oltre il 25 maggio?
Sono tutte domande giustificate e, penso, lecite, alle quali non è facile trovare risposta, se
non ipotizzando che si segua l’iter che ha contraddistinto l’approvazione della legge
elettorale: un’intesa, fuori dal Parlamento, tra due importanti uomini politici, entrambi
estranei al Parlamento; una rapida discussione nei partiti governativi e un ritmo così
accelerato, alla Camera, da non sopportare emendamenti, praticamente anche quelli più
ragionevoli, più auspicati e più idonei a salvare quella legge dal sospetto di incostituzionalità.
Tutto questo per consentire al capo del Governo di sostenere di aver raggiunto il primo dei
suoi obiettivi, cioè l’approvazione della legge elettorale entro breve termine, come mai era
accaduto nel passato; dimenticando di rilevare che quella legge è stata approvata da una
sola Camera e che già molti stanno affilando le armi, per quando sarà completata e
promulgata, per portarla, se non al giudizio dei cittadini, quanto meno a quello della Corte
costituzionale. Si vuol ripetere davvero questo iter, a proposito di una riforma che riguarda
addirittura un ramo del Parlamento? E lo si vuol fare a tutti i costi, senza curarsi della
necessità di approfondimento, delle obiezioni, delle contrarietà che partono non solo dal
mondo degli esperti, ma perfino da quella parte della “gente comune”, che ha il senso di
7
appartenenza ad una Costituzione straordinaria, che può essere certamente modificata, ma
non deve essere stravolta, nei suoi princìpi e nei suoi fondamenti.
Per chi non conosce a fondo la materia, segnalo alcuni modi per differenziare il lavoro delle
Camere, già in uso in vari Paesi o comunque analizzati dai costituzionalisti, precisando che si
tratta solo di qualche esempio, e che l’elenco potrebbe essere lunghissimo (per altre
indicazioni, si può consultare la relazione finale della Commissione per le riforme
costituzionali, nominata dal precedente Governo (i c.d. “saggi”), depositata il 17..9.2013
(vedi particolarmente da pag. 6 a pag. 15). La prima soluzione e la più semplice, consiste
nell’attribuire alla Camera la funzione legislativa e il voto di fiducia e al Senato lo svolgimento
delle funzioni di controllo; un’altra è quella di attribuire la funzione legislativa alla Camera (e
la fiducia) e al Senato il controllo, le nomine previste dalla Costituzione e la
compartecipazione alla formazione del bilancio; altre soluzioni prevedono ancora l’esercizio
della funzione legislativa da parte della Camera, però con un potere di “richiamo” di leggi di
particolare interesse, da parte del Senato. Altri sistemi tendono, invece, a differenziare di più
il lavoro delle due Camere, attribuendo al Senato in varie forme il connotato di Senato “delle
autonomie”, assolvendo anche le funzioni attualmente devolute alla Conferenza Stato-
Regioni; la composizione è prevista in varie forme (rappresentanza di Sindaci, oppure di
soggetti eletti in seconda istanza dalle Regioni); in alcuni casi, si prevedono integrazioni con
nomine aggiuntive da parte del Presidente della Repubblica o altri organismi. E c’è anche la
interessante proposta di un “Senato delle competenze e della cultura”, lanciata dal Sole 24
ore e sulla quale – fra gli altri – è di recente intervenuta, con un ragionamento molto serio, la
Senatrice a vita Elena Cattaneo, nota e apprezzata scienziata. Si può dunque cercare anche
di “volare alto”, anziché restare ancorati a soluzioni semplicistiche e improvvisate. Le
differenze, comunque, sono rilevanti sia per quanto riguarda la composizione, sia per ciò che
attiene ai compiti ed ai poteri. Queste rapide indicazioni intendono solo dare una prima idea
della complessità del problema e della necessità di affrontarlo con moderazione. Altrimenti si
corre il rischio di fare pasticci.
Un critico delle soluzioni proposte dal Presidente del Consiglio (il Prof. Villone), sulle colonne
di “Patria” ha scritto di recente che la proposta di Renzi andrebbe radicalmente riscritta e ha
aggiunto “se dovesse rimanere così, meglio nessun Senato che un pessimo Senato”.
Personalmente, sono un po’ meno pessimista. Penso che con un po’ di buona volontà e di
ragionevolezza e con un po’ meno di improvvisazione, si potrebbe differenziare il lavoro delle
due Camere, costruendo un Senato non troppo lontano dal modelli originario, ma aggiornato
alle esigenze della società di oggi e adeguato all’esperienza fin qui compiuta.

Di Matteo: ecco chi lo vuole uccidere e perché da: antimafia duemila

pool-trattativa-sg-c-castolo-gianniniNel mirino anche altri magistrati di Palermo, Trapani e Caltanissetta

di Giorgio Bongiovanni – 27 marzo 2014
Pietro Tagliavia, uomo d’onore di Brancaccio; Cosimo Vernengo, boss di Santa Maria di Gesù; Vito Galatolo, figlio del capomandamento dell’Acquasanta; Girolamo Biondino, fratello del braccio destro di Totò Riina, Salvatore; Tommaso Lo Presti, capomandamento di Porta Nuova; Nunzio Milano, boss di Porta Nuova; Giuseppe Guttadauro, capomandamento di Brancaccio. Sono questi alcuni nomi presenti nella lista degli uomini di mafia, scarcerati di recente, su cui si concentra l’attenzione delle Procure.
Chi di questi boss potrebbe essere pronto a raccogliere il mandato di morte che Totò Riina, dal carcere Opera di Milano, ha decretato nei confronti del pm Antonino Di Matteo, parlando con il capomafia della Sacra Corona Unita, Alberto Lorusso?

Chi tra questi uomini ha la possibilità di organizzare un attentato nei confronti dei magistrati del pool trattativa, di altri colleghi di Palermo, Caltanissetta o Trapani?
Chi, tra questi boss in circolazione, assieme a Matteo Messina Denaro ha la potenza di fuoco per armarsi di bazooka o sparare un missile terra-aria da lanciare da una delle colline di Palermo, prendendo di mira la palazzina del giudice Di Matteo così come tentarono (fallendo grazie a Dio) di uccidere l’allora procuratore capo di Palermo, Gian Carlo Caselli, nel 1995? Cosa impedirebbe ai mafiosi di colpire l’auto del magistrato con un congegno a distanza mentre viaggia con la scorta privo del bomb jammer?
Cosa nostra, l’organizzazione criminale più potente in Italia assieme alla ‘Ndrangheta, e tristemente, la più famosa del mondo, ha questa capacità militare a propria disposizione?
Ha davvero l’interesse di raccogliere l’ordine-invito del Capo dei capi, Riina?
La risposta, teoricamente, è sì. Ma nei fatti la mafia non ha alcun interesse strategico reale per mettere in atto l’ordine di Riina.
Certo, potrebbero crearsi comunque certi presupposti che non vanno presi alla leggera.
Partiamo da un assunto, ovvero che nessuno di questi capimafia tornati in libertà è uomo di “Cupola”.
Escluso Matteo Messina Denaro non ci sono nomi “eccellenti” che hanno preso parte alle riunioni della Commisione provinciale o regionale di Cosa nostra. Tuttavia sia i vecchi boss, che i giovani rampanti potrebbero rispondere all’appello di Riina decidendo di “fare il salto” ed “ergersi” come nuovi leader in Sicilia. Per i vari Settimo Mineo, Salvatore Gioeli, Nunzio Milano, Rosario Inzerillo, Emanuele Lipari, Gaetano Badagliacca, Tommaso Lo Presti, Girolamo Biondino, Vito Galatolo, Nicolò Salto, Pietro Vernengo, Cosimo Vernengo, Francesco Francoforti, Giuseppe Guttadauro, Giuseppe Giuliano, Pietro Tagliavia, Giovanni Asciutto, Nicola Ribisi e Carmelo Vellini, e tanti altri figli o nipoti di boss mafiosi o nuovi capi assolutamente sconosciuti, compiere una strage sarebbe una straordinaria dimostrazione di potere.
Un attacco “delirante” che porterebbe in un batter d’occhio l’eventuale autore al centro del cuore di Riina, rispondendo alle sue direttive stragiste, e al tempo stesso scalerebbe il vertice della nuova Cosa nostra, mettendo da parte persino il superlatitante Matteo Messina Denaro.
Tuttavia un tale “golpe” esporrebbe a gravi rischi i mafiosi che sentirebbero, nell’eventualità che avvenisse una nuova strage, immediatamente il fiato sul collo degli inquirenti e dello Stato che li stanerebbe, catturandoli, processandoli e condannandoli ad una vita da ergastolani.
Per questo motivo uccidere Di Matteo, o qualsiasi altro magistrato, in trincea nelle Procure a rischio in Italia sarebbe oggi sconveniente. Per questo motivo la mafia preferisce, salvo qualche regolamento di conti interno, dedicarsi ai propri affari, trafficare droga, compiere estorsioni o agganciare qualche politico compiacente che ne possa garantire la sopravvivenza. E soprattutto riscuotere quelle cambiali che lo Stato ha firmato durante la trattativa delle stragi del 1992-1993.
Tuttavia i pericoli nei confronti di Di Matteo, dei magistrati del pool trattativa, di quelli che indagano sulle stragi del 1992 e del 1993, e sulla cattura dei latitanti, restano altissimi.
E se non è la mafia ad avere l’interesse per compiere una strage ecco che l’obiettivo va spostato “oltre la mafia”, o meglio, verso la “mafia-Stato”.
Giovanni Falcone, ai tempi del fallito attentato all’Addaura, parlò di “menti raffinatissime” implicate nel progetto di morte. Oggi come allora “menti raffinatissime” potrebbero avere tutto l’interesse per organizzare una nuova strage. L’alibi è già pronto e l’ha fornito proprio Salvatore Riina: “Facciamola questa cosa, facciamola grossa”. Il “parafulmine” perfetto.
Perché se da una parte c’è uno Stato che protegge Di Matteo ed i magistrati di Palermo, Caltanissetta e Trapani, dando loro potere di indagare e compiere arresti nei confronti della mafia e dei collusi con essa, di processare imputati boss e complici eccellenti, dall’altra c’è uno Stato “deviato” molto potente. Uno “Stato-mafia” composto anche da figure appartenenti al mondo politico, della magistratura, della finanza, delle forze militari, dei servizi segreti, delle logge deviate che potrebbe avere tutto l’interesse di destabilizzare nuovamente il Paese tornando ad uccidere in maniera eclatante, magari servendosi dell’ambizione di vecchi e nuovi capimafia.
Il procuratore di Palermo Messineo, commentando la condanna a morte di Riina a Di Matteo, parlò di “chiamata alle armi”. Noi siamo d’accordo anche se va compreso profondamente chi risponderà alla stessa. Cosa nostra, apparentemente, starebbe “rispondendo picche” ma lo Stato deviato, lo stesso su cui stanno cercando di far luce tre Procure d’Italia (Palermo, Caltanissetta e Firenze), potrebbe avere ben altri argomenti da spendere.
Più che il processo trattativa possono essere forse proprio queste nuove inchieste a “togliere i sonni” non solo a soggetti già imputati nell’attuale procedimento sulla trattativa (con l’acquisizione di ulteriori prove a loro carico), ma anche di ignoti personaggi dal volto coperto e ancora incensurati.
Oltre a questo, esiste un intreccio perverso della potente finanza “nera”, criminale, con quella “bianca”, dello Stato. Le organizzazioni mafiose dispongono di immense quantità di capitale liquido. Solo la ‘Ndrangheta, secondo uno studio dell’istituto Demoskopika, ha un giro d’affari complessivo di 53 miliardi di euro annui, un esercito di circa 60 mila affiliati e quasi 400 ‘ndrine operative in 30 paesi, ma in totale sono 150 miliardi di euro, arrotondati per difetto, i soldi che ogni anno “fatturano” le mafie. Un costante flusso di denaro che è fondamentale per gli interessi finanziari di entrambi, lo Stato e la mafia, che continui a scorrere indisturbato. Anomalie di questo sistema, come il pm Di Matteo, sarebbero dunque da fermare prima che il processo per la trattativa Stato-mafia si spinga troppo oltre e vengano alla luce patti e segreti inconfessabili.
Ecco quindi che l’ipotesi “Stato-deviato” torna con forza.
Per quale motivo non può essere verosimile che “Servizi deviati” possano porre in essere un attentato contro i pm di Palermo e Caltanissetta pur di proteggere altri funzionari di Stato infedeli?
E’ verosimile che alcuni membri di Cosa nostra possano essere usati come pedine in un eventuale attentato?
Del resto è già accaduto in passato. Il pentito Salvatore Cancemi, oggi deceduto, mi raccontò (e soprattutto lo raccontò ai processi per le stragi del ’92-’93) che Riina nelle stragi venne “portato per la manina” mentre Spatuzza, più di recente, ha raccontato di figure a lui sconosciute, probabilmente esterne a Cosa nostra, nella preparazione dell’attentato di Via d’Amelio. Ecco perché, nuovamente, potremmo assistere ad una nuova strage con lo Stato-mafia che muove i fili, sporcandosi ancora una volta le mani di sangue, utilizzando come sempre sicari e boss.

Foto © Castolo Giannini

Elezioni europee, gran caos nel fronte liberale. Scelta civica va per la sua strada Autore: marco piccinelli da: controlacrisi.org

Le elezioni europee di maggio bussano alla porta. E le organizzazioni che compongono la geografia politica italiana vanno a posizionarsi un po’ in base ai sondaggi, un po’ seguendo l’analisi sulla crisi economica e l’austerity. C’è un gran rimescolamento di carte. E l’operazione Renzi fa parte di questo solco. L’attuale conformazione dell’europarlamento fa comunque da timone: la sinistra, coalizzatasi ne ‘L’altra europa con Tsipras’, farà riferimento al Gue; il Pd al Pse, sempre più in difficoltà; Forza Italia al Ppe, così come l’UDC e il gruppo Popolari per l’Italia, capitanato da Mario Mauro e fuoriuscito da Scelta Civica. Apparentemente non cambia nulla. Ma sotto sotto ognuno cerca in base all’arte dell’“intuito politco” di correre dietro all’andazzo dell’elettorato, già ampiamente annunciato dalla tornata elettorale francese. Il filone che sembra subire di più i colpi della crisi economica, e del relativo “buco” nella rappresentanza politica, è il liberalismo, e le sue varie versioni di destra e di centrosinistra.

I partiti italiani che fanno riferimento all’Alleanza liberal democratica europea sono svariati, la galassia liberale si era raggruppata, in un progetto unitario, svariati mesi fa: il progetto in questione era “In cammino per cambiare” e vedeva insieme il Pli (Partito Liberale Italiano), Fare per Fermare il Declino, il Partito federalista europeo, Uniti verso nord, la Federazione Liberale e la lista civica piemontese Progett’Azione.
Il progetto, poi, è venuto meno per gli attriti tra Michele Boldrin, coordinatore di FiD, e Stefano de Luca, segretario del Pli.
La lista Alde candida a Presidente della Commissione Europea l’ex premier del Belgio Guy Verhofstadt e gli incontri preparatori per la formazione dell’agglomerato liberale sono stati fermamente voluti dallo stesso ex premier che, circa un mese fa in una conferenza stampa alla Stampa estera, ha presentato la lista liberal democratica che correrà in Italia per le Europee.
Alla conferenza stampa erano presenti tutti i movimenti della galassia liberale: Fid, Centro democratico, Pri, Pli, Pfe, federazione liberale, Ali, Scelta Civica.
 La lista, dunque, avrebbe preso il nome di Scelta Europea: ci sarebbe stato il simbolo dell’Alde, il nome del politico belga e i simboli di Centro democratico e FiD.
Sarebbe stato così, ed è ancora così se non che una parte della galassia liberale, pur consistente, ha optato per una scelta diversa.

Il gruppo di Scelta Civica si è separato dalla lista Alde, proprio nella giornata di ieri. E durante una conferenza stampa alla Camera dei Deputati, ha presentato il simbolo che correrà alle elezioni europee: Scelta civica per l’Europa.
 Il ramo del parlamento europeo è lo stesso, l’Alde, Andrea Romano lo ripete anche quando Edoardo Petti di ‘Formiche’ gli pone la domanda: “Sosterremo la candidatura di Guy Verhofstadt” ponendola come migliore “tra quella proposta dal Pse e dal Ppe perché rappresentano vecchie culture politiche che si sono dimostrate incapaci di rinnovare l’Europa”. 
Scelta civica va per la sua strada, dunque, e il Partito Liberale Italiano decide, a sua volta, di ritirarsi dalla lista Alde. Stefano de Luca, raggiunto da ‘Controlacrisi’, ha dichiarato che il Pli non ha più dato appoggio alla lista Alde “perché è un guazzabuglio”. “Si sono divisi anche in due liste, ieri – come Pli – abbiamo redatto un documento che invitava le due liste, cioè quella dell’Alde e quella di Scelta civica, a riunificarsi perché è l’unica possibilità per il mondo liberale di riuscire a portare un risultato”.
Quindi il Pli non appoggia né l’una né l’altra lista: “Al momento, la decisione presa ieri è questa, avendo invitato le due liste ad unificarsi”.
Lo stesso De Luca afferma che non sosterranno Guy Verhostadt: “al momento siamo fuori. Abbiamo dato un forte invito a ricomporre questa frattura perché nessuno dei due gruppi, allo stato attuale, potrà raggiungere il 4%. La nostra idea è quella di fare una lista unica che abbia possibilità di superare lo sbarramento. Questa divisione mi sembra una follia”.

Stefania Schipani, presidentessa del Pfe, in una lettera inviata a ‘Formiche’ dichiara: “La presentazione della lista Alde rappresenta un esperimento politico interessante che mira a far confluire, sotto un progetto comune, diverse forze politiche attraverso un percorso di unione e che può dar voce ad una parte rilevante dell’elettorato non appartenente alla sinistra, alla destra e alla demagogia grillina. Chi sceglie la disunione ovviamente se ne assume anche la responsabilità in questo momento storico delicatissimo per il nostro paese e per l’Europa. E’ proprio la convergenza di forze politiche diverse fra loro il valore aggiunto della nostra proposta e avremo modo di spiegarlo agli elettori”.
A ‘Controlacrisi’, la Schipani afferma: “Nella lista Alde, inizialmente, era presente anche Scelta Civica. Devo ancora mettermi in contatto con Verhofstadt per capire cosa ne pensa, ma l’azione di Scelta Civica è stata condotta in totale autonomia”.

Rifiuti in Ue, per l’Italia compostaggio e riciclo sono ancora pratiche sconosciute | Autore: fabrizio salvatori da: controlacrisi.org

Per quanto riguarda il ciclo dei rifiuti l’Italia è sotto la media Ue solo per quanto riguarda il compostaggio e il riciclo (38%). Resta ancora molto alto nella Penisola il ricorso alle discariche, che rappresentano la modalità di trattamento più obsoleta e insostenibile e meno eco-compatibile.
E’ quanto emerge dai dati del 2012 pubblicati da Eurostat, l’Ufficio statistico dell’Ue. Secondo i dati, dal 1995 al 2012 c’è stato un aumento significativo, dal 18 al 42 per cento, della quota di rifiuti municipali che vengono riciclati o compostati in tutta l’Ue.L’Italia produce 529 Kg per persona di rifiuti municipali all’anno, ben sopra la media Ue di 492 Kg, e meno che la Germania (611) e la Francia (534), ma più della Gran Bretagna (472) e della Spagna (464). Il paese Ue che produce più rifiuti per persona è la Danimarca (668 Kg all’anno), seguita da Cipro (663), Lussemburgo (662) e Germania. Lo Stato membro che ne produce di meno è la Lettonia (301), ma quasi tutti i paesi dell’Est (con l’eccezione di Ungheria, Bulgaria e Lituania) sono sotto i 400 Kg per persona.
I paesi che hanno il tasso maggiore di riciclaggio sono la Germania (65%), l’Austria (62), il Belgio (57) e l’Olanda (50). Tra i grandi
paesi, ben più efficiente dell’Italia, in questo caso, è anche la Gran Bretagna (46%) mentre la Francia è quasi allo stesso livello (39%) e la Spagna resta ancora indietro con appena il 27%. Le peggiori performance sono quelle della Romania (1%), seguita da Malta e Slovacchia (13) e poi da Croazia e Lettonia (16) e Irlanda (16).
Considerando a parte il solo compostaggio, l’Italia resta ancora sotto la media Ue (24% rispetto al 27 dell’Ue), meglio della Spagna (10%) ma peggio degli altri grandi paesi: Germania e Gran Bretagna (18%), e Francia (16). Lo Stato membro con il record della percentuale di compostaggio è l’Austria (34%), seguita da Olanda (26%), Belgio (21%) e Lussemburgo (19%). I paesi che ricorrono meno al compostaggio sono la Romania (0%), Grecia, Lettonia e Lituania (2%), Bulgaria e Repubblica ceca (3%).

C’è poi il punto dolente delle discariche: vi finisce ancora il 41% dei rifiuti municipali prodotti in Italia, contro una media Ue del 34%. Fra i grandi paesi, la Germania (0%) è un esempio di virtù, avendo virtualmente eliminato le discariche, mentre la Francia è al 28%, la Gran Bretagna, con il 37%, si avvicina all’Italia, che comunque va molto meglio della Spagna (63%). I paesi peggiori sono nell’ordine la Romania (99%), Croazia (85%)
Malta (87%), Lettonia (84), Lituania (79), Slovacchia (77), Bulgaria (73%). I paesi con le migliori performance, dietro la Germania, sono il Belgio e la Svezia (1%), l’Olanda (2%), e poi Austria e Danimarca con il 3%.

Negli inceneritori finisce il 20% dei rifiuti italiani, contro il 24% della media Ue. Fra i grandi paesi, l’incenerimento è usato di più in Germania (35%) e Francia (33%), e di meno in Gran Bretagna (17%) e in Spagna (10%).
I paesi che ricorrono di più a questo metodo (il peggiore dopo le discariche) sono la Danimarca e la Svezia (52%), l’Olanda (49), il Belgio (42) e il Lussemburgo (36). L’Austria è allo stesso livello (35%) della Germania. Sette Stati membri non hanno inceneritori: Bulgaria, Grecia, Croazia, Cipro, Lettonia, Malta e Romania. In Lituania e Polonia l’incenerimento riguarda solo l’1% dei rifiuti municipali.