Grosseto, riesumati i resti del radarista di Ustica di LAURA MONTANARI da: repubblica.it

La moglie e i figli non hanno mai creduto al suicidio. Mario Alberto Dettori era di servizio nella base di Poggio Ballone, la notte della strage dell’aereo, disse: “Siamo stati a un passo dalla guerra”

Era uno dei radaristi dell’aeronautica militare in servizio nella base di Poggio Ballone, in Maremma, quando avvenne la strage di Ustica, il 27 giugno 1980. Quella notte tornando a casa a Grosseto confidò alla moglie: “Siamo stati a un passo dalla guerra”. Venne trovato impiccato sulla strada per Istia d’Ombrone, in Toscana sei anni dopo, nel 1987. Non venne fatta nemmeno l’autopsia e il fascicolo giudiziario fu frettolosamente chiuso come un caso di suicidio. Ma la famiglia di Mario Alberto Dettori non ha mai creduto al suicidio e adesso la figlia Barbara, appoggiandosi all’associazione antimafia Rita Atria ha presentato in procura a Grosseto nuove carte per riaprire il caso. I resti del maresciallo dell’aeronautica sono stati riesumati su disposizione della procura: “E’ avvenuto lo scorso 16 febbraio” conferma la figlia del radarista grossetano, Barbara Dettori che all’epoca della scomparsa del padre aveva 16 anni. “Non abbiamo mai creduto al suicidio, mio padre non lo avrebbe mai fatto, non era proprio il tipo e aveva tre figli piccoli. Noi siamo convinti che in quel posto non fosse solo – riprende la figlia – Vogliamo la verità”. Mario Alberto Dettori era uno dei testimoni chiave dell’inchiesta sul DC9 dell’Itavia che si inabissò con le 81 persone che erano a bordo. Adesso la procura ha disposto accertamenti sui resti che erano sepolti nel piccolo cimitero di Serpeto e le analisi verranno eseguite presso l’istituto di medicina legale di Siena. La notizia è stata diffusa ieri da alcuni giornali di Siena e dal Tirreno di Grosseto.

“Mio padre aveva paura, venne mandato per tre mesi in una base radar in Francia e tornò molto spaventato” riferisce

la figlia. Dettori dopo la notte di Ustica si era confidato anche con l’ex capitano dell’aeronautica Mario Ciancarella che fu radiato dalle forze armate con un decreto firmato dall’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini, ma la firma di quel provvedimento, a distanza di decenni è stata dichiarata falsa soltanto pochi mesi fa dal tribunale di Firenze. A Ciancarella confidò: “Capitano…siamo stati noi”.

La strage di Bronte dell’Agosto 1860: per non dimenticare le vergogne di Garibaldi e Nino Bixio da: Time Sicilia di Ignazio Coppola

 

Sembra incredibile che, ancora oggi, la Sicilia non si sia ancora liberata dal ricordo di questi due assassini. Ancora oggi le statue (soprattutto di Garibaldi) campeggiano in tante città della nostra Isola. E ancora oggi scuole e vie portano i nomi di questi due gaglioffi. Ricordiamo, in questo articolo, una strage che ancora oggi brucia

Dal 6 al 10 Agosto del 1860 esattamente 156 anni fa, a Bronte, Nino  Bixio, su mandato di Giuseppe Garibaldi, si rendeva protagonista di un atto scellerato ed infame che la storia quella vera e non quella paludata della storiografia ufficiale e scolastica ci ha tramandato e condannato come “l’eccidio di Bronte”.

Ciò val bene per ricordare e non diminticare su come i “liberatori” alla Nino Bixio intendevano trattare i siciliani e soprattutto, i contadini illusi dalla promesse dei decreti garibaldini sulla assegnazione delle terre, convinti che, finalmente, con l’arrivo di Garibaldi e delle camicie rosse potessero legittimamente essere garantiti i principi di libertà e di giustizia sociale.

In quel maledetto e torrido Agosto del 1860 ai siciliani ed ai brontesi, speranzosi che per loro le cose sarebbero cambiate in meglio, mal gliene incolse. A farli ravvedere dalle loto aspettative provvide alla bisogna il paranoico generale garibaldino – il già citato Bixio – che certo dei siciliani non aveva gran considerazione e stima, se è vero che, alla moglie Adelaide, durante l’impresa dei mille, così ebbe tra l’altro testualmente  a scrivere a proposito della Sicilia e dei siciliani:

“Un paese che bisognerebbe distruggere e gli abitanti mandarli in Africa a farsi civili”.

E’ con questo stato d’animo e questa predisposizione nei confronti dei siciliani che Bixio si presentò a Bronte prendendo, per tre giorni, alloggio al collegio Capizzi. La mattina del 6 agosto, con due battaglioni di bersaglieri, Bixio decise di ristabilire l’ordine che era stato turbato nei giorni precedenti dai popolani e dai contadini-vassalli della ducea di Nelson che, illusi, si erano ribellati rivendicando il diritto all’assegnazione delle terre ed al riscatto sociale promesso loro dai truffaldini decreti garibaldini.

All’avanzata di Garibaldi in Sicilia e con l’illusoria promessa di una più equa distribuzione delle terre furono molti, infatti, i paesi della Sicilia che, come Bronte, insorsero al grido “Abbassu li cappeddi, vulimi li terri”. Tra questi, Regalbuto, Polizzi Generosa, Tusa, Biancavilla, Racalmuto, Nicosia, Cesarò, Randazzo, Maletto, Petralia, Resuttano, Montemaggiore, Capaci, Castiglione di Sicilia, Centuripe, Collesano, Mirto, Caronia, Alcara Li Fusi, Nissoria, Mistretta, Cefalù, Linguaglossa, Trecastagni e Pedara.

Le aspettative del popolo e dei contadini nei confronti dei “cappeddi” ( i latifondisti ed i ricchi proprietari terrieri) furono represse in quei paesi con il piombo e nel sangue da quei garibaldini che avevano promesso loro terre, libertà e giustizia. Quello stesso piombo che, 34 anni dopo, nel 1894, l’ex garibaldino Francesco Crispi, che era stato prima segretario di Stato e teorico della spedizione dei Mille e successivamente, dopo l’Unità, divenuto presidente del Consiglio, ordinò di scaricare sui contadini siciliani che rivendicavano le terre e reprimendo così nel sangue con centinaia di vittime innocenti l’epopea dei Fasci Siciliani.

A distanza di anni con pedissequa ferocia, di fatto, si riproponeva, ancora una volta, in un bagno di  sangue, la logica della difesa del privilegio e della conservazione perché nell’ottica gattopardiana nulla cambiasse, prima con Garibaldi e poi con Crispi

Ma torniamo ai fatti e al grido di libertà dei contadini e dei cittadini di Bonte. Su pressione del console inglese di Catania, John Goodwin, a sua volta sollecitato dai fratelli Thovez amministratori della ducea per conto  della baronessa Bridport, Garibaldi, costi quel che costi, per reprimere la rivolta di quei brontesi che avevano avuto l’impudenza di ribellarsi agli inglesi suoi protettori e finanziatori dell’impresa dei Mille, invia per risolvere la questione ed assolvere questo sporco lavoro, come era nelle sue attitudini ed abitudini, il suo fedele luogotenente Nino Bixio.

Appena giunto, come primo atto, il “liberatore” (degli interessi degli inglesi e non dei contadini e dei siciliani), Bixio decretò lo stato d’assedio e la consegna delle armi imponendo una tassa di guerra, dichiarando il paese di Bronte colpevole di “lesa umanità” dando inizio a feroci rappresaglie senza concedere alcuna minima garanzia e guarentigia  alla cittadinanza. I nazisti ottant’anni dopo prenderanno lezioni da questi metodi dei “liberatori” garibaldini.

Bisognava dimostrare ai “padroni” inglesi che nessuno poteva toccare impunemente i loro interessi. E il paranoico “servo” con i suoi metodi criminali li accontentò appieno. Si passò ad una farsa di processo e tutto fu liquidato in poco tempo senza riconoscere alcun diritto alla difesa discutendo e dibattendo il tutto in appena quattro ore.

Alla fine, alle 8 di sera del 9 Agosto, calpestando ogni simulacro  di garanzia, era già tutto deciso con la condanna a morte di cinque cittadini che niente avevano avuto a che fare con i tumulti e le rivolte delle precedenti giornate che avevano turbato la tranquillità ed il sonno degli inglesi in quel di Bronte.

I cinque, la mattina del giorno dopo il 10 agosto, nella piazzetta della chiesa di San Vito, finirono vittime innocenti dinanzi al  plotone d’esecuzione. L’avvocato Nicolò Lombardo notabile del paese che, da vecchio liberale, con tanta speranza aveva atteso lo sbarco garibaldino sognando un futuro migliore per la sua terra dovette ricredersi in quell’attimo che la scarica di fucileria spense quel suo sogno e per l’avvenire il sogno di tanti siciliani. Con lui morirono Nunzio Spitaleri Nunno, Nunzio Samperi Spiridione, Nunzio Longhitano Longi, Nunzio Ciraldo Fraiunco. Quest’ultimo era lo scemo del paese che sopravvisse alla scarica di fucileria e invocando vanamente la grazia fu finito cinicamente con un colpo di pistola alla testa dall’ufficiale che aveva comandato il plotone

Dopo la feroce esecuzione, a monito per la popolazione di Bronte, i corpi delle vittime rimasero esposti ed insepolti per parecchio tempo.

Ma non era finita. A questo primo processo sommario ne seguì un altro altrettanto persecutorio e vessatorio nei confronti di coloro che avevano arrecato oltraggio ai grossi proprietari terrieri e agli inglesi della ducea. Il processo che si celebrò presso la Corte di Assise di Catania si concluse nel 1863 con 37 condanne esemplari di cui  25 ergastoli. Giustizia era stata fatta. I poveracci non avrebbero più alzato la testa.

Il 12 Agosto, dopo avere fatto affiggere nei giorni precedenti, a suo nome, un proclama indirizzato ai Comuni della provincia di Catania con il quale invitava i contadini a stare buoni e a tornare al lavoro nei campi pena ritorsioni e feroci rappresaglie, Nino Bixio ribadiva:

“Gli assassini e i ladri di Bronte sono stati puniti e a chi tenta altre vie crede di farsi giustizia da sé, guai agli istigatori e ai sovvertitori dell’ordine pubblico. Se non io, altri in mia vece rinnoverà le fucilazioni di Bronte se la legge lo vuole”.

Proclami e avvisi tendenti ad rassicurare baroni, latifondisti, proprietari terrieri e soprattutto gli inglesi che, con Garibaldi e Bixio, non c’era alcun pericolo di rivolte sociali. La rivoluzione garibaldina aveva mostrato il suo volto. Gli interessi della borghesia, dei latifondisti, degli inglesi che facevano affari in Sicilia e di quei settentrionali che in nome di Vittorio Emanuele in futuro li avrebbero fatti erano salvi e salvaguardati dalle camicie rosse.

E dire che a questi personaggi, come Nino Bixio e Giuseppe Garibaldi, i siciliani con un masochismo degno di miglior causa, hanno dedicato una infinità di via strade, piazze, scuole, monumenti e quant’altro a significativa memoria che da sempre siamo affetti dalla sindrome di Stoccolma, ossia quella di innamoraci dei nostri carnefici.

E’ ora di finirla. Prendendo  coscienza e consapevolezza della nostra vera storia, è giunto il momento di buttare giù lapidi, e disarcionare dai monumenti questi personaggi che, dipinti come falsi eroi, ci hanno depredato della nostra economia, della nostra storia, della nostra cultura e della nostra identità. I tribunali della storia che per fortuna sicuramente non sono quelli dei processi sommari di Bronte alla fine certamente condanneranno per i loro crimini questi personaggi: anticipiamo sin da ora  le sentenze e buttiamoli giù dai loro piedistalli.

Per quanto riguarda infine Gerolamo Bixio detto Nino, pochi sanno che, alla fine la giustizia divina, per le sue malefatte, più di quella degli uomini, gli presentò un conto salato, facendolo morire tra atroci dolori, sofferenze e tormenti in preda alla febbre gialla ed al colera a bordo della sua nave (s’era dato ai commerci con l’Oriente) il 16 dicembre del 1873, a Banda Aceh, nell’isola di Sumatra, a quel tempo colonia olandese.

Il suo corpo infetto chiuso in una cassa metallica fu sepolto nell’isola di Pulo Tuan che nella lingua locale significa isola del Signore. Successivamente tre indigeni, credendo di trovare qualche tesoro, disseppellirono la cassa denudarono il cadavere e poi lo riseppellirono vicino ad un torrente. Due di loro, infettati dal colera morirono nel breve giro di 48 ore. Anche da morto Bixio era riuscito a fare delle vittime. Roba da Guinnes dei primati.

I pochi resti del suo corpo ed alcune ossa, grazie al terzo indigeno sopravvissuto alla maledizione, vennero ritrovati nel giugno del 1876. Il 10 maggio del 1877 quello che rimaneva dei resti del massacratore di Bronte veniva cremato nel consolato italiano di Singapore. Il 29 Settembre di quello stesso anno le ceneri giunsero a Genova e seppellite nel cimitero di Staglieno.

L’avvocato Nicolò Lombardo e le altre vittime di Bronte, per loro buona pace, si può dire che per la morte atroce del loro aguzzino e per ciò che ne conseguì, erano state vendicate, alla fine, dalla Giustizia divina.

 

Avvertiamo i nostri lettori che abbiamo iniziato a raccontare la Controstoria dell’impresa dei Mille. Qui troverete la prima di nove puntate.

Vi consigliamo di legge anche questo articolo:

Soli i Siciliani possono salvare la Sicilia!

 

10 agosto 2016

Pietrogrado, quel febbraio 1917 di rabbia e fuoco: e la rivolta diventò rivoluzione di EZIO MAURO da: larepubblica.it

Pietrogrado, quel febbraio 1917 di rabbia e fuoco: e la rivolta diventò rivoluzione

Cronache di una rivoluzione /3 – Le operaie, i cosacchi e il primo Soviet: così a Pietrogrado nasce il nuovo mondo

SAN PIETROBURGO – Sembrava un febbraio qualsiasi, solo più freddo e affamato, quando le ragazze e le vecchie operaie uscirono alle sei di sera dal portone della filatura di cotone “Krasnaja Nit”, Filo Rosso. Undici minuti dopo tramontava un sole che non c’era, quel mercoledì, allargando il gelo dei meno 20 sulle fabbriche di Vyborg e portando su Pietrogrado il buio inconsapevole dell’ultima notte prima del naufragio che avrebbe affondato il mondo fino ad allora conosciuto.

Si può attraversare quel portone anche oggi, come se fosse una macchina del tempo aperta sulla storia grandiosa e terribile del 1917. Entro nello stanzone d’ingresso insieme con gli ingegneri programmatori di un’azienda informatica che ha affittato il secondo piano della vecchia fabbrica, passo tra i fumi e il vapore scaricati sull’asfalto che sembrano avvolgere il secolo e confonderlo.

Cerco proprio qui l’iskra, la scintilla che ha acceso l’incendio del Febbraio, divampato da questo cortile di filatoio in tutta la Russia, cent’anni fa. Quel giorno, le ragazze avevano ancora in testa il fazzoletto del lavoro, le donne anziane alzavano lo scialle di lana fin sul capo e tiravano fuori dai cappotti la borsa del “non si sa mai” con cui erano uscite di casa al mattino, sperando di riempirla al ritorno con qualcosa da mangiare, qualsiasi cosa. Poiché in Russia la coda chiama coda, è un allarme e una calamita, molte si fermarono al primo assembramento davanti a un negozio di alimentari e verdura, dov’erano finite le patate e qualcuno chiedeva alla folla in attesa se almeno era ricomparso lo zucchero

Ezio Mauro racconta la rivoluzione russa. Terza puntata: febbraio, Pietrogrado brucia

 

Quasi tutte andarono più avanti, cercando nel grande viale il forno più vicino, perché in fabbrica si era sparsa la voce che il generale Chabalov, comandante della regione, il mattino dopo avrebbe fatto scattare il razionamento del pane e della farina. Ore in coda al buio sul marciapiede, nel gelo, tra le voci più incontrollabili, come quella del burro salito a 4,3 rubli al chilo vicino al giardino Botanico, dello sciacallo sgozzato sulla Ligovskaja perché vendeva un litro di petrolio a 5 rubli, del pane nero di segale che prima costava 17 kopeki al chilo e proprio quel pomeriggio era comparso a qualsiasi prezzo solo nel quartiere Vasilevsky, per sparire subito, come dovunque in città.

La rabbia, il timore e la fatica di quella notte entreranno in fabbrica, il mattino dopo. Le donne che portano il peso del lavoro, della famiglia e del cibo che manca si ricordano che il 23 febbraio russo corrisponde all’8 marzo del calendario occidentale, il giorno della loro festa rovesciata in disgrazia. Decidono che non ne possono più dopo un giorno e una notte passati a inseguire il fantasma del pane russo, con la crosta scura e screpolata di farina che nei racconti di Nina Berberova ricorda il volto rugoso delle vecchie. Staccano gli impianti, chiamano allo sciopero gli uomini delle officine Putilov che da settimane chiedono un aumento di salario che non arriva. Escono sulla strada, girano l’angolo e quando sboccano sul Prospekt Sampsonievskij non sanno che proprio lì – a pochi metri da dove oggi c’è la concessionaria Bentley – si stanno affacciando sulla prima ora della rivoluzione.

Pietrogrado, quel febbraio 1917 di rabbia e fuoco: e la rivolta diventò rivoluzione

Il giorno del destino fu scelto per caso, senza sapere che sarebbe stato l’ultimo giovedì dell’impero. Le donne puntavano soltanto a raggiungere il centro, non a entrare nella storia. Pensavano di arrivare sul Nevskij per sfilare con la loro protesta davanti ai negozi di lusso e ai palazzi principeschi, salire fino alla cattedrale di Kazan per dire a Dio e allo Zar che volevano il pane, com’era scritto sugli striscioni improvvisati in cui si riconosceva un’intera città eccitata da un caos ipnotico e tutto un Paese stremato da una guerra che aveva mobilitato 12 milioni di uomini per perderne 1 milione e 800 mila in un solo anno. Dovunque, alle operaie in strada si aggiungono gli studenti, gli uomini delle fonderie di Vyborg senza lavoro per la serrata, le madri di famiglia che reclamano cibo, i passanti infuriati con gli speculatori.

La paura spinge la polizia a sbarrare i negozi man mano che si avvicina la protesta ma invece di svuotarsi, il cuore della capitale si riempie. I dimostranti diventano migliaia, urlano contro il governo, camminano tra gli applausi ma quando lasciano il quartiere operaio per entrare in centro, trovano il ponte Litejnyj chiuso con le barriere dei gendarmi e i “faraoni” – i poliziotti – schierati con la baionetta innestata. Soprattutto, vedono i cosacchi, le truppe zariste scelte per ogni repressione, alti sui loro cavalli del Don, con in testa la nera papakha in pelle d’agnello e soprattutto con le cartucciere minacciose cucite a tracolla sui caftani rossi.

Una vicenda storica durata trecento anni rimane per un lungo momento incerta tra il compiersi e il disfarsi, e non c’era luogo più adatto per questa sospensione della storia che un ponte di Pietrogrado, la città protesa “come un’aquila” sulla Russia – diceva Pietro il Grande – anch’essa ponte tra Mosca e l’Europa.

Quando il corteo avanza, suona la tromba militare sul Litejnyj che scavalca la Neva ghiacciata. Ma nonostante l’ordine i cosacchi non caricano, non alzano i frustini sulle donne in sciopero: si limitano a spingere i cavalli in mezzo alla folla che si apre e subito si richiude alle loro spalle, continua a camminare, arriva fino alla Duma e davanti al parlamento si ferma, quasi come se la rivoluzione sapesse che cosa voleva e cosa cercava, prima ancora di essere battezzata e riconosciuta.

LA PRIMA PUNTATA Rasputin, il diavolo santo che annunciò la fine dello Zar

Ezio Mauro racconta la rivoluzione russa. Prima puntata: Rasputin

In realtà il potere aveva un piano di contrasto, definito nei dettagli. Il gelo che paralizza i trasporti e blocca i rifornimenti, il malcontento nelle officine per gli arresti a fine gennaio di tutto il Gruppo Operaio per “associazione criminale mirante a creare una repubblica socialista”, la paura per le infiltrazioni dei bolscevichi nell’esercito, inquietano il governo del principe Golizyn e spingono lo Zar a dare poteri speciali al generale Chabalov aumentando la guarnigione fino a 160mila unità. Con il ministro degli Interni Protopopov che in quei giorni indossa addirittura l’uniforme di Capo della Gendarmeria e cova il piano segreto di soffiare sul fuoco della rabbia operaia per suscitare torbidi, soffocarli nel sangue e poi approfittare della crisi per arrivare ad una pace separata con la Germania.

Ma la ribellione di Pietrogrado prende un’altra strada, imprevedibile come i due sentimenti spontanei che si fronteggiano sui ponti della città. Non ci sono infatti due organizzazioni a confronto, con l’esercito da un lato e il mondo delle fabbriche dall’altro, ma due pezzi di popolo l’uno senza più appartenenza e l’altro ancora senza ideologia. Le operaie hanno deciso da sole di protestare in strada, scavalcando le formazioni rivoluzionarie che si troveranno a inseguire la rivolta dopo i primi giorni, non a guidarla: e i soldati sono in gran parte riservisti o giovani allievi che non hanno alcun addestramento anti-sommossa, temono di essere spediti al fronte, sanno presidiare un ponte ma non vogliono caricare la folla.

La guerra e la lontananza della Corte, intanto, hanno logorato l’autorità di un sovrano freddo e distante fino a sembrare insensibile, consumando anche il giuramento militare di fedeltà all’Imperatore, soprattutto in una città vacillante dove tutto scorre nel moto dei canali e solo la pietra è immobile. Il sacro legame tra la Corona e la Russia si disgiunge nel sacrilegio, quando il potere lascia il popolo nella paura ancestrale della fame.

Providenie, la provvidenza russa, fa il resto, e il mattino dopo – il 24 – è un venerdì pieno di sole col termometro che si alza e assemblee spontanee nelle mille fabbriche della città, dove gli operai non entrano nemmeno nei reparti. Centocinquantamila si rimettono in marcia verso il centro di Pietrogrado, di nuovo con le donne in testa. Gli uomini hanno in mano spranghe di ferro, cacciaviti, chiavi inglesi, gli slogan diventano politici, chiedono libertà, qualcuno urla contro la guerra.

A qualche decina di metri dal teatro Mariinskij, dove pochi giorni prima per salutare la missione alleata guidata da Lord Milner era risuonato per l’ultima volta l’inno imperiale, adesso molti cantano la Marsigliese che fa il suo ingresso in Russia, la terra del potere assoluto: “Rinunciamo al vecchio mondo, gettiamo la sua polvere ai nostri piedi, non adoriamo più il sacro vitello d’oro “.

Di fronte a una massa così imponente, dove spuntano le prime bandiere rosse, il potere organizza uno sbarramento rinforzato. Non si passa. Ma la spontaneità della protesta sfugge alle mappe militari. Uomini e donne scendono sul letto della Neva gelata, camminano sul fiume e si radunano in piazza Znamenskaja, di fronte alla stazione, da dove invadono le strade in tutte le direzioni. I soldati controllano la folla, parlano con le ragazze, non puntano le armi. Arriva la notizia che sono stati saccheggiati negozi, bloccati tram, rovesciate carrozze. La polizia a cavallo sguaina le sciabole, c’è qualche ferito, ma la giornata finisce tra comizi e arringhe improvvisate di un popolo di sudditi che trova la parola prima ancora della libertà, con i cosacchi che passano a due a due sui cavalli e accettano di bere dalla bottiglia offerta dai ribelli, circondati da cartelli che dicono “Basta col governo”, “Via Protopopov” e addirittura “Viva la Repubblica”.

Ormai la folla sta diventando un organismo collettivo, con decisioni comuni e un solo istinto. Quando scende il buio si ritrae, forse per timore di un attacco. E con la notte riappaiono i fantasmi, in una città senza elettricità ma comunque elettrica e già infuocata, senza trasporti ma riversata in strada, dove tutto sta accadendo e non si sa cosa sia. Tornano le paure, s’inseguono le voci. Dicono che gli infiltrati dell’Okhrana – la polizia segreta – vogliono disordini sanguinosi, raccontano di spie tedesche che manovrano per la pace, rivelano che bande di ladri camuffati da agenti organizzano false perquisizioni per sequestrare cibo e gioielli. Danno notizia di un assalto a un deposito di liquori a Vasilevskij Ostrov, del furto di mantelli nel guardaroba di un teatro del popolo, dell’assalto degli operai alla fabbrica del Litejnyj 3, dove hanno saccheggiato quel che hanno trovato.

LA SECONDA PUNTATA I demoni di Pietrogrado: gli ultimi giorni

Ezio Mauro racconta la rivoluzione russa. Seconda puntata: Pietrogrado, gli ultimi giorni

Poi, le leggende figlie di un’atmosfera surreale, come se si percepisse uno squarcio nell’epoca, un’incognita della storia in cui tutto può succedere perché nulla è impossibile e l’incredibile diventa il quotidiano. Ecco le croci bianche che qualcuno disegna di notte sui muri di qualche casa, come se volesse segnalare quelle famiglie. Ecco le “automobili nere” che compaiono senza targa e con le luci spente in via Povarskaja dove tre pistole escono dai finestrini per sparare nel buio, o in via Vozdvizhenka dove viene colpito un poliziotto e ferito lo studente Shapovalz. Poi si dileguano e corrono fino all’alba nelle chiacchiere e nell’insonnia di Pietrogrado.

Incredibilmente, l’Imperatore non crede alla febbre che brucia la capitale, anche se tutto intorno a lui barcolla. Sedici granduchi chiedono all’ex comandante in capo dell’esercito, Nikolaj Nikolaevic, di mettersi alla guida di un golpe, ma lui rifiuta. I rapporti di polizia sono sempre più allarmanti: “La rabbia cresce, gli umori inquietanti dei rivoluzionari clandestini arrivano al proletariato con la propaganda. Dopo le manifestazioni spontanee vedremo eccessi inesorabili, fino alla terribile rivoluzione “. Nella reggia di Zarskoe Selo tredici giorni prima del caos arriva il presidente della Duma, Mikhail Rodzjanko, con un appello disperato che sembra un ultimatum: “Bisogna cambiare tutto, le persone e il sistema di governo. È urgentissimo, non si può rimandare”. Ma si accorge che lo Zar sta pensando di sciogliere la Duma (tanto che consegna al governo un ukaz già firmato, con la data in bianco) e capisce che tutto è finito: “Non passeranno tre settimane che scoppierà una rivoluzione tale da spazzare via ogni cosa. E voi non potrete più regnare”.

Come se fosse il sovrano solitario di un regno impalpabile e parallelo, proprio a poche ore dall’inizio della fine lo Zar parte per il quartier generale di Mogilev, lasciando una capitale che sta divorando l’impero. “Hai un aspetto così stanco, così esaurito, Dio ti ha mandato una croce veramente terribile – gli dice il biglietto che trova in treno firmato da Alix, la Zarina – . Fa’ sentire il tuo pugno, l’amore non basta, devono imparare a temerti, mio piccolo Sole”. “Stai tranquilla – risponderà Nikolaj – non lo dimentico, ma non è necessario mostrare continuamente i denti a tutti”. È il 23 febbraio, quel giovedì fatale, e il diario dello Zar testimonia quel giorno la distanza non solo fisica, ma emotiva, culturale, politica, sentimentale dall’epicentro del cataclisma: “È stata una fredda giornata di sole…”.

Soltanto il giorno dopo Nikolaj II saprà della rivolta, derubricata dal telegramma della Zarina: “Mio preziosissimo amore, ieri ci sono stati dei disordini. Sull’isola Vasilevskij e sul Nevskij Prospekt dei poveri diavoli hanno assaltato un forno del pane. Hanno completamente raso al suolo il negozio di Filippov e contro di loro sono stati chiamati i cosacchi”. Ancora un giorno, e un nuovo telegramma: “Mio caro, scioperi e disordini sono solo delle provocazioni. Si tratta solamente di teppisti, ragazzini e ragazzine che corrono gridando di non avere pane per creare agitazione, e di operai che impediscono ad altri di lavorare. Comunque se la Duma si comporterà bene, tutto pas- serà e tornerà la calma”.

Quel giorno, sabato 25, a Piter i “disordini” mutano in rivoluzione, i “ragazzini” diventano insorti, le “provocazioni” si trasformano in politica, i “poveri diavoli” si accorgono all’improvviso che possono conquistare il potere, e incredibilmente lo vogliono. “Siamo davanti a una sollevazione popolare “, dice il governatore della città, Balk. L’operaio Kajurov, che guida il Comitato di Vyborg, vede arrivare i bolschevichi, i socialrivoluzionari, e sente cambiare di tono gli slogan urlati da 240 mila dimostranti: “No alla guerra”, “Abbasso l’autocrazia “, “Via lo Zar”.

Presto la città è paralizzata, diventa puro paesaggio di quel che accadrà. Verso mezzogiorno per interrompere i comizi davanti alla cattedrale di Kazan la polizia apre il fuoco, ferisce un operaio, la folla risponde lanciando bottiglie, pezzi di ghiaccio, granate. Al ponte il capo della Polizia Salfeev spinge il cavallo a caricare la massa che avanza ma viene disarcionato, gettato a terra, colpito alla testa con un bastone finché gli sparano al petto. I cosacchi guardano senza intervenire. Gli operai corrono da loro, si calano il berretto, li chiamano “fratelli”, le donne urlano di togliere le baionette dai fucili. Tutti portano notizie confuse. Un corteo sta assaltando i negozi sul Gostinyj Dvor, dove un drappello di dragoni spara e abbatte tredici persone. In piazza Znamenskaja avviene la svolta: quando la polizia a cavallo punta le pistole, una sciabolata taglia di netto la testa a un “faraone”: i cosacchi sono passati con gli insorti, la sommossa è ormai rivoluzione.

Nella notte, un telegramma dello Zar a Chabalov ordina di “soffocare la rivolta entro domani”. Ma al mattino di domenica, il 26, quando Protopopov porta un’icona sacra alla Duma chiedendo aiuto al cielo, è troppo tardi. La polizia prima dell’alba ha provato ad arrestare quasi cento attivisti rivoluzionari e tutto il Comitato bolscevico, ma la guida del movimento è ormai in mano agli operai di Vyborg. Quando arrivano verso il centro, trovano picchetti, sbarramenti, blindati, e soprattutto grappoli di mitragliatrici sulle scalinate, sui tetti, per controllare il Prospekt Nevskij e le vie di accesso.

È chiaro che ormai lo scontro è militare. Il nemico è la polizia, ma la partita è in mano all’esercito. Cosa faranno i soldati? La folla avanza, i gendarmi aprono il fuoco sul Prospekt Vladimir, lungo il Gostinyj Dvor, in piazza Znamenskaja, ci sono almeno 40 morti e decine di feriti. La folla va davanti alle caserme dei reggimenti che hanno sparato, il Pavlovskij, il Volynskij. In migliaia urlano verso le finestre, tra il suono delle ambulanze di una città impazzita, mentre scende la notte sul quarto giorno. Una notte inverosimile, con la borghesia e i Gran Principi che riempiono il teatro Mariinskij per la prima (e ultima) di Maskarad, il “Ballo in maschera” di Lermontov, dove in scena si mette a morte la dorata nobiltà imperiale, che dai palchi applaude la profezia in musica, circondata da una piazza deserta e livida nel buio.

Quando gli operai arrivano nel quartiere militare, il lunedì mattina, le caserme si stanno già ammutinando. Prima si ribella la Quarta Compagnia del reggimento Pavlovskij, alle sette del mattino gli allievi del Volynskij uccidono il comandante, poi tocca al Litovsky e al Preobrazhensky saccheggiare l’armeria e portare fucili e pistole Browning agli insorti. La notizia della diserzione di massa corre per tutta Pietrogrado. Salta l’Arsenale, escono 40mila fucili. Si spara dovunque, colpi in strada, per aria, dalle finestre, contro i cecchini appostati sui campanili di via Sergievskaja. Brucia il Tribunale, s’incendia la sede della polizia segreta, salgono le bandiere rosse sul palazzo dei principi Jusupov e su quello del Granduca Kirill. Senza ufficiali – in fuga – le truppe seguono la folla che spalanca le prigioni tra gli applausi, poi la sopravanzano e la guidano verso l’unico e ultimo centro di autorità ancora in piedi: la Duma a palazzo Tauride.

Diventata rivoluzione, la rivolta quasi chiede di essere guidata, e al suo quinto giorno cerca il cuore politico della Russia. Lo trova, esangue e moribondo, oltre le sei colonne doriche di Tauride, il palazzo favoloso del principe Potëmkin, favorito di Caterina II. Ciò che resta della Duma, con lo scioglimento sospeso, sta boccheggiando in queste stanze, incapace anche di decidere una seduta pubblica d’emergenza. Il presidente Rodzjanko cerca ancora di convincere lo Zar, con due telegrammi disperati: “La capitale è in mano all’anarchia – scrive il 26 – il governo paralizzato, le polizie si sparano tra di loro, è necessario un nuovo governo con la fiducia, ogni ritardo significa la morte. Prego Iddio perché in quest’ora la responsabilità non ricada sul Sovrano”. Inutilmente. Il giorno dopo l’ultimo messaggio all’Imperatore: “La situazione peggiora, bisogna adottare misure urgenti, domani è troppo tardi. È giunta l’ora estrema in cui si decide il destino della patria e della dinastia”. Silenzio. Nell’ala grande del palazzo finalmente il Consiglio degli Anziani decide di far nascere un Comitato Provvisorio con pieni poteri, embrione di un primo timoroso governo non scelto dallo Zar, con tutti i partiti meno l’estrema destra, e fa entrare i soldati ribelli a presidiare la Duma dall’interno.

Ma intanto due dirigenti menscevichi appena liberati dalla prigione Kresty si incontrano a Tauride con i deputati del “Blocco Progressista”. Si fanno dare le chiavi della sala 13 e dell’ufficio 12, e qui nasce quella notte il Comitato Esecutivo del Soviet Operaio di Pietroburgo. Per un testa-coda della storia, il Soviet prende forma in un palazzo simbolo dell’assolutismo, dove il Principe si mostrò alla grande festa dell’aprile 1791 col vestito ricoperto di diamanti e una coiffure talmente addobbata che veniva sorretta dall’aiutante di campo. Ma adesso, nella Sala Caterina c’era di tutto. Soldati, armi, viveri, munizioni, cappotti, bende, medicinali, scarpe, divise, bombe a mano, mitragliatrici, persino una macchina da cucire. Curiosi, cittadini, operai, soprattutto soldati.

Nello stesso palazzo si fronteggiano così i due nuovi poteri. Il Soviet, che controlla la guarnigione di Pietrogrado e chiede obbedienza a tutto l’esercito, cosciente della sua crescente autorità rivoluzionaria, e la Duma, che ha in mano la rete ferroviaria, quella telegrafica e l’esecutivo, ma sembra spaventata dalla sua stessa inedita autonomia post-zarista. A Tauride, in una confusione indescrivibile, arriva la notizia che anche il villaggio imperiale di Zarskoe Selo si schiera con la rivoluzione, e che la bandiera dello Zar è stata ammainata dal Palazzo d’Inverno, e al suo posto è salito un drappo rosso. Applausi, urla, pianti, spari in aria nel giardino d’inverno. Provo a rintracciare l’eco di queste voci, il fragore del 1917 sotto la cupola del palazzo, tra le 36 colonne che reggono l’enormità della sala Caterina. Non c’è più niente, solo i lampadari giganteschi costruiti in cartapesta dorata per sostenere quelle dimensioni senza peso, e le finestre da cui la folla si affacciava per vedere l’ultimo atto della rivoluzione, cent’anni fa.

Qui venivano a sottomettersi in quei giorni i battaglioni imperiali ribelli, ad uno ad uno, qui venivano a costituirsi i ministri del governo zarista, uno dopo l’altro. Qui si presentò il deputato Miljukov, capo del partito dei Cadetti, alle tre del pomeriggio: “Solo pochi giorni fa il governo russo sembrava onnipotente, ora giace nel fango, per la più corta e la meno sanguinosa tra tutte le rivoluzioni della storia. Sostituiremo un nuovo potere democratico all’antico potere caduto. Nessuno ci ha scelti, se non la rivoluzione. Quando sarà il momento ce ne andremo grati.

Quanto alla dinastia, l’antico despota rinuncerà benevolmente al trono oppure sarà rovesciato”. Nella sala vuota, adesso, stanno montando un set televisivo, una ballerina prova da sola con la musica dello Schiaccianoci che esce dal telefono, immortale, e sembra dire che tutto è stato soltanto una parentesi, anche quel Febbraio di fame, di rabbia, di ferro e di fuoco.
3. Continua.

Rosa Luxemburg, la rosa rossa del socialismo.. Josefina L. Martìnez (*) | lahaine.org da: resistenze.org


Traduzione da ciptagarelli.jimdo.com

17/01/2017

Mehring disse una volta che la Luxemburg era “la più geniale discepola di Karl Marx”. Brillante teorica marxista e acuta polemista, come agitatrice di massa riusciva a commuovere le grandi masse operaie.

Una delle sue parole d’ordine preferite era “primo, l’azione”; era dotata di una forza di volontà trascinatrice. Una donna che ruppe con tutti gli stereotipi che all’epoca ci si aspettava da lei, che visse intensamente la sua vita personale e politica.

Era molto piccola quando la sua famiglia traslocò dal paese di Zamosc a Varsavia, dove passerà la sua infanzia. Rozalia soffre di una malattia all’anca, mal diagnosticata, che la lascia convalescente per un anno a le produce una lieve zoppia che durerà per tuta la sua vita. Appartenente ad una famiglia di commercianti, sente nella propria carne il peso della discriminazione, come ebrea e come polacca nella Polonia russificata.

L’attività militante di Rosa comincia a 15 anni, quando si unisce al movimento socialista. Secondo il suo biografo P. Nettl aveva quell’età quando vari dirigenti socialisti furono condannati a morire sulla forca, cosa che colpì profondamente la giovane studentessa: “Nel suo ultimo anno di scuola era conosciuta come politicamente attiva e la si giudicava indisciplinata. Di conseguenza non le dettero la medaglia d’oro accademica, che le spettava per i suoi meriti studenteschi. Ma l’alunna più meritevole agli esami finali non era un problema solo nelle aule; allora era già, con sicurezza, un membro regolare delle cellule clandestine del Partito Rivoluzionario del Proletariato“.

Avvisata di essere nel mirino della polizia, Rosa intraprende la fuga clandestina a Zurigo, dove diventa una dirigente del movimento socialista polacco in esilio. Lì conosce Leo Jogiches, che sarà l’amante e il più caro amico di Rosa per molti anni, e suo compagno fino alla fine.

Dopo essersi laureata in Scienze Politiche –cosa allora inusuale per una donna – decide di trasferirsi in Germania per entrare nell’SPD, il centro politico della Seconda Internazionale. Lì conosce Clara Zetkin, con la quale instaura un’amicizia che durerà tutta la vita.

La battaglia per le idee

A Berlino dal 1898 Rosa si propone di misurare le sue armi teoriche con uno dei protagonisti della vecchia guardia socialista, Eduard Bernstein, che aveva iniziato una revisione profonda del marxismo. Secondo lui il capitalismo era riuscito a superare le sue crisi e la socialdemocrazia poteva raccogliere vittorie nel quadro di una democrazia parlamentare che sembrava ampliarsi sempre più, senza rivoluzione né lotte di classe.

Al “dibattito Bernstein” parteciparono molte penne, ma fu Rosa Luxemburg chi produsse la critica più acuta nell’opuscolo “Riforma o Rivoluzione”.

La Rivoluzione Russa del 1905, la prima grande esplosione sociale in Europa dopo la sconfitta della Comune di Parigi, venne percepita come una boccata di aria fresca dalla Luxemburg. Essa scrisse articoli e partecipò a molti comizi come portavoce dell’esperienza russa in Germania, finché riuscì a tornare clandestinamente a Varsavia per partecipare direttamente agli avvenimenti. E’ il “momento in cui l’evoluzione si trasforma in rivoluzione” scrive Rosa. “Stiamo vedendo la Rivoluzione Russa e saremmo degli asini se non imparassimo da essa“.

La Rivoluzione del 1905 aprì importanti dibattiti che dividero la socialdemocrazia. Su questa questione Rosa Luxemburg aveva la stessa posizione di Trotsky e di Lenin contro i menscevichi, difendendo l’idea che la classe lavoratrice doveva avere un ruolo da protagonista nella futura Rivoluzione Russa, contro la borghesia liberale.

Il dibattito sullo sciopero politico di massa attraversò la socialdemocrazia europea negli anni seguenti. L’ala più conservatrice dei dirigenti sindacali in Germania negava la necessità dello sciopero generale mentre il “centro” del partito lo considerava come uno strumento unicamente difensivo, valido per difendere il diritto al suffragio universale.

Rosa critica il conservatorismo e il gradualismo di quella posizione nel suo opuscolo “Sciopero di massa, partito e sindacati”, scritto in Finlandia nel 1906. Il dibattito si riapre nel 1910, quando la Luxemburg polemizza direttamente con il suo precedente alleato, Karl Kautsky.

Socialismo o regressione alla barbarie

L’agitazione contro la 1° Guerra Mondiale è un momento cruciale nella sua vita, una battaglia contro la defezione storica della socialdemocrazia tedesca che appoggia la propria borghesia, contro gli impegni assunti da tutti i Congressi socialisti internazionali.

Nella sua biografia, Paul Frölich segnala che, quando Rosa viene a sapere della votazione del blocco dei deputati della SPD, per un attimo cade in una profonda disperazione. Ma, come donna d’azione quale era, risponde rapidamente. Lo stesso giorno in cui si votano i crediti di guerra, nella sua casa si riuniscono Mehring, Karski e altri militanti. Clara Zetkin invia il suo appoggio e poco dopo si aggiunge Liebcknecht.Insieme pubblicano la rivista L’Internazionale e fondano il gruppo Spartacus.

Nel 1969 Rosa Luxemburg pubblica “L’opuscolo di Junius“, scritto durante la permanenza in una delle tante prigioni che sono diventate la sua residenza quasi permanente.

In questo lavoro esprime una critica implacabile alla socialdemocrazia e la necessità di una nuova Internazionale. Riprendendo una frase di Engels, la Luxemburg afferma che, se non si avanza verso il socialismo, resta solo la barbarie. “In questo momento è sufficiente guardarci attorno per capire cosa significa la regressione alla barbarie nella società capitalista. Questa guerra mondiale è una regressione alla barbarie“. Nel maggio 1916, Spartacus organizza la manifestazione del 1° maggio contro la guerra, dove Liebcknecht viene arrestato; ma la sua condanna al carcere provoca mobilitazioni di massa. Si annuncia un tempo nuovo.

1917: osare la rivoluzione

La rivoluzione russa del 1917 trovò in Rosa Luxemburg un fermo difensore. Senza smettere di esprimere le sue differenze e le critiche sul diritto all’autodeterminazione o sulla relazione tra l’assemblea costituente e i meccanismi della democrazia operaia – su quest’ultima questione cambierà posizione dopo essere uscita dal carcere nel 1918 – la Luxemburg scrive che “i bolscevichi hanno rappresentato tutto l’onore e la capacità rivoluzionaria di cui mancava la socialdemocrazia occidentale. La loro insurrezione di Ottobre non solo ha davvero salvato la Rivoluzione Russa, ma ha salvato anche l’onore del socialismo internazionale“.

Quando la scossa della rivoluzione russa colpisce direttamente la Germania nel 1918 con il sorgere dei consigli operai, la caduta del Kaiser e la proclamazione della repubblica, Rosa aspetta impaziente la possibilità di partecipare direttamente a questo grande momento della storia.

Il governo finisce nelle mani dei dirigenti della socialdemocrazia più conservatrice, Noske e Ebert, dirigenti del PSD – questo partito si era scisso con la rottura dei socialdemocratici indipendenti, il USPD.

Nel novembre di quell’anno il governo socialdemocratico raggiunge un accordo con lo Stato maggiore militare e con i Freikorps per liquidare la rivolta degli operai e delle organizzazioni rivoluzionarie.

Rosa e i suoi compagni, forndatori della Lega di Spartaco, nucleo iniziale del Partito Comunista Tedesco dal dicembre 1918, vengono duramente perseguitati.

Il 15 gennaio un gruppo di soldati arresta Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg alle nove di sera. Rosa “riempì una valigetta e prese alcuni libri“, pensando si trattasse di un altro periodo di carcere. Avvertito dell’arresto, il governo di Nolke lasciò Rosa e Karl nelle mani degli infuriati Freikorps – corpo paramilitare di ex veterani dell’esercito del Kaiser. Venne organizzata una messa in scena: essi furono fatti uscire dall’Hotel Eden ma, appena usciti dalla porta dell’hotel, furono colpiti alla testa coi calci dei fucili, trascinati per terra e uccisi.

Il corpo di Rosa fu gettato nelle scure acque del fiume dal ponte di Landwehr. Fu ritrovato tre mesi dopo.

Un anno prima, in una lettera dalla prigione inviata a Sofia Liebknecht la vigilia del 24 dicembre 1917, Rosa scriveva con un profondo ottimismo sulla vita: “E’ il mio terzo natale dietro le sbarre, ma non farne una tragedia. Io sono tranquilla e serena come sempre . (…)  Sto qui sdraiata, quieta e sola, avvolta nei vari panni neri delle tenebre, della noia, della prigionia in inverno (…) Io credo che il segreto non sia altro che la vita stessa: la profonda penombra della notte è così bella e morbida come il velluto, se una sa guardarla“.

Clara Zetkin, forse la persona che meglio la conosceva, scrisse sulla sua grande amica e compagna Rosa Luxemburg, condividendo quell’ottimismo, dopo la sua morte: “Nello spirito di Rosa Luxemburg l’ideale socialista era una passione soggiogante che trascinava tutto; una passione, ugualmente, del cervello e del cuore, che la divorava e la spingeva a creare. L’unica ambizione grande e pura di questa donna senza pari, l’opera di tutta la sua vita, fu di preparare la rivoluzione che doveva portare al socialismo. Il poter vivere la rivoluzione e prendere parte alle sue battaglie era per lei la suprema gioia (…). Rosa ha messo al servizio del socialismo tutto quello che era, tutto ciò che valeva, la sua persona e la sua vita. L’offerta della sua vita all’idea non l’ha fatta solo il giorno della sua morte; l’aveva già data pezzo per pezzo, in ogni minuto della sua esistenza di lotta e di lavoro. Per questo poteva legittimamente esigere lo stesso dagli altri, che dessero tutto, compresa la vita, per il socialismo. Rosa Luxemburg simbolizza la spada e la fiamma della rivoluzione, e il suo nome resterà scritto nei secoli come quello di una delle più grandiose e insigni figure del socialismo internazionale“.

(*)  Storica e giornalista spagnola.

(traduzione di Daniela Trollio Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”)

27 gennaio Giornata della Memoria

 

I sopravvissuti all’olocausto sono rimasti in pochi
Sarà compito nostro tenere viva la Memoria

Liliana Segre (Milano, 10 settembre 1930) è una reduce dell’olocausto italiana, sopravvissuta ai campi di concentramento nazisti e testimone di essi.

Biografia da: Wikipedia

Nata a Milano in una famiglia ebraica, Liliana Segre visse insieme a suo padre, Alberto Segre, e ai nonni paterni, Giuseppe Segre e Olga Loevvy.[1] La madre, Lucia Foligno, era morta quando lei non aveva ancora compiuto un anno. Di famiglia laica, la consapevolezza di essere ebrea giunge a Liliana attraverso il dramma delle leggi razziali fasciste del 1938, in seguito alle quali viene espulsa dalla scuola.

Dopo l’intensificazione della persecuzione degli ebrei italiani suo padre la nascose da amici utilizzando documenti falsi. Il 10 dicembre 1943 cercò, assieme al padre e due cugini, di fuggire in Svizzera, ma furono respinti dalle autorità svizzere. Il giorno dopo la Segre venne arrestata a Selvetta di Viggiù in Provincia di Varese; a quel momento aveva soltanto 13 anni. Dopo sei giorni nel carcere a Varese fu trasferita a Como e alla fine a Milano, dove fu detenuta per quaranta giorni.

Il 30 gennaio 1944 venne deportata dal Binario 21 della stazione di Milano Centrale al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, che raggiunse sette giorni dopo. È subito separata dal padre, che non rivedrà mai più, morto ad Auschwitz il 27 aprile 1944. Nel giugno del 1944 anche i suoi nonni paterni, arrestati a Inverigo (Como) il 18 maggio 1944, furono deportati e uccisi al loro arrivo ad Auschwitz il 30 giugno.[1]

Alla selezione Liliana Segre riceve il numero di matricola 75190 tatuato sull’avambraccio. Fu impiegata nel lavoro forzato nella fabbrica di munizioni Union, che apparteneva alla Siemens, lavoro che svolse per circa un anno. Durante la sua prigionia subì ancora tre altre selezioni. Alla fine di gennaio del 1945 affrontò la marcia della morte verso la Germania dopo l’evacuazione del campo.

Liliana venne liberata il primo maggio 1945 al campo di Malchow, un sottocampo del campo di concentramento di Ravensbrück. Dei 776 bambini italiani di età inferiore ai 14 anni che furono deportati al Campo di concentramento di Auschwitz, Liliana è tra i soli 25 sopravvissuti.[2]

Dopo lo sterminio nazista vive con i nonni materni, di origini marchigiane, unici superstiti della sua famiglia. Nel 1948 conosce Alfredo Belli Paci, cattolico, anch’egli reduce dai campi di concentramento nazisti per essersi rifiutato di aderire alla Repubblica Sociale. I due si sposano nel 1951 e hanno tre figli.

Della sua esperienza, per molto tempo, Liliana non ha mai voluto parlare pubblicamente. Ha deciso di interrompere questo silenzio nei primi anni ’90 e da allora si è resa disponibile a partecipare a decine e decine di assemblee scolastiche e convegni di ogni tipo per raccontare ai giovani la propria storia anche a nome dei milioni di altri che l’hanno con lei condivisa e che non sono mai stati in grado di comunicarla.[3]

Nel 2004 è, con Goti Herskovits Bauer e Giuliana Fiorentino Tedeschi, una delle tre donne ex-deportate intervistate da Daniela Padoan nel volume Come una rana d’inverno. Conversazioni con tre donne sopravvissute ad Auschwitz (Bompiani, Milano).

Nel 2005 la sua vicenda è ripercorsa con maggiori dettagli in un libro-intervista di Emanuela Zuccalà: Sopravvissuta ad Auschwitz. Liliana Segre fra le ultime testimoni della Shoah (Milano: Paoline Editoriale Libri).

Nel 2009 la sua voce è inclusa nel progetto di raccolta dei “racconti di chi è sopravvissuto”, una ricerca condotta tra il 1995 e il 2008 da Marcello Pezzetti per conto del Centro di documentazione ebraica contemporanea che ha portato alla raccolta delle testimonianze di quasi tutti i sopravvissuti italiani dai campi di concentramento allora ancora viventi.[4]

Sempre nel 2009 partecipa al film/documentario di Moni Ovadia, diretto da Felice Cappa, che si ispira al poema del poeta di origine russa Yitzhak Katzenelson “Il canto del popolo ebraico massacrato”.

Il 27 novembre 2008 l’Università di Trieste le ha assegnato la laurea honoris causa in Giurisprudenza.[5] Il 15 dicembre 2010 L’Università degli Studi di Verona le ha assegnato la laurea honoris causa in Scienze pedagogiche.

Etiopia al bivio Capitolo 2 – La dittatura di Mènghistu da: www.resistenze.org

Capitolo 1: L’impero di Sélassié [Prima parteSeconda parteTerza parte]

Mohamed Hassan, Grégoire Lalieu | investigaction.net
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

10/10/2016

Prima parte

Al di là dei miti, l’impero di Hailé Sélassié nascondeva una realtà terribile per la maggior parte degli etiopi. Guidati da un grande movimento popolare, giovani ufficiali dell’esercito rovesciavano l’imperatore nel 1974. Mènghistu diventa il nuovo uomo forte dell’Etiopia, ma si mostra incapace di rispondere alle aspirazioni del popolo. Come ha fatto la rivoluzione a far scivolare il paese nella dittatura militare? Perché gli etiopi furono condannati alla miseria che ebbe il suo apice con la drammatica carestia del 1984? Perché, mentre Michael Jackson e le star del mondo intero raccoglievano fondi per le vittime, Bernard-Henri Lévy e Glucksmann non volevano aiutare l’Etiopia? In questa seconda parte della nostra intervista, Mohamed Hassan esplora le contraddizioni della dittatura militare del Derg. Rivela anche le origini del TPLF (Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè, ndt), quell’organizzazione politica che ha rimpiazzato Mènghistu e che si aggrappa al potere da oltre venti anni. Domenica 9 ottobre, mentre la rivolta tuona ovunque nel paese, il TPLF ha dichiarato lo Stato di emergenza.

Di fronte alla rivolta crescente, Hailé Sélassié avvia le riforme e nomina un giovane primo ministro. Questi cambiamenti non hanno semplificato le cose. Perché?

Gli etiopi non erano più creduloni. I ministri non potevano più agire da fusibile, questa tecnica era già stata usata. E le ultime riforme avviate dall’imperatore e dal suo giovane primo ministro come polvere negli occhi, non potevano mascherare l’inevitabile realtà: l’Etiopia non si era mai realmente modernizzata. La sua economia non era ancora uscita dal Medioevo, ma si era nella seconda metà del XX secolo… L’aristocrazia viveva sempre sulle spalle dei contadini mentre l’industria impiegava soltanto 60.000 persone circa e forniva soltanto il 15% del PIL. Il 70% degli investimenti veniva dall’estero. Contemporaneamente ci fu un’esplosione della popolazione nelle grandi città. Tra gli anni 50 e 70, il numero di abitanti di Addis-Abeba era passato da 300.000 a 700.000, anche altre città della provincia raddoppiarono di grandezza. Ma l’economia non aveva seguito questa tendenza, tanto che il tasso di disoccupazione urbana poteva raggiungere il 50%. (1)

Quando Sélassié rese la stampa e il dibattito più liberi, non riuscì a fermare il gioco. Al contrario, le tensioni si inasprirono ulteriormente. Gli Etiopi potevano dire tutto il male che pensavano dell’imperatore e del suo regime feudale. In questo contesto emersero due partiti civili, con radici nel movimento studentesco. I più giovani erano raccolti nel Partito Rivoluzionario del Popolo Etiope (EPRP), mentre la vecchia generazione militava nel Movimento Socialista Panetiopico (MEISON). Le due formazioni condividevano le stesse idee sull’uguaglianza delle nazionalità. Erano anche convinte che occorresse guadagnare il sostegno dei contadini con una riforma agraria. Sarebbe allora stato finalmente possibile costituire una base sociale importante per condurre una rivoluzione nazionale democratica.

Se l’EPRP e il MEISON condividevano le stesse idee e lo stesso piano di battaglia, perché non unirono le loro forze?

I due partiti erano in disaccordo sul ruolo dell’esercito. Per i giovani dell’EPRP, soprattutto quelli piccolo-borghesi venuti dalle città, la rivoluzione avrebbe potuto essere condotta soltanto in uno Stato democratico in cui il potere era affidato ai civili. Tuttavia la vecchia guardia del MEISON riteneva che occorresse appoggiarsi all’esercito, sfruttando le contraddizioni di classe che attraversavano quest’istituzione meglio organizzata. Il MEISON voleva così sostenere le rivendicazioni dei piccoli ufficiali per rovesciare il governo. Questo partito aveva di fatto adottato le teorie del dirigente sovietico Nikita Chruščёv. Sosteneva che in Africa l’intellighènzia rivoluzionaria e gli ufficiali rivoluzionari avrebbero potuto costruire uno Stato socialista se avessero unito le loro forze.

Il MEISON aveva fatto una buona scelta? Sono molti gli ufficiali dell’esercito che rovesciaranno l’imperatore.

Purtroppo, non era così semplice. Tanto l’EPRP, che il MEISON si attestavano sulle loro posizioni. Anziché proseguire le discussioni e tentare di sviluppare un nuovo approccio che avrebbe potuto soddisfare tutti sulla base delle numerose convergenze, i membri dei due partiti hanno cominciato a uccidersi. Letteralmente! Fu una lotta atroce. Quasi 1.200 giovani rivoluzionari persero la vita a causa di questo conflitto tra i due partiti, che erano ancora solo dei movimenti guidati da piccolo-borghesi. L’EPRP e il MEISON aspiravano a diventare partiti di massa sviluppando una base sociale fra i contadini e gli operai. Ma fallirono a causa dei loro dissensi.

Gli ufficiali rivoluzionari hanno approfittato di questa situazione per prendere il potere e insediare il Derg, che significa “comitato militare” in riferimento ai comitati di soldati che erano stati inviati presso l’imperatore. Il nuovo uomo forte dell’Etiopia era il tenente colonnello Mènghistu Hailè Mariàm. Inizialmente ha sostenuto la repressione dei membri del MEISON che erano ostili a un’alleanza tra civili e soldati. Ma si è in seguito rivolto anche contro i quadri del EPRP che avevano sostenuto gli ufficiali rivoluzionari. Mènghistu non intendeva condividere il potere. Organizzò così una grande operazione d’alfabetizzazione delle campagne. Gli studenti dovevano essere gli ambasciatori della rivoluzione etiope presso i contadini. Dovevano insegnare loro a leggere e scrivere, ma anche predicare la buona parola rivoluzionaria nelle campagne. In realtà, quest’operazione mirava soprattutto ad allontanare gli studenti dalla capitale affinché non contestassero il nuovo potere. La CELU (Confederazione dei sindacati etiopi, ndt), principale sindacato etiopico, aveva militato al fianco del movimento studentesco per fare cadere Sélassié. Quando Mènghistu volle allontanare questi giovani rivoluzionari, il sindacato protestò convocando uno sciopero generale. Invano. Il tenente colonnello fece immediatamente fermare i principali dirigenti della CELU.

Quali cambiamenti ha portato il Derg in Etiopia?

Gli ufficiali del Derg si rivendicavano marxisti sul modello dei principali movimenti rivoluzionari del paese all’epoca. Arrivato al potere, il Derg ha dunque lanciato una grande ondata di nazionalizzazioni. Le principali industrie cadevano così nelle mani dello Stato. Partenariati con il privato erano consentiti per alcuni settori come la ricerca mineraria e l’edilizia. Infine, alcune parti dell’economia restavano completamente private, come il trasporto e la piccola manifattura.
Ma la sfida principale era sull’agricoltura. Il Derg iniziò un cambiamento radicale applicando lo slogan dei comunisti cinesi che aveva risuonato durante le manifestazioni etiopi: la terra a quelli che la coltivano. Concretamente, Mènghistu lanciava nel 1975 una grande riforma agraria. Le terre erano dichiarate di proprietà dello Stato senza alcun compenso ai proprietari terrieri. Cooperative di contadini furono organizzate e le terre distribuite a quelli che non ne avevano, con un limite di dimensione per lo sfruttamento. La vendita e l’affitto di terreni furono vietati. La riforma agraria ebbe un grande impatto soprattutto nel sud del paese dove lo sfruttamento dei contadini era molto più duro. Espropriando i grandi proprietari terrieri, la riforma agraria permise anche di minare le fondamenta del vecchio regime, quindi di consolidare il potere del Derg.

Queste riforme hanno permesso di migliorare le condizioni di vita degli etiopi?

Non proprio. L’analisi del Derg non era del tutto errata e rispondeva in parte alle aspirazioni popolari. Ma la mancanza di abilità del governo, il suo autoritarismo, la sua ignoranza in fatto di particolarità etiopi e la mancanza di dialogo, hanno reso l’applicazione delle riforme, sterile. Prendiamo l’esempio della riforma agraria. Era assolutamente necessaria e l’idea di attribuire le terre ai contadini era eccellente. Ma poco tempo dopo la sua entrata in vigore, il Derg rivedeva il sistema di tassazione, con spese per l’utilizzo dei terreni agricoli e una tassa sui redditi. Inizialmente molto bassi, i tassi andavano gradualmente ad aumentare. I contadini erano inoltre obbligati a vendere la loro produzione a un’agenzia pubblica, con prezzi fissati dallo Stato.

Dopo l’aristocrazia del vecchio regime e i suoi ricchi proprietari terrieri, i contadini caddero sotto una nuova forma di sfruttamento?

In realtà, mentre l’agricoltura rappresentava il principale settore economico, il Derg desiderava aumentare i redditi agricoli per generare un surplus che avrebbero permesso allo Stato di acquistare ciò che gli mancava. Avrebbe potuto così investire nello sviluppo di altri settori economici e modernizzare il paese. Ma le tasse, così come furono applicate, hanno avuto un effetto controproducente. I contadini producevano meno e consumavano maggiormente i frutti della loro fatica, poiché non avevano alcuna motivazione a rimettere allo Stato la grande parte del loro lavoro. Questo sentimento dei contadini era accentuato dai molti funzionari e organismi pubblici che prendevano posto nella catena. Erano percepiti come parassiti. La produzione agricola dunque non decollò come il Derg sperava. E Mènghistu era furioso: “Produrre solo ciò che è necessario per la propria famiglia, rifiutare di mettere le colture sul mercato fino a che i prezzi aumentano, produrre volontariamente meno per fare salire i prezzi, tutto ciò è una manifestazione di atteggiamenti individualisti e antisocialisti.” (2)

I movimenti rivoluzionari affermavano che occorreva guadagnare il sostegno dei contadini per sviluppare un partito di massa. Mènghistu ha fallito?

Sì, è stato un fallimento. I contadini si erano liberati dei parassiti del vecchio regime, ma vedevano sbarcare nuovi intermediari. Questa è stata la mia percezione. “Pensate forse che siamo pigri, sintetizzava un coltivatore di caffè. Non lo siamo. Guardate come lavoriamo e siamo pronti a lavorare ancora di più. Ma più produciamo, più l’appetito di quelli che vivono a nostre spese aumenta” (3). Il governo aveva organizzato delle associazioni di contadini controllate da funzionari. In alcune regioni, erano diventate i vertici della contestazione. I contadini vi facevano le loro rivendicazioni. Richiedevano l’eliminazione degli intermediari inutili nella filiera agricola e un migliore controllo della loro produzione. Mènghistu non li ha ascoltati, ha replicato con l’arresto degli agitatori. Con la repressione dei sindacati e degli studenti, quest’episodio mostra bene come il Derg si sia stabilito con la dittatura militare, anziché sostenersi sulle masse.

Lungi dal soddisfare le aspettative del governo sulla produzione, i problemi del settore agricolo sono sfociati nel dramma con la carestia del 1984. Una delle peggiori in Etiopia. Secondo le principali stime, avrebbe causato quasi 500.000 vittime.

Mènghistu non aveva più scuse di Sélassié. La siccità è un fattore naturale, non la carestia. Ero in Belgio all’epoca. Mi ricordo che le persone raccoglievano prodotti alimentari all’uscita di un supermercato per inviarli in Etiopia. Ho parlato con loro e nel loro carrello, avevo trovato prodotti che venivano… dall’Etiopia! Infatti, questo grande paese dispone di molte risorse e ha tutte le capacità per nutrire la sua popolazione. Ma molti ostacoli si sono sempre posti sul cammino della sicurezza alimentare. La topografia del paese innanzitutto. L’Etiopia è attraversata da montagne ripide, alle quali rispondono valli profonde. Numerosi esploratori hanno testimoniato la complessità dei paesaggi etiopi. Le strade e altri mezzi di comunicazione sono dunque difficili da predisporre, cosa che ha un impatto serio sul commercio, l’agricoltura e lo sviluppo dei servizi per la popolazione.

Ma quest’ostacolo non è impossibile da superare. Purtroppo, i regimi che si sono succeduti non sono stati all’altezza di raccogliere la sfida. Era impossibile nell’Etiopia feudale di Sélassié. Non è stato possibile sotto la dittatura militare del Derg. Mènghistu è andato dritto, senza sufficientemente riflettere, né dialogare. Ha voluto applicare teorie marxiste utilizzate altrove, senza tenere conto delle specificità etiopiche. Ma il marxismo non ha le istruzioni per l’uso, che occorre seguire alla lettera per riuscire. È una griglia d’analisi, un attrezzo da adattare al luogo e all’epoca. E come per qualsiasi attrezzo, è più importante il modo di usarlo. Con un martello, posso costruire una casa o rompere il cranio del mio vicino. Il problema non è dunque il martello, ma quello che lo tiene.

(continua)

Note:

1. Gérard Prunier, L’Ethiopie contemporaine, Editions Karthala, 2007

2. John Markakis, Ethiopia. The Last Two Frontiers, James Currey, 2011

 

Nel 60° anniversario degli eventi controrivoluzionari in Ungheria del 1956 da: www.resistenze.org

 

Partito Comunista di Grecia (KKE) | kke.gr
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

26/10/2016

Nel seguito estratti della pubblicazione del CC della KNE “La verità e le menzogne sul Socialismo” (Synchroni Epohi 2012) in relazione agli eventi controrivoluzionari che hanno avuto luogo in Ungheria nel 1956.

“5. Gli eventi controrivoluzionari nei paesi dell’Europa orientale

“Nell’autunno 1956 l’Ungheria annunciò il suo ritiro dal Patto di Varsavia, ma le truppe sovietiche invasero il paese e soppressero la rivolta”.

“Nel 1968 il tentativo cecoslovacco di prendere le distanze da Mosca venne contrastato dall’invasione del paese da parte degli Stati membri del Patto di Varsavia”.

(Manuale di storia di 3° superiore)

L’esperienza storica dell’edificazione del socialismo in Unione Sovietica e nelle democrazie popolari d’Europa ha confermato che la lotta di classe continua durante la costruzione del socialismo, il che significa che una controrivoluzione è possibile. I tentativi di rovesciare il potere operaio in un certo numero di paesi europei (il tentato colpo di stato controrivoluzionario nella DDR nel 1953, i tentativi controrivoluzionari in Ungheria nel 1956, in Cecoslovacchia nel 1968 e in Polonia nel 1980-81) non sono stati altro che tentativi delle classi borghesi sconfitte di questi paesi di riprendere il potere. Questi sforzi, come vedremo in seguito, sono stati fortemente sostenuti dall’imperialismo internazionale in vari modi.

Naturalmente, un ruolo catalizzatore in relazione alla comparsa delle azioni controrivoluzionarie di cui sopra, venne svolto dalle forze opportuniste predominanti negli organismi di Partito e di Stato. Queste leadership non solo indebolirono la vigilanza verso l’attività dell’imperialismo e sottovalutarono l’acuirsi della lotta di classe, ma nel processo i partiti stessi divennero veicoli controrivoluzionari, perfino guidando forze popolari alla controrivoluzione e sostenendo azioni controrivoluzionarie (ad esempio Nagy in Ungheria, Dubcek in Cecoslovacchia).

Tutte queste azioni controrivoluzionarie vengono presentate dalla propaganda imperialista come rivolte per la “democrazia” e contro la “repressione”, mentre il comportamento dell’Unione Sovietica e degli altri paesi socialisti è stigmatizzato come una “invasione”.

Ciò che è scritto nei libri di testo scolastici è emblematico e trova corrispondenza nella stampa borghese in occasione degli “anniversari” degli eventi. L’interpretazione che viene data dalla propaganda imperialista agli eventi è accettata anche dall’opportunismo.

Ma che cosa è realmente accaduto? Occorre esaminare come si sono sviluppati e sono stati organizzati gli eventi controrivoluzionari in Ungheria e Cecoslovacchia.

I controrivoluzionari hanno organizzato una caccia all’uomo su larga scala diretta principalmente contro i membri e i quadri del Partito dei lavoratori ungherese. Il 30 ottobre 1956 ad esempio, secondo la Associated Press, 130 funzionari di Partito sono stati sequestrati e sono stati impiccati a testa in giù o picchiati a morte.

Il tentativo controrivoluzionario in Ungheria

Tra il 13 e il 16 giugno 1953, la direzione del partito guidato da Mathias Rakosi, Segretario Generale del CC e Primo ministro, rese visita all’URSS su invito della leadership sovietica. Dopo questa visita, l’Ufficio Politico del Partito decise di includere tra i quadri del partito, Imre Nagy. Il 2 luglio, Nagy, che sosteneva il sistema multipartitico borghese, venne nominato Primo ministro.

Questi sviluppi acuirono la lotta interna del Partito. Nel 1955, Nagy venne rimosso dagli incarichi di Partito e di Stato e successivamente espulso dal Partito. Nel dicembre del ’55 venne fondato il circolo di scrittori anticomunisti “Petofi”. M. Rakosi, Segretario generale del CC del Partito popolare dei lavoratori ungherese, nella sessione plenaria del CC del maggio 1956 stigmatizzava come “sbagliata e dannosa” la posizione di Stalin relativa all’intensificazione della lotta di classe sotto il potere dei lavoratori. Due mesi dopo, Rakosi fu sollevato dalle sue funzioni. Il 13 ottobre 1956, Nagy venne reintegrato nei ranghi del Partito. Se ne deduce chiaramente che nella direzione del Partito era in atto un’aspra lotta, con la conseguente confusione e incertezza sulla linea rivoluzionaria. Sembra vi fossero diverse tensioni opportuniste all’interno del Partito, la più aperta quella guidata da Nagy e la centrista da Rakosi. Il Partito non solo rivelò debolezza nel trattare la controrivoluzione, ma questo processo venne assistito dall’emergere dell’opportunismo nei suoi ranghi.

Gli eventi controrivoluzionari iniziarono il 23 ottobre 1956, con l’organizzazione di una grande manifestazione controrivoluzionaria animata da slogan fuorvianti come il “socialismo con i colori ungheresi”, chiedendo la promozione di Nagy alla guida del governo.

Allo stesso tempo, venne scatenata una grande ondata di terrorismo e omicidi contro i comunisti, in particolare a Budapest. La direzione del Partito di fronte alla situazione dichiarando lo stato di emergenza nel paese, chiese l’aiuto delle truppe sovietiche e convenne che Nagy assumesse la presidenza del governo.

Quando Nagy entrò in carica, apri i confini con l’Austria e permise l’infiltrazione nel paese di migliaia di controrivoluzionari e elementi fascisti e reazionari che avevano lasciato il paese. L’equipaggiamento dei controrivoluzionari fu effettuata con ponti aerei Vienna-Budapest, principalmente a opera di velivoli statunitensi.

L’attacco contro il potere dei lavoratori si intensifica

La mattina del 25 ottobre, gli organi incaricati dell’ordine pubblico, con l’assistenza di forze militari della provincia che non erano state corrose dalla controrivoluzione, dichiararono uno stretto coprifuoco a Budapest per facilitare la soppressione dei gruppi controrivoluzionari armati. Questa misura venne sospesa da Nagy che procedeva con i negoziati con i controrivoluzionari. Allo stesso tempo, minacciava il Ministero della Difesa che, se avessero attaccato la “Korvin” Arcade, dove erano raccolte le più importanti forze controrivoluzionarie, si sarebbe dimesso.

Allo stesso tempo, il governo Nagy che aveva promesso armi alle guardie rivoluzionarie dei lavoratori stabilite in diverse fabbriche e negli uffici del Partito, le consegnò ai controrivoluzionari. Nagy non poteva porsi apertamente come nemico del socialismo. Come si evince da documenti dei Servizi di Informazione Nazionale Ungherese: “… Imre Nagy nel suo annuncio radiofonico del 25 ottobre osservava che l’intervento delle truppe sovietiche nel combattimento era richiesto dagli interessi vitali del nostro regime socialista. (…) Anche Imre Nagy non poteva presentarsi in questo frangente come diverso da un incrollabile sostenitore del potere popolare socialista, come un amico dell’Unione Sovietica, come un nemico inconciliabile degli oppositori controrivoluzionari. (…) Se Imre Nagy, il 23 ottobre avesse assunto una posizione aperta contro il Patto di Varsavia e in favore della neutralità secondo il modello d’Austria, non ci sarebbe stata alcuna discussione sulla sua nomina alla Presidenza del Consiglio dei Ministri”. 71

L’attività sovversiva dell’imperialismo

La declassificazione di documenti segreti dagli archivi delle potenze imperialiste ci permette di avere una “immagine” dell’attività sovversiva che i servizi segreti dell’imperialismo internazionale svolsero in vari modi. Indicative di questa attività sono le seguenti indicazioni fornite nella relazione del Consiglio di Sicurezza Nazionale: “La politica degli Stati Uniti nei confronti dei ‘satelliti’ sovietici in Europa orientale, approvata dal Presidente degli Stati Uniti D. Eisenhower, nel luglio del ’56”: “Al fine di promuovere la costituzione di governi eletti liberamente nei paesi ‘satelliti’ come mezzo di disorganizzazione, e non come fine in sé, occorre tenersi pronti per ogni evenienza, di nascosto e sotto la guida adeguata, per aiutare i nazionalisti in ogni modo in cui sia possibile l’indipendenza dalla dominazione sovietica e dove la consistenza degli Stati Uniti e del ‘mondo libero’ non sia messa in pericolo da tale dominazione”. (Vedi: National Security Council Report NSC 5608/1,”US Policy towards the Soviet Satellites in Eastern Europe”, July 18, 1956).

Il 30 ottobre le truppe sovietiche si ritirarono dal paese, su richiesta di Nagy. Quindi le forze controrivoluzionarie continuarono l’offensiva ancora più selvaggiamente. “Il terrorismo controrivoluzionario dilagava per le strade di Budapest: i comunisti e i progressisti venivano uccisi. Migliaia di militanti del partito, presidenti di associazioni di agricoltori, presidenti dei consigli, i sostenitori del socialismo venivano imprigionati in tutto il paese e preparato il macello. Nell’arena politica ricomparvero capitalisti, proprietari terrieri, banchieri, principi e conti. Fecero la loro apparizione in Parlamento e in soli due giorni fondarono 28 partiti controrivoluzionari” 72.

I fascisti e i sostenitori dei nazisti erano apertamente coinvolti negli eventi controrivoluzionari. Il corrispondente del quotidiano Veli Autsontag della Germania dell’Est, scrisse su uno dei controrivoluzionari: “La prima cosa che notai era la medaglia tedesca della Croce di Ferro” 73, mentre il quotidiano francese France-Soir scriveva che “gli elementi più reazionari e fascisti” hanno avuto un ruolo di primo piano negli eventi, 74.

L’annuncio del governo Nagy del ritiro dal Patto di Varsavia e della “neutralità” del paese dal 1° novembre diede un tale slancio ai controrivoluzionari che indusse il corrispondente della Reuters a scrivere: “Da ieri c’è una caccia all’uomo nelle strade di Budapest”, le persone “vengono cacciate e macellate come animali, appese ai pali della luce e ai balconi. In tutto il paese ci sono scene che ci ricordano il ritorno dei ‘bianchi’ in Ungheria nel 1919.” 75.

Il ruolo dell’imperialismo internazionale

Il coinvolgimento delle potenze imperialiste nella “rivolta ungherese” è dimostrata da ciò che un ufficiale britannico dichiarò 40 anni più tardi, senza rivelare la sua identità: “Nel 1954, reclutavamo agenti ai confini ungheresi, che conducevamo nella zona dell’Austria sotto il controllo britannico. Li portavamo in montagna e gli davamo addestramento militare… Poi, li formavamo all’uso di esplosivi e armi, quindi li portavamo indietro… li addestravamo per la rivolta”. 76

La Pravda aveva scritto in un articolo: “I giornali borghesi occidentali scrivono con sufficiente sincerità che la reazione sta preparando gli eventi ungheresi da tempo e con zelo, sia internamente che dall’estero; fin dall’inizio si poteva vedere in tutto ciò la mano esperta dei cospiratori. Il capo delle spie americane, Allen Dulles, ha dichiarato apertamente di ‘sapere’ ciò che sarebbe accaduto in Ungheria”. 77

Gli imperialisti per tutta la durata della controrivoluzione attraverso la stazione radio Free Europe, finanziata e guidata dal governo degli Stati Uniti, invitavano gli ungheresi a “ribellarsi”. Con le loro trasmissioni, chiamavano il sabotaggio, chiedevano di sostenere i controrivoluzionari con cibo e rifornimenti, appoggiare le loro azioni. Trasmettevano che gli Stati Uniti avrebbero inviato aiuti militari. La stazione radio, secondo quanto scrisse Henry Kissinger, fece appello agli ungheresi a “rimanere impegnati nella loro rivoluzione e di non accettare alcun compromesso (…) Combattenti per la libertà, non appendete le armi al chiodo!” 78

I piani degli Stati Uniti vengono rivelati anche dalla raccomandazione di J. Dulles in occasione della riunione del Consiglio di sicurezza nazionale, il 31 ottobre 1956 inerente alla politica degli Stati Uniti in Ungheria e Polonia, mentre era in corso la controrivoluzione. Disse dell’Ungheria: “(…) 22. Aiuti umanitari immediati per il popolo ungherese (…) 23. Se un governo almeno indipendente arriva al potere, così come in Polonia: a) Essere pronti a fornire (…) l’assistenza economica e tecnica in quantità ragionevole, sufficiente per dare agli ungheresi una soluzione alternativa alla totale dipendenza da Mosca. (…) d) Prendere misure appropriate per riorientare il commercio ungherese verso l’Occidente”. 79

La sconfitta della controrivoluzione grazie alla classe operaia ungherese e all’Armata Rossa

Come è stato detto, i comunisti coerenti, gli operai e i contadini avevano formato guardie rivoluzionarie e cercarono di affrontare i gruppi controrivoluzionari. Ma, solo in alcune zone riuscirono ad armarsi e sconfiggere il terrore. Infine, il 3 novembre, venne formato da quadri del Partito nella città di Szolnok un governo rivoluzionario degli operai e dei contadini che invitò l’Unione Sovietica a contribuire a sopprimere la controrivoluzione. L’URSS rispose alla richiesta, svolgendo il proprio dovere internazionalista, e il 4 novembre, i comunisti ungheresi e le avanguardie operaie, con l’aiuto dell’Armata Rossa, prevalsero sulle forze controrivoluzionarie”.

 

21 ottobre 1928-16 dicembre 1969, a mio padre una canzone che non avrei mai voluto sentire. Ma le idee non muoiono e oggi la dedico ai Compagni Anarchici uccisi sulla strada della libertà

Autore: alessio di florio Strage di Ustica, falsa la firma di Pertini sul decreto che radiò Ciancarella, il capitano che fece emergere un pezzo della verità da: controlacrisi.org

Mario Ciancarella al momento della strage di Ustica era Capitano Pilota dell’A.M. nonché leader del Movimento Democratico dei militari (che nasceva dalla contaminazione delle forze armate con la cultura sociale e democratica). Convocato e ricevuto, nel 1979, al Quirinale dal Presidente Pertini, insieme a Sandro Marcucci e Lino Totaro, Mario Ciancarella era divenuto referente delle rivelazioni da tutta Italia delle vere o false ignobiltà che si compivano nel mondo militare.In questo contesto, anche il maresciallo Mario Alberto Dettori, radarista a Poggio Ballone la notte di Ustica, decise di fidarsi di lui e di confidargli: “Capitano siamo stati noi…” “Capitano dopo questa puttanata del mig libico”…

Mario Alberto Dettori verrà trovato impiccato nel 1987. Sbrigativamente chiuderanno la questione dicendo che si era trattato di un suicidio.

Per questo suo ruolo di esponente di punta il Capitano Ciancarella divenne talmente scomodo da indurre “qualcuno molto in alto” a falsificare, nell’ottobre 1983, la firma del Presidente Pertini nel Decreto Presidenziale di radiazione. Un vero e proprio colpo di Stato. La copia del decreto di radiazione gli verrà consegnata, su sua richiesta, solo 9 anni più tardi e dopo la morte di Pertini.

L’Associazione Antimafie Rita Atria, con orgoglio, da 22 anni (da quando è stata fondata), lotta accanto a Mario Ciancarella senza mai retrocedere di un solo passo. Nonostante tutto e tanti, troppi “consigli”.

Ieri, il Tribunale Civile di Firenze ha confermato i dubbi del Capitano Ciancarella (e anche i nostri): la firma del Presidente Pertini che compare sul quel decreto e’ un volgare falso. Tanto e’ stato accertato sulla base di due perizie – una di parte ed una disposta dal Magistrato – che hanno potuto rilevare come il falso sia tanto evidente quanto eseguito con assoluta approssimazione.

L’Associazione Antimafie ‘Rita Atria” – di cui Ciancarella è socio fondatore – e lo stesso Mario Ciancarella convocano per il giorno 22 Ottobre 2016 una conferenza stampa alle ore 10,30 a Lucca, in Viale Regina Margherita 113 presso la Libreria LuccaLibri Il Caffe’ Letterario, per documentare quanto è accaduto, interrogarsi sui motivi che hanno potuto suggerire un simile scempio del diritto e prospettare le conseguenze politiche e giudiziarie del recente pronunciamento del Tribunale di Firenze.

Di certo possiamo anticipare che in molti dovranno rileggere la Storia del Capitano Mario Ciancarella perché quella radiazione non solo ha distrutto la vita di un uomo onesto e di una famiglia perbene, ma è stata funzionale alla politica e non solo.

Si comunica inoltre che l’avvocato dell’Associazione e della famiglia Lorenzini ha interrogato il Capitano Ciancarella depositando la trascrizione presso la Procura di Massa dove, su nostro esposto, nel 2012 è stata riaperta una indagine per fare luce sulla morte dell’ex Tenente Colonnello dell’AM Alessandro Marcucci avvenuta il 2 febbraio 1992 mentre era al comando di un Piper in missione di avvistamento incendi per la Regione Toscana. Nel 1992 l’inchiesta aveva concluso che si era trattato di un “Incidente”. Noi non siamo d’accordo.

La famiglia Dettori, informata sui fatti, ha dichiarato che farà pervenire tutte le sue considerazioni e i commenti il giorno della conferenza stampa.

Questo è uno stralcio del lungo discorso con cui Palmiro Togliatti chiede sia votata la pregiudiziale di incostituzionalità sulla riforma della legge elettorale presentata dal ministro degli interni Mario Scelba, la cosiddetta “legge truffa”. Qui potete leggere il testo completo.

Palmiro Togliatti parla alla Camera l’8 dicembre 1952

Questo è uno stralcio del lungo discorso con cui Palmiro Togliatti chiede sia votata la pregiudiziale di incostituzionalità sulla riforma della legge elettorale presentata dal ministro degli interni Mario Scelba, la cosiddetta “legge truffa”.
Qui potete leggere il testo completo.

Togliatti
La Costituzione sancisce che l’Italia è una Repubblica democratica, e dal concetto che fa risiedere nel popolo la sovranità deriva il carattere rappresentativo di tutto il nostro ordinamento, al centro del quale stanno le grandi Assemblee legislative, la Camera e il Senato della Repubblica, a cui tutti i poteri sono coordinati e da cui tutti i poteri derivano.
Ma vi è di più. Questo ordinamento costituzionale democratico e rappresentativo ha una natura particolare, che nessuno può negare, perché la Costituzione non soltanto dice che l’Italia è una Repubblica democratica ma che essa è una Repubblica fondata sul lavoro. E di qui derivano molte cose. Di qui derivano tutti i diritti economici e sociali, deriva la previsione di quelle riforme delle strutture economiche,che volemmo fosse nella Costituzione come indicazione di una strada per l’avvenire, e a proposito della quale un dibattito elegante ebbi allora con l’onorevole Calamandrei, e risolvemmo la cosa accontentandoci di metterci d’accordo su una citazione di Dante. Le riforme economiche, però, sono rimaste nella Costituzione e ne sono parte essenziale.
Da questa definizione particolare del nostro ordinamento democratico non possono non derivare, però, particolari conseguenze per quanto si riferisce al diritto politico .e ai rapporti fra lo Stato e i cittadini.
Quando si asserisce che la Repubblica è fondata sul lavoro, quando si dice che i cittadini hanno eguaglianza di diritti, pari dignità sociale, e quando si aggiunge che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica dello Stato, non si può non riconoscere che il fatto che noi abbiamo definito la Repubblica italiana come Repubblica fondata sul lavoro ha particolari conseguenze per il diritto politico, per la definizione esatta, cioè, dell’ordinamento costituzionale dello Stato.
Infine, vi è una organizzazione storicamente determinata, quella dei partiti politici, che la Costituzione stessa richiama in quel suo articolo 49 dove dice che i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico (cioè in eguaglianza) a determinare la politica nazionale.
Questo è il nostro ordinamento costituzionale, questo e non altro. È evidente che in siffatto ordinamento l’elemento che si può considerare prevalente e che certamente è essenziale è la rappresentatività. È un elemento essenziale per ciò che si riferisce ai rapporti tra i cittadini e le assemblee supreme dello Stato. Ma che vuol dire che un ordinamento costituzionale sia rappresentativo?
[…]
Se guardiamo alla storia, incontriamo all’inizio e partiamo da una visione della rappresentanza come istituto di diritto privato, nel senso che essa riguarda la tutela, attraverso un delegato o mandatario, di determinati interessi di gruppi precostituiti. Alludo alle assemblee rappresentative elette secondo il principio della curia, applicando i quale si ha in partenza una schiacciante maggioranza di “deputati” delle classi possidenti e una minima rappresentanza di operai, di contadini, di lavoratori. Ho voluto ricordare questa bizzarra forma di degenerazione di una istituzione che dovrebbe essere rappresentativa, perché è quella che maggiormente rassomiglia al sistema che viene proposto qui dall’onorevole Scelba. Non vi è dubbio, infatti, che la visione che traspare dalla legge in discussione ci prospetta un Parlamento diviso in curie, non più secondo un criterio economico o sociale, ma secondo un criterio politico. Precede alla elezione del Parlamento un’azione del governo per riuscire, partendo dai dati delle precedenti consultazioni, a raccoglier determinate forze politiche a proprio appoggio. A questo gruppo è quindi già assegnato, prima che si sia proceduto alle elezioni, un numero fisso di mandati, e un numero fisso e ridotto di mandati è assegnato, in modo precostituito, agli oppositori del governo. A questo ci vorrebbe riportare l’onorevole Scelba: al Parlamento eletto per curie. Ed è peggio, direi, il Parlamento per curie ordinate secondo un criterio politico che non secondo un criterio economico, perché scompare qualsiasi base oggettiva della differenziazione. Unica base rimane la volontà sovrana del potere esecutivo.
[…]
Ed ecco subito un altro concetto non facile a districare, quello che definisce la natura nostra, di deputati in quanto rappresentanti. Noi siamo, sì, rappresentanti dei nostri elettori. Nessuno lo può negare: essi si rivolgono a noi, ci inviano lettere, ci sottopongono quesiti; ad essi parliamo, con essi esiste un legame particolare. Ciascuno di noi però – e la Costituzione lo afferma – rappresenta tutto il paese. Nel dibattito intorno a questo concetto, l’estensore della relazione a questo disegno di legge fa naufragio. Mi rincresce doverglielo dire e sottolineare: fa naufragio.
La realtà è che nello sviluppo della scienza del diritto pubblico il fascismo ci ha spinti molto all’indietro. Quando noi oggi andiamo a rivedere i testi e i trattati di diritto costituzionale che andarono per la maggiore durante il fascismo, siamo costretti a inorridire. Ci troviamo di fronte a tale mostruosa contorsione di concetti, a tali bizzarri travestimenti di idee un tempo chiare, per cui comprendiamo come oggi chi allora appartenne a quella schiera non possa comprendere nulla.
[…]
Lei ha peccato contro lo spirito, onorevole Tesauro, e questo peccato non è remissibile. Lei lo sa!
La difficoltà da cui Ella non è riuscito a districarsi è di comprendere come mai il deputato, eletto da un gruppo di cittadini, sia rappresentante di tutto il paese. Sono nato a Genova, mi hanno eletto a Roma, rappresento tutta l’Italia. Come mai? Perché? Questo non si comprende, se non si guarda a tutto lo sviluppo del sistema. La cosa – dice Vittorio Emanuele Orlando -, cioè la rappresentanza come tale, è una nozione che non presenta difficoltà se si riconduce a un «fatto esterno e visivo». Qui affiora, attraverso questa ardita semplificazione, il concetto giusto, che è in pari tempo, vedremo subito, il concetto nuovo della rappresentanza politica e, quindi, dell’ordinamento costituzionale rappresentativo.
Curioso! Questo concetto nuovo venne formulato la prima volta più di 150 anni fa, nell’Assemblea nazionale francese, nel 1789, dal conte di Mirabeau. «Le assemblee rappresentative – diceva – possono essere paragonate a carte geografiche, che debbono riprodurre tutti gli ambienti del paese con le loro proporzioni, senza che gli elementi più considerevoli facciano scomparire i minori». Ecco il concetto nuovo, per cui la rappresentanza viene ridotta quasi a un elemento visivo, e quindi immediatamente compresa nel suo valore sostanziale.
[…]
II 1848 è l’anno in cui appare sulla scena per la prima volta in modo autonomo una nuova classe, la classe operaia, che rivendica non soltanto una rappresentanza e quindi una parte del potere, ma collega questa rivendicazione al proprio programma di trasformazione sociale. Nel 1871 la classe operaia va assai più in là della rivendicazione di una parte del potere per se stessa. Essa afferma la propria capacità di costruire un nuovo Stato.
Questi grandi fatti storici si impongono all’attenzione di tutti. Agli uomini politici di più chiaro spirito liberale e democratico essi indicano la necessità di fare quel passo che separa i parlamenti liberali dai parlamenti democratici rappresentativi. Di non accontentarsi cioè di dire che la maggioranza rappresenta l’opinione generale, anche quella della minoranza, ma di costruire un organismo nel quale si rispecchi la nazione, sperando e augurando che questo consenta uno sviluppo progressivo senza scosse rivoluzionarie. La rivoluzione operaia del giugno 1848 è soffocata nel sangue. Sull’atto di nascita del regime borghese, istallatosi in Francia dopo il secondo crollo napoleonico, sta la macchia di sangue delle fucilate con le quali venne fatta strage degli eroici combattenti della Comune. È una macchia indelebile. Si spegne l’eco delle fucilate, ma resta odor di polvere nell’aria! Il movimento operaio si afferma, va avanti. Il problema è posto, bisogna progredire, bisogna tener conto delle forze nuove che si affermano. Per questo vi è chi comprende che ormai è necessario forgiare l’ordinamento dello Stato in modo che consenta questo progresso e lasci che queste forze, nello Stato stesso, si possano affermare. Per questo il sistema di rappresentanza proporzionale delle minoranze nel Parlamento, che è l’approdo tecnico del movimento, può veramente essere definito il punto più alto che sino ad ora è stato toccato dalla evoluzione dell’ordinamento rappresentativo di una società divisa in classi. Così lo hanno sentito tutti i nostri politici, e non solo quelli che ho già citato. Filippo Turati, quando propose, nel 1919, di passare alla rappresentanza proporzionale, asseriva per questo che la sua proposta aveva un valore storico. Sidney Sonnino si richiamava apertamente, nel proporre e difendere la proporzionale, al fatto storico della Comune. Si trattava di dare una impronta definitiva di democraticità, di rappresentatività e di giustizia all’ordinamento costituzionale dello Stato, nel momento in cui il movimento sociale non può più essere soppresso con la forza.
Naturalmente, il modo in cui si realizza il principio non è uniforme […]. Lo so. Non è stato trovato ancora un modo di avere la perfetta proporzionalità della rappresentanza. Rimane sempre un certo scarto tra la realtà del paese e la rappresentanza nella Camera, a seconda che si adotti un determinato sistema di conteggio dei voti e dei rappresentanti in rapporto ai voti, oppure un altro sistema. Ma questo non ha niente a che fare con l’abbandono del principio. Quello che interessa è il principio. Il principio per cui noi siamo rappresentanti di tutto il paese nella misura in cui la Camera è specchio della nazione. Dello specchio, veramente, si può dire che ogni parte, anche piccolissima, di esso, è eguale al tutto, perché egualmente rispecchia il tutto che gli sta di fronte. Qualora il principio venga abbandonato, è distrutta la base dell’ordinamento dello Stato che la nostra Costituzione afferma e sancisce.