Migrazioni passato e presente da: rifondazione comunista

Migrazioni passato e presente

di Lodo Meneghetti

Quando alla fine del 1974 apparve il fascicolo monografico (nn. 11-12) del mensile Il Ponte dal titolo “Emigrazione cento anni 26 milioni”, non tutti sembrarono credere alle cifre pubblicate. L’incipit nell’introduzione del direttore Enzo Enriques Agnoletti anticipava seccamente le verità che i numerosi saggi del volume avrebbero dimostrato e che i politici al governo e i ceti dominanti avrebbero preferito tener nascosta o fingere fosse normale vicenda riguardante l’economia mondiale e tutti i popoli: «dall’unità d’Italia non meno di ventisei milioni d’Italiani hanno abbandonato definitivamente il nostro paese. È un fenomeno che per vastità, costanza e caratteristiche non trova riscontro nella storia moderna di nessun altro popolo». Non meno impressionanti i dati presentati nel saggio di Paolo Cinanni, presidente della Filef (Federazione italiana lavoratori emigrati e famiglie).

 Nel 1971 i nostri concittadini residenti fuori della patria erano oltre 5.200.000, distribuiti in tutti i continenti con fortissima prevalenza di Europa e Americhe. Aggiungendo gli italiani con cittadinanza straniera acquistata dal dopoguerra, 1.200.000, ne consegue che a quella data fuori del nostro paese esistevano circa sei milioni e mezzo di connazionali. Milioni di vite in gioco, miriade di casi angosciosi nella ricerca di lavoro e di casa, impatto frustrante con lingue sconosciute, inenarrabili sfortune personali e famigliari. Per un risultato appena coerente con la speranza cento tradimenti del sogno e accettazione di ogni tipo di sfruttamento pur di lavorare e di abitare, tant’era pura sopravvivenza la vita in patria, e infine tanta volontà di costruire nuova famiglia. Dovremmo definirli, questi emigrati, adottando l’inammissibile invenzione idiomatica attuale, “economici”? Il pugliese Ferdinando Nicola Sacco e il piemontese Bartolomeo Vanzetti, l’uno operaio l’altro pescivendolo, onesti “economici” anarchici approdati negli Stati Uniti vi trovarono la morte sulla sedia elettrica. Oggi, invece, immigrati in Italia e in altri paesi europei, fuggiaschi o “economici” che siano, incontrano la morte in mare o nel carrello di un aereo o nel cassone di un TIR.

Come non commuoversi dinanzi a tante tragedie e non ragionare sulle loro cause? D’altra parte, come dimenticare che una nuova popolazione è riuscita a insediarsi qui, a lavorare, a produrre reddito, a contribuire al bilancio attivo nazionale e a ripianare il preoccupante deficit demografico italiano? Quattro milioni e mezzo di persone. Non abbiamo fatto nulla per sostenerne la vitalità, in primo luogo nella ricerca di abitazioni dignitose. Così accettiamo, esempio noto e crudele, il «modo di abitare» senza casa e persino senza baracca dei raccoglitori di frutta nelle regioni meridionali…Poi sopportiamo i Salvini, i Borghezio, i Maroni… e consistenti gruppi di concittadini organizzati in formazioni fascistoidi, xenofobe e razziste che, oltre a manifestare sentimenti di puro odio, falsificano la realtà sociale per ricavarne consenso; sanno infatti che fuori dei loro movimenti una parte dell’opinione pubblica, incolta e perciò propensa a tener per veri luoghi comuni fritti e rifritti sugli stranieri, si presenta come un campo fertile per seminarvi i loro criminosi principi e le loro eversive proposte politiche.

Eppure, al tempo delle grandi migrazioni interne, mai cessate dal dopoguerra ma di portata eccezionale negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, provenienza prevalente – a parte i vicinati regionali – dal meridione e, all’inizio, anche dal Veneto, destinazione il triangolo industriale, certi comportamenti di istituzioni e di italiani verso italiani potremmo considerarli batteri di una malattia sorta lì, in seguito rimasta latente e riesplosa ai nostri giorni. La realtà e il mito di Piemonte, Lombardia e Liguria, di Torino, Milano e Genova furono richiamo talmente potente da permettere illimitata libertà di sfruttamento in ogni senso del bisogno di lavoro e di abitazione che masse di povera gente sradicata dalle loro terre esprimevano con umiltà e sottomissione. A questo riguardo assumiamo la città di Torino degli undici anni dal 1951 al 1961 (studiata nei corsi di urbanistica insieme ad altri contesti nei primi anni Settanta) come maggiormente rappresentativa, simbolo di un’epoca che per alcuni aspetti e per tutt’altre cause sembra riprodursi oggi in diverse aree del paese, come fosse una contorsione della nostra storia sociale.

Torino simbolo dal momento che ne fu raffigurazione la Fiat, industria-richiamo come nessun’altra per tanti connazionali, anche se non era l’azienda a dare lavoro a tutti: «l’importante era essere vicino al benessere, nella città delle prospettive mirabolanti, lontani dalla fame e dalla miseria» (C. Canteri, Immigrati a Torino, Ed. Avanti, 1964). Il lavoro si trovava per lo più nelle fabbriche che vivevano grazie a essa o nei cantieri edili o in una falsa «cooperativa» di facchinaggio, oppure attraverso diffusi racket delle braccia. Intanto gli immigrati che non fossero piemontesi provenienti dalla campagne o dalle valli (aiutati dai parenti torinesi) dovevano scontrarsi con una legge fascista del ’39 avversa all’urbanesimo che sarà abolita solo nel 1960: per avere un lavoro occorreva possedere una residenza, per ottenere la residenza bisognava avere un lavoro; allora si registravano come lavoratori in proprio, ossia come «soci» di quelle pseudo-cooperative che li avviavano ai posti di una qualsiasi occupazione teoricamente stabile taglieggiandoli pesantemente sul salario. Oggi in Italia, se raggiungere la residenza avendo un recapito non è troppo difficile, purché non la si richieda in comuni amministrati da sindaci leghisti, razzisti, neofascisti e similari, è di fatto impossibile conquistare la cittadinanza.

Non diversa era la condizione degli operai utilizzati all’interno degli stabilimenti di Fiat ma non da questa dipendenti. Erano le organizzazioni a cui il lavoratore «si affiliava», dette «enti di offerta di lavoro», ad appaltare ogni genere di opere che la fabbrica, ormai avviata a una produzione di massa, aveva convenienza a non esercitare in proprio. L’azienda pagava all’”ente” per ogni operaio cifre inferiori anche del 50% agli oneri complessivi sopportati per il dipendente regolare. Cosa fanno oggi le poche fabbriche sopravvissute alla deindustrializzazione del paese se non accettare al loro interno operai estranei all’azienda e ricadenti nel «lavoro somministrato»?

Così la Fiat mentre da un lato propagandava una prospettiva di benessere per tutti da un altro accompagnava minimi spunti riformisti con politiche duramente discriminatorie. A queste apparteneva anche la piaga della raccomandazione al padrone attraverso i parroci, che potevano avviare a un posto fisso gli iscritti ai loro elenchi di partecipanti in qualche modo alla vita della parrocchia. Uno sguardo all’intera città all’inizio degli anni Sessanta rivelava che la condizione professionale degli immigrati era comunque ai livelli più bassi: circa due terzi manovali comuni, 30% ambulanti e artigiani, pochissimi operai specializzati. Eppure molti di loro dopo anni e anni di esperienza non erano più impreparata forza lavoro idonea solo alle prestazioni più mortificanti e magari pericolose.

Discriminati e sfruttati sul lavoro, discriminati sfruttati e ricattati per la casa. Vent’anni di cronache quotidiane mostrarono che Torino non ebbe eguali nella speculazione sulle spalle degli immigrati, nuova popolazione giovane di cui la città aveva pur bisogno per produrre e riprodursi. La classe dirigente torinese le offrì una gamma di possibilità abitative vergognosa: stalle dismesse ai confini del comune con la campagna, soffitte degradate prive di ogni dotazione igienica nel vecchio centro o nei trascurati quartieri operai, cosiddette «case alloggio» invece sudici dormitori in cui si affittava il posto branda, talvolta a rotazione secondo il susseguirsi dei turni lavorativi di otto ore; infine le bidonville da cui le famiglie furono sgombrate con la forza al momento delle celebrazioni del primo centenario dell’unità, per essere cacciate nelle cosiddette «casermette» prima adibite a ricovero dei sinistrati. Nel caso dell’alloggio decente e di un salario sicuro l’affitto ne sottraeva un quarto se proveniente dall’impiego in Fiat ma fino a metà se guadagnato in aziende piccole o comunque subalterne alla grande madre. L’aspirazione dell’immigrato di poter accedere a un alloggio popolare pubblico fu delusa dalla scarsità delle iniziative.

Per parte sua la Fiat mancò colpevolmente al dovere di accompagnare con una coerente politica della casa la scelta di forzare vantaggiosamente per sé l’immigrazione. La necessità, oggi nel paese, di un’estesa attività di edilizia popolare rivolta anche alla domanda dei «nuovi» immigrati è ignorata dalle aziende che hanno sostituito i vecchi istituti pubblici autonomi. In Lombardia, specialmente a Milano, per gran parte del secolo scorso agiva il più qualificato Istituto autonomo per le case popolari (Iacp) che realizzò quartieri spesso di notevole qualità. Il cambio del nome da Iacp ad Aler (Azienda lombarda per l’edilizia residenziale) avvenuto grazie al dominio politico nella Regione di Forza Italia e della Lega mostra lo stravolgimento dei contenuti: non più istituto pubblico ben identificabile ma azienda come altre, non più autonomia ma dipendenza dal potere politico, non più case popolari e precisa destinazione sociale ma pura edilizia residenziale generica dotata di sola identità economica.

Torino nel 1951 contava 700.000 residenti. Bastarono dieci-undici anni per diventare una grande città di oltre un milione di abitanti. Arrivò una nuova popolazione di mezzo milione di persone, mentre l’esodo fu di sole 160.000. Uno sconvolgimento epocale, un sovvertimento del precedente stato demografico. Nonostante le mille difficoltà di accoglimento, di lavoro, di insediamento, insomma di vita urbana lontanissima dal genere di vita dei luoghi di provenienza, fu merito degli immigrati, nuovi torinesi estranei alle tradizioni degli autoctoni, se una città chiusa in sé stessa, sorda e sospettosa per consuetudine di una vecchia borghesia, col ceto operaio tradizionale talvolta anch’esso reticente verso le novità, si rifondò, evolvette – lentamente – verso l’accettazione dei compiti che la stessa nuova composizione sociale richiedeva. Ne fu un primo attestato il successo delle celebrazioni per il centenario dell’unità. Tuttavia la Fiat, sempre più estesa, pretendeva ancora la reductio ad unum, cioè a se stessa, della rappresentazione di Torino, che infatti tardò a superare il dannoso statuto di città dipendente da una sola imponente monocoltura industriale.

Gli operai immigrati raggiunsero rapidamente la coscienza di classe nel vivo dei rapporti di lavoro e delle relazioni con gli altri lavoratori. Quando nel 1969 il grande sciopero generale non per aumenti salariali, non per diverse condizioni di lavoro ma, prima volta nella storia sindacale e delle lotte, per il diritto alla casa («casa uguale a servizio sociale» lo slogan sbandierato), imponenti manifestazioni conquistarono le strade e le piazze delle città italiane. Gli operai di Torino, immigrati e torinesi uniti in una comune rivendicazione vitale, mentre partecipavano alla giornata di lotta nazionale potevano vantare di averla preceduta con un’altra giornata di sciopero nella loro città, quando avevano manifestato in massa contro il potere del padronato, al comando il principe della Fiat, vassalli e valvassini obbedienti. Fu vera lotta perché si comandò ai poliziotti, per lo più poveri meridionali grati alle autorità per aver ottenuto un’occupazione, di attaccare duramente i cortei operai: infatti, la ricordiamo ancora oggi con la denominazione impiegata dai quotidiani di allora, «la battaglia di corso Traiano a Torino».

Angela Dorothea Merkel è intelligente (cioè capisce) molto più degli altri leader europei. Alcuni di loro non lo sono per connaturata inibizione poiché sono fascisti e nazisti quasi di­chiarati (Kaczynski e Andrzej Duda, Orban…); altri sembrano come indica la seconda scelta di un qualsiasi dizionario dei sinonimi e dei contrari, idioti – stupidi; altri ancora, chiamiamoli intermedi, si muovono solo secondo gli umori classisti prevalenti; altri infine, piccoli per piccolezza di patria, devono vivere nell’ombra di uno grosso, adeguandosi.

Per Angela Merkel, incurante di contestazioni e persino di proprie contraddizioni, la Germania ha di nuovo bisogno di immigrati in massa, come nel passato. Solo con l’immissione di popolazione giovane, dice, essa potrà riequilibrare lo stato demografico e, udite udite, il si­stema pensionistico. Infatti, il diagramma piramidale della popolazione per età presenta una base molto ridotta e un vertice allargato: pochi giovani e giovani-adulti, tanti anziani. Tassi di natalità minimi (8 per mille, idem l’Italia) e tassi di mortalità superiori (11 per mille, 10 l’Italia), movimenti migratori a parte, minacciano la stessa riproduzione. Tutto questo nonostante la crescita lungo cinque-sei decenni della presenza di stranieri provenienti da diverse nazioni, tuttavia propensi, evidentemente, ad assimilare rapidamente comporta­menti di vita famigliare o personale. Ma si devono risolvere due enormi problemi: assicu­rarlo davvero quel lavoro, del quale il paese sembra avere urgente necessità, ai nuovi cit­tadini; garantir loro un’abitazione dignitosa insieme a un coerente modo di vita. Solo così si potrà ricostituire un processo relazionale costruttivo e stabile fra rapporti di produzione e riproduzione.

Vogliamo dire, indipendentemente dalla questione tedesca, che la vecchia e durevole lo­gica capitalistica e mercatistica volta a restringere o a espandere la forza lavoro secondo gli investimenti e i disinvestimenti nel gioco fra sviluppo e crisi, può essere battuta da una realizzata condizione sociale e politica incentrata su due atti: riduzione per tutti del tempo di lavoro, magari prendendo spunto dalla provocazione di Paul Lafargue (i francesi hanno provato…) e radicale modificazione del rapporto fra consumo di beni d’uso e di beni di scambio in favore dei primi, compresi quelli immateriali. In altre parole: parallelamente alla diminuzione del tempo penoso (lo è per la stragrande maggioranza), aumento del tempo vissuto con felicità attraverso la cultura, per la crescita di sé razionale e sentimentale.

La Germania è il più popoloso paese dell’Unione, ottantuno milioni di abitanti. Gli stranieri sono più del 10 % (di questi il 20 % vi è nato) ma se si aggiungono gli immigrati pervenuti man mano alla cittadinanza tedesca la percentuale quasi raddoppia, 19%. La tumultuosa ricostruzione sostenuta dall’enorme ammontare degli aiuti americani anche in funzione dell’alleanza antisovietica e la gigantesca espansione industriale degli anni Cinquanta e seguenti richiesero un incessante flusso di mano d’opera da altri stati europei. I meridionali italiani espatriarono in massa, insieme ai turchi (che oggi rappresentano la più numerosa comunità straniera, oltre un milione e mezzo), ai polacchi, ai greci e altri…

Come simbolo del lavoro italiano in terra tedesca scegliamo Wolfsburg (Bassa Sassonia), “Città del Lupo”. Furono specialmente nostri muratori e artigiani a costruire, insieme alle prime case, la fabbrica della “Macchina del popolo” voluta da Hitler nel 1938. Volkswagen, programma industriale, politico e “sociale” bloccato dalla guerra fu rilanciato dopo la scon­fitta, intensificato fortemente dal 1955 e negli anni Sessanta grazie al lavoro degli immi­grati meridionali. Non fu a caso l’arrivo a Wolfsburg di tantissimi compaesani, fu dovuto a una preferenza, a un atto di fiducia degli industriali e dell’Istituto Federale per il Colloca­mento della Manodopera e per l’Assicurazione contro la Disoccupazione.

Probabilmente valse il riflesso delle prestazioni d’opera risalenti alla fondazione della fabbrica e della città. Ne derivò anche la modifica del termine che designava i lavoratori: dapprima Gastar­beiter poi, a causa della contrarietà degli industriali a considerarli solo “ospiti”, Südländer. Così il clamoroso successo del Maggiolino (Käfer) incorporava l’abilità e l’affidabilità degli operai siciliani, calabresi, abruzzesi… e la loro accettazione di un modo di abi­tare che non aveva nulla dell’abitazione famigliare nella propria regione, seppur povera, magari cadente, igienicamente inadeguata.

Una ricerca svolta presso l’Università degli studi di Roma Tre, pubblicata nel semestrale Altreitalie[2], presenta un quadro preciso degli alloggiamenti. Non furono usate le vecchie baracche ma si costruì un Villaggio degli italiani (Italienerdorf) costituito da lunghe “case” a due piani prefabbricate in legno. Nel 1964 erano 46, nel 1966, 58. Gli immigrati tuttavia continuarono a chiamarle baracche: ognuna con 32 stanze per 2-4 persone, a ogni piano una cucina comune, un gruppo di servizi igienici, un locale “per stirare” (?).

Wolfsburg cambiò notevolmente lungo i decenni fino ai giorni nostri. Da luogo-fabbrica de­dicato solo alla produzione divenne una città di oltre 120.000 abitanti dotata di tutte le ri­sorse che ne designerebbero l’abitabilità e la gradevolezza. Lo scrittore Maurizio Mag­giani, autore di quel romanzo fuori del rigo convenzionale che è Il coraggio del pettirosso[3] racconta in un articolo sul Secolo XIX di una delle sue visite[4]. Ha amici compatrioti, del re­sto un quarto degli abitanti ha origini italiane o è tuttora nostro concittadino. L’italianità la si trova non solo nei ristoranti nelle gelaterie nei caffè ma anche nelle scuole, nelle bibliote­che. Per Maggiani «Wolfsburg è una bella città… ricca di verde, funzionale… i suoi quar­tieri operai sono formati da villette a schiera, separati da parchi e collegati con ampi viali».

Il maggior vanto civico è la presenza del Phaeno, il più grande museo scientifico interattivo della Germania dotato di 250 postazioni. Progettato da chi? Diamine, dall’immancabile Zaha Hadid (vogliamo subito paragonarlo col meraviglioso Exploratorium di San Franci­sco, fondato da Frank Oppenheimer nel 1969, un grande spazio entro un’ariosa semplice struttura di ferro, come fosse testimonianza della rivoluzione industriale). Non manca un museo d’arte moderna. Infine la Kulturhaus di Alvar Aalto, che ricordiamo non fra le opere eccelse, funzionava già nel 1962.

Maggiani discorre con gli amici, tutti hanno in certo modo nostalgia dell’Italia; «ma, fatte le ferie se ne tornano a starsene nel cuore della Bassa Sassonia a casa loro, che è Wolfsburg, dove il clima non sarà un granché, ma dove dopo le quattro del pomeriggio nessuno lavora più, si va a passeggiare sui viali, a nuotare nei laghi, al cinema, a teatro, a bere birra sul lungofiume…». E la settimana di ferie autun­nali, l’asilo nido sotto casa, le tessere per i musei e le gallerie, il medico che li chiama per accertarsi della loro salute? Allora una specie di paradiso? Forse il nostro simpatico ro­manziere è propenso a romanzare, ma non a contar balle. In ogni caso un tale paesaggio urbano e umano non può riguardare l’intera Germania; e quali conseguenze proprio lì, nella sede madre dell’azienda, provocherà l’attuale vicenda delle emissioni inquinanti truc­cate in certi modelli?

Stiamo osservando una fotografia del 1964: in un’aula scolastica immigrati italiani ascol­tano qualcuno che li sta istruendo sul lavoro da minatori per essere avviati alle miniere carbonifere di Duisburg, Renania Settentrionale-Vestfalia. Tutta la Ruhr rappresentava, a quell’epoca, una delle massime concentrazioni territoriali minerarie (è noto che soprag­giunto il tempo della chiusura, l’intera regione, con le sue città grandi e piccole, sarà tra­sformata in un insieme multicentrico ricco di occasioni culturali, paesaggistiche, turistiche). I cavatori italiani meridionali, a nostra memoria, furono più fortunati dei loro colleghi emi­grati in Belgio, dove a metà degli anni Cinquanta lavoravano 142.000 minatori, fra i quali 63.000 stranieri comprendenti 44.000 italiani. A Marcinelle, miniera di carbone Bois du Cazier nella periferia meridionale di Charleroi, l’8 agosto 1956 a causa di un irrefrenabile incendio morirono 262 minatori, i sopravvissuti furono solo 13. 136 le vittime italiane, le metà abruzzesi. Sfogliando le notizie in memoriacondivisa.it leggiamo che il ricordo della tragedia è ancora vivo; anche quest’anno nel sito minerario del Bois du Cazier, dal 2012 entrato nel patrimonio mondiale dell’Unesco, si terranno le cerimonie di commemorazione dell’evento.

Ai lavoratori italiani per morire in miniera non occorreva emigrare all’estero. Poco più di due anni prima dello sterminio di minatori a Marcinelle era stata la Maremma, terra di miniere dove l’attività della società Montecatini era iniziata alla fine dell’Ottocento, a essere teatro di una tragedia. Provincia di Grosseto, comune di Rocca­strada, frazione di Ribolla (in effetti, un villaggio Montecatini), miniera di lignite sezione “Camorra”: nella prima mattina del 4 maggio 1954 una spaventosa esplosione di grisù causò la morte di 43 operai. I minatori erano in totale poco più di 1.400, in forte diminu­zione dal 1948 coerentemente alla politica della Montedison, smobilitare anno dopo anno: condotta che comportava la riduzione delle provvidenze per la sicurezza del lavoro. Il libro “d’epoca” di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola I Minatori della Maremma[5] dedica un capi­tolo a La sciagura di Ribolla.

Fu per noi una lettura importante. Due ricercatori che sali­ranno la china della letteratura d’autore e della fama fino al vertice ci ragguagliavano sulla storia e la condizione sociale poco conosciute della loro regione, in maniera così accurata e dimostrativa come solo una vocazione allo studio storico e una diretta partecipazione alle vicende potevano permettere. Chi conosceva quale fosse l’abitare per i lavoratori scapoli arrivati lì provenendo da territori lontani? Ecco i “camerotti”, costruiti per cacciarvi i prigionieri di guerra. “Costruzioni a un piano, lunghe e strette, divise all’interno in tante stanzette quadrate…gli scapoli… vivono là dentro, a gruppi di tre o quattro per stanza: brande di ferro, armadietti, pure di ferro, un tavolo, sgabelli… In cima all’armadietto una cassettina di legno… La sensazione è quella, la caserma”.[6]

L’io narrante di La vita agra, il capolavoro di Luciano Bianciardi, sente la “missione” di vendicare le vittime della tragedia: «…venivo ogni giorno a guardare il torracchione di vetro e di cemento [sarebbe la sede della Montecatini a Milano], chiedendomi a quale finestra, in quale stanza, in quale cassetto, potevano aver messo la pratica degli assegni assisten­ziali, dove la cartella personale… di tutti i quarantatré i morti del quattro maggio. Chieden­domi dove, in che cantone, in che angolo, inserire un tubo flessibile ma resistente per farci poi affluire il metano, tanto metano da saturare tutto il torracchione; metano miscelato con aria in proporzione fra il sei e il sedici per cento. Tanto ce ne vuole perché diventi grisù, un miscuglio gassoso esplosivo se lo inneschi a contatto con qualsiasi sorgente di calore su­periore ai seicento gradi centigradi. La missione mia… era questa: far saltare tutti e quat­tro i palazzi».[7]

[1] Vedi la prima parte in eddyburg, 2 dicembre 2015.

[2] Katiuscia Curone, Italiani nella Germania degli anni Sessanta: immagine e integrazione dei Gastarbeiter, Wolfsburg 1962-1973, in Altreitalie, rivista internazionale di studi sulle popolazioni di origini italiane nel mondo, n. 33, luglio-dicembre 2006.

[3] Edito da Feltrinelli nel 1995, ha vinto nello stesso anno i premi Viareggio, Rèpaci, Campiello. Nel 2010 la quattordicesima edizione.

[4] Maurizio Maggiani, Povera Italia, vista da Wolksburg, in Il Secolo XIX (unito a La Stampa), 31 agosto 2010.

[5] Luciano Bianciardi – Carlo Cassola, I minatori della Maremma, Editori Laterza, Bari 1956 – Libri del tempo.

[6] Ivi, p. 50-51. «Le famiglie, che dovettero costituirsi parte civile accettarono le offerte in denaro della Montecatini e il processo si concluse con l’assoluzione di tutti gli imputati e il disastro fu archiviato come ‘mera fatalità. A seguito del disastro la direzione della Montecatini decise la chiusura della miniera, la cui smobilitazione richiese ben cinque anni», dal sito memoriacondivisa.it.

[7] La vita agra, 1967, in Luciano Bianciardi – L’antimeridiano – Tutte le opere, a cura di Luciana Bianciardi, Massimo Cipolla e Alberto Piccinini. Volume primo. Saggi e romanzi, racconti, diari giovanili, Isbn Edizioni e ExCogita Editore, Milano 2005, p. 595.

 

fonte: Eddyburg

“Le banche ancora non hanno perso il vizietto di manipolare i profili dei clienti”. Intervista (audio) all’autore del libro “Io vi accuso” Autore: fabio sebastiani da: controlacrisi.org

“In banca manipolavamo e tuttora si continua”. Così, Vincenzo Imperatore, autore del libro ‘Io Vi Accuso’ (edizioni Chiare Lettere) in questa intervista audio a Radio Rete Edicole.
La compilazione del profilo di rischio, come e’ stato sottolineato nel corso dell’intervista, e come risulta dal suo libro-denuncia, e’ un passaggio chiave della procedura che poi porta alla proposta di acquisto rivolta ai clienti della banca stessa di titoli e prodotti finanziari. Le banche attraverso “la profilazione” si “costituiscono quel paracadute che serve a dimostrare che il cliente era consapevole dei rischi legati al titolo che ha acquistato”, ha detto Imperatore.

Lo scrittore e’ del parere che attualmente la politica e’ debole di fronte al “sistema delle banche”. “Sono le banche che controllano la politica- ha detto- e non il contrario”. E’ per questo motivo che dalla politica non potra’ arrivare una risposta alle istanze dei degli utenti del sistema bancario. “Dobbiamo essere noi, costruendo una pressione collettiva anche presso le aule dei tribunali a fare in modo che la situazione cambi”, ha aggiunto Imperatore, mettendo in luce i motivi che lo hanno spinto a scrivere il libro.

Alla domanda sul perche’ le risorse dispensate dalla Bce non rimettono in moto il sistema del credito, Imperatore ha risposto: “Il problema e’ il bilancio delle banche. Le banche stanno messe molto peggio di quanto non sembra, rispetto all’economia reale. Avere risorse dalla Bce e non trasferirle e’ un fatto strategico, perche’ le banche devono calcolare un accantonamento rispetto al rischio rappresentato dal cliente. Di fronte al rating negativo del cliente, con 100 euro di credito ne devono calcolare 20 come accantonamento”. “Quindi bisogna mettere mano a una pulizia del sistema- ha aggiunto Imperatore- L’ipotesi della bad bank fino a quando non si ripuliscono le banche da questa situazione incancrenita non puo’ funzionare”. Anzi, “se fosse approvata, con duecento miliardi da assorbire, a pagare saranno i cittadini”.

Intervista a Guido Caldiron: Shoah, come Occidente e Chiesa salvarono i criminali nazisti Fonte: micromegaAutore: Giacomo Russo Spena

“I segreti del Quarto Reich”, un libro di Guido Caldiron, appena uscito per la Newton Compton editori, ricostruisce la rete internazionale che ha permesso la fuga e protetto i vertici delle SS dopo la fine della Guerra: una seconda vita per loro. Quali uomini, quali strutture sono coinvolti in questo “buco nero”, dai servizi segreti Alleati al Vaticano fino ai gruppi dell’estrema destra: “I gerarchi nazisti sono serviti per fermare il nuovo pericolo comunista”.

“Malgrado l’intrigo dal sapore spionistico che ne ha spesso circondato il racconto da parte dei media, la ‘seconda vita dei nazisti’ non fu il frutto di un complotto ordito nelle segrete stanze di un apparato di intelligence ma l’esito di scelte politiche precise, il risultato di decisioni assunte più o meno pubblicamente da uomini di Stato e religiosi”. Guido Caldiron, giornalista ed esperto di estrema destra, ha passato gli ultimi 2 anni a spulciare archivi per ricostruire un buco nero della nostra storia: quella rete internazionale che ha protetto e permesso la fuga ai gerarchi nazisti, dopo la Seconda Guerra Mondiale. Il risultato della ricerca si è incarnato nel libro “I segreti del Quarto Reich” (Newton Compton, 480pp). Ne abbiamo parlato con lui, oggi, nel Giorno della Memoria.

Il suo lavoro mette alla luce la rete internazionale che permise ai criminali nazisti di fuggire dalle proprie responsabile e colpe. Quale fu il motivo principale che convinse le “democrazie occidentali” ad un repentino cambio di strategia: dalla guerra ad Hitler, alla protezione dei gerarchi delle SS? Quali scelte politiche si celano dietro tali scelte?

Si trattò di una delle conseguenze più insidiose della rapida chiusura del capitolo della lotta antifascista che aveva riunito forze e potenze altrimenti contrapposte, nell’obiettivo di sconfiggere il Terzo Reich e i suoi Alleati, soppiantato già a pochi mesi dalla fine del conflitto mondiale dall’emergere della Guerra fredda che avrebbe rapidamente trasformato agli occhi dell’Occidente i combattenti anticomunisti dei fascismi europei e asiatici in dei potenziali alleati contro il “pericolo rosso”. Come ha spiegato il regista Kevin Macdonald, autore di un documentario su Klaus Barbie, ex capo della Gestapo a Lione che fu arruolato dalla Cia dopo il 1945: «Volevo mostrare come, anche se ci viene insegnato che il nazismo è stato battuto alla fine della Seconda guerra mondiale, nella realtà ha continuato a essere sfruttato dai vincitori per costruire il mondo in cui viviamo oggi. Il film avrebbe anche potuto intitolarsi “Come i nazisti hanno vinto la guerra”».

Di che numeri siamo parlando? Quanti criminali si salvarono dalla giustizia?

Difficile fare una stima precisa, ma basterà ricordare che nel primo processo di Norimberga furono processate alcune decine di persone, a fronte di un sistema di potere che aveva controllato e represso gran parte dell’Europa. Il più noto “cacciatore di nazisti”, Simon Wiesenthal – ex deportato polacco che ha dedicato la sua intera vita a rintracciare ed assicurare alla giustizia i criminali di guerra – ha spiegato nelle sue memorie di aver identificato migliaia di nazisti tedeschi e di loro collaboratori del resto del continente, specie dei Paesi dell’Europa centro-orientale. Quel che è certo è che per gli Eichmann, i Barbie e i Priebke che sono stati alla fine processati, ci sono centinaia di altri boia nazisti che si erano macchiati di efferatezze analoghe che hanno goduto di una piena impunità. Inoltre, non c’erano solo gli ufficiali o i gerarchi. A Norimberga le SS furono dichiarate “organizzazione criminale”, ma solo una parte ridotta dei loro vertici subì mai un processo.

Un ruolo di protezione importante fu dato anche dagli Stati Uniti. Ricordiamo il caso di Klaus Barbie, ufficiale della Gestapo, che passò a lavorare per i servizi segreti americani…

Già prima della fine della Seconda guerra mondiale, la Casa Bianca e gli apparati militari e di intelligence statunitensi, al pari di quelli britannici, si stavano attrezzando a fare fronte ad un nuovo conflitto, questa volta con l’Urss, ciò che andrà sotto il nome di Guerra fredda. Gli Usa avrebbero così deciso di scendere a patti con alcuni degli ex nemici appena sconfitti, arruolando nella nuova battaglia contro il comunismo mondiale, un certo numero di criminali di guerra nazisti e fascisti provenienti da ogni parte d’Europa, cui verrà garantita come contropartita un’impunità che sarebbe a volte durata per sempre. L’intelligence americana si servì di uomini che avevano servito nelle SS piuttosto che nella Gestapo utilizzandoli come spie e agenti nei paesi europei, ma, attraverso la cosiddetta “Operazione Paperclip” trasferirono negli Stati Uniti anche un centinaio di scienziati che avevano lavorato ai progetti di nuovi armamenti di Hitler in laboratori che avevano utilizzato i prigionieri dei lager come cavie umane: il più noto tra costo fu Wernher von Braun che era stato un ufficiale delle Se e che diverrà celebre come il padre dello sbarco dell’uomo sulla Luna nel 1969.

Sebbene il papa Pio XII abbia condannato ufficialmente il nazismo anche il Vaticano ebbe un ruolo fondamentale nella fuga e protezione dei criminali delle SS. In cosa consistette l’aiuto della Chiesa?

Già durante la guerra il Vaticano aveva in realtà sostenuto alcuni regimi collaborazionisti dell’Est, come quelli croato e slovacco, oltre ad intrattenere delle relazioni proficue con il fascismo italiano. Con la fine del conflitto, si imporrà nelle valutazioni della Chiesa il nuovo contesto della Guerra fredda che faceva considerare il comunismo come il pericolo maggiore. In nome dell’anticomunismo molti religiosi avevano sostenuto apertamente sia Hitler che Mussolini e così ritennero di dover assistere gli ex nazisti e collaborazionisti che si davano alla fuga. In particolare il vescovo austriaco Alois Hudal, che era responsabile della chiesa di Santa Maria dell’Anima a Roma e aveva un ruolo di primo piano nella Pontificia Commissione Assistenza profughi, che agiva sotto l’egida del Segretario di Stato, e futuro papa, dal 1963, con il nome di Paolo VI, Giovanni Battista Montini, mise in piedi quella che sarebbe diventata celebre come “ratlines”: la via di fuga che avrebbe portato in salvo criminali del calibro di Mengele, Eichmann, Barbie, Priebke e decine e decine d’altri. Concretamente, il ruolo svolto dalle istituzioni religiose comprendeva il sostegno alla fuga attraverso conventi e seminari che ospitavano i nazisti, la certificazione di identità fittizie sulla base delle quali i fuggitivi potevano ottenere dalla Croce Rossa i documenti per lasciare l’Europa, stabili contatti con i regimi para-fascisti e ultracattolici dell’America Latina o con la Spagna di Franco che li avrebbero accolti e garantito loro coperture e appoggi. Per farsi un’idea dell’estensione del fenomeno, basti pensare che in una lettera ritrovata negli archivi argentini, Hudal chiede a Peron la concessione di ben 5000 visti d’ingresso in Argentina per altrettanti “combattenti anticomunisti e patrioti tedeschi”.

Molti gerarchi riuscirono a crearsi una vera e propria seconda vita, pensiamo all’America Latina: negli anni a seguire hanno svolto, in primis, il ruolo di comando nelle repressioni delle varie rivoluzioni di liberazione?

In molti regimi dell’America Latina, a cominciare da quello peronista, era stata forte l’ammirazione per i fascismi europei, i regimi di Hitler e Mussolini in particolare, e il legame con l’ultima dittatura “nera” d’Europa, quella franchista. Inoltre, nel continente, il Terzo Reich aveva investito in imprese economiche ed industriali, come aveva fatto del resto in Spagna. Così, al termine del conflitto in Europa, i governanti latinoamericani, primo fra tutti Peron, pensarono di favorire l’ingresso nel Paese degli ex nazisti e fascisti, sia perché ne condividevano almeno in parte l’ideologia sia perché intendevano sfruttarne le conoscenze tecniche e militari per modernizzare e controllare meglio i loro paesi. Più in generale, con chiari intenti razzisti, si intendeva favorire l’immigrazione europea per ridurre il peso delle popolazioni indigene. Sarà così che Argentina – dove il fenomeno assunse proporzioni di massa con l’arrivo di centinaia di criminali di guerra e di migliaia di ex fascisti di tutta Europa -, Brasile e Paraguay rappresenteranno fin dall’immediato dopoguerra i principali approdi degli ex nazisti nel continente latinoamericano, mentre si conteranno meno casi in Cile e Bolivia. In ogni caso, la presenza di questi personaggi si sarebbe legata, anche a molti decenni di distanza dalla caduta del Terzo Reich, allo sviluppo di una nuova “internazionale nera” e alla repressione feroce dei movimenti di liberazione. Come illustra plasticamente il caso di Klaus Barbie che si era guadagnato il soprannome di “boia” quando era a capo della Gestapo a Lione che dopo essere stato arruolato dalla Cia in Germania dopo il 1945, si stabilirà in Bolivia dove diverrà un “esperto di sicurezza” per conto della dittatura locale: secondo alcune fonti l’ex nazista avrebbe preso parte anche all’individuazione e all’uccisione di Ernesto Guevara nella selva boliviana nel 1967.

Passiamo all’Italia. Le mancate politiche di epurazione e l’amnistia togliattiana hanno impedito una “Norimberga italiana”. Quali le conseguenze?

Come ha spiegato lo storico Antonio Carioti «in nessun altro Paese europeo è successo, come in Italia, che i vinti della Seconda guerra mondiale riuscissero a riproporsi sul terreno politico già un anno e mezzo dopo la fine del conflitto e a creare un partito capace di affermarsi come una presenza stabile nelle istituzioni rappresentative, per poi trasformarsi in una forza di governo pienamente legittimata alle soglie del Duemila». Perciò, la mancanza di una “Norimberga italiana” che definisse ad esempio le responsabilità locali nella deportazione verso i campi della morte di più di 6000 ebrei italiani o che vivevano nel nostro Paese, ha per prima cosa reso possibile la riorganizzazione dei fascisti in partiti, l’Msi, ed in associazioni legali malgrado apertamente nostalgiche del Ventennio e dell’esperienza della repubblica di Salò sostenuta anche in armi dai nazisti: fascisti che avranno poi a vario titolo un ruolo di primo piano nella lunga “Strategia della tensione”, scandita da stragi sanguinose, e nei ripetuti progetti golpistici che hanno avuto luogo nel Paese perlomeno fino alla seconda metà degli anni Settanta. Su un piano più generale, il fatto stesso che la nozione di “criminale di guerra italiano” non sia entrata a far parte delle memoria nazionale, in virtù dell’assenza di un grande processo contro i principali gerarchi e generali che avevano avuto ruoli di primo piano durante il regime di Mussolini o nella Rsi, e di una rapida chiusura della politica di epurazione, ha contribuito non poco alla rimozione, pressoché totale, delle colpe del fascismo, e al fatto che si sia imposta presso l’opinione pubblica una visione edulcorata del Ventennio come una sorta di dittatura “all’acqua di rose”. Come ricordava Vittorio Foa, nel nostro Paese si è optato per «una comoda ma delittuosa cancellazione della storia», poiché quando «dopo aver ucciso, non si riconosce la vittima, si è ucciso due volte».

Al confine tra Grecia e Macedonia, l’urlo dei profughi siriani: “Fate passare almeno i bambini” da: lastampa.it

Tra i disperati alla frontiera: in 5 mila lottano corpo a corpo con gli agenti
AP

Scontri tra migranti e polizia al confine: in serata gli agenti hanno fatto entrare piccoli gruppi, dando la precedenza a donne, bambini e anziani

22/08/2015
niccolò zancan
inviato a idomeni (grecia)

Ogni tanto lanciano in aria una bottiglietta d’acqua misericordiosa, ogni tanto parte una manganellata a casaccio. Un colpo secco, giù nella calca, sulla testa e sulle spalle di qualcuno. C’è un militare con i capelli biondi a spazzola che non smette un attimo di urlare: «State seduti! Giù! Giù!».

 

Le donne si siedono, ricurve su se stesse per farsi un po’ d’ombra. Gli uomini, invece, resistono in piedi, madidi di sudore, con gli occhi enormi e le caviglie intrappolate in mezzo al filo spinato. «Fateci passare!», urla Mohamed Salha, un tempo tassista in Siria.

 

Tiene sua figlia Afrah sulle spalle: «Vi prego, fate passare almeno mia moglie! Sta male! Non respira! Ha bisogno d’acqua». La moglie si è accasciata in mezzo ai nostri piedi, esanime fra bucce di cocomero e sassi ferroviari. E nella ressa, se ti giri, vedi qualcuno che sta piangendo, qualcun altro che si concentra a pregare. Senti i bambini strillare sfiniti – e quanti ce ne sono, bambini, neonati, ragazzini soli – a questa frontiera del mondo.

 

La frontiera di blindati

Da una parte finiscono i campi di girasole, finisce la Grecia. Dall’altra cominciano le vigne, ed è già un altro Stato. Da due giorni, il confine della Macedonia lo segnano i mezzi blindati dell’esercito. Vanno avanti e indietro con una lentezza esasperante, lungo 50 chilometri di strade secondarie e sterrati agricoli. Sono stati mandati dal governo di Skopje per fare una specie di muro. Qualcosa che si veda bene. Qualcosa che serva da monito. «Non possiamo sobbarcarci tutto il problema da soli», dice un poliziotto.

 

Il problema sono questi cinquemila profughi che premono con la forza di un’onda, un uomo sull’altro. Arrivano sempre di più. E arrivano qui perché questa è considerata una strada più sicura di quella che contempla le torture dei trafficanti libici, il Mare Mediterraneo, l’Italia. Arrivano qui dalla Siria, dall’Iraq e dall’Afghanistan, soprattutto. Hanno viaggiato per mesi, sostato in Turchia, raggiunto le coste, attraversato il mare su piccoli canotti a remi. Sono sbarcati sulle isole dei turisti, Kos, Lesbo e Symi. Non hanno mai perso la speranza. Vogliono raggiungere il Nord Europa: la Germania, la Svezia, l’Olanda. Non immaginavano di ritrovarsi bloccati in mezzo a questi binari, dove nessuno li vede. Ancora una volta.

 

Il fiume che scorre

Da Salonicco, bisogna percorrere poco più di cento chilometri. È un paesaggio di villaggi abbandonati, camionisti balcanici e pecore. Poi, all’improvviso, una visione surreale: sbucano dai campi. Corrono impauriti. Camminano in fila indiana. Marciano. A gruppi. A sciami. Ragazzi. Genitori. Famiglie con sette figli. Bambini per mano. Passeggini. Nonne anziane. Tutti lungo la statale E75, che porta alla frontiera.

 

Seicento metri prima della dogana, incroci una piccola strada a sinistra, un ponte scavalca la ferrovia, percorri un rettilineo, e sei arrivato a Idomeni: 92 abitanti. Un paese minuscolo. Ma adesso è come un campo di sfollati. Un concentrato di ferite e sogni, scarpe consumate, cannucce nei succhi di frutta da bambini. E i vecchi del villaggio guardano tutto questo fiume di gente passare.

 

«Io non ce l’ho con loro» dice Maria Papatanasiu, 20 anni, studentessa di ingegneria meccanica a Kozani, venuta qui in vacanza a trovare sua nonna. «Io li capisco, al loro posto scapperei anche io. Però la situazione è davvero complicata. Ci sono rifiuti dappertutto. I migranti entrano nei nostri campi di mais per dormire, mangiare, fare i loro bisogni».

 

A tre metri da noi, c’è un bambino che sorride soddisfatto rosicchiando una pannocchia fresca. Il padre ha in testa un cappellino del Barcellona. Sono di Aleppo. E sembrano proprio felici. «Ciao». «Grazie». «Bella l’Italia». «Bella l’Europa». Ancora non sanno quello che li aspetta.

La stazione ferroviaria di Idomeni è un relitto. Passano due treni al giorno. Uno arriva da Salonicco, l’altro parte per Skopje. È tutto in disgrazia, vecchio e fuori uso. Tranne un cartello, sistemato da poco, di colore azzurro: «Il campeggio è permesso solo nelle aree assegnate».

 

Da qui passavano. Passavano e ripartivano a piedi, attraversando i campi fino a Gevgelija, la prima città macedone oltre la frontiera. Dove i treni sono più frequenti, ed è più facile proseguire il viaggio: 43 mila profughi a luglio, oltre 50 mila ad agosto. Ma ora basta, adesso non passano più.

«Andate via! Tornate indietro!», gridano i militari al confine. Hanno tirato il filo spinato nei campi. Lanciano lacrimogeni. Granate assordanti. Una ragazza sviene per il caldo. Una donna anziana si sente male, le tastano il polso. Un bambino in calzoncini corti è in preda alle convulsioni in mezzo alle traversine, gli mettono le dita in bocca per tirare giù la lingua e permettergli di respirare. Succede fra pannolini sporchi, gente che grida, feriti che rinculano, qualcuno che vuole sfondare, qualcuno che prova a dormire. Altri che arrivano proprio adesso, e non capiscono.

 

Caos e lacrimogeni

«I militari macedoni hanno sparato anche proiettili di gomma», dice Anthonis Rigas, responsabile di Medici Senza Frontiere. Sono gli unici ad occuparsi di questo lembo d’Europa. Sono in quattro. Distribuiscono acqua e sacchi a pelo per la notte. «Abbiamo medicato dieci feriti, quattro migranti sono stati trasportati in ospedale. Un ragazzo è stato picchiato. Siamo qui dall’inizio di marzo, ma non abbiamo mai visto niente del genere».

 

Alle cinque di pomeriggio ci sono 39 gradi. Ogni tanto i militari lasciano passare qualcuno. Ogni tanto lanciano una bottiglia d’acqua per non vedere altri stramazzare al suolo. Volano bottiglie, le braccia si alzano, partono altre manganellate. Dall’altra parte del confine, lavora un’équipe dell’Unhcr, l’Onu. Non sono più di dieci persone. Hanno montato otto bagni chimici. I feriti stanno stesi a terra. Ci sono crisi di pianto irrefrenabile. Un infermiere corre a verificare se quella donna, laggiù, è morta o solo svenuta. E ti vergogni, ti senti colpevole di poter scappare via in qualsiasi momento, di avere un passaporto in tasca.

 

Eppure lì, nella calca, davanti agli scudi dei militari schierati, tutti ti aiutano, ti sorreggono, ti danno la mano se l’onda rischia di travolgerti e schiacciarti, ti offrono un sorso d’acqua dalla bottiglia. Ecco Samir Sabbagh, 22 anni, siriano, studente di ingegneria: «Arrivo da Aleppo. Sono scappato dall’Isis e dai bombardamenti del governo di Bashar Assad. Non c’è più speranza, nessuna possibilità di vita. Credetemi, io amavo il mio Paese. Ma non esiste più. Voglio andare a continuare gli studi in Germania». Sorride, ringrazia ad ogni parola: «Vorrei chiedere al governo della Grecia di aiutarci. Devono aprire un corridoio per far passare almeno le donne e i bambini. Io sono forte, posso aspettare… ».

 

Così finiscono per accamparsi ovunque. Anche Samir Sabbagh si tira indietro, aspetta un altro giorno. Cinquemila persone dentro avvallamenti di terra morta, sotto i pini, nei campi, fra cumuli di immondizia e bottiglie vuote. I ragazzi costruiscono delle capanne. Arriva una signora anziana su una sedia a rotelle, le ruote non girano più. Il figlio la prende in spalle e si incamminano per un sentiero che non porta da nessuna parte, fra i blindati e i primi fulmini di un temporale in arrivo.

 

L’impero di Vacante, altri 8 indagati L’intercettazione incastra i prestanome da: livesiciliacatania.it

Giovedì 28 Gennaio 2016 – 06:19 di

Ci sono altri otto indagati nell’inchiesta Bulldog (LEGGI). Per loro il Gip non ha disposto alcuna misura cautelare. Si allarga così la rete di prestanome creata da Roberto Vacante (PROFILO) e dai suoi “fedelissimi”.

 

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CATANIA – Dissotterrato l’impero societario dei Santapaola creato da Roberto Vacante e i suoi “picciotti”. L’operazione Bulldog è riuscita a svelare il sistema di prestanome che sarebbe stato messo in piedi al fine di implementare gli introiti necessari a sostenere economicamente e legalmente i detenuti del clan e i loro familiari. L’inchiesta ha portato in carcere lo zoccolo d’oro del gruppo (interno) alla consorteria: in gattabuia Roberto Vacante, Salvatore Caruso, Giuseppe Massimiliano Caruso, Salvatore Di Bella e Santo Patanè. Arresti domiciliari per Francesco Russo, Giuseppe Vacante e Danilo Di Maria. Il Gip ha disposto l’obbligo di dimora e firma per chi secondo la magistratura costituisce l’elenco di personaggi a cui sarebbero state  “solo” formalmente intestate le varie società che sarebbero  state invece nella piena disponibilità di Vacante e dunque del clan Santapaola. Parliamo di Irene Santapaola, Maria Santonocito, Mario Aversa, Pietro Musumeci, Pietro Bellino, Nunzio Giarrusso, Giuseppe Caruso e Nunzio Di Mauro. I nomi sono stati tutti indicati nel corso della conferenza stampa dal Procuratore Michelangelo Patanè.

L’elenco però dei presunti prestanome è molto più lungo: sono infatti altre otto le persone iscritte nel fascicolo. Per loro il Gip non ha disposto alcuna misura cautelare. Ma come già annunciato da Antonio Salvago, dirigente della Mobile, durante l’incontro con i giornalisti è stato già spiccato l’avviso di conclusione indagine. Gli altri indagati sono Alessandro Arcidiacono, Pietrina Culoso, Daniele Furnari, Angelo Lo Re, Letteria Picone, Fabio Antonio Plati e Ida Romeo. Con i loro nomi si completa il network che avrebbe portato a costituire la rete di imprese controllate da Vacante. L’inchiesta ha portato al sequestro preventivo di quote della società Sportitalia, della “Parking Car srl, dell’impresa individuale Giarrusso Catering, della Satin Blu, del “The Bull Dog Camp società cooperativa”, delle quote della Tiare srl, del ramo d’azienda dell’impresa individuale “Santonocito Maria” e del ramo d’azienda che riguarda la gestione del ristorante “l’Oste di Tremestieri” collegato alla società “La Rena Rent Car”. Questo il compendio societario che secondo la magistratura e la polizia sarebbe finito nelle mani della famiglia di “sangue” dei Santapaola.

Le indagini patrimoniali avrebbero permesso di accertare una grave ed evidente sproporzione tra l’acquisizione dei beni e delle attività imprenditoriali in riferimento alle capacità reddituali o le disponibilità finanziarie provenienti dall’attività di Roberto Vacante. Per il Gip non ci sono dubbi che “i beni da sequestrare costituiscono il frutto di reimpiego di attività illecite”. In parole povere, riciclo di denario sporco.

C’è un’intercettazione che “blinda” la ricostruzione degli inquirenti. E’ l’ottobre del 2013: i due indagati Giuseppe Massimiliano Caruso e la madre Maria Santonocito parlano in macchina. Una conversazione per il Gip “emblematica” in quanto descriverebbe come le intestazioni  (ai prestanome) sarebbero “di puro comodo”. Lo scopo sarebbe quello di portare liquidità alla cassa comune (che sarebbe stata gestita per un periodo proprio da Massimo Caruso). “Noi tutti i giorni paghiamo cose… prendi un assegno… blocca un assegno” – commenta l’imprenditore alla madre. Il dialogo prosegue con il racconto di una serata dedicata a ordinare “le carpette” e a distribuire i fondi in base al settore. “Questi sono per il ferro, questi sono per il cemento, questi sono per la pizzeria e altri per il girrarosto”. Insomma tutti i settori in cui i Santapaola avrebbero deciso di “investire” i frutti delle attività malavitose. All’interno della cassaforte Caruso avrebbe avuto un bel malloppo “da gestire“, si parla di cifre anche sopra ai 100 mila euro in contanti. E andando avanti nel racconto l’indagato parla di “imbrogli” e di una serie di carnet di assegni “tutti scritti” che avrebbe distribuito a diversi personaggi. Ad un certo punto c’è un riferimento preciso a un affare a cui Roberto Vacante teneva molto – come emerge da diverse intercettazioni captate dalla polizia in quel periodo. E’ quello del lido Satin Blu di Torre Archirafi. “Ora il coso del lido lo hanno fatto” – afferma Caruso alla madre. “Quello di sotto là… di Torre, ma a nome di Piero Bellino (indagato)”. “Ah.. ora glielo avete levato?” – chiede la mamma al figlio. La risposta è inequivocabile secondo il giudice: “Si è sottomesso… ha ceduto la parte, una io, una Irene (Santapaola) e una Nunzio”.

Già Eugenio Sturiale, collaboratore di giustizia, aveva indicato Vacante “come l’uomo che aveva il compito di ripulire i fondi illeciti della Cosca Santapaola”. Ma è anche la moglie Palma Biondi a fornire ulteriori dettagli che per gli inquirenti troverebbero pieno riscontro dagli esiti investigativi. Quando era ancora in vita – a detta della collaboratrice di giustizia – si sarebbe occupato di riciclare il denaro del suocero Salvatore Santapaola (deceduto nel 2003). Vacante – si legge nei verbali – avrebbe confidato alla moglie di Sturiale che il suocero aveva accantonato ingenti capitali dei quali si “occupava personalmente” per “investirli in attività economiche che intestava a prestanome”.

Amianto continua la strage di lavoratori. 4000 mila morti ogni anno, mille morti solo per mesotelioma da: www.resistenze.org – osservatorio – italia – politica e società – 19-01-16 – n. 572

 

Michele Michelino *

19/01/2016

A 23 anni dalla messa al bando dell’amianto, con la legge 257 del 1992, ci sono in Italia ancora 32 milioni di tonnellate di amianto e le bonifiche sono tuttora da fare. Chi sperava che dopo l’approvazione della legge, l’amianto sarebbe stato rimosso dalle nostre vite deve ricredersi: la decontaminazione dalla fibra è fallita.

A oggi ci sono oltre 400 norme regionali e nazionali sull’amianto, un labirinto legislativo che fa comodo a molti che per i propri interessi speculano sulla vita delle persone.
Istituzioni, padroni, governi, giocano scaricando le responsabilità su altri.
Il profitto viene prima di qualsiasi diritto alla salute e alla sicurezza e si realizza sulla pelle dei lavoratori e cittadini.

L’amianto è un problema sociale, sanitario, medico, una bomba ecologica non ancora disinnescata, che prima ha ucciso i lavoratori esposti alla fibra killer e oggi avvelena la popolazione.

Nonostante la legge 257/1992 che metteva al bando l’amianto lo preveda, a tutt’oggi manca una mappatura completa dei siti contaminati da amianto e da bonificare e molto spesso le mappature sono datate o inattendibili. L’articolo 10 della legge 257/1992 stabilisce che le regioni in mancanza di adozione dei Piani Regionali amianto, possono essere commissariate, ma nonostante ciò diverse regioni non lo hanno ancora adottato  e molte non lo hanno ancora rinnovato (come Lombardia, Toscana ed Emilia Romagna, ad esempio).

In Italia come sempre fatta la legge si trova subito l’inganno. La legge ha bandito l’utilizzo del minerale killer ma non ha obbligato lo smaltimento, e la polvere d’amianto continua a uccidere almeno 8 italiani al giorno e avvelenarne altre migliaia .

In Italia esistono tuttora oltre 300 mila edifici, di cui almeno 3000, rappresentano un grave rischio di contaminazione per tutta la popolazione, uomini, e donne, bambini e anziani, e più di 2400 sono scuole italiane tuttora contaminate dall’amianto e come ha riconosciuto la presidente della Commissione di Inchiesta sugli infortuni sul lavoro del Senato Camilla Fabbri, “di questo passo ci vogliano 85 anni per smaltirlo e eliminarlo dalle nostre vite”

Tutti conosciamo la storia di Casale Monferrato grazie alle lotte condotte dagli ex lavoratori dell’Eternit e dai cittadini, ma lo sviluppo industriale, il “progresso” di questo paese si fonda sul sangue di decine di migliaia di proletari e i cittadini, spesso dimenticati.

La stessa Unione Europea nel quadro strategico per la sicurezza sul lavoro dal 2007 al 2011 afferma che anche se in Europa si assiste a una diminuzione degli infortuni del 28%, i morti per amianto sono in continuo aumento.

Il mesotelioma, il tipico tumore maligno continua a colpire e uccidere senza pietà, in tutto il paese, dal nord al sud, ma l’amianto provoca anche molti altri tumori maligni di cui si parla poco nei mass-media.

Secondo recenti dichiarazioni del presidente di INAIL, Massimo De Felice, i lavoratori vittime dell’asbesto decedute assicurate all’INAIL sono state 17.428 e oltre 21mila i casi di mesotelioma tra il 1993 e il 2014.

I numeri ci dicono che l’amianto continua a uccidere oggi come nel passato e purtroppo senza bonifiche dei siti industriali e del territorio la lista dei morti e malati continuerà a crescere ancora per molti anni. Tutti sono a rischio, nessuno è esente dal pericolo.

La Scala di Milano

Anche nel tempio della musica, il Teatro della Scala di Milano (dove abbiamo manifestato in occasione della prima) l’amianto ha fatto delle vittime, e per le morti sospette per amianto alla Scala sono indagati quattro ex sindaci di Milano, Carlo Tognoli, Gian Paolo Pillitteri, Giampiero Borghini e Marco Formentini. Indagato anche l’ex sovrintendente Carlo Fontana indagati, con altre persone, per omicidio colposo e lesioni colpose per sette decessi e altri casi di malattia dovuti all’amianto presente al Teatro alla Scala.

In questo le denunce dei lavoratori e comitati sono servite.
La procura contesta agli indagati di non essersi adoperati per rimuovere in passato l’amianto dai manufatti nei vari locali, soprattutto tecnici, ma anche dal famoso lampadario all’interno del teatro. Per l’accusa non sarebbe stato fatto il censimento dell’amianto previsto dalla legge del 1992, e il minerale avrebbe provocando la morte dei lavoratori. Tra le persone morte per esposizione alla sostanza cancerogena dagli anni ’70-80, ci sono un siparista, un macchinista, un vigile del fuoco, un falegname, un addetto al trasporto delle scene e anche una cantante lirica. Questo dramma è solo uno dei tanti.

Anni di omertà e complicità da parte di tutte le istituzioni hanno finora garantito l’impunità a  padroni e manager colpevoli di aver mandato consapevolmente a morte migliaia di lavoratori nelle fabbriche pur di realizzare i massimi profitti. In questi anni molti processi sono stati esempi d’ingiustizia per le vittime e i loro famigliari assolvendo i padroni nel merito o per prescrizione. In ogni caso la mobilitazione dei lavoratori e delle vittime organizzate in comitati è servita per portare sul banco degli accusati i padroni e manager assassini di tanti operai. Anche se la giustizia per le vittime dell’amianto non arriva quasi mai e quando arriva è tardiva come dimostra il processo Eternit di Casale Monferrato, le vittime, i comitati e le associazioni continuano a lottare: oggi in Italia sono in corso più di 50 processi per amianto.

*) Presidente del “Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio”; articolo pubblicato dalla rivista “nuova unità”, gennaio 2016

 

Libertà per i progionieri politici comunisti in Ucraina (video) da:www.resistenze.org – popoli resistenti – ucraina – 18-01-16 – n. 572

Libertà per i progionieri politici comunisti in Ucraina (video)

Union Borotba | borotba.su

Gennaio 2016

Un video denuncia sui crimini del regime di Kiev e per la libertà dei prigionieri politici.

https://www.youtube.com/watch?v=D9jkawkeVvA&feature=youtu.be

 

La Palestina dopo Abbas: c’è in ballo il futuro di un popolo da: www.resistenze.org – popoli resistenti – palestina – 17-01-16 – n. 572

 


Ramzy Baroud* | ramzybaroud.net
Traduzione da nena-news.it

07/01/2016

Con il discorso televisivo (per l’inizio anno) Mahmoud Abbas voleva riaccendere l’entusiasmo dei militanti di Fatah in occasione del cinquantunesimo anniversario della nascita del gruppo; invece, ha aggravato ulteriormente una crisi senza precedenti, che continua a generare confusione nel popolo palestinese. Abbas è apparso sulla difensiva e privo di vere argomentazioni o progetti fondati, più concentrato sulla sua sopravvivenza politica che sul resto.

Il discorso del 31 dicembre era un coacervo di vecchi clichés: qua e là, ha strigliato Israele, stando ben attento a scegliere le parole adatte, e ha ribadito che ogni decisione sul “futuro della terra, del popolo e dei diritti nazionali” dovrà essere “soggetta a elezioni generali e approvata dal Consiglio Nazionale (PNC), perché il nostro popolo ha sopportato sacrifici enormi ed è lui la fonte di ogni potere.”

Affermazione alquanto singolare, visto che Abbas presiede l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) in virtù di un mandato scaduto nel gennaio 2009 e che il suo partito, Fatah, che ha sostanzialmente rifiutato di accettare il risultato delle elezioni democratiche nei Territori Occupati nel 2006, continua ad agire come il ‘partito di maggioranza’ senza alcun mandato, se si esclude la legittimazione politica che riceve da Israele, dagli USA e dai loro alleati.

Quanto al Consiglio Nazionale, questo fungeva da organo legislativo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) fino all’istituzione dell’ANP, nel1994. Finanziata da attori internazionali, l’ANP doveva essere un mezzo, e non un fine, per condurre al termine delle negoziazioni e fondare uno Stato Palestinese. Si è invece trasformata in uno status quo, e le sue istituzioni, che rispecchiavano per lo più gli interessi politici di una corrente specifica all’interno di Fatah, hanno di fatto rimpiazzato l’OLP, il PNC, e ogni altro organismo che fosse espressione di democrazia e partecipazione.

Quanto è simbolicamente rimasto dell’OLP, dopo il colpo di mano dell’ANP, è ridotto a un fantoccio che riflette gli interessi di un partito, Fatah (che ha perso la fiducia dei Palestinesi nel 2006), o meglio di un’élite benestante all’interno di quel partito che un tempo era maggioritario. Per certi versi, il ruolo di Abbas sembra essere quello di servire gli interessi di questo gruppo, e non quello di tracciare un percorso di liberazione per l’intera comunità palestinese, in patria, nei campi profughi o in Diaspora.

Le intenzioni di Abbas non erano mai state esposte tanto chiaramente quanto nel suo discorso del 31 dicembre, quando ha sostanzialmente escluso lo smantellamento dell’ANP, che pure ha fallito la sua missione, nonostante esista già una complessa struttura politica dell’OLP in grado di sostituirla. Abbas ha invece bizzarramente descritto l’ANP come uno dei maggiori traguardi del popolo palestinese.

Uso l’avverbio “bizzarramente” perché l’ANP è il frutto del “processo di pace” di Oslo, oggi sostanzialmente defunto, portato avanti con Israele da Abbas e da un gruppo ristrettissimo di persone, su ordine dell’allora leader di Fatah, Yasser Arafat. Tutte le trattative furono condotte in gran segreto e non tennero in considerazione il popolo palestinese. Anzi, quando questo tentò, per mezzo del voto, di sfidare lo status quo imposto da Oslo, il risultato elettorale non fu riconosciuto da Fatah, e si scatenò la guerra civile del 2007, con centinaia di vittime palestinesi.

Ma a parte i lapsus sulla storia dell’ormai ottantenne Abbas, il punto è che le sue parole, anziché rassicurare i militanti, hanno drammaticamente evidenziato che il popolo palestinese, protagonista da ottobre di una rivolta violenta, non ha alcuna guida.

Abbas spiega che le ragioni della ‘habba’ o ‘insurrezione’, termini che descrivono l’intifada in corso, sono da ricercarsi nelle continue violazioni israeliane e negli insediamenti illegali, ma si guarda bene dal legittimare la rivolta o dal porsi alla guida di tale mobilitazione. Continua a dare un colpo al cerchio e uno alla botte, per non scatenare le ire del suo popolo né tantomeno quelle di Israele.

Da politico navigato qual è, cerca anzi di trarne vantaggio, schierandosi di tanto in tanto con il popolo, come leader rivoluzionario, per ricordare a Israele e agli Stati Uniti la sua importanza in qualità di rappresentante della componente non violenta della politica palestinese e per cavalcare l’onda dell’Intifada finché non sarà stato restaurato il vecchio ordine. In realtà, i segni di questo vecchio ordine, le interminabili negoziazioni, sono ancora evidenti. Il responsabile per le negoziazioni dell’ANP, Saeb Erekat, ha recentemente dichiarato che le trattative con Israele sono tuttora in corso: un terribile auspicio, in un periodo in cui i Palestinesi avrebbero quanto mai bisogno del completo superamento di un approccio alla politica e alla liberazione nazionale che sembra ormai fallito.

Tuttavia, il problema è più vasto e non riguarda solo Mahmoud Abbas. Attribuire i fallimenti a un’unica figura rappresentativa è un elemento comune a tante fallaci analisi sulla politica palestinese (più evidente nei media occidentali che in quelli arabi, a onor del vero). Purtroppo, anche quando l’ormai anziano Abbas non sarà più sulla scena politica, il problema continuerà a persistere, se non sarà affrontato e risolto.

Fatah ha dato un contributo enorme alla Resistenza, il più importante dei quali è stato liberare la causa palestinese, nei limiti del possibile, dai confini e dalle manipolazioni della politica del mondo arabo. Grazie a quella generazione di giovani dirigenti, che includeva esponenti del PFLP e di altri gruppi socialisti, era nata, per la prima volta, una piattaforma piuttosto unita che rappresentava una fetta importante delle priorità e degli obiettivi dei Palestinesi.

Ma quell’unità relativa è andata in frantumi sotto la spinta delle pulsioni settarie: prima all’interno, e poi anche all’esterno dell’OLP, sono nate correnti e sottocorrenti che hanno preso diverse direzioni ideologiche; molte erano finanziate dai regimi Arabi, che hanno sfruttato la lotta palestinese per interessi nazionali o regionali. Il fallimento nazionale è stato poi seguito da un tragico evento: quando la Resistenza Palestinese è stata esiliata dal Libano nel 1982, in seguito all’invasione israeliana del Paese, l’OLP e tutte le sue istituzioni erano nelle mani di un unico partito. Fatah, da quel momento, è diventato sempre più obsoleto e corrotto e ha iniziato a prendere decisioni in ambiti geografici lontani dalla Palestina. Ha assunto il controllo dell’OLP, che si è gradualmente trasformato in un organismo incentrato sul tribalismo politico e sulla corruzione finanziaria.

Senza ombra di dubbio, Abbas è stata una figura centrale in quel triste evento che ha condotto al fallimento di Oslo, nel 1993; ma le tendenze di cultura politica che egli ha in parte incoraggiato e sostenuto continueranno a divergere dalle aspirazioni del popolo palestinese, con o senza di lui.

È l’intera classe politica, sostenuta dal denaro dell’Occidente e degli Stati Uniti e ben tollerata da Israele, a dover essere sfidata dai Palestinesi, se vorranno avere di nuovo l’opportunità di rivendicare i loro obiettivi nazionali.

L’opinione corrente di alcuni, secondo cui sarà l’Intifada a porre le condizioni per rovesciare l’ANP, non ha alcun senso. Una mobilitazione popolare non potrà mai avere successo se è ostacolata da un gruppo potente come quello coinvolto nell’ANP, unito da comuni interessi.

Tuttavia, è inutile e assolutamente controproducente aspettare che Abbas articoli un messaggio più forte e convincente, perché il suo problema non è di natura lessicale: la verità è che il suo gruppo di potere si rifiuta di cedere anche solo un millimetro dei privilegi immeritati di cui gode per aprire uno spazio più democratico, in cui tutti i Palestinesi (laici, islamisti e socialisti) possano avere voce in capitolo nella lotta per il proprio Paese.

Il primo passo sarebbe la costituzione di una leadership unita nei Territori Occupati, in grado di gestire l’Intifada al di fuori dei confini delle varie fazioni; si dovrebbe inoltre procedere a una ristrutturazione delle istituzioni dell’OLP, che le renda più inclusive e le trasformi in uno spazio comune per i Palestinesi.

Presto, Abbas lascerà l’arena politica, per dinamiche interne a Fatah o per la sua età avanzata. Ma il futuro dei Palestinesi non può essere lasciato in balia dei suoi seguaci, impegnati solo nella protezione dei loro interessi. In ballo, c’è il futuro dell’intera nazione.

*Ramzy Baroud – http://www.ramzybaroud.net – scrive sul Medio Oriente da oltre vent’anni. Giornalista di fama internazionale, media consultant, autore di diversi libri e fondatore del PalestineChronicle.com. Tra i suoi libri “Searching Jenin”, “The second Palestinian Intifada” e l’ultimo, “My Father Was a Freedom Fighter: Gaza’s Untold Story”

 

Siria, “basta guerra”: l’appello di 120 organizzazioni umanitarie Fonte: green report

Mentre continuano i naufragi mortali tra la Turchia e la Grecia e non si ferma la guerra in Siria e la mattanza dei kurdi in Turchia, con un appello congiunto pubblicato nei giorni scorsi, più di 120 organizzazioni umanitarie e agenzie dell’Onu (Unhacr, Unicef, Ocha e Pam) esortano i governi, ma anche i cittadini di tutto il mondo, ad unirsi a loro per reclamare la fine della guerra in Siria e delle sofferenze subite da milioni di civili.«La guerra arriverà ben presto al sesto anno di brutalità. Il sangue continua a scorrere. Le sofferenze si aggravano. Eì per questo che oggi, noi, i dirigenti di organizzazioni umanitarie e dell’agenzie umanitarie della Nazioni Unite, chiediamo non solo ai governi ma anche ciascuno di voi, s cittadini di tutto i mondo, di levare la vostra voce per mettere fine a questa carneficina. Per esortare tutte le parti in conflitto a trovare un accordo di cessate il fuoco ed un cammino verso la pace – si legge nell’appello – Più che mai, il mondo ha bisogno di sentire una voce pubblica e collettiva esigere che sia messa fine a queste atrocità. Perché questo conflitto e le sue conseguenze non colpiscano tutti». Attualmente in Siria 13,5 milioni di persone hanno bisogno di aiuto umanitario e 4,6 milioni di persone sono fuggite nei Paesi vicini. Sono questi i serbatoi della disperazione che alimentano le migrazione di massa verso l’Europa, alimentati da una guerra nella quale i Paesi occidentali hanno enormi e imperdonabili colpe, storiche e recenti.

Le organizzazioni umanitarie chiedono «a coloro che ne hanno la possibilità di mettere fine alle sofferenze e di prendere delle iniziative immediate». In particolare le 120 organizzazioni e agenzie onu reclamano: «Un accesso senza restrizioni e durevole perché le organizzazioni umanitarie possano apportare dei soccorsi immediati a tutti coloro che ne hanno bisogno in Siria; Delle pause umanitarie e dei cessate il fuoco senza condizioni e controllati per avviare il cibo ed altri aiuti urgenti ai civili, organizzare delle campagne di vaccinazione e altre campagne sanitarie e permettere ai bambini di tornare a scuola; La fine degli attacchi contro le infrastrutture civili, perché le scuole, gli ospedali e l’approvvigionamento idrico siano protetti; Libertà di movimento per tutti i civili e togliere immediatamente i posti di blocco di tutte le parti».

L’appello congiunto afferma che «si tratta di misure pratiche. Nessuna ragione pratica deve impedirne la messa in opera se esiste la volontà di farlo. Per il bene di milioni di innocenti che hanno già sofferto tanto e per gli altri milioni le cui vite e il futuro sono in bilico, è necessario agire ora».

Un destino che l’Europa continua ancora a guardare soltanto di riflesso. Lunedì, durante una riunione programmata i ministri dell’Interno dei paesi Ue si discuterà del presente e prossimo futuro di Schengen. La libera circolazione delle merci è un caposaldo della nostro attuale modello di sviluppo economico, ma davanti alla mare montante di migranti in fuga da guerra e morte, la nobile Europa si trova sempre più in difficoltà nell’accettare ed accogliere la libertà di circolazione delle persone. Eppure sono gli stessi economisti a mettere in guardia rispetto a questa prospettiva. Al World economic forum in corso a Davos, riporta l’Ansa, il presidente della Bce Mario Draghi sottolinea come l’emergenza dei migranti rappresenterà per l’Europa ancora per i prossimi anni una sfida enorme ma anche un’opportunità, richiedendo «il più grande progetto di investimenti pubblici che ci sia stato in molti anni».

«In base alle norme attuali in materia di asilo casuali e arcaiche – aggiunge da parte sua il premio Nobel per l’economia Robert Shiller, intervenendo su Project syndicate – i rifugiati devono assumersi rischi enormi per raggiungere la sicurezza, e i costi e i benefici per aiutarli sono distribuiti senza criterio. Non deve essere così. Gli economisti possono dare il loro contributo testando quali norme e istituzioni internazionali sono necessarie per riformare un sistema inefficiente e spesso disumano».

Giorno della Memoria 2016, Armando il Bolero sopravvissuto ai lager: “Ho taciuto per 50 anni: nessuno mi credeva” da. ilfattoquotidiano.it

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di Annalisa Dall’Oca
L’OLOCAUSTO 71 ANNI DOPO – Intervista a Gasiani, tra i circa 24mila deportati per ragioni politiche: “Ci tolsero la nostra umanità, trasformandoci in cose, animali. La notte sognavi casa, i genitori, il profumo del pane caldo. E quando sono tornato e raccontavo agli amici, mi rispondevano: non è possibile. Per questo ho taciuto per decine di anni. Fino alla Vita è bella di Benigni”
di Annalisa Dall’Oca | 24 gennaio 2016
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Più informazioni su: Campi di Concentramento, Ebraismo, Ebrei, Giornata della Memoria, Lager, Nazismo, Nazisti, Olocausto, Roberto Benigni, Shoah
Appesa al muro della sua abitazione di Bologna, a Battindarno, una foto lo ritrae con Roberto Benigni. Armando Gasiani, classe 1927, nome di battaglia Bolero, fu tra i 23.826 italiani deportati per ragioni politiche nei campi di concentramento. E quando tornò da Mauthausen, con 34 chili e i polmoni gravemente malati, dell’orrore che aveva vissuto, visto e subito, non riusciva a parlare. Non poteva, perché nessuno riusciva a credere alle sue parole, neanche a casa. Perciò rimase in silenzio, anno dopo anno. Per cinquant’anni. Finché non arrivò La vita è bella, Benigni appunto. “Quel film, per me cambiò tutto – racconta Gasiani a ilfattoquotidiano.it – Mi aiutò a ritrovare la voce”. Oggi Gasiani viaggia per l’Italia per raccontare agli studenti della prigionia nei lager. “Devono sapere che la libertà di cui godono ci è costata tante vite. E tanti sacrifici”.

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Armando, quando la catturarono?
Il 5 dicembre del 1944, avevo 17 anni. Io e la mia famiglia vivevamo ad Anzola dell’Emilia, eravamo agricoltori. Ma visto ciò che stava succedendo, al di qua e al di là delle Alpi, io e mio fratello Serafino decidemmo di unirci alla Resistenza. Non andammo mai a combattere, ma per i partigiani eravamo parte della cosiddetta “rete di supporto”. Quindi, in pratica, offrivamo cibo, assistenza, li aiutavamo a rimanere nascosti. Fu per quello che ci presero.

Le SS sapevano che ad Anzola c’era una base partigiana?
Sì, perché a guidarli fu un traditore, un ex partigiano che si unì alle SS. Arrivarono all’improvviso, e non ci fu tempo di scappare. Ci portarono in una scuola, eravamo circa 200, ci processarono, se così si può dire, e poi ci smistarono. Una parte di noi, me e mio fratello compresi, finì nel carcere di San Giovanni in Monte, a Bologna. Poi, da lì, fummo deportati. In 100 viaggiammo stipati su tre camion fino a Bolzano, e poi salimmo su un treno merci, direzione Mauthausen. Di quel gruppo siamo tornati in Italia solo in 17. Nessuno di noi pesava più di 38 chili.

Qual è il primo ricordo che ha del campo di concentramento?
La voce di un ragazzo, sul treno con noi, che mi disse: “Se finiamo a Mauthausen, nessuno saprà più nulla di noi”. Perché girava voce che quello non fosse un campo di lavoro, come inizialmente era stato impropriamente considerato. O meglio, si lavorava, sì, ma solo per morire. Quello era il fine di chi aveva creato il campo. Ma il viaggio fu talmente terribile che capimmo solo un paio d’ore dopo l’arrivo dove ci trovavamo.

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Quando, di preciso?
Quando ci assegnarono un numero. Quando ci tolsero la nostra umanità, trasformandoci in cose, animali. Io ero il 115523. Mio fratello, il 115524.

Quanto tempo ha passato a Mauthausen?
Mauthausen 9-10-11 maggio 2014 124Arrivammo al campo il 12 gennaio 1945, la liberazione fu il 5 maggio. Dopo l’arrivo, però, venni smistato a Gusen II, uno dei sottocampi di Mauthausen. Fu anche il momento più difficile di tutta la mia prigionia, perché mi separarono da mio fratello, che finì a Gusen I. Non l’ho mai più rivisto.

Cosa ricorda di quei mesi?
La fatica, straziante, ci svegliavano alle 4.30 del mattino, e si lavorava nella fabbrica di aerei fino a sera, poi si tornava al campo. E il giorno dopo uguale. La fame, quella vera, che ti consuma, che divora il tuo corpo finché non rimangono solo le ossa. E poi il freddo. L’aspettativa di vita media, a Mauthausen, era di 4 mesi, al massimo 4 mesi e mezzo. Io ci arrivai per miracolo.

In che senso?
A salvarmi la vita fu il consiglio che mi diede un romagnolo. Mi disse: “Quando te lo chiederanno, di’ che sei un meccanico, e non un contadino”. Fu la mia salvezza: lavorare in fabbrica significava stare al riparo dagli elementi, sebbene in galleria ci fossero appena 10 gradi. E poi ti davano qualcosa da mangiare. Avessi lavorato all’esterno, probabilmente sarei morto molto prima. Si moriva facilmente: di malattia, di fame, di consunzione, per le violenze subite.

Un incubo.
Sopravvivevamo aggrappati a una sola speranza: che la guerra finisse presto. Era come vivere continuamente in un incubo di dolore, sofferenza, circondati dalla morte, e quando certe notti sognavi casa, i tuoi genitori, il profumo del pane caldo appena sfornato, era persino peggio. Perché poi aprivi gli occhi, la mattina, ed eri ancora lì. Ho pianto tanto.

Lei ha scritto un libro su ciò che ha vissuto, si intitola Finché avrò voce”.
Sì, molti anni dopo essere tornato a casa. All’inizio non riuscivo a parlare dell’orrore. Il fatto grave è che non eri creduto. Raccontavi, ma nemmeno gli amici o i genitori riuscivano a crederti. Mi rispondevano sempre “non è possibile”. Dicevano: “La guerra l’abbiamo vissuta anche noi”. Ma non capivano che i campi di concentramento erano fabbriche di morte: non andavi lì a combattere, non avevi difese. Eri lì per morire.

Poi cosa è successo?
Ho visto il film di Roberto Benigni, La vita è bella, e per me è stata una seconda Liberazione. Era tutto lì, sul grande schermo, e mi sono sbloccato. L’ho incontrato, dopo, Benigni, per ringraziarlo.

Cosa racconta oggi ai ragazzi delle scuole che le domandano dell’Olocausto?
Ricordo loro che la libertà l’abbiamo pagata a caro prezzo, e che quella parola, libertà, scopri cos’è davvero solo quando l’hai persa. Che bisogna fare attenzione all’odio, al razzismo, perché oggi in Italia queste parole dominano, ma sono pericolose. Sono ciò che ha dato il via a tutto. Non bisogna mai dimenticare. Dobbiamo stringere tra le mani, con forza, la nostra democrazia, e scegliere sempre il dialogo, il rispetto reciproco.

Ha mai rimpianto di essersi unito ai partigiani?
Io? No, assolutamente no. Anche dopo ciò che ho sofferto.