I comunisti polacchi contro il dispiegamento delle forze NATO in Polonia e in Est Europa da: resistenze.org


Partito Comunista di Polonia (KPP) | icp.sol.org
Traduzione da lariscossa.com

15/02/2017

«Atlantic Resolve è una dimostrazione dell’impegno continuo degli USA con la sicurezza collettiva attraverso una serie di azioni progettate per tranquillizzare gli alleati della NATO e partner degli USA, e garantire la pace duratura e stabilità nella regione alla luce dell’intervento russo in Ucraina», così il Pentagano in una nota diramata e ripresa da agenzie, carta stampata e testate online di mezzo mondo, che prosegue con la militarizzazione fattiva dell’Est Europa. Di seguito, dunque, l’intervista che la International Communist Press ha realizzato al Partito Comunista Polacco (KPP) in cui sono illustrate le posizioni e le iniziative antimperialiste future nel paese che per primo nel mese di gennaio ha “accolto” le truppe USA.

Gli avvenimenti di questi mesi mostrano che le truppe NATO/USA non sono di stanza solamente in Polonia ma tracciano tutta una linea che parte dalle ‘Repubbliche Baltiche’ e termina in Ungheria. Se si considerano anche le basi militari già esistenti, è evidente che i confini russi siano circondati e circoscritti all’interno di una delimitata area fino al Mediterraneo. Allo stesso modo, Putin ha descritto tutto questo come ‘una minaccia contro la sicurezza’. Nei termini della lotta fra centri imperialisti, come valuta la situazione il KPP?

«Negli ultimi anni si è assistito all’espansione della NATO in tutto il mondo, soprattutto in Europa centrale e orientale. La NATO sta cercando di circondare la Russia, contrariamente alle promesse fatte dagli USA nel 1990, ovvero, di non muovere le proprie forze verso est. L’arco che circonda la Federazione Russa (considerata come un ‘nemico strategico’) si amplia in tutta Europa e parte, come detto, dai Paesi Baltici fino ad attraversare tutta la parte orientale del continente, arrivando in Ungheria. In tutti questi paesi, la presenza militare degli USA è in aumento e Stoltenberg (Segretario Generale della NATO) ha già annunciato chiaramente come il proprio obiettivo sia quello di far avanzare la ‘prima linea’. L’amministrazione statunitense, dal canto suo, sta cercando di realizzare un progetto di isolamento, emarginazione e divisione che tagli fuori la Federazione Russa, come descritto da Zbingiew Brzezinski.

Il fatto che in Polonia si stabiliscano basi USA (come in altri paesi) è un chiaro esempio di diffusione dell’imperialismo. Gli USA stanno mettendo in mostra la loro forza con l’obiettivo di creare consenso popolare riguardo la positività dell’aumento delle spese militari nei paesi dell’Europa Orientale; la NATO dal canto suo sta facendo pressione sugli stati membri affinché essi ammodernino i loro eserciti. Le autorità statali stanno utilizzando questa situazione per  controllare la popolazione e smantellare l’opposizione. Non è una sorpresa che in Polonia tutte le principali forze politiche abbiano raggiunto un consenso comune per quel che riguarda le spese militari e le basi statunitensi: la Polonia, infatti, ha deciso di aumentare le proprie spese per armamenti per oltre il 2% del PIL, in accordo con le richieste della NATO; il Paese sta ammodernando le proprie forze armate e non per scopi difensivi ma per essere in grado di partecipare alle aggressioni imperialiste. Grandi imprese militari multinazionali, soprattutto statunitensi, stanno cercando di ottenere più contratti. Il cosiddetto ‘Rapid Intervention Force’, creato in Europa per far sì che si possa essere pronti ad intervenire in varie regioni del continente in 48 ore, è parte di questo piano.

Le tensioni militari, tensioni e prove di forza, sono anche strettamente associate con il gioco imperialista tra aziende russe, i loro partner europei e le grandi aziende multinazionali.
La lotta fra centri imperialisti è una lotta per i mercati e l’accesso alle risorse industriali, principalmente gas e petrolio. Un aspetto di questa lotta è la rivalità circa le condotte di gas che portano in Europa (dall’Asia Centrale e dalla Transcaucasica) per far sì che si possa eliminare la Federazione Russa come paese di riferimento nella regione del Mar Caspio».

Le autorità statunitensi sperano nel pretesto dell’intervento Russo in Ucraina come motivo per la contromossa militare. Oggi, quel che si vede in Ucraina è una situazione di guerra che ha un’importanza fondamentale per quel che riguarda gli equilibri, in senso più ampio relazionati con la reazione neonazista e religiosa cristiana. Qual è il ruolo dei reazionari per l’esistenza della NATO in Polonia?

«L’Ucraina è un esempio di come gli USA e l’UE intervengano in questioni interne di altri Paesi. Il rovesciamento del governo ucraino (3 anni fa) mirava, imperialisticamente, a creare delle zone di influenza nell’Est d’Europa per creare nuove aperture dei mercati in favore dei monopoli occidentali. Washington e Bruxelles hanno usato il loro denaro per finanziare movimenti che hanno destabilizzato la situazione politica (e non solo ndt) a Kiev: tutto questo, come sappiamo, ha portato al colpo di stato ‘de facto’. Istituzioni come l’USAID, la NED, L’International Republican Institute e le fondazioni di George Soros sono state utilizzate per trasferire le risorse sopracitate in favore di politici-burattini comandati dagli imperialisti. L’attuale guerra in Donbass è molto redditizia per le imprese militari: la NATO sostiene l’alleanza dei neofascisti, neoliberisti al potere di Kiev, anche in barba alle violazioni degli accordi di Pace di Minsk – siglati anche dallo stesso governo ucraino – e la palese mancanza di democrazia nel Paese. Questa guerra rappresenta un elemento di crescenti tensioni e scontri tra potenze nucleari che possono sfociare in una guerra totale e distruttiva.

La situazione in Ucraina, rappresentata in modo molto distorto, è anche usata come giustificazione della dottrina aggressiva della NATO. In Polonia, infatti, viene presentata la situazione ucraina come uno dei motivi per la creazione di forze militari di difesa territoriale (forze di volontari) composte in gran parte da paramilitari di destra. Sono inutili dal punto di vista militare, ma possono rappresentare un fattore importante in caso di destabilizzazione interna. La Polonia potrebbe rappresentare “un nuovo modello ucraino” in cui le forze reazionarie supportano considerevolmente il Governo, mentre le forze progressiste e comuniste sono sottoposte a persecuzione».

Riguardo gli USA: s’è attribuito una sorta di ruolo di soccorritore a Donald Trump, riguardo la regolamentazione dei rapporti NATO-Russia. Che tipo di percorso si ritiene, da parte vostra, possa intraprendere l’esistenza della NATO in Europa, nel corso della Presidenza Trump?

«Non condividiamo, in realtà, alcuna illusione circa la politica degli USA dopo l’elezione di Donald Trump. È bene ricordare che potenti lobbisti del comparto militare, decisamente influenti a Washington, non possono permettersi di ritirarsi dall’Europa. S’è ripetuta, infatti, la retorica della propaganda Russa in ‘aggressione’ all’Ucraina. I rappresentanti degli USA nell’assemblea delle Nazioni Unite hanno annunciato che la cancellazione delle sanzioni contro la Russia è impossibile se essa (prima ndt) non abbandona la Crimea. Il complesso militare, dunque, sta guadagnando nuova influenza e fondi. Trump ha già annunciato l’aumento delle spese militari nel 2017 grazie allo slogan ‘Make US military strong again’. Lo stesso Trump sta progettando di ordinare nuove navi da guerra per implementare le forze di spedizione della marina militare. Si possono ravvisare, a riguardo, alcuni cambiamenti nel linguaggio politico, tuttavia la competizione imperialista proseguirà. Gli USA e la Russia hanno ancora interessi contraddittori in Medio Oriente e in Europa Orientale. Trump vuole mantenere buone relazioni con la Gran Bretagna, pur mantenendo le proprie ambizioni imperialiste e l’aumento della forza militare; ha assicurato che collaborerà con la monarchia saudita per quel che concerne la questione siriana. Questo significa chiudere un occhio sulle forze reazionarie siriane. Lo stesso Trump, infine, ha già approvato le azioni delle forze speciali degli USA in Medio Oriente ed è improbabile che cambi qualcosa con la campagna di attacchi di droni che sta causando svariati morti tra i civili».

Negli ultimi giorni di Dicembre, nel suo discorso tenuto a margine della visita nella capitale estone Tallinn, il senatore John McCain ha sostenuto che la presenza militare in Europa non è una minaccia nei confronti della sicurezza dei Paesi, in particolare per la Polonia e, al contrario, che essa rappresenta una garanzia di sicurezza. Come si sente il popolo polacco in termini della propria sicurezza? C’è una reazione negativa nei confronti dei soldati americani?

«È troppo presto per parlare dell’atteggiamento del popolo polacco nei confronti delle basi USA. Al giorno d’oggi la percezione nei confronti delle basi è modellata dalla propaganda del Governo e dagli slogan sulla difesa nazionale. L’arrivo delle truppe USA sul suolo polacco è stato preceduto da un’ampia campagna di propaganda sui principali media: a metà gennaio, quando sono arrivate, sono stati organizzati ‘picnic’ militari in ogni regione. Tuttavia, i soldati non erano percepiti molto positivamente. Sembra che la maggior parte della società e della gente sia passiva e molti sono solo stanchi: una gran parte di essi è interessato per lo più a questioni sociali.»

Mentre l’aggressione imperialista continua, che tipo di lotta adotterà il KPP, nell’organizzarsi contro lo sbarco delle truppe NATO in Polonia?

«Innanzitutto, il KPP si oppone alla partecipazione della Polonia nella NATO. Protestavamo già nel 1999 quando la Polonia aderì all’Alleanza e poco dopo, successivamente, quando fu attaccata la Jugoslavia. Il Partito Comunista Polacco si oppose apertamente contro tutte le guerre intraprese dalla NATO e dagli USA, e in particolar modo nei confronti dell’Afghanistan, dell’Iraq, della Libia e svariati altri paesi. Nei nostri documenti ricordiamo che nessuna di queste aggressioni esterne ha portato alla ‘pacificazione’ delle situazioni in quei paesi anzi, al contrario, tutto s’è concluso con decine di conflitti interni, centinaia di migliaia di morti e feriti e con la distruzione delle infrastrutture dei paesi sopracitati, peggiorando nettamente la vita di milioni di persone. Abbiamo da sempre espresso la nostra solidarietà coi popoli che soffrono le aggressioni imperialiste e abbiamo supportato le lotte di liberazione degli stessi.

Il KPP è convinto che la Resistenza deve essere internazionale: partecipiamo, dunque, a iniziative anti imperialiste e anti militariste, come la manifestazione che si è tenuta a Varsavia nel Luglio del 2016. Il KPP, contrariamente a tutti i partiti opportunisti, non chiede di «riformare» la NATO o la sua sostituzione con un «esercito europeo», chiediamo la sua completa dissoluzione e la sua sostituzione con la solidarietà fra i popoli. Manteniamo un atteggiamento di classe rigettando il nazionalismo e il militarismo, dato che questi due ‘concetti’ vengono utilizzati a detrimento della classe operaia, specialmente in tempi di crisi. Le spese militari ricadono, infatti, tutti sul benessere della gente: sul welfare, la sanità e l’istruzione. Continueremo la nostra attività antimilitarista ora, dunque: siamo certi che la Resistenza, soprattutto locale, nei luoghi in cui si sono stabilite le basi, si acuirà».

Fonte: 14° Rapporto sui diritti globaliAutore: Orsola Casagrande Guerra infinita, esodo permanente

Cifre, storie, morti. La guerra permanente è oggi sempre più anche sinonimo di esodo permanente. Teorizzata e voluta dall’ex presidente degli Stati Uniti George W. Bush insieme all’ex primo ministro inglese Tony Blair e ai capi di Stato “volenterosi” (Italia e Francia comprese) ha usato come pretesto l’attentato alle Torri Gemelle rivendicato da al-Qaeda l’11 settembre del 2001.Quindici anni sono passati da allora è il costo delle guerre avviate dopo quell’attentato è enorme, così come il costo di vite umane. Le conseguenze drammatiche di questo conflitto permanente sono davanti agli occhi di tutti: morte, distruzione, macerie.

È un mondo in fuga dalla guerra, dalla repressione, dalla fame, dalla siccità

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Il Rapporto sui diritti globali, realizzato dalla associazione Società INformazione e dalla sua redazione , promosso dalla CGIL, nel suo ultimo volume, il 14°, giunto da poco in libreria, contiene un Focus di approfondimento relativo all’intreccio causale tra guerre e migrazioni e agli effetti globali in particolare sotto il profilo dei diritti umani, curato da Orsola Casagrande.

Proponiamo qui un estratto dal Focus.

Qui   scaricabili l’indice generale del volume, la prefazione di Susanna Camusso e l’introduzione di Sergio Segio.

Il Rapporto integrale può essere acquistato in libreria o richiesto all’e ditore Ediesse

 

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Quando a muoversi è un mondo

«Siamo di fronte alla crisi di profughi e sfollati più grande dei nostri tempi. Però soprattutto questa non è una crisi di numeri, è anche una crisi di solidarietà», così l’ex Segretario delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon. Parole che rivelano una drammatica realtà ma anche l’impotenza della stessa ONU, ormai sempre più ridotta a un mero ufficio di “contabilità”: e i conti che fa sono quelli a sei cifre dei profughi, dei morti, delle vittime, di guerre, disastri naturali, crimini di guerra e di pace perpetrati dai governi degli stessi Paesi che la compongono in un perverso gioco delle parti, dove carnefici e salvatori hanno sempre più spesso lo stesso volto.

Quelle fornite dall’UNHCR (United Nation High Commissioner for Refugees) sono forse le cifre più vicine alla realtà, sapendo che è estremamente difficile calcolare il numero di persone che muore ogni giorno nei vari conflitti del mondo, che fugge da quei conflitti, che si sposta – nomadi loro malgrado – da un territorio all’altro o all’interno della loro nazione, anime senza pace.

In quello che sembra un disperato tentativo di rimanere “ottimisti” in una situazione drammatica come è quella che stiamo vivendo, l’UNHCR apre il suo Rapporto Global Trends 2015 con queste parole: «Mentre il tasso di incremento è rallentato se paragonato al drastico aumento degli ultimi due anni, il numero attuale degli sfollati globalmente rimane il più alto dalla fine della Seconda guerra mondiale». Dal 2011, infatti, quando l’UNHCR ha annunciato un nuovo record di 42,5 milioni di persone costrette a spostarsi dalla loro terra, l’aumento è stato costante e drammatico: 51,2 milioni nel 2013 e 59,5 milioni nel 2014 e 65,3 milioni a fine 2015.

La cifra totale comprende 3,2 milioni di persone che erano in attesa di decisione sulla loro richiesta d’asilo in Paesi industrializzati a fine 2015; 21,3 milioni di rifugiati nel mondo (1,8 milioni in più rispetto al 2014 e il dato più alto dall’inizio degli anni Novanta); 40,8 milioni di persone costrette a fuggire ma che si trovavano ancora all’interno dei confini del loro Paese (il numero più alto mai registrato, in aumento di 2,6 milioni rispetto al 2014).

Durante il 2015 oltre 12,4 milioni di individui sono stati costretti a lasciare le loro case. Di questi, 8,6 milioni di persone si sono spostate all’interno dei loro confini nazionali, mentre 1,8 milioni di persone hanno cercato protezione all’estero. Le richieste di asilo politico presentate nel 2015 sono state 2 milioni (UNHCR, 2016 a).

Per immaginare anche visivamente che cosa significano queste cifre, basti dire che i profughi oggi sono un numero maggiore all’intera popolazione del Regno Unito. Se si costituissero in Paese, sarebbero il ventunesimo Paese più popolato del mondo.

Alcune nazionalità sono state maggiormente colpite da questo esodo forzato di altre. Si stima che alla fine del 2015 siano state 11,7 milioni le persone in possesso di passaporto siriano costrette a lasciare la propria casa dall’inizio del conflitto nel 2011 (4,9 milioni i profughi fuggiti all’estero, 6,6 milioni quelli interni, più 250 mila i richiedenti asilo).

Alla fine del 2015 le altre nazionalità costrette a questa fuga forzata, sia all’interno dei confini nazionali che all’esterno, sono state (tutte con oltre 2 milioni di sfollati) quella afghana, colombiana, congolese, irachena, nigeriana, somala, sudanese, sud sudanese e yemenita.

In vent’anni i profughi sono aumentati del 75%, passando da 37,3 milioni nel 1996 ai 65,3 milioni del 2015. Di nuovo, per cercare di “visualizzare” queste cifre che non possono rimanere solo numeri, basti dire che, durante il 2015, ogni minuto, 24 persone sono state costrette ad abbandonare la loro casa.

 

Immigrati imprescindibili per l’economia dei Paesi sviluppati

In un articolo pubblicato nelle pagine di economia il 19 giugno 2016 sul quotidiano spagnolo “El Pais”, il giornalista David Fernandez ha affrontato il “fenomeno” dell’immigrazione da un punto di vista assai diverso da quello cui ci hanno abituato i media. Il titolo non lanciava nessun grido d’allarme, nessun pericolo di invasione; anzi, al contrario, analizzava alcuni rapporti economici e demografici pubblicati da alcune delle più importanti società e gruppi (Fernandez, 2016).

Il Rapporto The Silver Dollar – Longevity Revolution Primer realizzato da Bank of America e Merrill Lynch sostiene, tra le altre cose, che l’Unione Europea ha bisogno di ricevere annualmente per i prossimi dieci anni almeno 1,8 milioni di persone se vuole anche solo arrivare ai livelli di crescita della mano d’opera degli USA e così sperare di arrestare le prevedibili conseguenze economiche e sociali del rapido invecchiamento della popolazione europea e del basso tasso di natalità. Gli esperti sottolineano che nel 2050 la popolazione mondiale con oltre 60 anni di età raggiungerà i 2 miliardi (oggi ci sono 900 milioni di over 60). Questo invecchiamento però non sarà omogeneo e riguarderà soprattutto i Paesi più sviluppati e le economie emergenti, con la sola eccezione dell’India. Come una reazione a catena il fatto che la popolazione mondiale over 65 passerà dal 9% (nel 2010) al 19% in appena quarant’anni significherà inevitabilmente un aumento della spesa sociale (salute e assistenza).

A conclusioni simili giunge anche il Rapporto Global Aging 2016: 58 Shades Of Gray, di Standard & Poor’s. Queste previsioni offrono una lettura senza dubbio differente del “fenomeno” immigrazione e dovrebbero in realtà servire ai governi per gestire in maniera meno scellerata e allarmista il flusso di persone che ogni giorno arriva sulle nostre coste. L’immigrazione è di fatto un’opportunità per i Paesi sviluppati. Rimangono chiaramente gravi le responsabilità di questi stessi Paesi che spesso sono tra i promotori delle guerre che costringono milioni di persone a fuggire (Bank of America & Merrill Lynch, 2016; Standard & Poor’s, 2016).

 

 

Guerre senza fine: Siria e Iraq

Le guerre, e soprattutto quelle in Siria (iniziata nel 2011) e Iraq (un conflitto ininterrotto da quando, nel 2003, il Paese fu invaso per la seconda volta dagli USA, Regno Unito e dalla cosiddetta “coalizione dei volenterosi”), hanno contribuito sostanzialmente all’aumento del numero di profughi. Oltre un milione di nuovi profughi provenienti dalla Siria sono stati registrati nel 2015, portando il totale di persone che hanno cercato protezione fuori dal loro martoriato Paese a circa 5 milioni. La maggior parte di questo milione di nuovi profughi (946.800 persone) sono stati registrati in Turchia. Questa nuova ondata di arrivi ha fatto sì che la Turchia diventasse il Paese che ospita il più alto numero di profughi al mondo (circa 2,54 milioni di persone, per la maggior parte di passaporto siriano). Verso la fine del 2015 e nei primi mesi del 2016 si sono registrati spostamenti di profughi siriani dalla Turchia ad altri Paesi europei. Questo è dovuto in buona parte alle pessime condizioni in cui i profughi sono costretti a vivere in Turchia.

Difficile vedere la luce in fondo al tunnel del lungo conflitto in Siria. È evidente che qui si gioca il futuro di vecchie e nuove alleanze strategiche. A ottobre 2015 è scesa ufficialmente in campo a fianco del presidente siriano, Bashar al-Assad, la Russia, con una serie di bombardamenti (più o meno) mirati contro obiettivi dello Stato Islamico. A febbraio 2016, l’inviato speciale del Segretario Generale ONU, Staffan de Mistura, ha facilitato a Ginevra colloqui tra il governo siriano e alcuni rappresentanti della variegata e confusa opposizione. Trentacinque gruppi hanno riconosciuto la Risoluzione 2254 come la road map di un possibile e auspicabile processo di pace in Siria. I colloqui sono stati avviati ad aprile 2016, tra crisi e interruzioni. La Turchia, dal canto suo, dopo aver dato appoggio logistico e militare ai militanti dell’ISIS, ha cominciato a cambiare rotta, riavvicinandosi progressivamente al governo di Bashar al-Assad, lo stesso che aveva giurato di voler abbattere solo un anno prima. Uno degli obiettivi principali di questo riavvicinamento per la Turchia è quello di impedire ai kurdi in Siria di ottenere un’autonomia dal governo centrale. Quest’ultimo, peraltro, non sembra particolarmente interessato ad accordargliela.

A ottobre 2015, stime sicuramente per difetto, confermavano l’enorme costo umano di questa guerra: almeno 250 mila i morti, oltre 100 mila civili. Almeno 640 mila persone vivono sotto assedio, mentre 11 milioni di persone, come visto, sono state costrette a fuggire all’interno della stessa Siria o in altri Paesi. I profughi siriani residenti in 120 Paesi nel mondo sono ormai 4,9 milioni. Molti sono bambini. Nella sola Turchia ci sono almeno 665 mila minorenni siriani che non stanno frequentando la scuola (Asquith e Kayali, 2016).

Molti di questi ragazzini sono costretti a lavorare, in nero e in pessime o inesistenti condizioni di sicurezza. I settori tessile e calzaturiero sono quelli in cui maggiormente vengono impiegati bambini (Kingsley, 2016).

Grandi marche come Esprit, H&M, DeFacto, Next sono state denunciate in questi anni per l’impiego, in loro fabbriche turche, di bambini siriani (Pitel, 2016).

 

Quando a fuggire sono i bambini

Uno degli aspetti forse più drammatici delle guerre infinite e dell’esodo massiccio di cui il pianeta è vittima, riguarda i bambini. Vittime indifese e per questo più colpite dalle tragedie causate dal mondo degli adulti, quegli adulti che dovrebbero proteggerli. Secondo l’ONU, la metà dei profughi, alla fine del 2015 erano bambini. Il numero di minori non accompagnati che ha richiesto asilo nel 2015 è stato di 98.400: nel 2014 le domande erano state 34.300. Essendo più vulnerabili i bambini sono anche i più esposti a violazioni e abusi di ogni genere. Sarebbero almeno 26 mila i bambini non accompagnati entrati in Europa nel 2015 secondo Save the Children, che stima in un 27% del milione di profughi giunti in Europa nel 2015, la quota di minori. Secondo l’Europol, almeno 10 mila sono scomparsi dopo il loro arrivo in Europa. Molti, secondo l’agenzia di intelligenza criminale della UE sarebbero finiti in mano di organizzazioni criminali che si dedicano alla prostituzione. Il responsabile di Europol, Brian Donald, ha dichiarato all’inglese “The Observer” che «cinquemila bambini sono scomparsi in Italia, mentre mille risultano spariti in Svezia». Europol ha anche documentato un incrocio tra le organizzazioni che si dedicano al traffico umano per sfruttare uomini e donne per il mercato del sesso e la schiavitù e le organizzazioni che favoriscono e gestiscono i passaggi di migranti verso l’Europa.

 

Delle quasi 100 mila richieste di asilo presentate da minori non accompagnati, la maggior parte (circa un quinto del totale) sono state presentate in Svezia (35.800 domande rispetto alle 7 mila del 2014). La gran parte delle richieste è stata di minori afghani (23.600), seguiti da minori siriani (3.800), somali (2.200), eritrei (1.900) e iracheni (1.100). In Germania sono stati 14.400 i minori non accompagnati che hanno presentato richiesta di asilo nel 2015 (erano stati 4.400 nel 2014). Anche in questo caso le domande più numerose, 4.700, sono state presentate da minori afghani, seguiti da minori siriani (4 mila).

In totale sono state presentate 50.300 domande da minori afghani (erano state 8.600 nel 2014). I minori afghani con meno di 15 anni che hanno presentato domanda di asilo sono stati 14.400. Al secondo posto per numero di richieste di asilo i minori non accompagnati provenienti dalla Siria (14.800), seguiti da eritrei (7.300), iracheni (5.500) e somali (4.100) (Donald, 2016; Save the Children, 2016).

 

Il conflitto in Iraq non sembra allentarsi. A soffrire come sempre è soprattutto la popolazione civile. Nel 2015 ci sono stati poco meno di 20 mila morti tra la popolazione civile. Vittime della guerra contro l’ISIS, come vuole la vulgata, però la realtà parla anche di esecuzioni sommarie, autobombe, omicidi, bombardamenti, regolamenti di conti, conflitti tra le varie fazioni e gruppi iracheni. Un orrore permanente in cui l’Iraq – occorre sempre ricordarlo – è stato gettato dalla seconda invasione di Stati Uniti, Regno Unito e degli altri alleati europei. Secondo l’ONU, milizie pro-governative hanno commesso omicidi, distruzione di proprietà e hanno fatto sparire numerose persone. Da giugno 2014 sono stati 3,2 milioni gli iracheni costretti a lasciare le loro case. La scuola per 3 milioni di bambini rimane un lontano ricordo, così come, per ampi strati della popolazione l’accesso all’acqua pulita, al cibo e all’assistenza medica.

 

Rapporto Chilcot sull’Iraq

Il Rapporto Chilcot sulla guerra in Iraq pubblicato a luglio2016 conferma che l’allora premier Tony Blair decise di seguire gli Stati Uniti nell’invasione dell’Iraq prima che tutte le opzioni pacifiche fossero state provate. L’opzione militare, dunque, non è stata usata dal Regno Unito come ultima risorsa. Allo stesso modo, il Rapporto ribadisce che Blair esagerò deliberatamente la minaccia posta dal regime iracheno per presentare l’opzione militare come l’unica possibile davanti al Parlamento.

Il Rapporto offre anche nuove prove sulla resistenza del governo inglese a riconoscere le vittime irachene della guerra e appoggia l’idea che sia ormai giunto il momento di contribuire alla creazione di un registro delle vittime non solo della guerra in Iraq ma anche di altri conflitti in cui il Regno Unito ha partecipato. Nonostante l’ammissione di questa grave lacuna, l’inchiesta guidata da Sir John Chilcot non fa nemmeno il tentativo di dare una sua stima della sofferenza irachena (Chilcot, 2016; Kettle, 2016).

 

 

I casi Burundi e Sudan del Sud

Nel corso del 2015 almeno 221.600 persone sono state costrette a lasciare il loro Paese natale, il Burundi, a causa della guerra. Il numero così alto di profughi ha catapultato il Paese africano al secondo posto della triste classifica dei Paesi di provenienza dei nuovi profughi nel 2015. Al terzo posto è finito il Sudan del Sud (162.100 profughi nel 2015), il Paese più giovane del pianeta, nato nel 2011 dopo il referendum che ne ha sancito la separazione dal Sudan (Fisas, 2016; Oxfam, 2016).

Per quel che riguarda il Burundi, il conflitto risale al 1983 quando l’allora primo ministro di etnia Hutu viene assassinato, scatenando un ciclo di violenza che conduce alla morte di almeno 300 mila persone. I primi negoziati di pace iniziano nel 1998 in Tanzania e nel 2000 viene raggiunto un accordo di pace, che in teoria getta le basi per un governo condiviso. La guerra però non si ferma. Questa nuova ondata di violenza è stata innescata dall’elezione, per la terza volta consecutiva, di Pierre Nkurunziza, nel 2015. Dopo un fallito tentativo di golpe, il presidente ha messo da parte la Costituzione per assicurarsi il terzo mandato, (ottiene il 70% dei voti al termine di una campagna segnata da violenze e morte). Il Paese è nel caos e il rischio, ha ammonito l’ONU nel giugno 2016, è di una recrudescenza della violenza etnica che potrebbe scatenare un nuovo conflitto civile tra Tutsi e Hutu. Cento persone in media al giorno hanno attraversato il confine cercando rifugio in Tanzania, andando a ingrossare le fila dei quasi 222 mila profughi già fuggiti, nel 2015, non solo in Tanzania ma anche in Uganda, Rwanda, Repubblica Democratica del Congo, in campi sovraffollati e dove il cibo scarseggia. David Miliband, presidente di International Rescue Committee, dopo una visita al campo profughi di Nyarugusu (in Tanzania, il terzo centro profughi nel mondo, popolato in condizioni estreme da oltre 150 mila persone) ha detto che «bisognerà prepararsi per il peggio: la gente non ha né prospettive né desiderio di tornare in Burundi. Questa è una crisi che durerà anni» (Graham-Harrison, 2016).

 

Palestina senza pace

Sono 5,2 milioni i profughi palestinesi registrati con l’UNRWA (United Nations Relief and Works Agency). In Palestina vivono 4,5 milioni di persone e nella Striscia di Gaza 1,8 milioni. Il 70% della popolazione di Gaza è costretto a vivere di aiuti umanitari. Nella West Bank vivono poco più di 2,6 milioni di persone. Israele continua a fornire sicurezza, servizi amministrativi, casa, educazione e assistenza medica ai circa 560 mila coloni che risiedono in insediamenti illegali nella West Bank, compresa Gerusalemme est. Israele ha inoltre autorizzato la costruzione, nel 2015, di 566 nuovi insediamenti, dei quali 529 già realizzati a fine 2015. I palestinesi che vivono nell’Area C (l’area sotto controllo totale di Israele, che rappresenta il 60% della West Bank) sono soggetti a una feroce e costante repressione: hanno limitato accesso all’acqua, elettricità, scuola e altri servizi statali, oltre a subire restrizione nei movimenti e accesso, demolizione di case, trasferimenti forzati, violenza da parte dei coloni. A novembre 2015 risultavano essere state demolite da parte del governo di Israele 481 case palestinesi: 601 persone (tra cui 296 bambini) sono rimaste senza casa e costrette a trovare soluzioni di emergenza. Il Libano ospita circa 400 mila profughi palestinesi (Commissione Europea, 2016 a).

 

 

Alla fine di aprile 2016, Riek Machar, ex leader dei ribelli e vice presidente del Sudan del Sud, fa il suo rientro trionfante all’aeroporto di Juba, accolto da una folla esultante e un volo di colombe bianche, simbolo di pace. Solo due settimane più tardi le strade di Juba vengono occupate dai carrarmati, i quartieri sono sotto le bombe, centinaia di migliaia di civili sono costretti a fuggire, almeno 300 persone muoiono negli scontri e quello stesso aeroporto è chiuso e sotto attacco.

Non è facile comprendere chi combatte contro chi e perché, quello che è certo è che le truppe nominalmente fedeli al presidente Salva Kiir stanno combattendo quelle fedeli a Machar. La guerra civile iniziata nel 2013 e culminata, dopo delicati e complicati negoziati, in un accordo di pace nell’agosto del 2015, potrebbe riprendere (Burke, 2016).

Quel conflitto ha ucciso migliaia di persone. Quasi due milioni le persone costrette a fuggire dal Paese più giovane del mondo. Almeno la metà degli 11 milioni di abitanti del Sudan del Sud sono minacciati dalla fame. Va notato che si stima che la terza riserva di petrolio dell’Africa sub-sahariana si trovi proprio nel Sudan del Sud. Il Paese è sì terzo in classifica, ma per ben altre ragioni. Nel 2015, infatti, sono stati 162.100 i profughi registrati dall’ONU. Nei primi giorni di agosto 2016 si è verificata la fuga di 60 mila persone, la maggior parte (circa 52 mila) hanno cercato rifugio in Uganda (l’85% sono donne e bambini), settemila in Sudan e un migliaio in Kenya, secondo i dati forniti dall’ONU. Alla fine del 2015 i profughi provenienti dal Sudan del Sud sparsi per il mondo erano 778.700, secondo le stime dell’ONU (erano 616.200 nel 2014).

Mark Zuckerberg preoccupato per la stretta di Trump su visti e rifugiati: “Gli Usa sono un Paese di immigrati” L’Huffington Post | Di Redazione

“Siamo una nazione di immigrati, e tutti traiamo beneficio quando le menti migliori e più brillanti da tutto il mondo possono vivere, lavorare e contribuire qui. Spero che troveremo il coraggio e la compassione per mettere insieme le persone e rendere questo mondo un posto migliore per tutti”. Mark Zuckerberg, il creatore di Facebook, è preoccupato per le misure dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, in materia di immigrazione e gli ricorda che proprio gli Usa sono “una nazione di immigrati”.
“I miei nonni arrivarono da Germania, Austria e Polonia. I genitori di Priscilla (la moglie) erano rifugiati provenienti da Cina e Vietnam. Gli Usa sono una nazione di immigrati e dovremmo esserne orgogliosi”, ha scritto nel suo profilo ufficiale della rete sociale.
“Come molti di voi, sono preoccupato dall’impatto dei recenti ordini esecutivi firmati dal presidente Trump”, ha aggiunto. Per il fondatore di Facebook, gli Usa dovrebbero “mantenere le porte aperte ai rifugiati e a quelli che necessitano aiuto. Questo è quello che siamo. Se avessimo voltato loro le spalle decenni fa, la famiglia di Priscilla non sarebbe oggi qui”.
In ultimo, Zuckerberg si dice fiducioso per le parole del presidente sui ‘dreamers’, i ‘sognatori’, i giovani senza documenti entrati nel Paese da bambini e per i quali ha promesso di lavorare a una soluzione; e ha ricordato che gli Usa devono continuare a giovarsi degli stranieri “con grande talento”. “Anni fa, feci lezione in una scuola secondaria e alcuni dei miei migliori studenti erano clandestini. Anche costoro sono il nostro futuro”.

La propaganda della stampa mainstream britannica intensifica la pericolosa retorica bellicista contro la Russia Graham Vanbergen | globalresearch.ca


Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

18/01/2017

La stampa inglese è entrata in modalità di propaganda isterica per demonizzare la nostra più grande minaccia sul pianeta Terra: non il cambiamento climatico, non una pandemia globale, non il terrorismo internazionale o i nuovi nemici dell’America nel Mar Cinese meridionale – ma la Russia.

Il Telegraph 31/12/16: “sistemica, inarrestabile, rapace cyber-minaccia russa alla rete elettrica degli USA, contaminata da un virus trovato sul computer della maggiore compagnia elettrica”

L’Independent 13/12/16:”Con grande probabilità la Russia ha interferito con il referendum sulla Brexit”

L’Express 15/01/17: “I russi stanno costringendo la RAF ad annullare le sue missioni in Siria hackerando i suoi sistemi informatici”

Il Guardian 14/01/17:”Politici britannici di lungo corso, bersaglio di una campagna di fango del Cremlino”

In tutti questi pezzi giornalistici, e ce ne sono parecchi altri, non viene citato un singolo frammento di prova concreta oltre il sentito dire. Nel caso della storia dell’Express, si tratta di asserzioni che vengono corroborate con la frase: “E’ del tutto plausibile che la Russia possa aver mirato ai Tornado e ai Typhoons in questo modo” ha detto l’esperto di difesa aerea Justin Bronk del think-tank Royal United Service Institute.

Questa non è una prova.

Nel caso del Telegraph, questa favoletta è stata smascherata come pura propaganda al 100% e il pezzo originale del Washington Post finiva con una totale richiesta di scuse del suo editore. Il Telegraph non ha riportato questa aggiunta o richiesta di scuse per il suo articolo totalmente falso.

Il titolo del Guardian è pura disinformazione dal momento che il suo unico elemento di prova è un deputato (Chris Bryant) che spiegava che il futuro Ministro degli Esteri non avrebbe potuto trattare apertamente la questione (degli hacker russi) per le sue caratteristiche di segretezza e diceva: “Qualsiasi ministro che si insedi al Foreign Office è abbia responsabilità per la Russia, (Mosca) cercherà di mettere insieme in ogni modo informazioni su di lui”. Come per rafforzare la “prova” Bryant ha detto di essere “assolutamente certo che Boris Johnson, Liam Fox, Alan Duncan che hanno il dossier Russia, e [il segretario alla Brexit] David Davis sono assolutamente tenuti d’occhio”. Questa non è una prova.

La cosa divertente è questa; la storia potrebbe essere vera e molto probabilmente lo è, e allora?

Nell’ottobre 2015, il servizio segreto britannico ha confermato di tenere sotto osservazione i deputati britannici e all’epoca fu concessa l’immunità legale quando venne interpellato. Si apprese che le comunicazioni dei deputati non erano protette dallo spionaggio dei servizi segreti. Questo caso venne in evidenza perché la deputata verde Caroline Lucas, la Baronessa Jenny Jones e l’ex deputato George Galloway, dimostrarono con le rivelazioni di Edward Snowden che le comunicazioni dei deputati erano spiate dal GCHQ [Govenment Communication HeadQuarter, n.d.r. Quartier generale del governo per le comunicazioni, con sede a Cheltenham: è l’agenzia governativa britannica che si occupa della sicurezza, dello spionaggio e controspionaggio, nell’ambito delle comunicazioni], nonostante le leggi ne tutelassero la segretezza.

Più o meno nello stesso tempo scoprimmo che un noto pedofilo gestiva una guardiola messa su dal GCHQ per le proprie osservazioni ed il monitoraggio di importanti “bersagli” politici, per esempio i nostri stessi deputati ed altre figure pubbliche.

Nello passato 1983 Margaret Thatcher utilizzò l’ultimo e più avanzato sistema di sorveglianza denominato “Echelon” (Leggi:  Echelon – The Start of Britain’s Modern Day Spying Operations) per spiare i Ministri del Governo. Era un progetto americano ed era il primo maggiore sistema di spionaggio che utilizzava satelliti e sistemi informatici per spiare in tutto il globo. Certamente Echelon era stato originariamente creato negli anni 60 per monitorare le comunicazioni militari e diplomatiche dell’URSS e degli alleati del blocco orientale durante la guerra fredda dalla Gran Bretagna e dagli USA. Tutti i dati venivano condivisi con gli americani che – in qualsiasi modo vogliate vederlo, è comunque un governo straniero.

L’Agenzia di Sicurezza Nazionale americana ha spiato le conversazioni telefoniche di 35 leaders del mondo secondo un’altra notizia fatta trapelare da Snowden tre anni or sono. Il tedesco Spiegel ha riferito nel 2014 che “documentazione ci dice che il GCHQ britannico ha segnalato che servizi segreti hanno individuato politici europei, tedeschi e israeliani per spiarli”. Era così sospetto per i britannici che la cancelliera Merkel annunciasse un’offensiva di controspionaggio per mettere un freno allo spionaggio su grande scala condotto dalla NSA degli USA e dalla sua controparte britannica, il GCHQ. Oggi viene riferito da IntelNews the le “divergenze tra i servizi segreti tedeschi e britannici, che iniziarono nello stesso momento nel 2014, assertivamente continuano a persistere” ed oggi costituiscono “la più grande incrinatura tra questi due servizi che ci sia mai stata dopo la seconda guerra mondiale”.

Solo sei mesi fa scoprimmo che GCHQ e la NSA spiano d’abitudine le mail dei politici britannici, che includevano corrispondenza coperta da riservatezza tra parlamentari e loro elettori e prima di ciò, documenti interni del MI5, del MI6 e del GCHQ rivelano l’intercettazione usuale delle comunicazioni legalmente protette. Le informazioni ottenute furono raccolte illegalmente per essere usate dai servizi nelle controversie legali nei quali essi stessi furono coinvolti.

In modo divertente, abbiamo recentemente scoperto solo l’altra settimana che lo staff dell’ambasciata di Israele, quasi certamente membri del Mossad, “collaboravano con attivisti politici di lungo corso dei partiti laburista e conservatore per rovesciare i loro stessi partiti dall’interno, e distorcere la politica estera britannica più in favore di Israele che degli interessi britannici”.

Se la Russia non avesse spiato i nostri parlamentari, sarebbero stati gli unici che non l’avessero fatto. Nessuno si fida di nessuno. Lo spionaggio è una notizia vecchia e totalmente prevedibile. Noi siamo TUTTI spiati al giorno d’oggi.

La stampa britannica è complice in questa sconsiderata retorica progettata per instillare il terrore nella popolazione con una pericolosa propaganda che può facilmente condurre a tensioni così pericolose da far nascere una vera guerra. Anche se l’America è schierata nell’Europa continentale e nell’Oceano Atlantico, la Gran bretagna può essere utilizzata come una pedina da sacrificare sulla scacchiera internazionale dove il vincitore si prende tutto. Noi non abbiamo nessuna relazione speciale, non ce n’è mai stata una, ed una stampa irresponsabile, diventando un portavoce che innalza le tensioni tra USA/NATO e Russia si pone assolutamente contro gli interessi e la sicurezza nazionale britannica.

Come metteva in luce in modo allarmante l’articolo dello scorso Ottobre a firma di Laurence Krauss (Presidente del comitato di sostegno del Bullettin of Atomic Scientists) “Trump ha detto che terrà in considerazione di utilizzare le armi atomiche contro l’ISIS ed ha suggerito che sarebbe un bene per il mondo se il Giappone, la Corea del Sud e l’Arabia Saudita acquistassero armamenti nucleari”. Trump potrebbe essere uno degli individui più pericolosi per la pace mondiale – chissà!

Chiuso l’argomento Trump, Krauss va oltre dicendo che: “In generale, durante la presidenza Obama, noi abbiamo aumentato il nostro pericoloso abbraccio con le armi nucleari. Al momento, circa un migliaio di testate nucleari sono ancora armate e pronte all’uso immediato; come lo erano durante la guerra fredda sono pronte per essere lanciate in pochi minuti in risposta ad un avvertimento di attacco imminente”.

Chi è colui che sano di mente possa sopportare ancora questa pazzia?

La fonte originale di questo articolo è  TruePublica

Fonte: agenzia direAutore: giorgio frasca polara “Le bombe italiane che uccidono in Yemen. Il governo risponda”. Intervento di Giorgio Frasca Polara

Tremila bombe d’aereo stipate in diciotto container sono partite in gran segreto, prima di Natale, dal porto canale di Cagliari a bordo di un mercantile diretto a Riyadh: riforniranno i bombardieri della Royal Saudi Air Force nelle loro missioni criminali contro lo Yemen.È l’ennesimo carico di morte che parte dall’Italia in violazione di tutte le norme internazionali. La novità dunque non è costituita dalla fabbricazione in Italia delle bombe e di altri terribili armamenti destinati all’Arabia Saudita, né dall’oramai sistematico avallo del nostro governo a questa infamia (di questo abbiam parlato più volte, nei mesi scorsi). Ma la novità, in questo caso, sta nell’entità del carico: senza precedenti nelle dimensioni e, per la prima volta, nel tentativo di tenere celata l’operazione ricorrendo all’antiterrorismo, alla Finanza e persino ai vigili del fuoco per circondare e mettere in sicurezza l’area del porto canale destinata all’approvvigionamento della Ro-Ro Cargo Ship “Bahir Tabuk”.

Allora bisogna anzitutto ricapitolare i termini di questo impressionante apporto italiano ad una delle più impressionanti, feroci e misconosciute guerra che si combattono – ad armi impari – nel Medio Oriente. Sono anni, oramai, che il nostro Paese fa da pozzo senza fondo alle esigenze militari di Riyadh. Un fornitore fisso è una azienda del gruppo tedesco Rheinmetall. Ma la Germania si guarda bene dall’agire in prima persona dopo aver denunciato il regime saudita anche in seguito al conflitto con lo Yemen e alle gravi violazioni dei diritti umani nel paese. E allora affida la produzione delle bombe aeree (il micidiale tipo MK80) a una azienda sì del proprio gruppo ma ufficialmente italiana, la Rwm-Italia, con sede legale a Ghedi (Brescia) e fabbrica a Domusnovas, in Sardegna.

Già, ma per fabbricare ed esportare ordigni micidiali come questi ci vogliono fior di autorizzazioni, nevvero? Ebbene, proprio mentre Obama, tra gli ultimi atti della sua amministrazione, decideva di sospendere l’invio in Arabia Saudita non solo di bombe aeree ma anche di munizionamento di precisione per un valore di centinaia di migliaia di dollari, l’Unità per le autorizzazioni di materiale d’armamento (UAMA) rilasciava l’ennesima licenza di esportazione, e lo faceva senza neppure l’alibi della già famigerata triangolazione: spedisco a un paese non belligerante, e poi a chi rispedisce le bombe non m’interessa. No, la licenza viene rilasciata direttamente a chi userà gli ordigni per mietere vittime soprattutto tra civili inermi.

Né l’UAMA è un ufficietto sterile. È una vera centrale strategica, una potenza politica e operativa di primissimo ordine: fa capo al ministero degli Esteri (più precisamente al gabinetto del ministro) ma nel percorso per il rilascio delle licenze incidono i pareri vincolanti di altri tre dicasteri: Economia, Interni e soprattutto Difesa. E i ministri, in prima persona (gli unici con poteri di firma per le decisioni dell’Unità), sanno bene che le esportazioni di armamenti sono vietate – legge n.185 del 1990 – non solo verso le nazioni sotto embargo internazionale ma anche verso quelle in stato di conflitto armato e la cui politica contrasti con i principi dell’art. 11 della Costituzione. Non a caso la Rete italiana per il disarmo ha espresso e continua ad esprimere la forte preoccupazione dei tanti organismi che rappresenta per il crescente supporto di diversi dicasteri alle industrie militari italiane che producono ed esportano armamenti.

Sarà un caso che, in questo clima, l’Arabia Saudita abbia ricevuto da Fincantieri – c’è una interrogazione che giace, senza risposta, alla Camera – proposte per l’acquisto di nuove navi militari tra cui alcune corvette e fregate? E sarà un caso che l’offerta sia giunta poche settimane dopo la visita a Riyadh (nell’ottobre scorso) della ministra della Difesa Roberta Pinotti, che si era incontrata con il suo omologo saudita, il vice principe ereditario Mohammed bin Salman bin Abdulaziz, proprio in vista di nuovi accordi navali nel settore militare?

Non è sicuramente casuale invece, ma tutto da chiarire, il rigoroso (e segretissimo: un segreto di Pulcinella) accerchiamento interforze di un ampio settore del porto canale di Cagliari quando si è trattato prima di fare abbordare la nave saudita, poi di trasferire i diciassette container sulla banchina, e infine di caricare i tremila micidiali ordigni sulla Bahri Tabuk. La nave era in rada già dal giorno prima, in attesa del via. Porto circondato da uomini dell’antiterrorismo e da pattugliamenti costanti. Quindi alle 5,48 dell’8 dicembre la nave della morte è entrata in porto e per lunghe ore sono andate avanti le operazioni di carico. Appena concluse, la porta-container ha ripreso il largo diretta al Canale di Suez per raggiungere lo scalo saudita.

Insomma, un blitz pianificato in ogni dettaglio e autorizzato (questo termine è francamente troppo blando) dagli organi più alti e delicati della nostra struttura politico-statuale. Una struttura che non solo “copre” le magagne affaristiche della Germania ma osa ignorare anche i molteplici pronunciamenti di condanna dell’Onu per l’aggressione saudita allo Yemen.

C’è da chiedersi il perché di cotanta e insolita mobilitazione guerresca. Che cosa – a parte la vergogna dell’operazione in sé – si temeva potesse accadere? Nulla è successo né poteva accadere. Piuttosto, ben più allarmante è un altro pericolo: che l’Italia e la Sardegna in particolare possano essere bersaglio di criminali rappresaglie del terrorismo per questi infami traffici e per le scandalose coperture che ad essi danno il governo e in particolare i ministri personalmente coinvolti nell’UAMA.

Ed è assai grave che, dopo le prime, clamorose rivelazioni di Famiglia Cristiana su questa vicenda; dopo la campagna di denunce in cui si è impegnata ytali; e dopo una sfilza di interrogazioni e interpellanze di molti gruppi alla Camera e in Senato, non un presidente del Consiglio e non un ministro dei quattro chiamati ripetutamente in causa, si sia degnato di rispondere non con generiche “giustificazioni” ma con argomentazioni di merito. Già, e come farebbero a spiegare ed argomentare un disegno così sfacciato di delittuose complicità belliciste?

L’Italia si dota della Legge per la guerra di Sergio Cararo | contropiano.org


Piuttosto in sordina, il 31 dicembre scorso è entrata in vigore la Legge quadro sulle missioni militari all’estero. La legge era già stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale fin dal 1̊ agosto; ma ne era stata rimandata l’attuazione a fine anno, tranne che per la disposizione all’integrazione del Copasir, cioè dell’organismo di controllo sulle attività dei servizi segreti (venuto fuori come problema in occasione delle “missioni coperte” in Libia), anche se valido solo per la legislatura in corso.

L’Italia si è così dotata di una legge organica dello Stato per l’invio di contingenti militari all’estero che dovrebbe azzerare le contraddizioni di incostituzionalità sul ricorso alle azioni militari contro, verso o in altri paesi vincolate al rispetto dell’art.11. Infatti il nostro ordinamento fino ad oggi prevedeva solo la disciplina della “guerra”. Ma lo stato di guerra deve essere deliberato dalle Camere, che conferiscono al Governo i poteri necessari (art. 78 Cost.), mentre la dichiarazione di guerra è prerogativa del Presidente della Repubblica (art. 87, 9° comma). ll tutto nei limiti sanciti dall’art. 11 Cost., che vieta la guerra di aggressione e consente l’uso della violenza bellica solo in ipotesi ben determinate (la difesa).

La storia di questi ultimi venticinque anni, con numerose operazioni militari all’estero e il coinvolgimento dell’Italia in teatri di guerra (Iraq, Afghanistan, Jugoslavia ma anche Somalia, Libano etc.), ha reso inevitabile una legge organica che legittimasse sul piano legale la partecipazione dei militari italiani a guerre e operazioni militari in altri paesi.

La Legge individua la tipologia di missioni, i principi generali da osservare e detta disposizioni circa il procedimento da seguire. La newsletter Affari Internazionali ne offre una sintesi molto utile:

a) Le missioni militari all’estero, sia di peace-keeping che di peace-emforcement, sono in primo luogo quelle con il mandato delle Nazioni Unite, ma aadesso lo sono anche quelle istituite nell’ambito delle organizzazioni internazionali di cui l’Italia è membro, comprese quelle dell’Unione Europea;

2) La Nato non è menzionata espressamente, ma è automaticamente inclusa. La Legge poi si riferisce anche alle missioni istituite nelle coalition of willing, cioè coalizione create su una crisi specifica sulla base di decisioni unilaterali dei paesi che vi aderiscono, infine si riferisce alle missioni “finalizzate ad eccezionali interventi umanitari”.

3) La Legge specifica che l’invio di militari fuori dal territorio nazionale può avvenire in ottemperanza di obblighi di alleanze, o in base ad accordi internazionali o intergovernativi, o per eccezionali interventi umanitari, purché l’impiego avvenga nel rispetto della legalità internazionale e delle disposizioni e finalità costituzionali (che a questo punto vengono aggirate dalla legge stessa)

“Resterebbe da chiarire il significato di accordi intergovernativi e come questi si differenzino dagli accordi internazionali. Si tratta di accordi sottoscritti dall’esecutivo o addirittura di accordi segreti?” si interroga Affari Internazionali. “In parte tali dubbi dovrebbero essere fugati dai paletti volti a scongiurare una deriva interventista. Le missioni devono avvenire nel quadro del rispetto: a) dei principi stabiliti dall’art. 11 Cost., b) del diritto internazionale generale, c) del diritto internazionale umanitario, d) del diritto penale internazionale”.

Quanto al procedimento per la partecipazione alle missioni internazionali, viene reso centrale il ruolo del Parlamento, razionalizzando una prassi, qualche volta in verità disattesa, che faceva precedere l’invio del contingente militare all’estero da una discussione parlamentare. Ma spesso la ratifica parlamentare avveniva a posteriori, in occasione della conversione in legge del decreto-legge (DL) di finanziamento della missione.

L’iter disegnato dalla L. 145/2016 è il seguente: la partecipazione alle missioni militari è deliberata dal Consiglio dei ministri, Cdm, previa comunicazione al Presidente della Repubblica ed eventuale convocazione del Consiglio supremo di difesa.

La Legge quadro mette mano anche ad un’altra spinosa questione, ossia se ai militari impegnati nelle missioni debba essere applicato il codice penale militare di pace o il codice penale militare di guerra. Anche la soluzione indicata lascia aperta tutte le strade. La nuova legge dispone che sia applicabile il codice penale militare di pace, ma il governo potrebbe deliberare l’applicabilità di quello di guerra per una specifica missione. In tal caso è però necessario un provvedimento legislativo e il governo deve presentare al Parlamento un apposito disegno di legge.

E’ dalla partecipazione alla prima Guerra del Golfo (1991) che si pone il problema di conformare la legislazione italiana al ripetuto ricorso alla guerra “nella risoluzione delle controversie internazionali” che di volta in volta è stata mascherata con acronimi sempre più improbabili: operazione di polizia internazionale, guerra umanitaria, protezione di civili, difesa preventiva etc. etc. Operazioni militari che hanno visto negli anni migliaia e migliaia di soldati italiani prendere parte a guerre in altri paesi e miliardi di euro spesi per parteciparvi. Quando le furberie sulla guerra diventano una Legge organica dello Stato, vuole dire che il punto di non ritorno si è avvicinato ancora di un altra spanna.

Carri armati Usa schierati in Polonia di Manlio Dinucci | ilmanifesto.info


Il 12 gennaio, due giorni dopo il suo discorso di addio, il presidente Obama ha dato il via al più grande schieramento di forze terrestri nell’Europa orientale dalla fine della guerra fredda: un lungo convoglio di carrarmati e altri veicoli corazzati statunitensi, proveniente dalla Germania, è entrato in Polonia.

È la 3a Brigata corazzata, trasferita in Europa da Fort Carson in Colorado: composta da circa 4.000 uomini, 87 carrarmati, 18 obici semoventi, 144 veicoli da combattimento Bradley e centinaia di Humvees. L’intero armamento viene trasportato in Polonia sia su strada, sia con 900 carri ferroviari. Alla cerimonia di benvenuto svoltasi nella città polacca di Zagan, l’ambasciatore Usa Jones ha detto che «man mano che cresce la minaccia, cresce lo spiegamento militare Usa in Europa».

Quale sia la «minaccia» lo ha chiarito il generale Curtis Scaparrotti, capo del Comando europeo degli Stati uniti e allo stesso tempo Comandante supremo alleato in Europa: «Le nostre forze sono pronte e posizionate nel caso ce ne fosse bisogno per contrastare l’aggressione russa». La 3a Brigata corazzata resterà in una base presso Zagan per nove mesi, fino a quando sarà rimpiazzata da un’altra unità trasferita dagli Usa.

Attraverso tale rotazione, forze corazzate statunitensi saranno permanentemente dislocate in territorio polacco. Da qui, loro reparti saranno trasferiti, per addestramento ed esercitazioni, in altri paesi dell’Est, soprattutto Estonia, Lettonia, Lituania, Bulgaria, Romania e probabilmente anche Ucraina, ossia saranno continuamente dislocati a ridosso della Russia.

Un secondo contingente Usa sarà posizionato il prossimo aprile nella Polonia orientale, nel cosiddetto «Suwalki Gap», un tratto di terreno piatto lungo un centinaio di chilometri che, avverte la Nato, «sarebbe un varco perfetto per i carrarmati russi». Viene così riesumato l’armamentario propagandistico Usa/Nato della vecchia guerra fredda: quello dei carrarmati russi pronti a invadere l’Europa. Agitando lo spettro di una inesistente minaccia da Est, in Europa arrivano invece i carrarmati statunitensi.

La 3a Brigata corazzata si aggiunge alle forze aeree e navali già schierate dagli Usa in Europa nell’operazione «Atlantic Resolve», per «rassicurare gli alleati Nato e i partner di fronte all’aggressione russa». Operazione che Washington ha lanciato nel 2014, dopo aver volutamente provocato col putsch di Piazza Maidan un nuovo confronto con la Russia. Strategia di cui Hillary Clinton è stata principale artefice nell’amministrazione Obama, mirante a spezzare i rapporti economici e politici della Russia con l’Unione europea dannosi per gli interessi statunitensi. Nella escalation anti-Russia, la Polonia svolge un ruolo centrale.

Per questo essa riceverà tra breve dagli Usa missili da crociera a lungo raggio, con capacità penetranti anti-bunker, armabili anche di testate nucleari.

Ed è già in costruzione in Polonia una installazione terrestre del sistema missilistico Aegis degli Stati uniti, analoga a quella già entrata in funzione a Deveselu in Romania. Anch’essa dotata del sistema Mk 41 della Lockheed Martin, in grado di lanciare non solo missili anti-missile, ma anche missili da crociera armabili con testate nucleari.

A Varsavia e nelle altre capitali dell’Est – scrive il New York Times – vi è però «forte preoccupazione» circa un possibile accordo del repubblicano Trump con Mosca che «minerebbe l’intero sforzo».
Un incubo tormenta i governanti dell’Est che basano le loro fortune sull’ostilità alla Russia: quello che se ne tornino a casa i carrarmati inviati dal democratico Obama.

Solidarietà e rinnovati sforzi in difesa della pace da. resistenze.org


Consiglio Mondiale della Pace | wpc-in.org
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

25/12/2016

Il 2016 è stato un anno pieno di minacce ed aggressioni contro i popoli. Ma è stato anche un anno di rinnovato impegno, mobilitazione e speranza nella lotta per un mondo diverso più equo e fondato sulla solidarietà, sull’amicizia e sulla cooperazione tra i popoli. Colpi di stato, guerre, aggressioni, invasioni, sanzioni e la crescente militarizzazione del pianeta sono solo alcuni tra gli strumenti delle forze imperialiste nell’attuazione della loro agenda per il dominio del mondo per assicurare i loro interessi. Essi sono la causa del caos e delle crisi umanitarie, della devastazione dei territori, dell’umiliazione della sovranità nazionale e dei diritti dei popoli, nonché della violazione delle leggi internazionali.

Noi siamo dalla parte dei principi fondamentali della Carta delle Nazioni Unite e degli strumenti a tutela della sovranità delle nazioni, dei diritti umani, del diritto alla pace, alla giustizia sociale ed allo sviluppo.

Mentre continuiamo a batterci per la fine degli armamenti nucleari e delle guerre di aggressione, contro la povertà e l’offensiva diretta nei confronti dei diritti dei lavoratori e dei popoli, i grandi potenti del mondo spendono miliardi di dollari nelle industrie della guerra, nella modernizzazione delle armi nucleari e nella promozione di una paranoia securitaria che serve ad invadere paesi e mettere sotto attacco i diritti civili e politici in tutto il mondo in una crisi internazionale e sistemica che ci rigetta nel passato e ci rapina delle nostre conquiste.

Ma i popoli resistono!

La mobilitazione di forze progressiste ed amiche della pace si sta intensificando. Durante l’Assemblea Mondiale della Pace, tenutasi a Novembre in Brasile, abbiamo adottato risoluzioni ed impegni ad agire che verranno consolidati nella solidarietà tra i popoli nella lotta per la pace. Insieme alle organizzazioni democratiche, popolari e patriottiche ed alle forze progressiste, faremo passi avanti contro l’offensiva imperialista, reazionaria e conservatrice in tutto il pianeta, per evitare le guerre e conquistare un mondo più equo, costruendo un ordine internazionale basato sulla Pace, sul rispetto tra le nazioni, sull’amicizia e la solidarietà tra i popoli.

Nel 2017, le nostre azioni e risoluzioni mostreranno ancora una volta che possiamo insieme sconfiggere le forze del regresso e della guerra facendo avanzare la lotta per la pace. L’imperialismo non è invincibile e, insieme, lo vinceremo. Per un nuovo anno di pace e solidarietà tra i popoli.

Socorro Gomes
Presidente del Consiglio Mondiale della Pace

Fonte: il manifestoAutore: Zvi Schuldiner Stragi. Ma Gerusalemme non è Nizza né Berlino

Un camion guidato da un palestinese diventa strumento di morte e uccide quattro giovani reclute che partecipavano a un corso di formazione militare a Gerusalemme, in un luogo particolarmente bello della città, non lontano da Zur Baher: villaggio palestinese diventato, a partire dal 1967, sobborgo in una città teoricamente unificata ma in realtà profondamente divisa.Fadi al-Kanbar, palestinese di 28 anni, padre di quattro figli, era camionista; i vicini dicono che non svolgeva attività politica; in serata il Fronte popolare l’ha indicato come uno dei suoi membri, ma la famiglia ha smentito: secondo la sorella, ha deciso di sacrificarsi perché «così aveva deciso dio, e a dio va resa grazia».

Nizza. Berlino. I camion. Anche qui un camion. In Europa è stato Daesh, il sedicente Stato islamico. Il suo nuovo sistema? Dimentichiamo che qui lo hanno inventato prima e che già in vari casi, proprio negli ultimi anni, automobili, trattori e altri veicoli sono diventati un’arma mortale. Ma l’associazione mentale con l’Europa è quasi immediata; perché allora ricordare che il sistema è piuttosto diffuso, qui?
Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, in generale evita di recarsi sui luoghi che hanno registrato attentati. Siccome ha promesso sicurezza e lo sradicamento del terrorismo, in genere è meglio per lui evitare…ma stavolta è andato. Guardacaso, proprio mentre era di certo preoccupato per le accuse e le indagini che lo riguardano direttamente. Diversi e problematici casi di corruzione erano infatti la notizia centrale e più piccante nel paese, finché appunto non è avvenuto l’attacco.

Per ore e ore, tutte le versioni dei diversi organi di sicurezza hanno ripetuto che non si sapeva niente dei motivi né dell’identità politica dell’attentatore. Ma già pochi minuti dopo l’arrivo di Netanyahu, ecco che viene diffusa una versione davvero di peso: l’omicida ha usato un sistema tipico di Daesh e quindi di certo era un attivista o simpatizzante di quest’organizzazione.

Netanyahu è un grande maestro nell’arte della propaganda. L’attacco è stato ispirato da Daesh, forse ordinato da Daesh, eseguito apparentemente da un militante o simpatizzante del califfato: si spera che il mondo reagisca come è suo dovere! Nella notte, il Consiglio di sicurezza Onu ha condannato con forza l’assassinio dei soldati. Il messaggio è chiarissimo: è Daesh, islam, terrorismo. Non sono le cose di cui tratta il Consiglio di sicurezza Onu quando discute degli insediamenti. Quelli non sono il problema. Il problema è il terrore.

Il messaggio, per gli israeliani e la comunità internazionale, è chiaro. Gli israeliani devono smettere di discutere di stupidaggini, come le presunte faccende di corruzione. Il sentimento di paura deve aumentare. Più paura significa più destra, più terrore di Stato da parte di Israele. Terrore «giustificato»: distruggeremo la casa dei suoi familiari, li priveremo dei diritti che avevano come abitanti di Gerusalemme, puniremo la popolazione di Zur Baher perché capisca qual è il prezzo che si paga per il terrore.

La comunità internazionale riceve un messaggio analogo, che cade sul terreno fertile dell’odio antislamico alimentato dalle destre in Germania, Francia, Italia, Ungheria, alla fine in tutta Europa. L’islamofobia è all’ordine del giorno anche negli Stati uniti. Per tutti questi, va bene il messaggio di Netanyahu il quale, in sintesi, dice che siamo tutti sullo stesso fronte: mondo civile contro islam criminale.
Così, la questione palestinese non si pone se non in manifestazioni marginali. Tutti – «tutti» vuol dire gli europei e gli israeliani – debbono capire che il terrorismo è la questione essenziale a livello mondiale e che un fronte unito deve essere il miglior rimedio per combattere l’islam. Grazie all’islam e al terrore è possibile far dimenticare che la questione centrale è un’altra.

È possibile che Fadi al-Kanbar fosse un fanatico islamico, magari impressionato dall’efficacia criminale dei camion a Nizza e Berlino. Ma a Gerusalemme, l’unificata, la divisa, l’odio rende l’aria irrespirabile, perché il conflitto israelo-palestinese continua ad aggravarsi. La repressione cresce giorno per giorno ed è sempre più forte la sensazione che manchi un orizzonte di miglioramento. Disperazione, paura e odio producono i loro effetti.

Milioni di palestinesi sprovvisti di diritti umani e politici, privati della nazionalità, perdono ogni speranza di un futuro migliore, in una situazione che peggiora a vista d’occhio. Il risultato è molto semplice e tragico e continuerà a far pagare un prezzo che potrebbe crescere, in termini di sangue, mentre al tempo stesso la società perde gli ultimi freni democratici e precipita in una realtà di repressione crescente.

Questa è l’essenza del problema, ed è auspicabile che le forze liberali e favorevoli alla pace si dissocino con forza da un nuovo tentativo di alimentare l’islamofobia dimenticando la necessità di trovare formule che portino alla pace e permettano l’attuazione concreta di diritti umani e politici. Anche per il popolo palestinese.

Attacco terroristico ad Istambul http://www.rainews.it/…/strage-istanbul-capodanno-premier-n…

 

MONDO Tra le vittime 28 stranieri. Oltre 60 feriti Attacco terroristico in una discoteca di Istanbul, 39 morti Assalto al Reina club. Tv di Modena: gruppo di italiani scampato a strage. Erdogan: “Attentato punta a seminare il caos”. Premier: “Killer non era travestito da Babbo Natale”. Ricercato l’attentatore Tweet Bombe contro la polizia allo stadio di Istanbul: 29 morti e 166 feriti Dopo Istanbul, Obama promette di intensificare la lotta all’Isis Istanbul: una testimone a Rainews: “Sparavano due o tre persone” Istanbul, i soccorsi ai sopravvissuti Attentato a Istanbul, 69 feriti 01 gennaio 2017 Terrore e sangue a Istanbul nella notte di Capodanno, con raffiche di spari in una discoteca, l’esclusivo Reina club del quartiere di Besiktas, intorno all’1.30 ora locale. Seicento persone erano presenti nel locale per i festeggiamenti. Un pesante bilancio di vittime e feriti Sono almeno 39 i morti ed oltre 60 i feriti nell’attentato, 28 gli stranieri uccisi. Secondo Ntv, 35 cadaveri sono stati identificati sinora, 20 dei quali come stranieri: sette dall’Arabia Saudita, quattro dall’Iraq, due dall’India, due dalla Tunisia, uno dalla Siria, uno dal Canada, uno da Israele, uno dal Libano e uno dal Kuwait. Inoltre, tra gli 11 turchi uccisi c’è un cittadino turco-belga, aggiunte Ntv. Non risultano finora italiani coinvolti. Tra le vittime turche, c’è anche una guardia di sicurezza che era sopravissuta il 10 dicembre scorso al duplice attentato dinamitardo al vicino stadio di calcio del Besiktas. Anche tra i feriti ci sono diversi stranieri. Tv Modena: gruppo italiani scampato a strage C’era anche un gruppo di giovani italiani nel nightclub. Lo riporta la tv locale modenese Trc-Telemodena secondo cui la compagnia italiana, che stava festeggiando il Capodanno, è riuscita a scampare alla strage gettandosi a terra quando i primi spari nel locale hanno fatto scattare il panico. Alcuni di loro, secondo la tv, avrebbero riportato solo lievi escoriazioni nella calca. Si tratterebbe di tre modenesi e altri amici di Brescia e Palermo, in Turchia per lavoro. Il killer avrebbe gridato: Allah Akbar Il killer del nightclub Reina di Istanbul ha urlato ‘Allah Akbar’ mentre apriva il fuoco dentro il locale. Lo hanno raccontato alcuni testimoni, secondo quanto riferiscono i media internazionali tra cui il Guardian e Times of Israel. Secondo altri testimoni, molte persone si sarebbero gettate nelle acque dello stretto del Bosforo per tentare di sfuggire al killer. Stando a prime ricostruzioni della dinamica dell’assalto, l’uomo è entrato nella discoteca dopo aver neutralizzato i buttafuori e ha quindi iniziato a sparare a raffica sulle persone, cambiando a più riprese il caricatore del kalashnikov. Alcune immagini, infine, lo mostrerebbero mentre si disfa degli abiti utilizzati per mescolarsi alla folla festante per l’arrivo del nuovo anno. Il premier turco: aggressore ha lasciato arma in discoteca L’autore della strage ha lasciato l’arma nella discoteca Reina. Lo ha reso noto il premier turco Binali Yildirim, aggiungendo che la polizia “ha alcune ipotesi sull’identità dell’aggressore” e “alcuni dettagli sono emersi ma le autorità stanno lavorando per arrivare a un risultato concreto”. Secondo quanto riferito dalla CNNTurk la polizia ha lanciato una operazione in un quartiere vicino vicino a Ortakoy, dove è avvenuta la strage, alla ricerca del sospettato. Inoltre, secondo il premier turco, “non è vero” che l’attentatore era travestito da Babbo Natale”. “L’ho visto uccidere una guardia e una donna” Sotto shock un testimone ventiduenne: “ha preso di mira l’agente di sicurezza e poi ha sparato e l’uomo ed una donna che passava di lì sono caduti a terra”, ha raccontato il ragazzo. L’assassino poi è entrato nel locale. “Una volta entrato, non so cosa sia successo. Si udivano colpi di arma da fuoco e dopo due minuti, il suono di un’esplosione”, ha raccontato il testimone. Un video mostra proiettili che rimbalzano su auto Un filmato di pochi secondi ripreso dall’esterno del Reina di Istanbul da una telecamera di sicurezza, di cattiva qualità, diffuso dalla Cnn, mostra due proiettili che rimbalzano facendo scintille sul tettuccio di un’auto bianca che transita davanti al locale colpito dalla strage terroristica. Subito dopo si vede la figura di una persona vestita di scuro e con cappuccio in testa e che sembra imbracciare un’arma automatica entrare di corsa nel locale. Erdogan: “Vogliono creare caos, non cederemo a sporchi giochi” Il presidente turco Recep Tayyp Erdogan ha detto oggi che il Paese combatterà fino alla fine contro ogni forma di attacco da parte di gruppi terroristici. “Come nazione ci batteremo fino all’ultimo non solo contro gli attentati dei gruppi terroristici e le forze che li sostengono, ma anche contro i loro attacchi economici, politici e sociali”, ha detto Erdogan in una dichiarazione scritta. “Stanno cercando di creare il caos, di demoralizzare la nostra gente e di destabilizzare il Paese con attacchi abominevoli che colpiscono i civili. Noi ci manterremo calmi come nazione, stando ancora più vicini e non cederemo ai loro sporchi giochi”. Pkk: forze curde estranee all’attacco Murat Karayilan, membro del Consiglio Esecutivo del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan, al bando in Turchia) esclude il coinvolgimento di forze curde nell’attacco di Istanbul. Le forze curde “non colpirebbero mai civili innocenti”, ha affermato l’uomo, citato dall’agenzia filo-Pkk Firat che riporta una sua dichiarazione ad un’emittente radiofonica curda. Uomo spara davanti moschea, almeno due feriti Oggi altro allarme ad Istanbul. Due persone sono rimaste ferite in una sparatoria all’esterno di una moschea nella parte settentrionale e nel lato europeo della città turca. La moschea si chiama Hasan Pasha e si trova nel quartiere Algeria. Fonti anonime parlano della nuova sparatoria come di un fatto non collegato alla strage e ipotizzano che all’origine ci sia una lite tra familiari. – See more at:
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