Riforme, Gustavo Zagrebelsky contro il ddl Boschi: “Umilia il Parlamento, è il suicidio assistito della Costituzione” da: redazione, L’Huffington Post

Pubblicato: 08/09/2015 08:31 CEST Aggiornato: 2 ore fa
ZAGREBELSKY

“Le riforme in campo sono tutte orientate all’umiliazione del Parlamento, nella sua prima funzione, la funzione rappresentativa”. Il Presidente emerito della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky lancia dalle pagine del Fatto Quotidiano la sua durissima critica alle riforme istituzionali che riprendono in questi giorni il loro iter parlamentare. Il costituzionalista rivolge un appello ai legislatori affinché correggano il tiro sui cambiamenti della Costituzione che sviliscono il ruolo del Parlamento e depauperano la democrazia.

“Il funzionamento della democrazia è cosa difficile, stretto tra l’inconcludenza e la forza. Chi crede che si tratti di una battaglia che si combatte una volta ogni 5 anni in occasione delle elezioni politiche e che, nell’intervallo, tutto ti è concesso perché sei il Vincitore, si sbaglia di grosso ed è destinato a essere travolto, prima o poi, dal suo orgoglio, o dalla sua ingenuità, mal posti. La prima vittima dell’illusione trionfalistica è il Parlamento. Se pensiamo che si tratti soltanto di garantire l’azione di chi ha vinto le elezioni, il Parlamento deve essere il supporto obbediente di costui o di costoro: deve essere un organo esecutore della volontà del governo. Altrimenti, è non solo inutile, ma anche controproducente”.

Zagrebelsky punta il dito contro quella che definisce la “degradazione del Senato in Camera secondaria”, prevista dalle riforme messe in campo dal Governo Renzi, un caso di “morte pietosa o suicidio assistito nella vita costituzionale”.

“I riformatori costituzionali pensano – spiega Zagrebelsky – a eliminare un contrappeso politico, ad accelerare i tempi. Non riuscendo a eliminare, puramente e semplicemente, un organo, che così come è si ritiene inutile, anzi dannoso, si sono persi in un marchingegno la cui assurda complicazione strutturale – le modalità di estrazione dei nuovi senatori dalle assemblee locali – e procedimentali – i rapporti con l’altra Camera – verrà alla luce quando se ne dovesse sperimentare il funzionamento”

Secondo il costituzionalista la strada da percorrere era un’altra.

Si poteva prevedere per il Senato, secondo Zagrebelsky “l’elezione per una durata adeguata, superiore a quella ordinaria della Camera dei deputati, e con la regola tassativa della non rieleggibilità, come garanzia d’indipendenza da interessi particolarmente contingenti. A ciò si sarebbero potuti accompagnare requisiti di esperienza, competenza e moralità particolarmente rigorosi, contenuti in regole di incandidabilità, incompatibilità e ineleggibilità misurate sulla natura dei compiti assegnate agli eletti”.

Le riforme e i poteri delle donne da: ndnoidonne

Editoriale della Direttora

La riforma del diritto di famiglia (legge 151) e la legge 405 sui consultori familiari sono state due norme fondamentali nel nostro ordinamento…

Tiziana Bartolini

La riforma del diritto di famiglia (legge 151) e la legge 405 sui consultori familiari sono state due norme fondamentali nel nostro ordinamento per il loro forte impatto innovativo e nel 1975 furono approvate da un Parlamento in cui sedevano venticinque deputate (3,9 %) e sei senatrici (1,9%). Due leggi decisamente a favore delle donne (e dei bambini) che hanno inciso profondamente nella cultura, nell’economia, nelle consuetudini e nei costumi. Infatti non sembrano necessarie revisioni dei loro principi ispiratori, che rimangono di assoluta attualità; mentre occorrono senza dubbio ampliamenti ed estensioni che includano nuovi soggetti e accolgano nuovi diritti. Ed è qui che oggi suonano le dolenti note in un Parlamento che non è ancora ‘pronto’ a legiferare sulle unioni diverse dal matrimonio naturale. Le convivenze omosessuali e le coppie di fatto possono attendere, con buona pace della sentenza della Corte europea dei diritti umani che ha condannato l’Italia per la violazione dei diritti di tre coppie omosessuali.

Quaranta anni fa furono soprattutto Nilde Iotti, Giglia Tedesco, Franca Falcucci e Maria Eletta Martini – due comuniste e due cattoliche – a volere la riforma del diritto di famiglia, un poderoso articolato di duecentoquaranta articoli che hanno radicalmente modificato la posizione della donna rispetto all’uomo cambiando il Codice civile e dando attuazione ad alcuni articoli della Costituzione.
I movimenti e la determinazione delle donne sostennero le poche ma autorevoli elette, alleanza che ha travolto le resistenze di un Parlamento quasi esclusivamente maschile costretto ad approvare un provvedimento che toglieva grande potere agli uomini. Sfogliando NOIDONNE di quegli anni si può rivivere il clima in cui quella riforma maturò.

La partecipazione alla vita politica era diffusa e il dibattito, come le polemiche aspre, si nutrivano del rispetto e del riconoscimento reciproco tra i decisori politici e gli attivisti dei partiti e della società civile. Era una sintonia che abbiamo smarrito e che sarebbe utile ricordare. Le grandi riforme non furono determinate dai sondaggi settimanali o dagli umori temporanei, ma dalla lungimiranza e dalla capacità di giocare un ruolo consapevolmente dirigente. E ciascun attore sociale si sentiva chiamato a fare la sua parte. Le parlamentari erano interlocutrici di altre donne che portavano istanze concrete destinate ad incidere nella vita di milioni di persone. Era un paese vivo e organizzato quello che premeva, proponeva e otteneva ascolto.
I quaranta anni di una legge importante come la riforma del diritto di famiglia possono essere occasione per ricordare (insieme a chi c’era) e per spiegare (a chi non c’era) i tanti aspetti del come eravamo. Abbiamo preso spunto da un incontro lodevolmente organizzato sul tema a Roma dall’Udi Monteverde, per avviare questa riflessione nel focus del mese. Dai contributi raccolti arriva la conferma che la possibilità di riprendere il filo di un discorso politico condiviso è affidata al buon senso delle donne. E, particolare non trascurabile, ai tanti poteri che in questi decenni le donne hanno conquistato.

| 31 Agosto 2015

Disegno di legge su “La Buona Scuola”: la Giannini convoca i sindacati di Pantaleo da: Federazione Lavoratori della Conoscenza CGIL.

Federazione Lavoratori della Conoscenza CGIL.

20/05/2015

Il disegno di legge approvato oggi dal Parlamento disegna una scuola brutta e autoritaria che nega i diritti e la libertà a chi vive nella scuola. Gli emendamenti approvati, frutto dello sciopero del 5 Maggio e delle mobilitazioni di questi giorni, non cambiano la sostanza di contenuti inaccettabili. Renzi e il suo Governo non hanno il consenso di docenti, personale ATA, studenti, famiglie e degli stessi dirigenti scolastici. E’ evidente larottura con il mondo della scuola e con il Paese, da non addebitare ad un difetto di comunicazione ma a dei contenuti di un provvedimento che non affronta i problemi reali della scuola pubblica.

Anche oggi in tantissime piazze del Paese si è contestato il disegno di legge della brutta scuola ma il Governo e la maggioranza sono allergici alle contestazioni e ritengono di essere gli unici detentori della verità.

Hanno imposto la sola logica dei numeri per trasformare le scuole in luoghi simili alle aziendecalpestando la Costituzione. La scuola non è dei sindacati ma nemmeno proprietà del Governo e della maggioranza che lo sostiene.

Nel passaggio al senato chiediamo radicali modifiche che partano da un piano pluriennale di stabilizzazione per tutti i precari, alla eliminazione del vincolo futuro dei 36 mesi per le supplenze, alla cancellazione e riscrittura  del capitolo sui poteri e le funzioni dei dirigenti scolastici, alla ulteriore riduzione delle deleghe in bianco, al prevedere la priorità dei finanziamenti alle scuole statali a fronte dell’evidente difficoltà a garantire il loro normale funzionamento, al cancellare tutte le incursioni legislative sulla contrattazione e al definire tempi certi per il rinnovo del contratto nazionale.

La Ministra Giannini nell’incontro di lunedì dovrà chiarire quali sono le reali volontà del Governo su questi punti. La mobilitazione non si fermerà fino a quando non ci saranno cambiamenti radicali e concret

Il voto pro-Palestina del Parlamento europeo. Spinelli, Maltese, Forenza: “Atto coraggioso”Autore: fabrizio salvatori da: controlacrisi.org

Il Parlamento di Strasburgo ha approvato ad ampia maggioranza una risoluzione sottoscritta da quasi tutti i gruppi che sostiene “in linea di principio” il riconoscimento dello Stato della Palestina sulla base dei confini del 1967, appoggia la soluzione a due Stati con Gerusalemme capitale e esorta la ripresa dei colloqui di pace. La risoluzione è stata approvata con 498 sì, 88 no e 111 astensioni. Un grande applauso di una larga parte dell’Aula di Strasburgo ha accolto oò voto, secondo molti osservatori storico, a sostegno dello stato della Palestina. In particolare, la risoluzione è stata il frutto della convergenza dei testi presentanti da cinque gruppi, quello del Ppe, del S&D, della sinistra Unita (Gue), dei liberali e dei Verdi, appoggiata anche da alcuni esponenti ‘grillini’ come Massimo Castaldo e Ignazio Corrao.Sul voto di Strasburgo hanno rilasciato una lunga Eleonora Forenza, Maltese e Spinelli, che parla di “un atto politico coraggioso e di grande importanza”. “L’Unione in quanto tale – aggiunge Ferrero – non parla ancora con un’unica voce in politica estera, e riconoscere gli Stati è legalmente prerogativa degli Stati”.

Di positivo, secondo Ferrero, c’è che l’Assemblea dell’Unione “ha forzato abitudini, tempi, pavidità, contro il parere delle destre più gelose delle sovranità assolute degli Stati, e con il suo voto ha affermato di voler esserci e di voler dire la sua parola inequivocabile, su una questione del Medio Oriente che, irrisolta, ha generato lungo i decenni un gran numero di guerre e di morti”. “In quest’ambito – proseguono – il Parlamento non ha esitato a lanciare un messaggio di disapprovazione nei confronti del governo israeliano, che si è adoperato in tutti i modi per evitare che l’Europa uscisse allo scoperto con questa dichiarazione, e si conquistasse un diritto di presenza e di parola politica in materia, seguendo la linea degli Stati dell’Unione che già hanno riconosciuto lo Stato Palestinese. L’Alto Rappresentante Federica Mogherini vedrà fortemente accresciuto il proprio peso e la propria influenza, se vorrà esercitarli, dopo la decisione dei parlamentari riuniti a Strasburgo”.

“Alcuni gruppi politici hanno tentato di dire che la risoluzione approva e legittima lo Stato palestinese a condizione che i negoziati di pace riprendano seriamente e abbiano successo – osservano ancora i tre parlamentari europei -. È un’interpretazione del tutto fallace della mozione approvata. Il riconoscimento «va di pari passo» con i negoziati di pace – questo dice letteralmente il testo – e la condizionalità fortunatamente non c’è”.

Palestina, Prc: Dopo la Gran Bretagna anche il Parlamento Italiano riconosca la Palestina da: rifondazione comunista

Palestina, Prc: Dopo la Gran Bretagna anche il Parlamento Italiano riconosca la Palestina

di Fabio Amato e Paolo Ferrero –

Il voto del Parlamento inglese favorevole al riconoscimento dello stato palestinese è un atto che va imitato.
Il Parlamento italiano segua l’esempio di quello britannico e impegni il governo a riconoscere lo stato palestinese, senza piegarsi alle minacce del governo di estrema destra israeliano, responsabile dei crimini di guerra di Gaza. E’ un atto doveroso, che può contribuire a sbloccare l’inerzia della comunità internazionale e finalmente veder riconosciuto il diritto del popolo palestinese al proprio stato, e a costringere Israele a fermare la sua opera incessante di colonizzazione di Gerusalemme Est e dei territori palestinesi.

L’Italia è in guerra. E aumenta la spesa militare Fonte: Il Manifesto | Autore: Manlio Dinucci

Difesa. Il governo Renzi, scavalcando il Parlamento ma di sicuro in accordo col Presidente della Repubblica, si è solennemente impegnato al Summit Nato nel Galles ad aumentare la spesa militare italianaLa Dichia­ra­zione finale del Sum­mit – arti­co­lata in 113 punti redatti a Washing­ton dopo aver con­sul­tato al mas­simo i prin­ci­pali alleati (Gran Bre­ta­gna, Ger­ma­nia, Fran­cia) – impe­gna i 28 mem­bri della Nato, ai punti 14/15, a «inver­tire la ten­denza al declino dei bilanci della difesa».

Ciò per­ché «la nostra sicu­rezza e difesa dipen­dono com­ples­si­va­mente sia da quanto che da come vi spen­diamo». Occor­rono «accre­sciuti inve­sti­menti» per rea­liz­zare «i nostri obiet­tivi prio­ri­tari in ter­mini di capa­cità»: a tal fine «gli Alleati devono dimo­strare la volontà poli­tica di for­nire le capa­cità richie­ste e dispie­gare le forze che sono necessarie».

Per for­nire le capa­cità richie­ste resta «indi­spen­sa­bile una forte indu­stria della difesa in tutta l’Alleanza», soprat­tutto «una più forte indu­stria della difesa in Europa e una accre­scita coo­pe­ra­zione indu­striale attra­verso l’Atlantico: gli sforzi della Nato e della Eu per raf­for­zare le capa­cità della dofesa sono infatti com­ple­men­tari».
Il docu­mento ricorda quindi agli alleati che essi si sono impe­gnati a desti­nare al bilan­cio della difesa come minimo il 2% del loro pro­dotto interno lordo. Finora, oltre agli Usa che inve­stono nel mili­tare il 4,5% del loro pil, hanno rag­giunto la soglia del 2% solo Gran Bre­ta­gna, Gre­cia ed Esto­nia. L’Italia vi destina l’1,2%. Una per­cen­tuale appa­ren­te­mente ridotta, fal­sata dall’ingannevole para­me­tro spesa militare/pil: in realtà, trat­tan­dosi di denaro pub­blico, quella mili­tare va rap­por­tata alla spesa pubblica.

Secondo di dati uffi­ciali rela­tivi al 2013, pub­bli­cati dalla Nato nel feb­braio 2014, l’Italia spende per la «difesa» in media 52 milioni di euro al giorno (avete letto bene!). Tale cifra però, pre­cisa la Nato, non com­prende diverse altre voci.

In realtà, cal­cola il Sipri, la spesa mili­tare ita­liana (all’undicesimo posto su scala mon­diale) ammonta a circa 70 milioni di euro al giorno.

Impe­gnan­dosi a por­tare la spesa mili­tare ita­liana al 2% del pil, il governo Renzi si è impe­gnato a farla salire a oltre 100 milioni al giorno. Qual­cuno potrebbe dire «verba volant».

L’impegno non è però for­male: la Dichia­ra­zione del Sum­mit pre­vede infatti che «gli Alleati veri­fi­che­ranno annual­mente i pro­gressi com­piuti sul piano nazio­nale» in appo­site riu­nioni dei mini­stri della difesa e nei futuri sum­mit dei capi di stato e di governo.

Tutti gli alleati, infatti, dovranno «assi­cu­rare che le loro forze ter­re­stri, aeree e navali siano con­formi alle diret­tive Nato in mate­ria di dispie­ga­bi­lità e soste­ni­bi­lità» e pos­sano «ope­rare insieme in maniera effi­cace secondo gli stan­dard e le dot­trine Nato».

Ad esem­pio, poi­ché il governo Renzi ha impe­gnato l’Italia (anche qui sca­val­cando il Par­la­mento) a par­te­ci­pare sia allo schie­ra­mento di forze mili­tari nell’Est euro­peo in fun­zione anti-Russia, sia alla coa­li­zione dei dieci paesi che, uffi­cial­mente per com­bat­tere l’Isis, inter­ver­ranno mili­tar­mente in Iraq e Siria, dovrà ovvia­mente essere l’Italia ad assi­cu­rare con ade­guati inve­sti­menti aggiun­tivi la «dispie­ga­bi­lità e soste­ni­bi­lità» delle forze aeree ed altre inviate in quel tea­tro bellico.

Oltre ad aumen­tare la spesa mili­tare, il governo Renzi (sem­pre sca­val­cando il Par­la­mento) si è impe­gnato a man­te­nere forze mili­tari in Afgha­ni­stan e a far parte dei «dona­tori» che for­ni­ranno a Kabul (leggi alla casta domi­nante) un aiuto eco­no­mico di 4 miliardi di dol­lari annui.

Si è impe­gnato allo stesso tempo a par­te­ci­pare a uno spe­ciale fondo di soste­gno per il governo di Kiev, can­di­dato a entrare nella Nato insieme a Geor­gia, Bosnia-Erzegovina, Mon­te­ne­gro e Mace­do­nia, allar­gando ulte­rior­mente l’Alleanza «atlan­tica» ad est.

Que­sti e altri impe­gni, assunti dal governo Renzi al Sum­mit Nato, non solo tra­sci­nano l’Italia in nuove guerre e in un sem­pre più peri­co­loso con­fronto mili­tare con la Rus­sia, ma pro­vo­cano un aumento della spesa mili­tare diretta e indi­retta che sot­trae ulte­riori risorse alla spesa sociale e alla lotta con­tro la disoccupazione.

Che cosa si aspetta a fare di que­sta mate­ria un fronte di lotta poli­tico e sin­da­cale? Che scen­dano in piazza i girotondini?

Costituzione manomessa. Un delitto, tanti autori Fonte: Il Manifesto | Autore: Gaetano Azzariti

Il maggior responsabile è il Governo che ha diretto l’intera operazione senza lasciare nessuno spazio all’autonomia del Parlamento con progressive imposizioni e l’ininterrotta invasività della sua azione che hanno annullato di fatto il ruolo costituzionale del SenatoUn’infinita tri­stezza. È que­sto il sen­ti­mento che pre­vale nel momento in cui si assi­ste alla vota­zione del Senato sulla modi­fica della Costi­tu­zione. Domani ripren­de­remo la lotta per evi­tare il peg­gio: per­ché la legge costi­tu­zio­nale con­cluda il suo iter dovranno pas­sare ancora molti mesi e altri pas­saggi par­la­men­tari ci aspet­tano, poi — nel caso — il refe­ren­dum oppo­si­tivo. Dun­que, nulla è ancora per­duto. Salvo, forse, l’onore.
In pochi giorni il Senato non ha appro­vato una riforma costi­tu­zio­nale (buona o cat­tiva che si possa rite­nere), bensì ha distrutto il Par­la­mento sotto gli occhi degli ita­liani. Nes­suno dei pro­ta­go­ni­sti è stato esente da colpe. Si è assi­stito a una sorta di omi­ci­dio seriale, cia­scuno ha inferto la sua pugna­lata. Alcuni con mag­gior vigore, altri con imper­do­na­bile incon­sa­pe­vo­lezza, altri ancora non tro­vando altre vie d’uscita.

Il mag­gior respon­sa­bile è cer­ta­mente stato il Governo che ha diretto l’intera ope­ra­zione, senza lasciare nes­suno spa­zio all’autonomia del Par­la­mento. Le pro­gres­sive impo­si­zioni e l’ininterrotta inva­si­vità dell’azione del Governo in ogni pas­sag­gio par­la­men­tare hanno annul­lato di fatto il ruolo costi­tu­zio­nale del Senato. Non s’è trat­tato solo dell’anomalia della pre­sen­ta­zione di un dise­gno di legge gover­na­tivo in una mate­ria tra­di­zio­nal­mente non di sua competenza.

Ma anche nell’aver costretto la Com­mis­sione — in modo poco tra­spa­rente — a porre que­sto come testo base nono­stante la discus­sione avesse fatto emer­gere altre mag­gio­ranze. E poi, ancora, nell’aver voluto con­trol­lare tutto il lavoro dei rela­tori — è la pre­si­dente della Com­mis­sione che ha rico­no­sciuto che il Governo ha “vistato” gli emen­da­menti pre­sen­tati appunto dai rela­tori — con buona pace dell’autonomia del man­dato par­la­men­tare e del rispetto della divi­sione dei poteri.

Non solo i rela­tori, ma ogni sena­tore ha dovuto con­fron­tarsi non tanto con l’Assemblea bensì con la volontà gover­na­tiva, e molti si sono pie­gati. Mi dispiace doverlo dire, ma l’andamento dei lavori ha dimo­strato come un certo numero degli attuali sena­tori non ten­gano in nes­sun conto non solo la Costi­tu­zione, ma nep­pure la respon­sa­bi­lità poli­tica, di cui cia­scuno di loro dovrebbe essere tito­lare dinanzi al corpo elet­to­rale. I pochis­simi voti segreti con­cessi su que­stioni del tutto mar­gi­nali hanno for­nito la prova di quanto fos­sero con­di­zio­nati e insin­ceri i voti palesi. È stato così pos­si­bile evi­den­ziare l’esteso numero dei rap­pre­sen­tanti della nazione che hanno votato con la mag­gio­ranza solo per timore di essere messi all’indice dagli stati mag­giori dei rispet­tivi par­titi. Una lace­ra­zione costi­tu­zio­nal­mente insop­por­ta­bile. Se non si garan­ti­sce (o non si eser­cita) la libertà di coscienza sui temi costi­tu­zio­nali il prin­ci­pio del libero man­dato serve vera­mente a poco. E tutto è stato fatto, invece, per vin­co­lare i rap­pre­sen­tanti alla disci­plina di par­tito. Ancora un colpo all’autonomia del Par­la­mento inferto — più che dal Governo o dai par­titi — da que­gli stessi sena­tori che non si sono voluti opporre pale­se­mente a ciò che pure non condividevano.

S’è discusso e pole­miz­zato sulla con­du­zione dei lavori, sull’interpretazione dei rego­la­menti e dei pre­ce­denti. Quel che lascia basiti è però altro. Ciò che è man­cato è la con­sa­pe­vo­lezza che si stesse discu­tendo di una riforma pro­fonda del nostro assetto dei poteri e degli equi­li­bri com­ples­sivi defi­niti dalla Costi­tu­zione. Se si fosse par­titi da que­sto assunto non si sarebbe potuto accet­tare, in nes­sun caso, un anda­mento che ha sostan­zial­mente impe­dito ogni seria discus­sione su tutti i punti della revi­sione pro­po­sta. Non si sarebbe dovuto assi­stere allo spet­ta­colo sur­reale che ha visto prima esau­rire nella rissa e nel caos il tempo della discus­sione, per poi pro­ce­dere a un’interminabile serie di vota­zioni, con un’Assemblea muta e irri­fles­siva che mec­ca­ni­ca­mente respin­geva ogni emen­da­mento dei sena­tori di oppo­si­zione e appro­vava la riforma defi­nita dagli accordi con il Governo. Spetta al pre­si­dente di assem­blea diri­gere i lavori garan­tendo la discus­sione. Non credo possa affer­marsi che ciò sia avve­nuto. Anche in que­sto caso per il con­corso di molti. Per­sino dell’opposizione, la quale ha dovuto uti­liz­zare l’arma estrema dell’ostruzionismo che, evi­den­te­mente, osta­cola una discus­sione razio­nale e pacata. Ciò non toglie che non si doveva accet­tare nes­suna for­za­tura sui tempi, nes­suna inter­pre­ta­zione rego­la­men­tare restrit­tiva dei diritti delle oppo­si­zioni, nes­suna uti­liz­za­zione esten­siva dei pre­ce­denti. Si doveva invece ricer­care il dia­logo, la tra­spa­renza, il con­corso di tutti i rap­pre­sen­tanti della nazione. Era com­pito di tutti creare un clima “costi­tu­zio­nale”, ido­neo alla riforma. Nes­suno lo ha ricer­cato. E temo non sia solo una que­stione di tem­pe­ra­tura, ma — ahimè — di cul­tura costi­tu­zio­nale che non c’è.

La con­clu­sione di ieri ha san­cito la dis­sol­venza del Par­la­mento. La dele­git­ti­ma­zione dell’organo tito­lare del potere di revi­sione della Costi­tu­zione è alla fine stata san­zio­nata dagli stessi suoi com­po­nenti. Il rifiuto di par­te­ci­pare al voto con­clu­sivo da parte di tutti gli oppo­si­tori rende palese che non si può pro­se­guire su que­sta strada. Vedo esul­tare la mag­gio­ranza acce­cata dal suc­cesso di un giorno, mi aspetto qual­che rozza bat­tuta rivolta alla oppo­si­zione “che fugge”. Ma spero che, oltre la cor­tina dell’irrisione, qual­cuno si fermi per pen­sare a come rime­diare. La Costi­tu­zione non può essere impo­sta da una mag­gio­ranza poli­tica senza una discus­sione e con­tro l’autonomia del Parlamento.

Stop F35, stavolta fermiamoli davvero! Fonte: sbilanciamoci | Autore: Giulio Marcon

Questa settimana sarebbe (stata) in calendario alla camera la nuova mozione per la cancellazione del programma F35. Probabilmente slitterà a settembre, a causa dell’ingorgo di misure da convertire in legge prima della chiusura estiva del parlamento.
Vale la pena riassumere la vicenda degli ultimi mesi. Nel giugno del 2013 il parlamento approva la mozione della maggioranza di governo (e respinge quella di Sel, M5S e dissidenti del Pd) che chiede la sospensione temporanea di nuovi acquisti di F35 e un’indagine conoscitiva per verificare se questi aerei servano o meno. Per fare quest’indagine si riunisce la commissione difesa e dopo un anno (7 maggio 2014), la commissione ci dice che servono ulteriori approfondimenti (quindi si continua con la sospensione) e che però sarebbe auspicabile una revisione del programma fino ad ipotizzare il dimezzamento del finanziamento. Nel frattempo il governo, contravvenendo alla mozione della sua maggioranza, continua a fare contratti per nuovi F35 (nel mese di settembre 2013 e a marzo del 2014) e la ministra Pinotti e Napolitano si mettono di traverso: non bisogna ridurre gli stanziamenti per i sistemi d’arma e gli F35 vanno salvaguardati. Pinotti continua a giocare la carta del rinvio: prima di decidere sugli F35, dice, bisogna aspettare (il 2015 se tutto va bene) il Libro Bianco della Difesa che dovrebbe dirci cosa devono fare le nostre Forze Armate e con quali armi.
Nel frattempo il programma F35 va avanti, avendo contratti già firmati fino al 2016. Faremo sei aerei (o otto, non si sa, il parlamento ancora non ha potuto visionare i contratti). Secondo la Difesa ad oggi abbiamo contrattualizzato la produzione di 130 ali (ciò per cui è stato allestito lo stabilimento di Cameri, oltre che per fare – forse – la manutenzione degli aerei) che impiegano 340 addetti (altroché i 10mila promessi), di cui 180 “in trasferta” dallo stabilimento Alenia di Caselle. Ritorno occupazionale, dunque: modestissimo.
Tutto questo mentre i cacciabombardieri continuano a crescere vertiginosamente nei costi (la Corte dei Conti americana l’ha denunciato ripetutamente) e hanno problemi tecnici gravi: devono atterrare ad ogni temporale, il software non funziona e la sua ultimazione è in ritardo di un anno. Il casco fa vedere doppio al pilota e i prototipi a decollo verticale quando si alzano in volo squagliano l’asfalto. E sono pesantissimi: non possono sopportare uno spillo in più di carico oltre quello previsto.
Ma al di là dei problemi tecnici e dei costi (14 miliardi che potrebbero essere usati per creare lavoro e non è una questione di poco conto), c’è da fare anche un’altra considerazione: sono aerei d’attacco, con caratteristiche stealth, servono a fare la guerra e possono trasportare piccoli ordigni nucleari, che abbiamo nelle basi di Aviano e Ghedi. Ecco perché l’Italia non li deve avere: vedasi all’articolo 11 della Costituzione.
Il Pd e la maggioranza si barcamenano. La maggioranza dei parlamentari Pd non li vorrebbe, ma è sottoposta al ricatto delle gerarchie militari (e della ministra Pinotti), di Napolitano e degli americani. Vedremo come si comporterà a settembre quando verrà discussa la mozione e speriamo che ci sia una grande mobilitazione (per info: http://www.disarmo.org e http://www.sbilanciamoci.org) come quella di giugno del 2013, che faccia cambiare idea al partito del premier. In realtà Renzi poco più di un anno fa disse che non capiva che dovevamo farci con questi F35. Dopo un anno ancora non l’ha capito. O fa finta.

– Riforme, la Resistenza tradita di DOMENICO GALLO


DOMENICO GALLO
– Riforme, la Resistenza tradita

Nella settimana appena iniziata si giocherà una partita decisiva per la Repubblica. Quel progetto di scompaginare l’architettura dei poteri come disegnata dai costituenti, che è stato il chiodo fisso della grande riforma propugnata da Berlusconi, sfociata nella riforma della II parte della Costituzione che il popolo italiano ha bocciato con il referendum del 25/26 giugno del 2006, sta per andare in porto con nuove forme e grazie ad un nuovo attore politico. Per quanto articolato diversamente, si tratta dello stesso progetto politico-istituzionale.

Esso si sviluppa su due fronti: la riforma elettorale e la riforma costituzionale. Questi due cantieri interagiscono fra loro e puntano a realizzare il medesimo obiettivo: cambiare i connotati alla democrazia italiana realizzando un sistema politico che il compianto prof. Elia qualificò come “premierato assoluto”. Quel sistema di pesi e contrappesi che i costituenti, memori dell’esperienza fascista, avevano delineato per scongiurare il pericolo della dittatura della maggioranza, sarà profondamente squilibrato per realizzare un nuovo modello istituzionale che persegue la concentrazione dei poteri nelle mani del capo dell’esecutivo, a scapito del Parlamento e delle istituzioni di garanzia.

Non ci sarà più la centralità del Parlamento, anzi il Parlamento sarà dimezzato con l’eliminazione di un suo ramo, poiché il nuovo Senato sarà sostanzialmente un ente inutile che non potrà interferire nell’indirizzo politico e legislativo. Dalla Camera dei deputati saranno espulse molte o quasi tutte le voci di opposizione, il Governo eserciterà un potere di supremazia sulla Camera attraverso l’istituto della tagliola e del voto bloccato. La minoranza che vincerà la lotteria elettorale, controllerà il Parlamento, si impadronirà facilmente del Presidente della Repubblica, eleggerà i 5 giudici costituzionali di competenza delle Camere ed influirà sulle nomine di competenza del Capo dello Stato.

Le istituzioni di garanzia formalmente resteranno in piedi ma saranno addomesticate per non disturbare il navigatore. Sarà sempre più difficile contestare scelte inaccettabili dell’esecutivo (si pensi al nucleare) attraverso il ricorso al referendum popolare, dato l’innalzamento a 800.000 della soglia delle firme necessarie. Le scelte che si faranno in questi giorni in Senato saranno cruciali perché la riforma del Senato è l’indispensabile presupposto della riforma elettorale e non saranno possibili modifiche quando ci sarà la seconda lettura. É questa l’ultima trincea dove si difende quel testamento di centomila morti che ci ha consegnato la Resistenza. Poche cose ci chiedono i nostri morti, diceva Calamandrei: non dobbiamo tradirli.

Domenico Gallo

(14 luglio 2014)

Parlamento Europeo: Pablo Iglesias vs Martin Shultz Fonte: lista Tsipras | Autore: Pablo Iglesias

Il gruppo della Gauche Unitaire Européenne/Nordic Green Left (quello di cui fa parte L’Altra Europa con Tsipras) ha designato lo spagnolo Pablo Iglesias di Podemos. come proprio candidato alla presidenza del Parlamento Europeo contro la coalizione di socialisti e popolari.

La candidatura di Iglesias è alternativa a quella del tedesco Martin Shultz sostenuto dalla coalizione dei Socialisti e dei conservatori che hanno concordato l’alternanza alla presidenza tra due anni e mezzo.

La candidatra di Iglesias è un riconoscimento del successo di Podemos sulla scena politica spagnola e europea. Podemos ha aderito al gruppo della Sinistra Unitaria Europea-Sinistra Verde Nordica (GUE-NGL) solo due settimane fa. Più giovane di Shultz di quasi 25 anni, Iglesias cercherà di raccogliere il sostegno tra gli altri gruppi parlamentari e gli indipendenti in nome di un’ progetto europeo alternativo radicalmente contrapposto alle politiche economiche che stanno danneggiando e impoverendo i popoli dell’Europa meridionale.

Questa è la lettera con cui Iglesias spiega la sua candidatura.

Cari amici,
vi scrivo in qualità di candidato della Gauche Unitaire Européenne/Nordic Green Left alla presidenza del Parlamento.
L’eccezionale situazione politica odierna in Europa richiede una risposta eccezionale, e non il perdurare di politiche fallimentari. La lezione più importante che forse possiamo trarre dall’esito delle elezioni europee è che i cittadini europei hanno rigettato ovunque lo status quo. Si è preso atto che il modello economico neoliberista, basato sull’austerità, sui principi di libero mercato e sulla protezione ad ogni costo degli interessi finanziari, è responsabile della devastazione economica nei paesi periferici, in particolare nell’Europa del Sud, facendo piazza pulita delle faticose conquiste in materia di diritti sociali, principi democratici, eguaglianza e sovranità popolare.
Oggi noi tutti, membri eletti, abbiamo il dovere e la responsabilità di difendere tali conquiste, e fermare il modo in cui l’Europa viene governata alle spalle dei cittadini. Sappiamo tutti fin troppo bene che questi metodi non hanno funzionato: abbiamo un continente governato da un un gruppo auto-referenziale di élite finanziarie mentre la maggioranza della popolazione dei paesi meridionali continua a essere punita con la povertà, la diseguaglianza e la perdita di sovranità.
Abbiamo dinanzi a noi un’opportunità straordinaria per iniziare un nuovo capitolo di cambiamento politico, per difendere i nostri diritti sociali e per rendere il processo decisionale europeo più democratico e trasparente. Questa è la ragione della mia candidatura.
Mi appello a tutte le forze progressiste in Parlamento, e in particolare quelle elette nei paesi meridionali, Portogallo, Spagna, Italia, Grecia, Cipro, nonché Irlanda e Francia, in quanto conoscete la realtà delle conseguenze sociali ed economiche dei programmi di aggiustamento nei vostri stessi paesi.
L’austerità decisa da pochi ha falcidiato la democrazia, rovinato il tessuto sociale nei paesi meridionali e distrutto le norme di tutela del lavoro. Avete constatato che la sottomissione ai diktat della Troika è economicamente inefficiente e drammatica in relazione ai diritti umani e sociali e alla povertà.
Ora vi chiedo, avete intenzione di votare per i vostri paesi, per il vostro popolo, o di votare per lo status quo, per le stesse facce che ci hanno portato sull’orlo del baratro? Avete intenzione di schierarvi con la democrazia e di ascoltare la voce dell’elettorato che chiede giustizia sociale, o di schierarvi con i meccanismi fallimentari che tutti conosciamo fin troppo bene?
Grazie,
Pablo Iglesias

video conferenza stampa: http://www.guengl.eu/media-channel/video/pablo-iglesias-for-a-presidency-that-seeks-dignity-for-the-european-periphe