
di Franco Garufi
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di Franco Garufi
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Gentile signora Ministra,
non sono che una cittadina priva di competenze specifiche in materia costituzionale – oltre a quelle richieste a ogni cittadino, con il dovere di conoscere il patto fondamentale che ci lega gli uni agli altri attraverso l’assunzione dei nostri doveri e dei nostri diritti. Di conoscere e rispettare il patto fondamentale di cittadinanza, la Costituzione.
Ma è proprio in base a questo dovere che le scrivo, signora Ministro, per esprimere il dolore profondo e lo sconcerto, che numerosissimi cittadini come me provano nel vedere demolito un altro pezzo della nostra Carta (57 articoli su 85). Non per essere sostituito da regole migliori, che cioè migliorino la qualità della vita democratica, nel suo aspetto di processo di formazione e attuazione delle decisioni che riguardano tutti noi; ma – al contrario – da disposizioni farraginose e incomprensibili, che mostrano – fin nella tessitura prolissa e sgrammaticata – l’assenza di un principio ispiratore intelligibile, a parte il mantra “abolizione del bicameralismo perfetto”.
Riporto qui solo alcuni degli argomenti che sono stati pubblicamente sollevati contro il metodo e il merito di questa riforma.
Ecco, signora Ministra, le scrivo nella speranza che trovi infine il modo di rispondere a queste obiezioni. Non a me, ovviamente – ma a tutti i cittadini che vorrebbero proporgliele e non hanno voce o non trovano ascolto. Perché non ricordo sia uscita dalle sue labbra un argomento in difesa della “sua” riforma diverso dal seguente: “Non ci faremo fermare da nessuno”. Ma se il solo argomento resterà questo, mi lasci concludere, gentile Ministra: è un vero peccato che lei sia così bella. Perché la sua riforma, e i suoi argomenti, rappresentano invece il volto di una democrazia sfigurata (Copyright Nadia Urbinati 2014, consiglio lettura). Cioè della bruttezza senza riscatto di ciò che resterà della nostra Costituzione – del solo bene pubblico affidato alla nostra già così fragile coscienza civile. La sua grande, italiana bellezza, gentile Ministra, sarebbe solo l’ultima, sottile menzogna.
(*) Roberta De Monticelli fa parte del Consiglio di Presidenza di LeG
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Latina – la ex “Littoria” creata in epoca fascista – ha quasi sempre visto l’area della sinistra ex Pci all’opposizione, salvo una piccola parentesi che ormai risale nel tempo. Governata dall’area ex missina e da Forza Italia da sempre, è considerata una sorta di laboratorio politico della destra nel Lazio. Qui sono partite le prime privatizzazioni italiane alla fine degli anni ’90, per il settore dei rifiuti prima e degli acquedotti poi, lasciando spazio ad imprenditori che per anni hanno finanziato il centrodestra italiano. Poi la caduta di Berlusconi, che nel sud del Lazio ha curiosamente coinciso con la nascita dei movimenti dei forconi, fortemente rappresentati nel sud pontino e con saldi legami con la destra populista estrema. Un tonfo che sta aprendo una finestra di opportunità al partito democratico, pronto a prendersi la poltrona di sindaco.
Il centrodestra è poi imploso, con divisioni interne e faide neache troppo silenziose, fino alle dimissioni dell’ultimo sindaco in carica Di Giorgi, esponente di Fratelli d’Italia. Ecco dunque l’opportunità che il Pd attendeva da anni, che ha deciso di giocarsi con l’alleanza con la destra più estrema, che ci tiene a non rinnegare nulla del passato, né quelle “sensibilità che allora mi portavano a condividere percorsi della destra giovanile. Un percorso che non disconosco per la forza e l’entusiasmo con cui l’ho fatto”, ha subito specificato il candidato in pectore del Pd.
La militanza di destra di Galante arriva fino a pochissimo tempo fa: “Era un nostro quadro – racconta a IlFattoQuotidiano.it Giuseppe Mochi, ex segretario provinciale di An – fino a qualche anno fa era il responsabile attività produttive di Alleanza Nazionale di Latina. E’ sempre stato un esponente della destra, anche se non so cosa facesse negli anni ’70”. Seguendo le notizie degli incontri dell’area della destra radicale a Latina si può facilmente intuire i riferimenti culturali e politici del neo candidato del Pd. Nel 2012 partecipò in qualità di relatore ad un evento della rivista Polaris, diretta da Gabriele Adinolfi, cofondatore insieme a Roberto Fiore del movimento di estrema destra “Terza posizione”, attivo negli anni ’70. Un evento organizzato insieme all’associazione “Passepartout”, legata alla destra radicale pontina. “E allora? – commenta il senatore Moscardelli – Anch’io ho partecipato ad incontri di Passepartout, non vedo quale sia il problema”. E sempre l’ex leader di Terza Posizione Gabriele Adinolfi ha presenziato – secondo quanto risulta sui siti di riferimento dell’area della destra radicale – ad alcune iniziative politiche organizzate lo scorso febbraio presso l’albergo Foro Appio gestito da Galante. Un rapporto, dunque, ancora stretto.
La metamorfosi – da militante nero a candidato sindaco del principale partito di sinistra del Paese – ricalca in funzione uguale e contraria quella del Pd, che in osservanza alla dottrina renziana (“Se vuoi vincere le elezioni, devi prendere i loro voti“, spiegava il premier il 20 maggio 2013 a Porta a Porta) guarda sempre alla propria destra. “Sono amico con Enrico Forte e Claudio Moscardelli che stimo – scrive nella nota con cui Galante si è presentato agli elettori – che mi hanno chiesto insieme di collaborare a un progetto nuovo di città e non lo hanno fatto chiedendomi credenziali ideologiche, ma la volontà di cambiare insieme la nostra comunità”. “Galante doveva essere il nostro candidato unitario – spiega ancora Moscardelli a IlFattoQuotidiano.it – ma il consigliere regionale Enrico Forte ha confermato la sua candidatura e quindi faremo le primarie con questi due nomi”. Nessun imbarazzo per i legami con la destra? “No, nessuno – risponde Moscardelli – anche perché Galante ha votato Pd nelle ultime elezioni. Il suo nome è stato poi condiviso nel partito a livello regionale”.
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L’appello di Papa Francesco non ferma il boia in Georgia. È stata eseguita la condanna a morte di Kelly Renne Gissendaner. La donna, 47 anni, è stata giustiziata con una iniezione letale. L’esecuzione, prevista per le 19 (l’una in Italia) nel carcere della Jackson County era stata ritardata da tre appelli presentati dai legali della donna, appelli tutti respinti dalla Corte Suprema. Gissendaner, prima donna condannata a morte nello stato di Georgia negli ultimi 70 anni, era accusata di aver progettato l’omicidio del marito, che fu assassinato dal suo amante, condannato all’ergastolo. L’uomo sarà liberato tra otto anni, dopo aver testimoniato contro la 47enne.
Il Pontefice, con una lettera scritta dal nunzio Carlo Maria Viganò, aveva cercato di fermare l’iniezione letale. E nei giorni scorsi, parlando davanti al Congresso americano, Bergoglio aveva rilanciato con forza il suo «no» alla pena di morte: «Recentemente – aveva ricordato Papa Francesco – i miei fratelli Vescovi qui negli Stati Uniti hanno rinnovato il loro appello per l’abolizione della pena di morte. Io non solo li appoggio, ma offro anche sostegno a tutti coloro che sono convinti che una giusta e necessaria punizione non deve mai escludere la dimensione della speranza e l’obiettivo della riabilitazione». Parole che hanno fatto molto discutere negli Stati Uniti: «Bisogna proteggere e difendere la vita umana in ogni fase».
Nonostante l’appello del Papa, dunque, le esecuzioni continuano. In generale negli Stati Uniti l’esecuzione di donne è un fatto raro e ne sono state giustiziate solo 15 (a fronte di 1.400 uomini) da quando nel 1976 la Corte Suprema ha ripristinato la pena di morte. Giovedì prossimo sarà la volta di Alfredo Prieto, 49 anni, originario di El Salvador, colpevole di aver ucciso nove persone in California e Virginia tra il 1988 e il 1990. Nel 1992 ha invece stuprato e ucciso una 15/enne in California. Nello stesso anno, in Virginia, aveva ucciso tre giovani poco più che ventenni. Tuttavia, nonostante sia giudicato un serial killer, Prieto è affetto da disabilità mentale e solo la Corte Suprema può bloccare all’ultimo momento la sua esecuzione. L’ultima condanna capitale eseguita in Virginia risale al 2013, quando Robert Gleason Jr. fu messo sulla sedia elettrica.
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Renzi non è Berlusconi, “non è percepito come una minaccia alla democrazia” neppure su provvedimenti come la legge sulle intercettazioni o la riforma del Senato, che dieci anni fa avrebbero portato migliaia di persone in piazza. Magari con la benedizione di intellettuali e gente di spettacolo, che invece oggi “dipendono dal Pd e dalla politica per finanziamenti, approvazione di progetti, incarichi”. Avvinghiati in una rete di “clientelismo”, il grande ostacolo al cambiamento in Italia.
Lo storico Paul Ginsborg è un padre nobile dei Girotondi, il movimento che nel 2002 accese la scintilla dell’o pposizione al berlusconismo, dando la scossa a una sinistra frastornata e sconfitta. In centinaia di migliaia scesero in piazza contro le leggi ad personam, contro la Rai di regime, a difesa della magistratura. Oggi, il nulla. Anche le partite più controverse si giocano tutte dentro il Palazzo, in quello che sembra un generale torpore dell’opinione pubblica.
Professor Ginsborg, a che cosa è dovuto questo “sonno”?
Attenzione, la storia dei movimenti insegna che anche in una situazione che pare pacificata le cose possono cambiare rapidamente. Oggi il clima è simile a quello che precedette l’esplosione dei Girotondi nel 2002. Ci si lamentava, si diceva che nessuno poteva fare nulla. Poi, improvvisamente, le piazze si riempirono. Chi ci dice che non accada di nuovo, fra qualche mese?
Rispetto a Renzi, però, Berlusconi divideva più nettamente l’opinione pubblica.
L’opinione pubblica è lenta nel cogliere gli atti lesivi della democrazia, come appunto la legge bavaglio o certe riforme istituzionali. Berlusconi era immediatamente percepito come una minaccia, Renzi è più ambiguo e gode di consenso a sinistra, cioè l’area in cui nacquero i Girotondi. Se poi riuscirà ad agganciare la ripresa economica trainata dagli Usa, la gente avrà qualche soldo in più, potrà andare di nuovo in vacanza, e legherà questi miglioramenti al presidente del Consiglio.
Gli intellettuali non dovrebbero essere più pronti a cogliere certi segnali? Perché oggi non c’è un Nanni Moretti che grida la sua indignazione in piazza?
Gli intellettuali che si schierarono all’epoca furono comunque pochi, Moretti fu l’eccezione più che la regola, come prima di lui Pasolini. Molti sono dipendenti dal Pd –più che da Berlusconi a suo tempo –e in generale dipendono dalla politica per i loro progetti e le loro carriere. Così diventano servi volenterosi e l’autonomia intellettuale viene cancellata dal clientelismo. Renzi si trova quindi al centro di un sistema di favori. Questo blocca davvero il cambiamento nel Paese. Quando 23 anni fa arrivai all’Università di Firenze, certi colleghi mi chiedevano: ‘Tu chi porti al concorso?’. All’inizio non capivo neanche che cosa volessero dire.
Dunque torniamo alla piazza. Lei vede qualche soggetto che potrebbe diventare un nuovo movimento “per la democrazia ”, come recitava il “sotto titolo” dei Girotondi?
La mia generazione, quella del ‘68, sta uscendo di scena e deve per forza di cose farsi da parte. È stata l’ossatura di molti movimenti degli ultimi decenni. Ora mi domando se quelli che erano giovani negli anni Ottanta, molto influenzati dal neoliberismo e dal thatcherismo, possano prendere il nostro posto. Confesso che sono scettico. Vedo però delle esperienze interessanti in Europa.
Quali?
Podemos in Spagna, Tsipras in Grecia. E Corbyn in Gran Bretagna, in modo del tutto inaspettato: il Labour era a terra, i giovani si sono riconosciuti nell’antiliberismo e dopo la sua vittoria come leader del partito, pochi giorni fa, 15 mila persone hanno fatto la tessera. In Italia, invece, non si muove nulla.
In Italia il Movimento 5 Stelle ha portato in Parlamento molti temi “girotondini ”. Non la convince?
I 5Stelle sono all’avanguardia su alcuni temi, come la legge bavaglio. La debolezza sta nella figura di Grillo leader non eletto, nella selezione discutibile dei candidati, nel personalismo. Più in generale, nella politica italiana ci sono troppi partitini che non crescono mai e non muoiono mai, troppe gerarchie inamovibili, troppo narcisismo. Come possono attrarre le persone?
Che fine ha fatto, dieci anni dopo, il “ceto medio riflessivo”che lei indicò come anima dei Girotondi?
Il ceto medio è sempre stato per la maggior parte non riflessivo, capace di lamentarsi la mattina al bar che tutto va male e di evadere le tasse prima di pranzo. Quello a cui mi riferivo allora, oggi è sconsolato e in preda al cinismo: ‘Ci abbiamo provato e abbiamo fallito’. Io dico che si è scoraggiato troppo presto, certe battaglie sono lunghe. Quando però vedo gli austriaci che partono con colonne di macchine per andare a raccogliere i profughi sulle strade dell’U ngheria, penso che il ceto medio riflessivo oggi sia quello.
Il Fatto Quotidiano, 27 settembre 2015
*Lo storico Paul Ginsborg è membro del Consiglio di Presidenza di Libertà e Giustizia
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Libertà e Giustizia ricorda Pietro Ingrao, protagonista illustre e illuminato della storia e della politica italiane, con la relazione tenuta dal suo Presidente onorario Gustavo Zagrebelsky alla Camera dei Deputati il 31 marzo 2015, in occasione della cerimonia per i 100 anni di Ingrao
(una piccola frase) “Il voto, da solo, non basta”. In questa breve frase di Pietro Ingrao può essere racchiuso tutto il senso della sua lunga riflessione sulla democrazia, sulla rappresentanza, sul sistema parlamentare. Le considerazioni che seguono sono un commento a queste parole: un commento che ha sullo sfondo – non potrebbe essere diversamente – le condizioni attuali della democrazia nel nostro Paese.
Prendo lo spunto da un carteggio tra lo stesso Ingrao e Norberto Bobbio, a margine e a seguito d’un convegno torinese svoltosi nell’autunno del 1985. Le lettere sono, la prima (di Bobbio), del 12 novembre e l’ultima (d’Ingrao) del 30 gennaio 1986 (ora in P. Ingrao, Crisi e riforma del Parlamento, Roma, Ediesse, 2014, pp. 83-124). In quel dialogo si discute di “vera e falsa democrazia”. Ingrao aveva da poco avanzato la sua proposta di “governo costituente”, dopo il fallimento della cosiddetta politica dei due tavoli e della Commissione Bozzi per la riforma della Costituzione, che a quella politica era ispirata.
Sono a confronto due posizioni. Bobbio ripropone quella ch’egli stesso definiva la “definizione minima” di democrazia. Questa definizione a Ingrao appariva insufficiente. Anzi, nelle condizioni economiche e sociali date, gli appariva vuota e ingannevole: in sostanza, la copertura d’interessi di oligarchie nazionali e sovranazionali, contrastanti con i diritti delle masse lavoratrici e con la loro urgenza d’emancipazione.
La riflessione e la terminologia di Ingrao vengono da lontano. Masse e potere è il titolo d’una raccolta di scritti (il primo è del 1964), pubblicata nel 1977, che ebbe allora notevole successo e ispirò in quegli anni il pensiero e l’azione di parte della sinistra. Rileggendo quei testi, si è colti da una duplice e apparentemente contraddittoria sensazione. Parlano d’un mondo che ci appare lontano ma sollevano problemi vicini: anzi, problemi che sono drammaticamente di oggi e riguardano il nostro futuro.
(definizione minima) I concetti-chiave di Ingrao sono tre: masse (come nel titolo del volume del 1977), unità ed egemonia. Questa triade può forse essere assunta come una reinterpretazione della “democrazia progressiva” teorizzata da Togliatti, all’epoca della Costituente. Mondo lontano, dicevo: dove sono, oggi, le masse? E l’unità? E l’egemonia? Naturalmente, stiamo parlando delle masse popolari, dell’unità della sinistra e dell’egemonia della cultura che ne costituiva l’identità. Allora, sembrava un mondo di possibilità che si sarebbero potute cogliere per una ridefinizione dei rapporti sociali. Oggi, sembrerebbero distrazioni dalle condizioni reali delle democrazie del nostro tempo. Eppure, quelle tre parole evocano problemi politici di portata generale, problemi che restano pur se le condizioni cambiano.
Ma – ecco entrare in scena Bobbio – nell’intento di accordare la democrazia ai contesti, storici esistono limiti concettuali che devono essere tenuti fermi, a pena di confusione, fraintendimenti e, anche, d’inganni. Ora, se c’è una parola ambigua del nostro lessico politico – ambigua come la sua gemella, libertà – è proprio democrazia. Gaetano Salvemini, lo storico antifascista che Bobbio stesso incluse nel pantheon dei suoi “maestri nell’impegno”, scrive: “La parola democrazia, come tutte le altre parole astratte collettive (nazione, stato, chiesa, patria, esercito, parlamento, partito, capitalismo, proletariato), è facilmente soggetta alla sublimazione poetica e viene dotata di un’anima, di un genio, di un cuore e di molti altri organi che servono a noi poveri mortali. La ‘democrazia’ agita le masse, dirige i partiti nella lotta politica; nasce, cresce, s’indebolisce, si ammala, corre il rischio di morire, o addirittura muore, come farebbe una persona in carne e ossa. Molte controversie sulla democrazia non sono che discussioni senza senso su un essere mitologico e inesistente […] La parola democrazia è adoperata anche per indicare dottrine e attività diametralmente opposte a una delle istituzioni essenziali di un regime democratico, vale a dire l’autogoverno. Così noi sentiamo [parlare] di una cosiddetta ‘democrazia cristiana’ che, secondo la Catholic Encyclopedia, ha lo scopo di ‘confortare ed elevare le classi inferiori escludendo espressamente ogni apparenza o implicazione di significato politico”; questa democrazia esisteva già al tempo di Costantino, quando il clero ‘dette inizio all’attività pratica della democrazia cristiana’, istituendo ospizi per orfani, anziani, infermi e viandanti. I fascisti, i nazisti e i comunisti hanno spesso dato l’etichetta di democrazia, anzi della ‘reale’,‘ ‘vera’, ‘piena, ‘sostanziale’, ‘più onesta’ democrazia ai regimi politici d’Italia, della Germania e della Russia attuali, perché questi regimi professano anch’essi di confortare ed elevare le classi inferiori, dopo averle private di quegli stessi diritti politici senza i quali non è possibile concepire il “governo dei popoli”. Anche la parola ‘libertà’ soffre della malattia dei troppi significati. “I filosofi hanno tessuto intorno a essa una terribile rete di confusione”.
La ‘definizione minima’ di Bobbio, sulla quale non dovrebbero nascere dissensi proprio perché ‘minima’ o essenziale, deve servire a evitare che il confronto s’ingarbugli in equivoci. “Invito al colloquio” è il titolo del primo saggio di “Politica e cultura”, un’espressione che si potrebbe assumere come progetto dell’intera attività politico-intellettuale di Bobbio. Ma, il colloquio, affinché non si svolga in acque torbide, deve sapere qual è l’oggetto e che cosa, per non intorbidarle, ne deve stare fuori. Per questo, occorre una definizione, cioè – direbbero i giuristi –un’actio finium regundorum concettuale. Una definizione è necessaria, ma una definizione troppo pretenziosa non aprirebbe, bensì chiuderebbe il confronto. Ecco l’attaccamento di Bobbio alle “definizioni minime”. Sono minime le sue definizioni di socialismo, liberalismo, destra e sinistra, ad esempio. Ed è minima la definizione di democrazia; potremmo anzi dire minimissima: a) tutti devono poter partecipare, direttamente o indirettamente, alle decisioni collettive; b) le decisioni collettive devono essere prese a maggioranza. Tutto qui. Oltre che minima, questa definizione è anche solo formale: si riferisce al “chi” e al “come”, ma non al “che cosa”. Riguarda soltanto – come si usa dire per analogia – le “regole del gioco”, ma non il risultato del gioco. Su questo punto, Bobbio è ritornato più e più volte, senza deviazioni, senza concessioni a fini, valori, progetti, ecc., da immettere nella definizione. Come la definizione del diritto secondo Kelsen, cui spesso Bobbio s’ispira per molti aspetti, così la definizione della democrazia deve essere “pura”, cioè meramente formale. “Non escludo – ha commentato una volta Bobbio stesso, con un tocco d’autoironia che i giuristi non formalisti non stentano a cogliere – che questa insistenza sulle regole, cioè su considerazioni formali più che sostanziali, derivi da una deformazione professionale di chi ha insegnato per decenni in una facoltà giuridica”.
Anche quando il discorso si approfondisce, per così dire esplicitando i presupposti delle suddette due proposizioni definitorie, si resta sempre entro coordinate minime e formali. In un testo del 1987 (ora in Teoria generale della politica, a cura di M. Bovero, Torino, Einaudi, 1999, pp. 381 s.), le due regole diventano sei, così: 1. tutti i cittadini che abbiano raggiunto la maggiore età senza distinzione di razza, di religione, di condizione economica, di sesso, debbono godere dei diritti politici, cioè ciascuno deve godere del diritto di esprimere la propria opinione o di scegliere chi la esprime per lui; 2. il voto di tutti i cittadini deve avere peso uguale; 3. tutti coloro che godono dei diritti politici debbono essere liberi di poter votare secondo la propria opinione formatasi quanto più è possibile liberamente, cioè in una libera gara tra gruppi politici organizzati in concorrenza fra loro; 4. debbono essere liberi anche nel senso che debbono essere posti in condizione di scegliere tra soluzioni diverse, cioè tra partiti che abbiano programmi diversi e alternativi; 5. sia per le elezioni, sia per le decisioni collettive, deve valere la regola della maggioranza numerica, nel senso che si consideri eletto il candidato, o si consideri valida la decisione, che ha ottenuto il maggior numero di voti; 6. nessuna decisione presa a maggioranza deve limitare i diritti della minoranza, particolarmente il diritto di diventare a sua volta maggioranza a parità di condizioni.
Ripercorrendo questi sei punti, ci accorgiamo che la definizione minima e formale resta ferma, ma si introducono precisazioni, per così dire, di ambiente, l’ambiente entro il quale, soltanto, le regole permettono un gioco leale, non truccato. La forma, insomma, si deve appoggiare su determinate premesse, ma resta forma. Si potrebbe dire così: la democrazia è forma. La forma può essere truffaldina. Affinché non lo sia, occorrono condizioni. Tali condizioni riguardano sempre ancora il chi e il come, non il che cosa, che resta fuori dalla definizione. Ma non sono esse stesse regole del gioco. Consentono il gioco leale, ma non sono il gioco.
(la critica a Ingrao) Partendo da questa premessa, si comprende come i tre concetti-chiave di Ingrao possono apparire o modi diversi di nominare concetti noti alla teoria della democrazia, oppure deviazioni.
Si prenda la “massa”. Bobbio chiede “che cosa si possa intendere mai per democrazia di massa di diverso da quel che s’intende per democrazia fondata sul suffragio universale”; che cosa si dica di più e di meglio “rispetto a quel che s’intende quando si parla di un sistema politico in cui tutti i cittadini maggiorenni hanno il diritto di voto”? Se non s’intende nulla di diverso, la democrazia di massa è perfettamente compatibile, anzi è la definizione formale della democrazia che vive nell’ambiente democratico del diritto di riunione sulle piazze e delle altre forme di “coalizione sociale”, come si diceva un tempo. Ma non è tutto. Introdurre le masse al posto dei cittadini non farebbe capire esattamente di che cosa si stia parlando. Nella zona grigia dell’incertezza entrano atteggiamenti emotivi che si dovrebbero fugare. Ingrao usa espressioni come “irruzione delle masse nello Stato”, espressione che fa pensare “a un fiume tumultuoso che rompe gli argini, spazza e travolge ciò che trova nel suo corso”, all’agere per turbas, all’azione diretta della folla, della “turba”. Massa può alludere a un corpo collettivo amorfo e indifferenziato, mentre il soggetto principe di un regime democratico è il singolo individuo, l’individuo informato compos sui. “In democrazia non ci possono essere masse: ci sono o individui, oppure associazioni volontarie d’individui, come i sindacati e i partiti”. In ogni caso, in democrazia gli individui sono chiamati a pensare e a volere a partire dalla propria autonomia morale. Devono affrancarsi dalla “psicologia della massa” sulla quale si appoggiano e si sono appoggiati tutti i demagoghi d’ogni tempo e luogo.
E l’unità? Che senso ha l’appello all’unità che il Partito comunista di quegli anni insistentemente faceva proprio: compromesso storico e alternativa democratica? La democrazia è un regime d’insieme e “non può essere chiamato democratico in una delle sue parti se non a costo di creare una notevole confusione. Se una di queste parti viene chiamata “democratica” [o nazionale] è segno che la si considera una parte che tende a identificarsi col tutto” (e qui, di nuovo, fa capolino, la “voglia di massa”). In questo regime d’insieme deve esserci “distinzione”, cioè pluralismo. “Senza pluralismo non è possibile alcuna forma di governo democratico e nessun governo democratico può permettersi di ridurre, limitare, comprimere il pluralismo senza trasformarsi nel suo contrario”. La sintesi è espressa da Bobbio in termini assai forti, perfino scandalosi: “la discordia è il sale della democrazia, o più precisamente della dottrina liberale che sta alla base della democrazia moderna (per distinguerla dalla democrazia degli antichi). Resta sempre a fondamento del pensiero liberale e democratico moderno il famoso detto di Kant: ‘L’uomo vuole la concordia, ma la natura sa meglio di lui ciò che è buono per la sua specie: essa vuole la discordia’”. Questo passo interessa non solo per l’elogio della discordia, pur se contenuta in un quadro che impedisca la dissoluzione: la bestia nera del pensiero politico classico, equivalente alla stasis, alla quiete prima della tempesta della guerra civile. Interessa anche perché vi appare con chiarezza la premessa ideologica della visione democratica di Bobbio: democrazia liberale.
E l’egemonia? Qui Bobbio confessa che si tratta d’un concetto che gli è “meno familiare”, ma ciò non gli impedisce di porre una domanda analoga a quella posta a proposito della “massa”: “mi piacerebbe che qualcuno mi spiegasse in che cosa consista l’egemonia in un sistema democratico se non nella capacità di ottenere il maggior numero di voti […] Se qualcuno mi sa dire che cosa significhi in democrazia, entro il sistema di certe regole del gioco, conquistare l’egemonia, oltre al conquistare il consenso degli elettori, lo prego di farsi avanti”.
Insomma: egemonia, massa, unità non apparterrebbero al sistema concettuale del pensiero liberal-democratico. Possono ascriversi a tradizioni politiche diverse, di destra o di sinistra (non è questo il punto). A meno che, è la conclusione di Bobbio, non si tratti soltanto di modi di dire con altre parole cose che appartengono a un patrimonio comune: comune anche a un partito come il Partito comunista che ha contribuito alla democrazia delineata dalla Costituzione e, quindi, condivisa da Ingrao stesso.
Quello di Bobbio è un tentativo di riportare le posizioni di Ingrao sui binari della sua concezione minima, per la quale la democrazia è essenzialmente voto. Ma Ingrao – s’è visto – dice una cosa diversa: il voto, da solo, non basta.
(il senso della replica) In sintesi, può dirsi che, mentre la posizione di Bobbio si giustifica sul piano della teoria; la posizione di Ingrao si radica nella realtà politica e sociale del suo tempo, quale a lui appare in approfondite analisi – una volta, ogni discorso “sovrastrutturale” presupponeva un’analisi “strutturale -, analisi che spaziano dall’organizzazione del lavoro e dalle conseguenze sulla classe operaia, all’urbanesimo, alla mondializzazione dei mercati e alla finanziarizzazione dell’economia, ai rapporti di potenza militare tra i blocchi, allo sfruttamento privatistico delle risorse comuni, alle concentrazioni di potere nel campo dell’informazione conseguenti alle innovazioni tecnologiche, fino alla evaporazione della sovranità degli stati nazionali. Ci sono pagine risalenti ormai a trent’anni fa che colgono con precisione il segno di quello che sarebbe diventato evidente solo più tardi. Le riflessioni istituzionali di Ingrao prendono origine, sempre, da analisi realistiche. A differenza di quel che sarebbe successo in tempi a noi più vicini, le “regole del gioco” non sono da lui considerate in astratto, ma sempre in relazione ai contenuti della politica, la politica di emancipazione delle classi subalterne. Per esempio, col linguaggio odierno: democrazia decidente, sì; ma per decidere che cosa? L’aspetto sostanziale è sempre presente. Si tratta di promuovere realizzazioni e contrastare tendenze, avendo come obiettivo i principi di libertà, di giustizia e di emancipazione sociale scritti nella Costituzione, in particolare nell’art. 3, secondo comma, richiamato in ogni possibile occasione. Nessuna riforma delle regole è indifferente rispetto alla sostanza – per rimanere nell’immagine – del gioco che viene giocato.
Ascoltiamo da lui due esempi. Il primo riguarda la pace e la guerra, la militarizzazione del mondo, un tema che è al centro dei timori, anzi delle angosce di Ingrao, sul quale egli è ritornato nel 2003, in dialogo con Alex Zanotelli (Non ci sto! Appunti per un mondo migliore, San Cesario di Lecce, Manni ed.). “È possibile – si chiede – ragionare di revisione o aggiornamento, o sviluppo della Costituzione [il riferimento è alla Commissione Bozzi e al suo fallimento] senza muovere da quei processi, e identificarne la natura e le conseguenze? È indubbio che la dimensione e la qualità raggiunte oggi dall’armamento nucleare, i suoi sviluppi nelle strategie militari intercontinentali […] mettono in discussione (adopero questo termine cauto) il significato, la validità, l’interpretazione degli articoli 11, 78 e 80 della Costituzione. Sono articoli che concernono poteri vitali. Sono norme che definiscono il volto della Repubblica, anzi per stare al termine della Costituzione: dell’Italia, cioè di un’entità che va oltre lo Stato-organizzazione, e riguarda il nostro essere comunità e popolo e nazione, se vogliamo adoperare termini più semplici. Si può discutere quale risposta dare a questi problemi […] Ma mi sembra davvero difficile non assumere quel problema come essenziale, e ragionare oggi sulla Carta costituzionale, senza metterlo al centro della ricerca e della proposta conclusiva”.
Ancora. “Si trova scritto nelle pagine dei giornali, nei documenti degli specialisti o delle organizzazioni interessate o delle istanze di governo e parlamentari, che siamo a un passaggio d’epoca, e dinanzi a una soglia sinora mai sperimentata: per cui lo sviluppo dell’industria e dell’innovazione industriale (questi veri e propri simboli del mondo moderno) almeno per un periodo prevedibile, lungi dal determinare […] crescita dell’occupazione, minacciano di portare a una riduzione degli occupati (conoscete le cifre impressionanti già sull’oggi). Come possono o devono essere gestiti questi processi del tutto inediti e gravidi di conseguenze? Con quali possibili innovazioni nei soggetti, nelle procedure, nella distribuzione dei poteri? La Costituzione non è affatto indifferente a questi temi. Anzi li indica come fondamentali; altrimenti non si capirebbe l’art. 3, e tutto il Tirolo III dei “Rapporti economici”, sino agli articoli 41-46”.
(le contro-obiezioni di Ingrao) Quanto alle osservazioni di Bobbio a proposito del concetto di massa e di democrazia di massa, Ingrao chiarisce che non si tratta della folla informe che cede alle tentazioni irrazionali, diremmo oggi, dell’anti-politica, ma che vuole riferirsi alla “trama dei partiti, alla rete dei sindacati, allo sviluppo di movimenti sociali nettamente diversi anche dai partiti e dai sindacati”: i movimenti ecologisti, delle donne, dei pacifisti, dei giovani; alla rete di associazioni che pur non danno luogo a rivendicazioni generali, perfino espressioni di natura corporativa e lobbistica. Si può ignorare questa realtà, che contiene anche elementi contraddittori, ma che comunque rappresentano la trama sociale “di massa” su cui operano le moderne democrazie? Si può pensare a una democrazia solo di individui? A un “elenco di elettori”? La realtà è quella di molti individui organizzati che “pensano insieme” e insieme agiscono secondo programmi comuni duraturi, iniziative comuni, vincoli reciproci che si prolungano prima e dopo il voto. Certo, queste forme di associazionismo possono portare a cristallizzazioni burocratiche e partitocratiche che soffocano l’autonomia individuale. Ma, allora, “perché non dovremmo parlare di società di massa, al di là del significato valutativo che si voglia dare a questa espressione?
Quanto all’egemonia: no, Ingrao non è d’accordo con Bobbio che la riduce alla semplice acquisizione del consenso elettorale. È qualcosa di diverso, un “consenso attivo” che riguarda “l’intera lettura di uno stato di cose”. L’egemonia è una forza culturale che muove i singoli, le loro organizzazioni e le relative espressioni politiche, capace di promuovere un’idea generale della vita sociale. Ingrao parla di “ideologia” come forza capace di indirizzare la direzione politica nazionale. È una questione di contenuti di pensiero e di azione che non possono non esistere in qualunque società organizzata. Storicamente, questi contenuti sono quelli fissati nella Costituzione, a partire dal già più volte citato art. 3, secondo comma. Il fattore egemonico, nel senso detto, introduce naturalmente una distinzione tra le strutture della società di massa, tra quelle capaci di egemonia e quelle puramente parassitarie e corporative, di cui s’è detto.
Infine, l’ossessione unitaria. Unità è certo una parola ricorrente nel vocabolario politico dei comunisti italiani, concede Ingrao. Ma non deve essere intesa in senso organicistico e totalizzante. L’unità è la principale “risorsa del potere” innovativo, necessaria per incidere sulle strutture del potere in atto, in un quadro conflittuale, date le condizioni sociali e politiche sfavorevoli in cui opera il movimento operaio. In fondo, aggiunge Ingrao, non facciamo che “imparare dai borghesi” che hanno saputo creare un blocco sociale capace di egemonia, non solo sommando voti, ma esercitando una funzione dirigente nazionale. L’unità di cui si parla, è “unità in funzione di una lotta”.
(le riforme costituzionali) In questo quadro si pongono le proposte di Ingrao a proposito del “governo costituente”, cui già s’è fatto cenno, e delle riforme istituzionali. Fermissimo nella difesa dei valori portanti della Costituzione (potremmo dire: della sua prima parte), Ingrao considera la “macchina dello Stato” insufficiente a raggiungere gli obbiettivi d’una politica funzionale alla loro traduzione in prassi sociale. Sotto certi aspetti, le sue proposte si avvicinano a quelle che ancora oggi hanno corso: riforma della legge elettorale, unicameralismo (“il bicameralismo non sta più in piedi”), rafforzamento dell’azione di governo. Ma, le singole proposte devono essere viste in un quadro d’insieme. Ciascuna riforma deve considerarsi in relazione alle altre: la riforma elettorale è legata al tipo di Parlamento che si vuole; il tipo di parlamento, al rapporto con l’esecutivo; la democrazia rappresentativa, al rapporto con la democrazia diretta. L’insieme degli interventi su questi punti finisce poi per investire il sistema dei partiti. Già allora si parlava dell’affanno della democrazia, anzi di “blocco della democrazia”. E già allora s’immaginava una democrazia dell’alternanza che aprisse la via a “strategie alternative”. La preoccupazione fondamentale era lo svuotamento della politica e la necessità del suo “rilancio in senso grande”, a fronte dei processi di concentrazione oligarchica del potere (ciò a cui già s’è fatto cenno) e di occultamento dei suoi attori e delle sue procedure (Ingrao, con riguardo al potere occulto, parla di “stato duale”, equivalente al “doppio stato”).
Il senso complessivo della proposta d’Ingrao, insieme alla contraddizione con le aspirazioni ch’erano consegnate alla cosiddetta “grande riforma”, ambita dall’allora Partito socialista e da altre forze collaterali, è colta immediatamente da Bobbio: “Tu ti sei sempre battuto per la centralità del Parlamento, i riformatori invece si sono posti il problema della riforma costituzionale allo scopo di rafforzare l’esecutivo”. In effetti, il pomo della discordia era ed è la sede del cosiddetto potere di “indirizzo politico”. Una cosa è se quella sede è nel Parlamento, altra se è nel governo, oppure è il frutto d’un confronto. A sua volta, una cosa è un sistema elettorale che vale come selezione e investitura d’una forte rappresentanza parlamentare capace d’elaborazione politica autonoma; un’altra, quando mira a un regime d’investitura (per quanto indiretta) del governo e del suo capo, come portatori d’una legittimazione indipendente e soverchiante su quella parlamentare. La democrazia parlamentare, di cui Ingrao è sempre stato tenace difensore, deve fare attenzione a che il baricentro della politica non si rovesci e, dal raccordo tra la base di massa con il parlamento tramite i partiti, non si passi al rapporto diretto degli elettori con l’esecutivo che emargina il Parlamento. I reali “processi” politico-sociali, i rapporti di forza, le culture concrete che sono sempre al centro del discorso di Ingrao sono profondamente influenzati, a seconda che s’imbocchi l’una o l’altra strada. Proposte di riforma a prima vista simili devono, perciò, essere tenuti distinti in conseguenza del quadro in cui li si colloca. Ad esempio, il superamento del bicameralismo o, radicalmente, l’abolizione del Senato possono fare della Camera dei deputati il luogo della massima espressione della rappresentanza e rafforzare la democrazia parlamentare; ma possono anche valere, al contrario, all’indebolimento della funzione parlamentare di fronte a un governo, legittimato da un idoneo sistema elettorale, che esige rapide ed efficienti ratifiche del suo indirizzo politico e dei provvedimenti conseguenti.
(riepilogo) Al di là delle questioni di parole – parole della politica, spesso cariche di ambiguità e sottintesi –, le questioni sulle quali le precisazioni aiutano a uscire dai malintesi, ciò che si può dire conclusivamente dal carteggio da cui ho preso spunto, è, forse, che il contrasto tra Bobbio e Ingrao è più apparente che reale. Questa conclusione non è dettata dall’amore per il compromesso a ogni costo o dal desiderio di finire comunque in gloria. Ciò di cui parla Bobbio ha bisogno di ciò di cui parla Ingrao. Il loro discorso si svolge su piani diversi che non si scontrano, ma si completano.
Bobbio parla della democrazia rispetto alle sue leggi di cornice entro la quale la lotta politica deve contenersi, Ingrao della democrazia come lotta politica; l’uno della democrazia come forma che presuppone una sostanza, l’altro della sostanza che implica una forma. Bobbio parla delle condizioni della democrazia, ma le possibilità non bastano se non ci sono forze che sappiano che farsi della democrazia, che ne abbiano bisogno per i propri progetti e che traggano la democrazia dal regno delle possibilità al regno della realtà. Se queste forze mancano, le forme, da sole, non sono capaci di suscitarle e la democrazia è destinata a essere solo il titolo d’un capitolo nei libri di diritto costituzionale. Del resto, che la forma non sia sufficiente; che essa sia destinata a diventare un guscio vuoto e perfino a risultare una formula mendace, occultatrice di realtà non o antidemocratiche, alla fine ripudiata dai cittadini, è Bobbio stesso a riconoscerlo: “io non posso separare la democrazia formale dalla democrazia sostanziale. Ho il presentimento che dove c’è soltanto la prima, un regime democratico non è destinato a durare” (Lettera a Guido Fassò del 14. 2. 1972, citata in L. Ferrajoli, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, vol. II, Bari, Laterza, 2007, pp. 112-113). Una conclusione perfettamente conforme alle preoccupazioni di Ingrao che credo giusto rammentare nel momento in cui di lui festeggiamo riconoscenti il contributo alla vita della Repubblica, ricordando cose dette più di trent’anni fa, ma valide non solo per quei tempi.
(Gustavo Zagrebelsky)
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