Avviate in Ucraina le procedure per la messa al bando dei comunisti da: www.resistenze.org

Intervista a Petro Simonenko

Robert Allertz | kpu.ua
Traduzione da marx21.it

24/07/2014

Il testo dell’intervista concessa dal leader del Partito Comunista di Ucraina, Petro Simonenko, al giornale della sinistra tedesca “Junge Welt” (http://www.jungewelt.de/2014/07-24/001.php), in seguito alla decisione assunta dal parlamento ucraino di avviare le procedure per la definitiva messa al bando delle sue organizzazioni e dei suoi simboli

Giovedì la Corte distrettuale amministrativa di Kiev ha dato inizio al processo, il cui risultato finale dovrebbe essere la messa al bando del vostro partito e dei suoi simboli. Mi si permetta di ricordare ai lettori: nell’agosto del 1991, il Partito Comunista, in quanto parte del PCUS, era già stato vietato, ma nel 1993 fu nuovamente ricostituito. Da quel momento Lei ne è alla guida. Perché vogliono vietare il vostro Partito, che è quello con l’età più avanzata tra tutte le organizzazioni politiche del paese?

Noi rappresentiamo un intralcio politico. Abbiamo creato disturbo sia alla classe dominante al tempo di Yanukovich che alla nuova leadership con Poroshenko. Per questo vogliono sbarazzarsi di noi.

Ma il vostro partito non aveva collaborato conil Partito delle regioni di Yanukovich dal 2010 al 2014?

E’ così, su alcune questioni le nostre posizioni coincidevano con quelle del Partito delle regioni, e per questo abbiamo appoggiato progetti di legge, che rispondevano al nostro programma elettorale. Ma tuttavia, abbiamo respinto tutte le le iniziative antisociali di Yanukovich e del suo partito, come, ad esempio, le riforme sanitaria e pensionistica. Su tali questioni Yanukovich era stato appoggiato dall’opposizione di allora, che dopo il golpe di febbraio è arrivata al potere. Oggi il Partito delle regioni di fatto lavora con Poroshenko, e con esso non abbiamo più nulla in comune.

Quali sarebbero i motivi del divieto del partito?

Il segnale per la persecuzione del Partito Comunista è stato dato da Turchinov, che all’epoca agiva come presidente ad interim dell’Ucraina, e che ora ha assunto la presidenza della Rada Suprema. Dal momento in cui capo dello Stato è diventato Poroshenko, anch’egli ha sostenuto la disposizione data da Turchinov al ministero della giustizia di preparare il processo per la proibizione del partito. Le accuse all’indirizzo del Partito Comunista assumono un carattere generale. Hanno dichiarato che il Partito Comunista è “nemico dell’Ucraina”, che “sostiene i separatisti”, che è “agente di Putin”. Allo stesso tempo ci è stato rinfacciato persino il referendum nazionale, che il Partito Comunista aveva promosso al tempo di Yanukovich, che volevamo far svolgere perché il popolo dell’Ucraina si esprimesse sul corso futuro della politica estera del paese. Questo referendum allora non era stato voluto né dal presidente né dall’opposizione, e la nostra iniziativa era stata bloccata sul piano giuridico.

Quali “prove” giustificherebbero la proibizione del Partito Comunista?

Il procedimento avviato dal Ministero della Giustizia è composto da 18 pagine e da 129 pagine di prove, tratte da fonti aperte – vale a dire, giornali, volantini, video, ecc. Con il loro aiuto cercano di dimostrare che il Partito Comunista di Ucraina avrebbe violato l’articolo 5 della legge dell’Ucraina sui partiti, cioè ci accusano di avere violato la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina.

Ci si riferisce al separatismo?

Naturalmente. Tuttavia, le prove raccolte dal Ministero della Giustizia non sono serie e addirittura sfiorano il ridicolo, poiché si basano su notizie e informazioni riportate da terzi, e persino su citazioni distorte. Hanno addirittura trovato due “ribelli” e “terroristi” che avrebbero dichiarato di essere “rappresentanti del Partito Comunista”.

Per il partito?

No, per la lotta armata con Kiev. Ciò è naturalmente assurdo, dal momento che il Partito Comunista ha sempre chiesto la cessazione del confronto armato. Noi ci siamo pronunciati e ci pronunciamo per un regolamento pacifico, chiediamo la cessazione del fuoco e negoziati. Per questo ci hanno accusato di istigare alla guerra, nella quale con tali dichiarazioni daremmo la possibilità ai separatisti, che agirebbero con il sostegno di Mosca, di rafforzarsi sul piano militare.

Presso la sede centrale del vostro Partito, su un lato sono appesi due striscioni rossi con del filo spinato, su cui sta scritto “Mai più!” e “Comitato per la pulizia”

Ma non solo questo. Hanno dipinto sull’edificio una svastica e varie scritte. La sede centrale del Partito Comunista era stata occupata e saccheggiata dagli “attivisti del Majdan” in febbraio. Gli uffici del nostro partito sono stati incendiati a Lutsk, Chernigov e in altri luoghi. Al momento la polizia non ha ancora fatto sgomberare l’edificio. Nell’edificio della sede centrale del KPU non è possibile lavorare normalmente, e sarebbero necessarie grandi riparazioni.

Sono stati presi di mira solo gli uffici del partito o anche i suoi iscritti?

Giusto. Gli attacchi sono iniziati in Ucraina occidentale e in corrispondenza degli eventi del Majdan sono cresciuti di intensità. Ci sono state irruzioni anche nelle case dei nostri militanti, alcuni dei quali sono stati prelevati e a cui è stato chiesto di rinunciare all’appartenenza al partito. Anch’io, dopo aver partecipato a un dibattito televisivo, sono stato attaccato da un gruppo di persone, e questo è stato il motivo per cui ho dovuto abbandonare lo studio attraverso l’uscita di emergenza. Ma queste persone hanno continuato la loro aggressione, hanno bloccato la mia automobile, fracassandole i vetri, e hanno gettato “bottiglie Molotov”. I deputati del partito fascista “Svoboda” mi hanno spintonato fuori dalla tribuna parlamentare della Rada. E così hanno fatto anche con altri membri del nostro gruppo. Ecco perché ora i deputati comunisti democraticamente eletti devono avere paura a recarsi al parlamento.

Quali conseguenze tutto ciò potrà comportare?

In questo clima di anticomunismo, illegalità e violenza il lavoro parlamentare è impossibile. Nove membri hanno già abbandonato la frazione del KPU, e ora siamo 23.

E dove sono andati questi deputati?

Se ne sono andati in una frazione denominata “Per la pace e la stabilità” che annovera l’oligarca della “Famiglia”, Kurchenko. Serghey Kurchenko a 27 anni è una delle persone più ricche del paese, in Occidente lo chiamano il “Rockefeller ucraino”. Durante il governo di Yanukovich Kurchenko ha fatto i miliardi nel commercio del petrolio e del gas. E proprio come allora comprava le imprese, ora compra i deputati.

Il Partito sta attraversando un periodo complicato e difficile, e la sua immagine non sempre suscita simpatie. Tuttavia, in tutto il mondo stiamo registrando il sostegno e la solidarietà nei nostri confronti, soprattutto da parte dei partiti comunisti.

Gabi Zimmer, a nome della frazione da lei guidata delle sinistre al Parlamento Europeo, ha inviato una lettera al presidente Poroshenko, in cui ha definito illegittima la persecuzione legale e fisica verso il nostro partito e ha espresso la sua protesta.

Che cosa farete, se il KPU verrà vietato?

In tal caso ci appelleremo alla Corte Europea per la difesa dei diritti dell’uomo di Strasburgo. Per i comunisti ucraini hanno valore proprio quegli stessi diritti dell’uomo, che li si accusa continuamente di violare.

Appello dell’ambasciata dello Stato di Palestina da:Ambasciata di Palestina – Roma | forumpalestina.org

29/07/2014

La barbara aggressione israeliana continua a Gaza.

Nonostante la dichiarata tregua umanitaria di 24 ore la macchina da guerra israeliana ha colpito ancora.

Ieri i missili israeliani hanno avuto nel mirino un parco giochi per i bambini, massacrando 10 di loro, oltre 43 civili, vittime dei bombardamenti nel giorno di festa.

Ad oggi le vittime delle aggressioni israeliane sono 1.130 morti, 600 feriti e la distruzione del 50% delle infrastrutture della Striscia di Gaza.

Di fronte a questi crimini, l’Ambasciata della Palestina in Italia si appella al governo italiano, all’Unione europea, alle Nazioni unite, a tutta la comunità internazionale e alle organizzazioni dei diritti dell’uomo di intervenire immediatamente per porre fine a questi massacri e a salvare le vite di migliaia di innocenti.

Nessuna aggressione e nessuna prepotenza può risolvere la questione.

Ribadiamo che il conflitto israelo-palestinese possa trovare una soluzione solamente tramite il dialogo, nel rispetto delle leggi e della legalità internazionali, che porti alla creazione dello Stato della Palestina sui territori occupati nel 1967 con Gerusalemme Est capitale.

Roma, Ambasciata di Palestina

Il governo Renzi va all’assalto dei beni comuni Fonte: Il Manifesto | Autore: Alberto Asor Rosa

La tutela del paesaggio e del patrimonio artistico sono a rischio dopo il riordino del Ministero dei beni culturali voluto dal governo RenziQuando si scrive di poli­tica… quando io scrivo di poli­tica, man­tengo sem­pre, per quanto mi rie­sce, un atteg­gia­mento di dub­bio for­male e sostan­ziale. Sì, è così, mi sem­bra che sia così, però… Delle affer­ma­zioni e con­clu­sioni con­te­nute in que­sto arti­colo sono invece asso­lu­ta­mente certo. Ver­rebbe voglia di dire: allarme, cit­ta­dini, sono in peri­colo la vostra esi­stenza e il vostro futuro, e quelli dei vostri figli. Levate la testa prima che sia troppo tardi.
Mi rife­ri­sco agli atteg­gia­menti e alle pro­messe che il governo Renzi dispensa a piene mani in mate­ria di ripresa eco­no­mica e, con­te­stual­mente, di ambiente, ter­ri­to­rio, beni cul­tu­rali, pae­saggi ita­liani. Non c’è in giro il minimo strac­cio di piano indu­striale. Ma in com­penso c’è, a quanto sem­bra, un piano ormai pen­sato ed ela­bo­rato, anche nei suoi par­ti­co­lari dispo­si­tivi di attua­zione, per quanto riguarda il già troppo mar­to­riato volto del nostro paese, cui si con­ti­nua a ricor­rere, in man­canza di altro, tutte le volte in cui si deve dare l’impressione di rimet­tere in movi­mento la mac­china. Qui il più spre­giu­di­cato nuo­vi­smo coin­cide con il più arre­trato vec­chi­smo: come, per l’appunto, rischia di essere sem­pre più natu­rale in que­sto nuovo con­te­sto.
Il discorso potrebbe, anzi dovrebbe, essere assai lungo. Io invece mi lini­terò a dise­gnare una trac­cia del pos­si­bile, anzi, ormai facil­mente pre­ve­di­bile per­corso che ci sta davanti. Biso­gna infatti, in que­sto caso più che in altri, essere pronti a pre­ve­nire, piut­to­sto che aspet­tare, come sem­pre più spesso accade, che i gio­chi siano fatti. Le mie fonti sono esclu­si­va­mente quelle par­la­men­tari (dibat­tito, decreti legge e dise­gni legge, ecc.) e quelle rap­pre­sen­tate dalla grande stampa d’informazione: le une e le altre, mi pare, atten­di­bili.
Si leg­gano, ad esem­pio, se ancora non lo si è fatto, gli arti­coli apparsi recen­te­mente in rapida suc­ces­sione su “la Repubblica”.

Già i titoli espri­mono con suf­fi­ciente elo­quenza di cosa si tratti: «Entro fine luglio arriva “Sbloc­caI­ta­lia”» (2 giu­gno); Renzi: «sbloc­che­remo 43 miliardi» (24 luglio); «Arriva lo Sbloc­caI­ta­lia: per­messi edi­lizi più facili e grandi opere acce­le­rate, fuori le imprese in ritardo» (28 luglio); le anti­ci­pa­zioni non fanno molta dif­fe­renza fra le opere in ritardo per motivi buro­cra­tici o altro, e quelle nei con­fronti delle quali si è mani­fe­stata la con­sa­pe­vole oppo­si­zione dei cit­ta­dini in nome di una vivi­bi­lità che fa tutt’uno con il rispetto del ter­ri­to­rio e dell’ambiente. Anzi: facendo inten­zio­nal­mente (ripeto: inten­zio­nal­mente) di ogni erba un fascio, si adotta la parola d’ordine dello svi­luppo a tutti i costi, lan­ciando ana­temi con­tro tutti i coloro che vi si oppon­gono in nome di sacro­sante pre­tese.
In un’intervista al «Cor­riere della sera» (13 luglio) il nostro lea­der tira fuori la parte più con­si­stente della sua per­so­na­lità etico-politica: «Nel piano Sbloc­caI­ta­lia c’è un pro­getto molto serio sullo sblocco mine­ra­rio… Io mi ver­go­gno di andare a par­lare delle inter­con­nes­sioni fra Fran­cia e Spa­gna, dell’accordo Gaz­prom o di South Stream, quando potrei rad­dop­piare la per­cen­tuale del petro­lio e del gas in Ita­lia e dare lavoro a 40 mila per­sone e non lo si fa per paura delle rea­zioni di tre, quat­tro comi­ta­tini.…». È noto che il disprezzo che cala dall’alto si esprime sem­pre attra­verso un ten­ta­tivo di ridi­men­sio­nare la por­tata degli even­tuali anta­go­ni­sti: «comi­ta­tini», appunto, come Min­zo­lini? ecc. ecc.

IL MIRA­COLO DELLA BOZZA

Ma le ultime anti­ci­pa­zioni indi­cano con chia­rezza ancora mag­giore in quale dire­zione si muove que­sto nuovo-vecchio grande piano di svi­luppo. Il gior­na­li­sta di Repub­blica (in que­sto caso Roberto Petrini, 28 luglio) spiega infatti che «secondo una bozza del testo… si andrebbe incon­tro a una pic­cola rivo­lu­zione nel rila­scio delle con­ces­sioni edi­li­zie…». E cioè: «Con la riforma ci si potrà rivol­gere diret­ta­mente allo spor­tello unico, muniti di auto­cer­ti­fi­ca­zione con le carat­te­ri­sti­che essen­ziali del pro­getto, rea­liz­zata da uno stu­dio pro­fes­sione, che testi­mo­nia il rispetto del piano rego­la­tore e delle altre norme urba­ni­sti­che. A quel punto lo spor­tello unico avrebbe trenta giorni di tempo per rispon­dere, nel caso con­tra­rio si potrebbe pro­ce­dere ai lavori…». Sem­bra di avviarci a stare nel paese di Ben­godi. Lo spor­tello unico! Trenta giorni di tempo per rispon­dere! Non sarebbe più sem­plice dire che in Ita­lia si potrà intra­pren­dere qual­siasi ini­zia­tiva edi­li­zia (e con­si­mili, natu­ral­mente), senza che vi sia più la pos­si­bi­lità di entrare nel merito? L’appello, con­tem­po­ra­neo e con­se­guente, che il Pre­mier ha rivolto ai Sin­daci affin­ché pre­sen­tino la lista delle loro opere incom­piute o non ini­ziate mira a costi­tuire una impo­nente galas­sia di inter­venti, mediante la quale pre­mere sull’opinione pub­blica per otte­nere il più largo con­senso.
Paral­le­la­mente al pro­filo d’interventismo attivo deli­neato da pro­getto di Sbloc­cai­ta­lia si è mosso il dise­gno di legge «per la tutela del patri­mo­nio cul­tu­rale, lo svi­luppo della cul­tura e il rilan­cio del turi­smo» che di fatto è una vera riforma del Mini­stero dei Beni cul­tu­rali ed è stato votato dalla Camera dei Depu­tati il 9 luglio scorso. Le idee basi­lari mi sem­brano due: (1°. Innanzi tutto l’idea che il patri­mo­nio cul­tu­rale e arti­stico, di cui gode l’Italia, vada con­si­de­rato nei suoi aspetti di massa eco­no­mica poten­ziale da sfrut­tare fino in fondo più che come un bene uni­ver­sale umano, innanzi tutto da tute­lare e (2°, con­se­guente al primo, il ten­ta­tivo di sba­raz­zarsi il più pos­si­bile delle com­pe­tenze e, sì, anche delle resi­stenze del per­so­nale tra­di­zio­nal­mente inve­stito dallo Stato ita­liano del com­pito, innanzi tutto, di difen­dere e pre­ser­vare quel patri­mo­nio da ogni pos­si­bile offesa, com­prese quelle che potreb­bero pro­ve­nire da una pre­va­lente pro­spet­tiva di sfrut­ta­mento turistico-monetario.

ANNIEN­TARE LE RESISTENZE

La let­tura ragio­nata di que­sto dise­gno legge richie­de­rebbe quat­tro pagine intere del mani­fe­sto (ne ha ragio­nato a lungo Fran­ce­sco Erbani sul «mani­fe­sto» del 16 luglio).
Scelgo il punto che, secondo me, per le sue pos­si­bi­lità di gene­ra­liz­za­zione, pre­senta il valore sim­bo­lico più ele­vato. All’art. 12 della Legge sud­detta è stato inse­rito in Com­mis­sione un emen­da­mento (da chi? Non lo so), che suona in code­sto modo: «Al fine di assi­cu­rare l’imparzialità (!) e il buon anda­mento dei pro­ce­di­menti auto­riz­za­tivi in mate­ria di beni cul­tu­rali e pae­sag­gi­stici, i pareri, i nulla osta o altri atti di assenso comun­que deno­mi­nati, rila­sciati dagli organi peri­fe­rici del Mini­stero dei beni e delle atti­vità cul­tu­rali e del turi­smo, pos­sono essere rie­sa­mi­nati d’ufficio o su segna­la­zione delle altre ammi­ni­stra­zioni coin­volte nel pro­ce­di­mento, da appo­site com­mis­sioni di garan­zia per la tutela del patri­mo­nio cul­tu­rale, costi­tuite esclu­si­va­mente da per­so­nale appar­te­nente ai ruoli del mede­simo Mini­stero»…
Trovo stu­pe­fa­cente que­sto pas­sag­gio. Se lo si dovesse appli­care fino in fondo, e a que­sto mira il dise­gno di legge — ver­rebbe affer­mato il prin­ci­pio secondo cui un altro fun­zio­na­rio dello Stato, e tale è il cosid­detto Soprin­ten­dente — potrebbe legit­ti­ma­mente essere sospet­tato di svol­gere la pro­pria fun­zione non obiet­ti­va­mente e in vista d’interessi terzi. In base a tale visione del mondo, si potreb­bero allo stesso modo pre­ve­dere com­mis­sioni di garan­zia desti­nate a rive­dere ed even­tual­mente san­zio­nare i pre­sidi e i pro­fes­sori che por­tano a ter­mine uno scru­ti­nio sco­la­stico o un gruppo di medici e di sani­tari nell’atto di pro­nun­ciare una dia­gnosi o di com­piere un’operazione.
Allo stesso atteg­gia­mento (o ana­logo) va con­dotto il prin­ci­pio secondo cui i grandi poli museali del paese non pos­sono essere retti da Soprin­ten­denti col­lo­cati nelle strut­ture dello Stato, e andreb­bero invece deman­dati a mana­ger non pub­blici, la cui for­ma­zione e scelte dipen­de­reb­bero uni­ca­mente dalla capa­cità loro di fare frut­tare il patri­mo­nio cul­tu­rale, che si sono tro­vati a gestire (con cri­teri ine­vi­ta­bil­mente politici).

IN DIFESA DEL SISTEMA

Ce n’è abba­stanza, insomma, sull’uno come sull’altro ver­sante, per pre­ve­dere e orga­niz­zare una vera e pro­pria guerra con­tro que­sta spro­po­si­tata pes­sima ten­denza. Osservo sem­pli­ce­mente, a que­sto pro­po­sito, che, al di là delle molto spesso troppo arzi­go­go­late discus­sioni in merito alle cosid­dette riforme isti­tu­zio­nali (Senato, e tutto il resto), qui, appare con evi­denza mas­sima che non c’è dif­fe­renza, non c’è dav­vero nes­suna dif­fe­renza su que­sto più con­creto ter­reno fra ideo­lo­gia e visione del mondo del Mini­stro Lupi e quella del pre­si­dente del Con­si­glio Renzi. Ambe­due appar­ten­gono a pieno diritto al par­tito unico della pre­sunta razio­na­liz­za­zione del sistema, la quale si rivela con­tra­ria, anzi anti­te­tica non solo alle buone idee della sini­stra ambien­ta­li­sta e demo­cra­tica ma per­sino alla per­pe­tua­zione del vec­chio sistema sta­tuale bor­ghese, imper­fetto ma in una certa misura garan­ti­sta.
Le asso­cia­zioni ambien­ta­li­ste e i Comi­tati hanno abba­stanza voce per farsi sen­tire. Per­ché que­sto accada, non basta però la buona volontà. Biso­gna avere la con­sa­pe­vo­lezza che que­sta è una bat­ta­glia deci­siva, per orga­niz­zare la quale occorre pre­li­mi­nar­mente una con­cer­ta­zione pro­gram­ma­tica di grande serietà e intel­li­genza. Proviamoci.

L’Unità chiude. Il Cdr:”Continueremo a combattere guardandoci dal fuoco amico” Autore: fabrizio salvatori da: controlacrisi.org

Dal primo agosto L’Unita’ sospende le pubblicazioni: per la terza volta nella sua storia – e a 90 anni esatti dalla sua nascita – lo storico quotidiano fondato da Antonio Gramsci lascia le edicole. Gli azionisti della Nie in liquidazione non hanno trovato l’intesa su nessuna delle ipotesi sul tavolo. “Dopo tre mesi di lotta, ci sono riusciti: hanno ucciso L’Unita’”, e’ l’affondo del cdr. Lo strappo traumatico di oggi e’ il culmine di una crisi gia’ evidente a inizio anno, aggravatasi negli ultimi tre mesi durante i quali gli 80 giornalisti e lavoratori non hanno percepito lo stipendio. Per restare in edicola ad agosto e settembre si stima che sarebbero serviti 1,8 milioni. “I lavoratori agiranno in tutte le sedi per difendere i propri diritti”, annuncia il cdr. “Oggi e’ un giorno di lutto per la comunita’ dell’Unita’, per i militanti delle feste, per i nostri lettori, per la democrazia. Noi continueremo a combattere guardandoci anche dal fuoco amico”. Accanto ai giornalisti la Fnsi, che auspica tutti gli sforzi possibili “per tentare il ritorno in edicola” e la Cgil, che con Susanna Camusso e gli ex segretari Cofferati, Epifani e Pizzinato chiede al Pd di mettere in campo “tutta la sua autorevolezza e il suo peso”.
Il 13 luglio 2000 il quotidiano e’ in liquidazione e dopo un tentativo di salvataggio, non riuscito, da parte dell’editore Alessandro Dalai (Baldini & Castoldi), il 28 luglio 2000 cessa le pubblicazioni. Nel gennaio 2001 un gruppo di imprenditori coordinati da Dalai si organizza come Nuova Iniziativa Editoriale, rileva la testata e l’Unita’ torna in edicola il 28 marzo 2001. Il 20 maggio 2008 Marialina Marcucci, presidente di Nuova Iniziativa Editoriale, annuncia che la testata e’ stata acquistata dal sardo Renato Soru, allora presidente della Regione Sardegna e patron di Tiscali. L’11 giugno 2014, anno in cui la testata festeggia i suoi 90 anni con la pubblicazione fra gli altri, dei supplementi andati presto esauriti, dedicati a Enrico Berlinguer, la proprieta’ ha annunciato la messa in liquidazione la casa editrice del quotidiano.

Perché Gaza è sola? Fonte: Il Manifesto | Autore: Luciana Castellina

Il silenzio del movimento pacifista e l’ipocrisia dei media embeddedNon voglio par­lare nel merito di quanto sta acca­dendo a Gaza. Non ne voglio scri­vere per­ché provo troppo dolore a dover per l’ennesima volta emet­tere grida di indi­gna­zione, né ho voglia di ridurmi ad auspi­care da anima buona il dia­logo fra le due parti, eser­ci­zio cui si dedi­cano le belle penne del nostro paese. Come si trat­tasse di due monelli liti­giosi cui noi civi­liz­zati dob­biamo inse­gnare le buone maniere. Per non dire di chi addi­rit­tura invoca le ragioni di Israele, così vil­mente attac­cata — pove­retta — dai ter­ro­ri­sti. ( I pale­sti­nesi non sono mai «mili­tari» come gli israe­liani, loro sono sem­pre e comun­que ter­ro­ri­sti, gli altri mai).
Ieri ho sen­tito a radio Tre, che ricor­davo meglio delle altre emit­tenti, una tra­smis­sione cui par­te­ci­pa­vano com­men­ta­tori dav­vero inde­centi, un gior­na­li­sta (Meucci o Meotti, non ricordo) che con­teg­giava le vit­time pale­sti­nesi: che mascal­zo­nata le men­zo­gne degli anti­strae­liani, tutti dimen­ti­chi dell’Olocausto – pro­te­stava. Per­chè non è vero che i civili morti ammaz­zati siano due terzi, tutt’al più un terzo.
E poi il «Foglio» che pro­muove una mani­fe­sta­zione di soli­da­rietà con le vere vit­time: gli israe­liani, per l’appunto.
Si può non essere d’accordo con la linea poli­tica di Hamas – e io lo sono — ma chi la cri­tica dovrebbe poi spie­gare per­ché allora né Neta­nyahu, né alcuno dei suoi pre­de­ces­sori, si sia accor­dato con l’Olp ( e anzi abbia sem­pre insi­diato ogni ten­ta­tivo di intesa fra Hamas e Abu Mazen, per man­darla per aria). E però io mi domando: se fossi nata in un campo pro­fu­ghi della Pale­stina, dopo quasi settant’anni di soprusi, di mor­ti­fi­ca­zioni, di vio­la­zione di diritti umani e delle deci­sioni dell’Onu, dopo decine di accordi rego­lar­mente infranti dall’avanzare dei coloni, a fronte della pre­tesa di ren­dere la Pale­stina tutt’al più un ban­tu­stan a mac­chia di leo­pardo dove milioni di coloro che vi sono nati non pos­sono tor­nare, i tanti cui sono state rubate le case dove ave­vano per secoli vis­suto le loro fami­glie, dopo tutto que­sto: che cosa pen­se­rei e farei? Io temo che avrei finito per diven­tare terrorista.

Non per­ché que­sta sia una strada giu­sta e vin­cente ma per­ché è così insop­por­ta­bile ormai la con­di­zione dei pale­sti­nesi; così macro­sco­pi­ca­mente inac­cet­ta­bile l’ingiustizia sto­rica di cui sono vit­time; così fili­stea la giu­sti­fi­ca­zione di Israele che si lamenta di essere col­pita quando ha fatto di tutto per susci­tare odio; così pale­se­mente ipo­crita un Occi­dente (ma ormai anche l’oriente) pronto a man­dare ovun­que bom­bar­dieri e droni e reg­gi­menti con la pre­tesa di soste­nere le deci­sioni delle Nazioni Unite, e che però mai, dico mai, dal 1948 ad oggi, ha pen­sato di inviare sia pure una bici­cletta per imporre ad Israele di ubbi­dire alle tante riso­lu­zioni votate nel Palazzo di Vetro che i suoi governi, di destra o di sini­stra, hanno rego­lar­mente irriso.
Ma non è di que­sto che voglio scri­vere, so che i let­tori di que­sto gior­nale non devono essere con­vinti. Ho preso la penna solo per il biso­gno di una rifles­sione col­let­tiva sul per­ché, in pro­te­sta con quanto accade a Gaza, sono scesi in piazza a Parigi e a Lon­dra, cosa fra l’altro rela­ti­va­mente nuova nelle dimen­sioni in cui è acca­duto, e nel nostro paese non si è andati oltre qual­che pre­si­dio e volen­te­rose pic­cole mani­fe­sta­zioni locali, per for­tuna Milano, un impe­gno più rile­vante degli altri. Cosa è acca­duto in Ita­lia che su que­sto pro­blema è stata sem­pre in prima linea, riu­scendo a mobi­li­tare cen­ti­naia di migliaia di per­sone? È forse pro­prio per que­sto, per­ché siamo costretti veri­fi­care che quei cor­tei, arri­vati per­sino attorno alle mura di Geru­sa­lemme (ricor­date le «donne in nero»?) non sono ser­viti a far avan­zare un pro­cesso di pace, a ren­dere giu­sti­zia? Per sfi­du­cia, rinun­cia? Per­ché noi — il più forte movi­mento paci­fi­sta d’Europa – non siamo riu­sciti ad evi­tare le guerre ormai diven­tate perenni, a far pre­va­lere l’idea che i patti si fanno con l’avversario e non con l’alleato per­ché l’obiettivo non è pre­va­lere ma inten­dersi? O per­ché – piut­to­sto — non c’è più nel nostro paese uno schie­ra­mento poli­tico suf­fi­cien­te­mente ampio dotato dell’autorevolezza neces­sa­ria ad una mobi­li­ta­zione ade­guata? O per­ché c’è un governo che è stato votato da tanti che nelle mani­fe­sta­zioni del pas­sato erano al nostro fianco e che però non è stato capace di dire una parola, una sola parola di denun­cia in que­sta tra­gica cir­co­stanza? Un silen­zio agghiac­ciante da parte del ragazzo Renzi che pure ci tiene a far vedere che lui, a dif­fe­renza dei vec­chi poli­tici, è umano e natu­rale? Privo di emo­zioni, di capa­cità di indi­gna­zione, almeno quel tanto per farsi sfug­gire una frase, un moto di com­mo­zione per quei bam­bini di Gaza mas­sa­crati, nei suoi tanti accat­ti­vanti vir­tuali col­lo­qui con il pub­blico? È per­ché non prova niente, o per­ché pensa che le sorti dell’Italia e del mondo dipen­dano dal fatto che la muta Moghe­rini assurga al posto di mini­stro degli esteri dell’Unione Euro­pea? E se sì, per far che?
Di que­sto vor­rei par­las­simo. Io non ho rispo­ste. E non per­ché pensi che in Ita­lia non c’è più niente da fare. Io non sono, come invece molti altri, così pes­si­mi­sta sul nostro paese. E anzi mi arrab­bio quando, dall’estero, sento dire: «O dio­mio l’Italia come è finita», e poi si parla solo di quello che fa il governo e non ci si accorge che c’è ancora nel nostro paese una poli­ti­ciz­za­zione dif­fusa, un grande dina­mi­smo nell’iniziativa locale, nell’associazionismo, nel volon­ta­riato. Negli ultimi giorni sono stata a Otranto, al cam­peg­gio della «Rete della cono­scenza» (gli stu­denti medi e uni­ver­si­tari di sini­stra). Tanti bravi ragazzi, nem­meno abbron­zati seb­bene ai bordi di una spiag­gia, per­ché impe­gnati tutto il giorno in gruppi di lavoro, alle prese con i pro­blemi della scuola, ma per nulla cor­po­ra­tivi, aperti alle cose dell’umanità, ma certo privi di punti di rife­ri­mento poli­tici gene­rali, senza avere alle spalle ana­lisi e pro­getti sul e per il mondo, come era per la mia gene­ra­zione, e per­ciò vit­time ine­vi­ta­bili della fram­men­ta­zione. Poi ho par­te­ci­pato a Villa Literno alla bel­lis­sima cele­bra­zione del ven­ti­cin­que­simo anni­ver­sa­rio della morte di Jerry Maslo, orga­niz­zata dall’Arci, che da quando, nel 1989, il gio­vane suda­fri­cano, anche lui schiavo nei campi del pomo­doro, fu assas­si­nato ha via via svi­lup­pato un’iniziativa costante, di sup­plenza si potrebbe dire, rispetto a quanto avreb­bero dovuto fare le isti­tu­zioni: vil­laggi di soli­da­rietà nei luo­ghi di mag­gior sfrut­ta­mento, volon­ta­riato fati­coso per dare ai gio­vani neri magre­bini e sub­sa­ha­riani, poi pro­ve­nienti dall’est, l’appoggio umano sociale e poli­tico neces­sa­rio.
Parlo di que­ste due cose per­chè sono quelle che ho visto negli ultimi giorni coi miei occhi, ma potrei aggiun­gere tante altre espe­rienze, fra que­ste cer­ta­mente quanto ha costruito la lista Tsi­pras, che ha reso sta­bile, attra­verso i comi­tati elet­to­rali che non si sono sciolti dopo il voto, una ine­dita mili­tanza poli­tica dif­fusa sul ter­ri­to­rio.
E allora per­ché non riu­sciamo a dare a tutto quello che pure c’è capa­cità di inci­dere, di con­tare?
Certo, molte delle rispo­ste le cono­sciamo: la cre­scente irri­le­vanza della poli­tica, il declino dei par­titi, ecce­tera ecce­tera. Non ho scritto per­ché ho ricette, e nem­meno per­ché non cono­sca già tante delle rispo­ste. Ho scritto solo per con­di­vi­dere la fru­stra­zione dell’impotenza, per non abi­tuarsi alla ras­se­gna­zione, per aiu­tarci l’un l’altro «a cer­care ancora».

Sulle riforme costituzionali un gran pasticcio, a partire dal linguaggio usato. Parla il costituzionalista Gaetano Azzariti.| Autore: marco piccinelli da: controlacrisi.org

Da una parte il contingentamento dei tempi, dall’altra la richiesta di ridurre a cento le migliaia di emendamenti delle opposizioni proveniente dal vicesegretario del Partito democratico Guerini, dove si sta andando a parare? Lei che idea s’è fatto in merito?
Mi sembra che ci sia un forte sbandamento: queste oscillazioni sono espressione di una difficoltà e non chiarezza di intenti. Da un lato c’è una fortissima volontà, del Governo e della maggioranza parlamentare che sostiene le riforme, di conseguire risultato, anche forzando le regole della dialettica parlamentare e utilizzando degli strumenti anti-ostruzionismo che il regolamento parlamentare permette. Quindi il contingentamento stesso che, certamente, è una misura estrema e contro lo spirito del dibattito parlamentare. Sono strumenti legittimi, ma certamente contro lo spirito del dibattito parlamentare, da un lato. Dall’altra parte c’è, evidentemente, la consapevolezza che modificare la Costituzione in punti così delicati – se mi passa il termine – a colpi di maggioranza, cioè a prescindere dal dibattito parlamentare non è un buon viatico per una buona riforma costituzionale e, anzi, più che non è buon viatico, è assolutamente improprio rispetto a quello che dovrebbe essere la discussione sul testo che per antonomasia dovrebbe essere il più discusso e confrontato con le opposizioni: la nostra Costituzione, più di ogni altra, insiste sul confronto parlamentare, questo è il senso delle maggioranze qualificate che essa prevede. C’è, quindi, questa difficoltà. Ripeto: da una parte una forzatura e dall’altra la consapevolezza che si rischia d’andare a sbattere.

A tal proposito anche la costituzionalista Carlassare, in un’intervista realizzata dal quotidiano ‘il manifesto’, affermava di stare dalla parte delle opposizioni nonostante l’ostruzionismo perché, ha affermato: «[…] Strozzare un dibattito su una riforma che deve essere votata con una maggioranza ele­vata pro­prio per­ché sia ragio­nata e con­di­visa. Mi sem­bra una cosa inau­dita»
Certo, ma se ogni legge deve poter essere discussa, ‘la legge delle leggi’ – cioè la Costituzione – dovrebbe essere la più discussa. Ripeto, questa situazione complessivamente intesa, è l’espressione di una perdita del senso delle proporzioni. Ci troviamo di fronte ad una situazione sostanzialmente paradossale: da un lato l’ostruzionismo, dall’altro la volontà di forzare la mano. Da una parte e dall’altra, aggiungo, però, che per superare questa situazione paradossale, la palla è al governo: solo la maggioranza può fare delle aperture È chiaro che mentre l’opposizione non ascoltata è costretta – forse sì – a ricorrere all’ostruzionismo, che è uno degli strumenti utilizzati dalle opposizioni quando non trovano spazi di ascolto, la maggioranza ha la responsabilità di questa situazione di paralisi. Questa è la mia opinione: dovrebbe essere il Governo ad aprire all’opposizione.

Riguardo ciò che ha detto, cioè alla «perdita del senso delle proporzioni», mi viene in mente una parte dell’intervento in Aula del Ministro Maria Elena Boschi, che ormai sulla rete è diventato praticamente virale, in cui ella afferma: «Ho sentito alcuni parlare di svolta autoritaria. Questa è una allucinazione e come tutte le allucinazioni non può essere smentita con la forza della ragione. Non c’è niente di autoritario. Parlare di svolta illiberale è una bugia e le bugie in politica non servono». Come legge le parole della Boschi?
Direi che il linguaggio esprime una cultura politica. In questo momento si dimostra poco consona allo spirito di riforma costituzionale che dovrebbe avere non il Governo ma la maggioranza politica. La vecchia idea liberale, in base alla quale le idee altrui si rispettano quale che esse siano, non dovrebbe permettere espressioni improprie alle quali, purtroppo, la ministra ci ha già abituati.
Si ricorda la polemica contro i “professoroni”? Ecco, quella è un’altra espressione di una ‘certa cultura politica’ che, in qualche modo, non è consona al ruolo di apertura al dialogo che dovrebbe avere un Ministro delle Riforme Costituzionali. Ripeto, insisto sul fatto che si tratta di un ministro delle riforme costituzionali perché che il Governo sia più o meno arrogante, è un fatto di stile, diciamo così. Può piacere o non piacere, forse una maggioranza politica che sia particolarmente esuberante e che sfoggi linguaggio, diciamo così, affrettato, rimane nell’ordine del possibile. Ma quando questo stesso linguaggio così agguerrito si trasferisce sul piano nobile della revisione costituzionale, diventa un linguaggio improprio. Questo perché il piano del confronto costituzionale è un piano del confronto, non del rifiuto. ‘Allucinazione’, ‘professoroni’, e qualche altra espressione che viene utilizzata è, invece, chiaramente espressione di un rifiuto. È evidente ed ovvio che la Boschi non condivide alcune posizioni come quella che affermi la riduzione degli spazi di democrazia attraverso questa riforma costituzionale.
Il Ministro, però, dovrebbe accettare il confronto non foss’altro per il ruolo che ricopre. E comunque, le logiche della riforma Costituzionale sono quelle del confronto, le logiche del rifiuto delle opposizioni possono essere quelle del confronto ordinario, del confronto di piccolo cabotaggio, dell’imposizione delle regole di parte.
Mentre, invece, il ministro Boschi dovrebbe capire che si sta scrivendo le regole di tutti, non le regole delle parti. E allora, nessuno può essere allucinato e nessuno può essere delegittimato nelle sue posizioni. Possono, ripeto, non essere condivise le opinioni delle opposizioni, come non possono essere condivise neanche le posizioni della maggioranza, ma la logica del confronto deve prevalere, e il linguaggio dovrebbe essere appropriato ed idoneo a questa logica.

In tutto questo, Renzi e la maggioranza, improvvisamente, apre ad un referendum riguardo le riforme costituzionali. Lo stesso Presidente del Consiglio che aveva chiuso le porte ad una consultazione referendaria, ora le riapre. Cosa sta succedendo: questa riapertura sta, in un certo qual modo, nel solco tracciato dall’esecutivo che andava dicendo poco fa?
Guardi, voglio dire due cose. L’apertura sul referendum, che in sé è ovviamente giusta e opportuna, mi sembra – però – proposta come alternativa al dialogo. Cioè, se fosse questo, sembra che si dica: “io non discuto con voi, non c’è nessuna svolta autoritaria e illiberale, voi avete torto tant’è vero che sono disposto ad indire un referendum”.
Ora, sotto questa prospettiva, è sotteso un uso strumentale dell’istituto del referendum perché, in qualche modo, fa sì che questo istituto sia brandito come strumento di carattere populistico: non discuto con l’opposizione in Parlamento ma discuto col popolo una volta che ho forzato la mano e imposto la mia revisione costituzionale.
Ecco, sotto questo profilo, certamente, è un uso di un istituto delicatissimo: si tratta di una presa di posizione del tutto condivisibile, però è un uso strumentale di tutto ciò.
Detto questo, in una situazione per la quale dovesse essere approvata la riforma costituzionale in modo così divisivo – senza nessun confronto – allora il referendum costituzionale nel merito è certamente opportuno, quindi, sotto questo profilo mi sembra che siano tutti a richiederlo, tanto le opposizioni quanto la maggioranza. Mi sembra sia un unico punto di convergenza tra maggioranza e opposizione.

Qualche settimana fa c’era stato un accesissimo dibattito circa l’immunità parlamentare per i senatori che andranno a comporre il nuovo-Senato. Sentendo il rettore dell’università della Val d’Aosta Fabrizio Cassella in merito, egli affermava come l’immunità per i nuovi senatori fosse un qualcosa di utile nel lungo periodo, non tanto nel breve dal momento che viene vista molto male dall’opinione pubblica, considerati anche gli scandali nei Consigli Regionali del Paese (quasi tutti). Per lei si tratta di un istituto utile nel lungo periodo come affermava Cassella o no?
Io lascerei il primo comma dell’articolo 68, che prevede l’immunità per i voti dati nell’esercizio delle funzioni. Mentre cancellerei l’immunità vera e propria, cioè quella compresa negli attuali secondi commi e seguenti dell’articolo 68, per le regioni che diceva lei poc’anzi.
Francamente mentre riterrei che l’autonomia del Parlamento e dei suoi Parlamentari, tanto Deputati quanto i Senatori – anche se andranno ad essere eletti in modo indiretto secondo le attuali prospettive del Governo – riterrei che nell’esercizio delle loro funzioni debbano essere coperti dalla insindacabilità. Quello è il primo comma. Per quanto riguarda, più strettamente, l’immunità, io francamente, in questo momento storico la escluderei tanto per i deputati quanto per i senatori, come che essi dovessero essere eletti.
Mi spiego ancora meglio: non è la modalità di elezione da cui dipende se assegnare o meno l’immunità (fatta salva la insindacabilità) quanto la garanzia dell’organo. Tendo a distinguere monto tra insindacabilità ed immunità, quest’ultima è stata un istituto storico molto importante ma in questo momento mi sembra superata. Magari tra qualche secolo ne riparleremo (ride nda)!
La valutazione sull’immunità in senso stretto è certamente anche legata alla cattiva capacità di gestirla diversamente da parte dei consiglieri regionali e anche, forse, da parte dei parlamentari stessi.

Gaza, oggi le vittime sono già una trentina. Il mondo condanna la strage dei bambini, ieri | Autore: fabrizio salvatori da: controlacrisi.org

La parvenza di tregua di questi giorni non esiste piu’: a Gaza – dove si e’ festeggiato la fine del Ramadan – si e’ tornato a combattere. E il bilancio dei morti si e’ drammaticamente aggravato con una strage di 8 bambini, uccisi ieri in un parco giochi di Shati da un razzo, e la morte di cinque soldati israeliani, di cui quattro colpiti da un tiro di mortaio nel Neghev, nel Sud del paese, lungo il confine con la Striscia. Oggi le vittime sono già circa una trentina.

Benyamin Netanyahu ha usato parole lugubri: “Dobbiamo essere pronti – ha detto alla stampa – per una lunga operazione fino a che la nostra missione non sia completata. Non e’ possibile che i civili israeliani vivano sotto la minaccia dei tunnel e dei razzi. Non fermeremo l’operazione finche’ non avremo neutralizzato tutti i tunnel del terrore, non c’e’ guerra piu’ giusta di questa”.

Il razzo che ha ucciso i bambini e’ esploso nel pomeriggio di ieri, mentre si stavano divertendo in un campo giochi di Shati (a nord di Gaza). Attorno a loro c’era un’atmosfera gioiosa: ieri, infatti, si celebrava infatti l’Eid el-Fitr, la fine del mese di Ramadan, la ricorrenza in cui gli adulti cercano di regalare abiti nuovi e giocattoli ai propri figli, di renderli felici. Nelle vicinanze non c’erano obiettivi militari, ne’ adulti che potessero forse apparire come combattenti. La deflagrazione e’ stata potentissima, dicono fonti locali. Dieci persone, tra cui otto bambini (il piu’ grande aveva 13 anni), sono rimasti uccisi sul posto. Una quarantina in totale i feriti, tra cui una ventina i piccoli.

La presidente brasiliana Dilma Rousseff ha definito ieri l’offensiva di Israele contro Gaza un “massacro” e “sproporzionata”. “Quello che sta succedendo a Gaza e’ una cosa pericolosa. Non dico che sia un genocidio, ma un massacro si’. E’ un atto sproporzionato”, ha detto la Rousseff durante un dibattito organizzato dal quotidiano Folha de Sao Paulo. La scorsa settimana la diplomazia brasiliana aveva gia’ condannato l’uso “sproporzionato” della forza da parte di Israele, richiamando il suo ambasciatore a Tel Aviv per consultazioni. L’Egitto, in una dichiarazione del ministero degli Esteri, ha condannato l’ “eccessivo” e “ingiustificato” uso della forza da parte di Israele contro anziani, donne e bambini. L’Egitto esorta “tutte la parti” a rispettare il diritto umanitario internazionale e le quattro Convenzioni di Ginevra che impongono di non colpire civili e ricorda la propria iniziativa per na tregua. La guida suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, invece, ha definito oggi Israele un “cane rabbioso” che sta commettendo un “genocidio” a Gaza, affermando che il mondo islamico deve “armare” i palestinesi. Khamenei ha parlato in un discorso diffuso in diretta dalla tv di Stato.

Dal canto suo l’agenzia Mena rilancia informazioni su un colloquio telefonico fra il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi e quello dell’Autorita’ palestinese Abu Mazen per uno scambio di auguri in occasione della fine del Ramadan. Nella telefonata Muhamud Abbas ha sostenuto che la proposta egiziana e’ la “scelta migliore” per risolvere la crisi.

L’offensiva israeliana a Gaza si e’ gia’ rivelato finora il conflitto piu’ sanguinoso per Israele dalla guerra dell’estate del 2006 (12 luglio-14 agosto) contro le milizie sciite libanesi di Hezbollah

Prima guerra mondiale, cent’anni dopo il nodo è sempre lo stesso: il capitalismo. Intervento di Domenico Moro Autore: domenico moro da : controlacrisi.org

Quest’anno cade il centenario della Prima guerra mondiale, iniziata con la firma della dichiarazione di guerra da parte dell’Imperatore d’Austria Francesco Giuseppe il 28 luglio 1914. Per la prima volta nella storia e dopo cento anni di pace relativa, tutte le maggiori potenze furono coinvolte in una guerra di carattere mondiale. Il grado di violenza, le sofferenze dei combattenti e il costo in vite umane (16 milioni di morti, 650mila quelli italiani) furono senza precedenti. Gli equilibri politici e sociali furono stravolti, producendo eventi rivoluzionari come l’Ottobre sovietico. Alla fine l’Europa ne uscì stremata e con in grembo il frutto avvelenato del fascismo, che portò alla Seconda Guerra mondiale, un ancor più drammatico “secondo tempo” della Prima Guerra Mondiale.

Per queste ragioni la “Grande Guerra”, come fu chiamata dai contemporanei, rimane impressa nella psicologia collettiva ancora oggi, come è testimoniato dall’uscita recente di decine di pubblicazioni e dall’attenzione dei media, che gli dedicano trasmissioni Tv e articoli sui quotidiani. A questo si aggiunge la coincidenza tra il centenario e lo scoppio di nuove guerre non solo nel martoriato Medio Oriente ma anche nel cuore stesso dell’Europa, in Ucraina, all’interno di un contesto internazionale di sempre più diffuso caos, che induce a stabilire analogie tra quanto accade ora e quanto accadde allora. È possibile, però, parlare di analogie e, se sì, in che misura e a quale riguardo?

In genere, le ricostruzioni delle cause della Prima Guerra Mondiale tendono a mostrare lo scoppio della guerra come un evento nel quale le cancellerie europee furono tutte trascinate quasi loro malgrado, come in una sorta di effetto domino, senza aver previsto la portata di quel che sarebbe accaduto. Esemplificativo di questo atteggiamento è quanto scritto da Gianni Toniolo sul Sole24ore del 27 luglio: <<Alla guerra si arrivò con una successione di piccoli passi muovendosi con la metafora di Clarke come sonnambuli. (…) Colpe di omissione, indifferenza, scarsa lucidità nel valutare le conseguenze di lungo periodo di decisioni apparentemente poco rilevanti si distribuiscono tra le élites di tutti i paesi coinvolti. Se il 28 luglio impone una riflessione essa riguarda innanzi tutto la necessità di guardare oltre l’immediato nell’affrontare le crisi, apparentemente poco correlate di un mondo nuovamente multipolare, siano esse nel mar della Cina, nel Medio Oriente, ai confini orientali della dell’Ucraina.>>.

Per la verità, lo scoppio della Grande Guerra e le sue dimensioni non furono del tutto inattese. Con incredibile preveggenza così scrisse Friedrich Engels già nel 1886 a proposito dei contrasti tra potenze europee: <<In breve, c’è un grande caos e un unico risultato sicuro: un massacro di massa di un’ampiezza sinora mai vista, l’Europa stremata ad un punto mai visto, infine il crollo di tutto il vecchio sistema…la cosa migliore sarebbe una rivoluzione russa.>> Comunque, c’è da dire che le cause di una guerra globale stavano maturando già da decenni. Esse dipendevano dalla crisi del modo di produzione capitalistico, che aveva dato luogo al fenomeno dell’imperialismo e alla lotta sempre più accesa tra le maggiori potenze capitalistiche per la conquista di mercati di sbocco di merci e capitali e per il controllo delle fonti delle materie prime.
In particolare, l’egemonia britannica, che a partire dalla fine delle guerre napoleoniche aveva garantito la pace attraverso il “concerto europeo”, stava venendo meno per la decadenza dell’economia britannica a favore di nuove potenze industriali.

Tra il 1870 e il 1880 gli Usa e la Germania passarono rispettivamente, fra i Paesi industriali, al primo e al secondo posto superando la Gran Bretagna e la Francia. Però, mentre la Gran Bretagna e la Francia disponevano di vasti imperi coloniali e gli Usa di un mercato domestico colossale, la Germania, di piccole dimensioni e priva di colonie, aveva bisogno di assicurarsi un mercato di sbocco alle sue merci, a rischio di veder scoppiare la contraddizione fra le enormi potenzialità della sua industria e le possibilità di smercio. Un’identica competizione si era sviluppata per il controllo del petrolio, in particolare di quello della Mesopotamia, allora sotto il controllo turco e ora coincidente con l’attuale Iraq. Qui la Gran Bretagna proprio nel marzo del 1914 bloccò il progetto della Germania che, attraverso la costruzione di una ferrovia tra Costantinopoli e Bagdad, mirava ad ottenere dal governo ottomano i diritti di estrazione petrolifera. Quindi, la Prima Guerra Mondiale fu tutt’altro che il risultato della improvvida superficialità dei governi europei, bensì il necessario sbocco della crisi strutturale del modo di produzione capitalistico e la consapevole resa dei conti tra Stati imperialisti a fronte della crisi della potenza egemone.

Su questa base non viene molto difficile individuare alcune analogie con la fase attuale. Anche oggi siamo di fronte ad una crisi del capitalismo di dimensioni inusitate che non trova soluzioni e che si manifesta successivamente ad una seconda e più forte globalizzazione. Anche oggi siamo dinanzi alla crisi d’egemonia della potenza egemone statunitense e ad una situazione di caos internazionale. Si prevede che nel giro di pochi anni il prodotto interno della Cina sopravanzerà quello degli Usa. Intanto, nel 2013 fra le prime dieci multinazionali se ne contavano quattro di Paesi “emergenti”, una cinese, due russe (Gazprom che è al primo posto) e una brasiliana, mentre nel 2004 ce n’era una sola. La crisi degli Usa, però, presenta delle differenze importanti con quella della Gran Bretagna.

La Gran Bretagna poteva compensare il proprio debito del commercio estero e statale con lo sfruttamento dell’India, mantenendo in questo modo la stabilità e l’egemonia della sterlina. Al contrario, gli Usa non hanno alcuna colonia che possa assolvere alla stessa funzione e per finanziare i propri deficit devono poter mantenere il dollaro come valuta mondiale, in modo da attrarre dall’estero i capitali che gli necessitano. Visto che il dollaro rimane moneta mondiale solamente nella misura in cui viene utilizzata per le transazioni delle materie prime ed in particolare del petrolio, gli Usa non possono permettersi di perdere il controllo delle fonti energetiche e indirettamente dei propri concorrenti. Fonti energetiche vuol dire soprattutto Medio Oriente, dove sono le maggiori riserve mondiali e da cui importano la maggior parte del loro fabbisogno l’Europa, il Giappone e la Cina stessa.

Il declino e la fragilità delle basi della loro egemonia portano gli Usa, e le altre potenze in difficoltà come la Francia e la Gran Bretagna, ad assumere comportamenti sempre più aggressivi. Le guerre di Bush in Iraq e in Afghanistan rientravano in una strategia di attacco mirante a ristabilire l’egemonia Usa. La difficoltà nella gestione degli interventi diretti ha condotto l’amministrazione Obama a scegliere una strategia basata su un mix di incursioni soprattutto aeree e guerre per procura, come si è visto in Pakistan-Afghanistan, Libia, Siria e quest’anno in Ucraina. L’obiettivo non è quello di acquisire il controllo di nuovi territori, ma quello di logorare gli Stati considerati pericolosi, istigando il conflitto tra i suoi alleati e portando la guerra fino ai suoi confini, come nel caso della Russia. Le divisioni sociali, religiose ed etnico-linguistiche sono le leve utilizzate a questo scopo. Il risultato è una situazione di instabilità e caos crescente a livello internazionale.

L’escalation degli ultimi mesi non solo in Ucraina, ma anche in Iraq – dove il ruolo degli Usa è quanto meno ambiguo – e a Gaza non è estranea ad alcuni fatti nuovi che rendono più oscure le prospettive dell’imperialismo occidentale a guida Usa. A giugno la russa Rosnet ha siglato con la Cina un contratto venticinquennale di fornitura di petrolio per 600 mila barili al giorno, il doppio di quanto viene fornito oggi, e Putin non esclude di salire a 900 mila barili. Nel mese in corso, inoltre, la Cina ha mosso i primi passi per rendere convertibile lo yuan renminbi, preparandone così l’ascesa a valuta internazionale di riserva e di scambio. Infine, la Cina, insieme alla Russia e agli altri Paesi del Brics, ha annunciato la costituzione di una banca di sviluppo mondiale per finanziare progetti di sviluppo a Paesi emergenti. Tutto questo minaccia il controllo dell’imperialismo occidentale sui flussi finanziari e delle materie prime energetiche.

È molto difficile fare previsioni o delineare scenari, valutando se esiste la possibilità che le tensioni che si vanno accumulando possano sfociare in una guerra globale e dispiegata tra grandi potenze. Esistono molte variabili da considerare (tra le quali il ruolo della Germania) e non è compito di questo articolo farlo. Il punto da considerare è che anche noi siamo già in guerra. L’Italia negli ultimi anni è stata impegnata in Iraq, in Afghanistan e in Liba e rischia, per il ruolo internazionale che la sua classe dirigente ha deciso di assumere, di essere coinvolta sempre di più nell’escalation bellica. È a questo proposito che l’esperienza storica della socialdemocrazia dinanzi alla prima guerra mondiale dovrebbe essere di ammaestramento. Nonostante le previsioni di Engels, l’impegno eroico di leader come Rosa Luxemburg, Karl Liebknecht e Jean Jaurés, assassinato da un nazionalista il 31 luglio 1914, e l’impegno della II Internazionale dei lavoratori al congresso del 1912 di lottare contro la guerra, i maggiori partiti socialisti, soprattutto quelli tedesco e francese, si accodarono ai rispettivi imperialismi.

Solo una minoranza rimase salda sulle posizioni dell’Internazionale, in particolare la componente bolscevica della socialdemocrazia russa, che riuscì addirittura a trasformare il disastro della guerra in punto di partenza per la costruzione del primo vero tentativo di stato socialista della Storia. La lotta contro la pace non è un fatto solo etico o morale, come pure è giusto che sia, ma deve tradursi in termini politici e sociali. La lotta per la pace non può che essere una lotta contro l’imperialismo e, in primo luogo, contro il proprio imperialismo e per un modello di società alternativo a quello capitalistico.

Eni, i lavoratori di Gela assediano Montecitorio nel giorno dello sciopero generale | Autore: fabio sebastiani da: controlacrisi.org

I lavoratori dell’Eni sotto palazzo Chigi.A suo modi il presidio che si sta tenendo in queste ore davanti ai “palazzi del potere”, tra Montecitorio e il Consiglio dei ministri, può essere considerato un evento storico. Primo, perché oggi è proprio il giorno dello sciopero generale (proclamato da Cgil, Cisl e Uil; con adesioni al 90%) di tutto il gruppo che, lo ricordiamo ancora è per la gran parte di proprietà dello Stato italiano; secondo, perché se anche i dipendenti di una multinazionale così potente scendono in piazza per far valere i loro diritti vuol dire che la crisi sta erodendo tutti i margini della cosiddetta “pace sociale”. La protesta di oggi è contro la chiusura di tre raffinerie, e in particolare quella di Gela, da dove è giunta fino a Roma una mega delegazione di più di trecento lavoratori. Una partita presa in mano direttamente dai tre leader Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti.

I sindacati denunciano le posizioni recentemente rese note dal gruppo petrolifero italiano sul blocco degli investimenti, le scelte di ridimensionamento degli asset industriali, occupazionali e della politica energetica del gruppo in Italia. “Con Descalzi e Renzi senza pane sotto i denti” e “Renzi-Descalzi: il primo cerca occupazione, il secondo crea disoccupazione”, si può leggere sui manifesti dei manifestanti.
Sette i pullman partiti da Gela, con a bordo non solo lavoratori chimici, edili e metalmeccanici, ma anche rappresentanti del consiglio comunale di Gela. Sulla vertenza, e’ previsto un incontro al ministero dello sviluppo economico. Per Michele Pagliaro, segretario generale della Cgil Sicilia, e’ “un banco di prova per il governo nazionale”.

Ieri a Gela c’è stata una intensa giornata di mobilitazione, con i lavoratori dell’Eni e dell’indotto del petrolchimico che da settimane presidiano lo stabilimento, supportati dai tantissimi cittadini che si sono riversati per le strade della città. Tra gli altri, presente anche la Fiom, che ha dato pieno sostegno alla lotta. “La richiesta che su tutte i lavoratori avanzano, rileva Sergio Bellavita, della Fiom, “è che la vertenza sia una, nessuno deve rimanere indietro, non ci deve essere nessuna differenza di trattamento tra i lavoratori diretti dell’Eni e di quelli dell’indotto”. La delegazione della Fiom nazionale, con in testa il segretario generale, Maurizio Landini, ha assunto questa richiesta come punto irrinunciabile della vertenza”. Per Bellavita, “dobbiamo salvare l’insediamento produttivo, l’occupazione, il lavoro e l’ambiente. Avanti con la lotta, sino a costringere Eni a fare un passo indietro”.”La decisione di Eni di dismettere il petrolchimico di Gela rischia di avere ripercussioni sociali drammatiche in un territorio già fortemente provato da una grave crisi occupazionale”, sottolinea Leoluca Orlando, presidente dell’Anci Sicilia, che aggiunge: “Come Associazione dei Comuni, lanciamo un appello al Governo nazionale affinchè si intervenga tempestivamente”. Secondo Orlando bisogna avviare “subito un processo di pianificazione delle politiche di sviluppo locale, consapevoli del fatto che la questione relativa alla paventata chiusura della raffineria non possa limitarsi a un mero confronto tra azienda e lavoratori sugli assetti occupazionali, ma è una questione che coinvolge l’intera comunità di Gela e del comprensorio che – conclude il presidente di AnciSicilia – rischia di pagare a causa di ‘esigenze di mercato’ e ‘strategie aziendali’ costi sociali ed economici devastanti”.

La mafia più potente del mondo da: antimafia duemila

matacena-dellutriDroga e miliardi di euro nella terra di nessuno

di Giorgio Bongiovanni – 28 luglio 2014
Nuovo sequestro al porto di Gioia Tauro di 85 kg di cocaina purissima, intercettata dalla Guardia di Finanza di Reggio Calabria, per l’equivalente guadagno di 17 milioni di euro. Dall’inizio dell’anno, in Calabria sono 945 i kg di droga sui quali lo Stato è riuscito a mettere le mani. Ma questi dati rappresentano solo la punta di un iceberg.
Giuseppe Lombardo, pubblico ministero di Reggio Calabria, insieme al procuratore Cafiero de Raho e all’aggiunto Nicola Gratteri ci hanno descritto la devastante potenza della ‘Ndrangheta, che monopolizza il traffico di cocaina. Le famiglie calabresi sono prime in Occidente, e in Oriente seconde solo alla mafia turca, russa, thailandese, alla Yakuza giapponese e alle Triadi cinesi. Dall’Europa fino all’ultimo avamposto in Sud America è la ‘Ndrangheta a dettare legge: fa conto sul sostegno di locali e uomini fidatissimi affiliati all’organizzazione in tutto il mondo, fino all’Australia. Trafficano in droga con colombiani, messicani, equadoregni, boliviani, la loro parola è sinonimo di garanzia.

Un giro d’affari di 100 miliardi di euro l’anno (a fronte dei totali 150 fatturati dalle mafie italiane) con il quale la ‘Ndrangheta si conferma come la prima tra le organizzazioni criminali dello stivale. Definita dal pm Lombardo – intervistato da Antimafia Duemila per il nuovo numero cartaceo – il “fratello timido” di Cosa nostra, notoriamente più spavalda, la ‘Ndrangheta con astuzia è sempre rimasta all’ombra della Cupola siciliana, la quale negli anni ’80 e ’90 poteva contare sulle alleanze giuste e offrire il suo sostegno alle locali calabresi. Oggi però questo rapporto di forza e protezione si è rovesciato. Dopo le stragi del ’92 e ’93 la forza militare di Cosa nostra è stata indebolita dall’attacco frontale dello Stato, nonostante da oltre vent’anni Matteo Messina Denaro trascorra indisturbato la latitanza nella sua Castelvetrano, è un dato di fatto che la mafia siciliana non sia più quella di una volta. Ne ha preso il posto la ‘Ndrangheta, che ha sviluppato una potenza economica tale da raggiungere (e forse superare) quella che contraddistingueva Cosa nostra negli anni ’80 e ’90, quando deteneva il monopolio del traffico dell’eroina e della cocaina e i boss calabresi investivano una minima percentuale di denaro. Vent’anni dopo i ruoli si invertono. E il porto di Gioia Tauro, controllato palmo a palmo dalle famiglie calabresi, ricorda quello di New York negli anni ’30 e ’40, quando Lucky Luciano ne sorvegliava ogni centimetro quadrato e Cosa nostra americana neutralizzò, di concerto con i servizi segreti, i sommergibili tedeschi u-boot.

lombardo-giuseppe-c-federico-bittiOggi sono le famiglie calabresi, oltre a quelle di Cosa nostra, a poter ipoteticamente raccogliere l’appello che Totò Riina ha lanciato dal carcere parlando di organizzare un attentato mortale contro il pm Nino Di Matteo. Perché il processo sulla trattativa Mafia-Stato, di cui Di Matteo è il titolare insieme ai magistrati Tartaglia, Del Bene e Teresi, potrebbe scoperchiare il coinvolgimento di uomini delle istituzioni, nuocendo alle attività che la ‘Ndrangheta sta portando avanti con alleanze vecchie e nuove ereditate dai boss di Cosa nostra.

L’impressione evidenziata dal procuratore de Raho, ed avallata da diversi indizi probatori, è che le ingenti quantità di droga sequestrate siano solo il contentino che la ‘Ndrangheta regala allo Stato, a fronte delle tonnellate che riesce impunemente ad immettere sul mercato ed a smistare, partendo dal Sud e Centro America, in tutta Europa e negli Stati Uniti. La droga che da Gioia Tauro raggiunge il continente europeo produce centinaia di miliardi di euro, sistematicamente riciclati nei paesi off-shore del mondo e investiti ben più a nord della Calabria, terra bruciata dal sole che resta nell’assoluta povertà e miseria. La ‘Ndrangheta si è fatta banca, ne è convinto il pm Lombardo, ed è parte di un livello di molto superiore a quello rappresentato dalle sole famiglie Tegano, Condello, De Stefano, che a Reggio Calabria fanno il bello e il cattivo tempo, in molti casi anche dal carcere. I contatti di cui possono vantare devono rimanere occulti. Per questo, nel momento in cui la magistratura sembra essere più vicina a smascherarli, nuove minacce colpiscono i giudici che nelle aule giudiziarie combattono in prima linea. Non sono più i mandanti esterni il nemico da combattere – in realtà non ci sono mai stati – ma quel livello superiore interno al sistema criminale nel quale anche la ‘Ndrangheta, insieme a Cosa nostra e alle altre mafie, siede al tavolo.

Foto a destra: il pm Giuseppe Lombardo (© Federico Bitti)