Esiste ancora in Italia il diritto alla salute? da: lacittà futura

  • di Beatrice Bardelli

Con il Documento economico finanziario (DEF) dello scorso aprile, il Governo Renzi ha pianificato lo strangolamento della sanità pubblica. Sui 2.637 miliardi di tagli previsti, 2.352 miliardi verranno tolti al sistema sanitario mentre 285 milioni saranno tagliati all’edilizia sanitaria. Per andare sempre più verso un sistema pubblico povero per i poveri e un sistema privato per chi può pagare. E la Regione Toscana spinge per ancora maggiori tagli e accorpamenti delle strutture pubbliche.

di Beatrice Bardelli

Il diritto alla salute? Non è più un “fondamentale diritto dell’individuo” né tantomeno “interesse della collettività” come recita (ancora per quanto?) l’articolo 32 della Costituzione. In Italia l’attacco generalizzato ai diritti sociali prevede anche lo smantellamento dei servizi pubblici e del Servizio sanitario nazionale in particolare. Nonostante prestigiosi istituti internazionali come l’Organizzazione Mondiale della Sanità continuino a ripetere l’ormai abusato refrain che la sanità italiana è una delle più virtuose al mondo per quanto riguarda la spesa ed i risultati eccellenti raggiunti, la realtà di oggi, quella che i cittadini vivono quotidianamente sulla propria pelle, è ben diversa. Gli ultimi tre governi che si sono succeduti dal 2011 con la sola benedizione di Re Giorgio hanno condiviso l’obiettivo di colpire, per esigenze di risparmio e/o di risanamento finanziario della spesa pubblica, il settore più importante di uno stato che si voglia definire “sociale”, quello della prevenzione e dell’assistenza sanitaria. Attraverso due scelte radicali: la riduzione delle risorse da erogare in campo sanitario – tanto che l’Italia ha attualmente una delle più basse spese sul PIL rispetto a molti altri paesi europei ugualmente colpiti dalla crisi economica – e l’avvio di processi di privatizzazione di interi pezzi di livelli essenziali che stanno determinando il progressivo abbandono del carattere universale e pubblico del nostro Sistema sanitario nazionale.

L’OCSE bacchetta l’Italia.

Se n’è accorta anche l’OCSE, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico di Parigi che è stata istituita con Convenzione internazionale nel 1960 ed è stata firmata, ad oggi, da 34 Paesi di tutto il mondo: Australia, Austria, Belgio, Canada, Cile, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Grecia, Irlanda, Islanda, Israele, Italia, Lussemburgo, Messico, Norvegia, Nuova Zelanda, Olanda, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Repubblica di Corea, Repubblica Slovacca, Slovenia, Spagna, Stati Uniti, Svezia, Svizzera, Turchia, Ungheria. Nel suo rapporto 2015 (“Revisione sulla qualità dell’assistenza sanitaria in Italia), l’OCSE annota come criticità per il nostro paese il fatto che “il miglioramento della qualità e la riorganizzazione del sistema hanno assunto un ruolo secondario quando la crisi economica ha iniziato a colpire” mentre “il risanamento delle finanze è divenuto priorità assoluta, nonostante i bisogni in fatto di salute evolvano rapidamente”. Bisogni che l’OCSE specifica: “gli indicatori relativi a demenza, numero di anni di vita in buona salute e limitazioni nelle attività quotidiane dopo i 65 anni sono peggiori rispetto alle medie OCSE e il tasso di bambini in sovrappeso è tra i più alti nell’area OCSE”. Inoltre, avverte l’OCSE, l’Italia “deve confrontarsi con un crescente invecchiamento della popolazione ed un aumentato carico delle patologie croniche” ma attualmente il “progresso verso un modello di sistema sanitario in cui la prevenzione e la gestione di tali patologie siano in primo piano è piuttosto lento; i servizi per l’assistenza di comunità, a lungo termine e di prevenzione sono poco sviluppati rispetto agli altri paesi OCSE”. Infatti, si legge ancora nel rapporto: “l’Italia spende meno di un decimo di quanto spendono Olanda e Germania per la prevenzione e presenta la più bassa percentuale di operatori per l’assistenza a lungo termine osservabile nei Paesi dell’OCSE, in rapporto alla popolazione con 65 anni di età e oltre”.

La sanità in Italia: vittima sacrificale.

Questo scriveva l’OCSE il 15 gennaio 2015. Ma il governo Renzi ha fatto orecchio da mercante e, nell’aprile scorso, ci ha sfornato il Def (documento di economia e finanza) 2015- 2018 sul contenimento della spesa che strangola letteralmente la sanità. Infatti sui 2,637 miliardi di tagli previsti a partire da quest’anno, 2,352 miliardi andranno a colpire il sistema sanitario mentre 285 milioni saranno tagliati all’edilizia sanitaria. L’accordo ufficiale sui tagli alla sanità è arrivato, tuttavia, solo il 2 luglio scorso dopo mesi di discussioni in conferenza Stato-Regioni che ha visto la contrarietà di 3 Regioni, Veneto, Lombardia e Liguria. La cosa aberrante è che questi tagli sono stati decisi con una intesa Stato-Regioni all’indomani di un Patto Governo-Regioni che aveva sancito addirittura il rifinanziamento del Fondo sanitario nazionale. In pratica, quasi tutte le Regioni hanno deciso di rispondere alla generica richiesta di Renzi di un contributo di alcuni miliardi (le Regioni erano libere di decidere dove e come ricavarli) tagliando testa e gambe alla sanità. Che è stato l’unico capitolo di spesa ad essere toccato. Anzi, massacrato. E con i tagli alla sanità sono stati massacrati i sacrosanti diritti dei cittadini ad avere un’assistenza sanitaria equa, efficace ed appropriata. E non si può sentir dire che la sanità non poteva non essere toccata perché da sola copre il 70% delle spese regionali! La salute non è una commodity, non si scambia come merce sui mercati finanziari. Lo ribadiamo con forza: la salute è un diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività. “Quello che lascia veramente perplessi – ha sottolineato Cesare Fassari, direttore di Quotidiano sanità, il giornale online leader del settore (http://www.quotidianosanita.it) – è che nessuna delle voci di ‘risparmio’ riguarda altri capitoli di spesa delle Regioni. Non si parla di stipendi dei consiglieri (in tutto quasi un miliardo l’anno), di consulenze esterne (in tutto 800 milioni l’anno), di trasferimenti alle varie ‘aziende regionalizzate, provincializzate, municipalizzate e consortili’, alle quali vanno ogni anno più di 3,2 miliardi di euro. Nulla sulla spesa di beni e servizi non sanitari, che raggiunge la ragguardevole cifra di 6 miliardi l’anno (bilanci Regioni-Istat 2014)”. Tuttavia per il ministro alla Sanità Lorenzin, l’accordo sui tagli di 2,35 miliardi di euro al fondo sanitario 2015 è un gran successo. Ma con questi tagli, avvertono da più parti, ci si avvicina alla soglia del 6,5% di incidenza della spesa sanitaria sul Pil. Sotto questo livello si riduce l’aspettativa di vita della popolazione. “L’importante è avere chiaro questo punto – ha detto Massimo Garavaglia, coordinatore degli assessori finanziari in Conferenza Regioni – la Grecia ha già visto aumentare la mortalità infantile a causa dei tagli”.

E dopo i “tagli lineari”, un altro colpo di mannaia: gli “standard ospedalieri” che mettono a rischio la vita stessa degli italiani.

Dallo scorso 19 giugno, infatti, è in vigore il Regolamento sugli standard qualitativi negli ospedali, previsto dalla spending review del 2012 (L. 135), che impone alle Regioni di ridurre i posti letto ospedalieri a carico del Servizio sanitario regionale ad un livello “non superiore” a 3,7 posti letto ogni 1.000 abitanti. Una perdita secca di 3.000 posti letto secondo fonti ministeriali, 10.000 secondo i più realistici dati della CGIL. Un colpo decisamente mortale per l’assistenza ai cittadini. Un vero “colpo al cuore” per le strutture cardiologiche degli ospedali di tutta Italia. L’allarme è stato lanciato dai cardiologi dell’Anmco (Associazione nazionale medici cardiologi ospedalieri) riunitisi a Milano ai primi di giugno per il loro 46° congresso. Con il nuovo provvedimento, infatti, “le strutture cardiologiche italiane si ridurranno di due terzi e la salute del cuore degli italiani ne risentirà pericolosamente – ha detto il presidente dell’Anmco, Michele Gulizia, ricordando che in 50 anni l’eccellenza cardiologica italiana ha salvato oltre 750.000 persone fulminate da infarto. Il Regolamento prevede una drastica riduzione delle strutture di Cardiologia (da 823 a 242), delle Unità di terapia intensiva coronarica (da 402 a 242), dei Laboratori di Cardiologia interventistica (da 249 a 121) oltre al taglio del 43% dei posti letto in cardiologia (da 8.534 a 4.844). “Cosa ancora più grave – ha denunciato Gulizia – se si considera che le Cardiologie spariscono soprattutto dagli ospedali con pronto soccorso”.

Una tragedia annunciata? In Toscana si contano già i morti.

Nella regione classificata nel 2013 prima in Italia per qualità dei servizi erogati, sono sempre più numerosi i piccoli ospedali che chiudono. Molti reparti, anche di primaria importanza come pediatria, ostetricia, cardiologia, chirurgia, sono stati cancellati, molti servizi e attività sono stati esternalizzati, si è ridotto il personale e si è ridotto il numero dei posti letto (già dal dicembre 2012 con la Delibera di Giunta n. 1235), anche nei grandi ospedali ed anche oltre il parametro ministeriale (da 3,7 a 3,15 posti letto ogni 1.000 abitanti). Che tradotto in cifre significa che la Toscana ha deciso di tagliare oltre 2.000 posti letto ospedalieri mentre la spending review gliene imponeva solo 1.500. Così capita di frequente di restare ore e ore su una barella, in mezzo a un corridoio o al pronto soccorso, ad aspettare che si liberi un letto nel reparto dove dovresti essere ricoverato. Ma succede anche, come è capitato purtroppo al signor Ivano Vivarelli di Gavinana (Pistoia), che, colpito da ischemia e portato all’ospedale “Lorenzo Pacini” di San Marcello Pistoiese è stato dimesso per mancanza di posti letto “con l’avviso di tenere a portata di mano le bombole di ossigeno oppure con la prospettiva alternativa di un ricovero in Versilia. Il Sig. Vivarelli decedeva tre giorni dopo le dimissioni. La stessa sfortunata sorte è capitata alla Sig.ra Piera Sonnoli di Chiesina Uzzanese (Pt) sulla cui vicenda è già aperta un’inchiesta della Procura”. Parole asciutte ma che raccontano una realtà terribile. Parole scritte dai legali dell’Aduc di Firenze a nome del C.R.E.S.T. (Comitato Regionale Emergenza Sanità Toscana) e di altri cittadini riuniti in comitati nel territorio pistoiese che hanno deciso di chiedere alla Procura di Pistoia di procedere penalmente contro tutti coloro che saranno ritenuti responsabili di una serie di casi di malasanità determinati, secondo loro, dalla riorganizzazione del sistema sanitario regionale che è stato delegato ai cosiddetti Patti territoriali, gli accordi tra Sindaci e singole Asl. “Tale organizzazione – si legge nell’esposto-denuncia – ha messo in crisi e pregiudicato l’accesso equo ed universale alle cure e alla tutela del diritto alla salute sancito dall’articolo 32 della Costituzione Italiana, nonché creato discriminazione dei cittadini residenti nelle zone periferiche e marginali della provincia (Valdinieviole, Valleriana e Montagna Pistoiese) rispetto a quelli vicini ai centri abitati maggiori. Ma soprattutto ha messo a repentaglio le vite stesse degli abitanti che si trovino nell’emergenza di ricevere cure urgenti”. Ma in Toscana, la riorganizzazione del sistema sanitario mette seriamente a rischio anche la vita dei bambini. A marzo, un bambino è arrivato all’ospedale di Volterra (Pisa) verso le 18 con problemi respiratori. E’ stato chiamato l’elisoccorso, il bambino è stato intubato e trasportato d’urgenza al Meyer di Firenze. Se il bambino fosse arrivato dopo le 20, quando il pediatra non c’era più, cosa sarebbe successo? E’ facile, purtroppo, immaginarselo. E questo perché non è stata riattivata la reperibilità pediatrica: quella più vicina rimane Pontedera, a 42 km di distanza.
A Pistoia, come ci racconta Valerio Bobini, presidente del C.R.E.S.T., i posti letto sono soltanto 2,33 per 1.000 abitanti, il 37% in meno di quanto previsto dallo stesso Ministero. A San Marcello Pistoiese, rinomato centro turistico, l’ospedale non ha più il pronto soccorso né l’assistenza pediatrica: ci sono solo guardia medica e 118. Se per gli adulti la situazione è difficile, per i bambini (e le loro famiglie) è decisamente tragica. La pediatria di Pescia è stata chiusa anche se era punto di riferimento per 14.000 minori in Valdinievole e per 11.000 bambini sotto i 5 anni. In tutto, i bambini della provincia di Pistoia sono oltre 37.700. Per loro, la riorganizzazione sanitaria, gestita secondo funzionali parametri aziendali, ha previsto appena 16 posti letto, concentrati nell’ospedale “San Jacopo” di Pistoia. Non va meglio nelle altre zone periferiche della Toscana. L’assistenza pediatrica è sparita di notte e nei giorni festivi in Lunigiana, Garfagnana, Appennino Pistoiese e Alta Val di Cecina. Ed è sempre più difficile trovare il personale medico specializzato per far partorire le mamme dopo la chiusura dei punti nascita di Orbetello (Grosseto), Volterra (Pisa), Borgo San Lorenzo e Figline Valdarno (Firenze), Montepulciano (Siena).

La Toscana infierisce.

Su questa realtà già così penalizzata dalle scelte regionali e già così penalizzante per la sicurezza dei cittadini tanto da metterne a rischio la loro stessa vita, la giunta Rossi, a fine mandato, ha voluto infierire con una nuova legge di riordino dell’assetto istituzionale e organizzativo del servizio sanitario regionale, la n. 28 del 16 marzo 2015, che prevede nuovi tagli e nuovi sacrifici per i cittadini. Ancora una volta la Toscana, guidata nuovamente da Rossi, rieletto e in odore di diventare il vicesegretario del PD renziano, stravolge il diritto alla salute sottomettendolo alle fredde regole del “mercato aziendale” e spingendo a privatizzare il servizio sanitario regionale. Che deve essere innanzitutto efficiente. Per cui tagli e ancora tagli. Dopo i posti-letto, i tagli, ovvero gli “esuberi forzati” riguardano il personale dipendente: saranno cancellati (e non più ripristinati) 2.260 posti di lavoro, di cui oltre mille tra medici, infermieri, operatori socio-sanitari ed altrettanti tra dipendenti amministrativi e addetti ai servizi. Tagli che si rifletteranno direttamente sulla qualità dell’assistenza ai cittadini. E’ prevista, inoltre, la riduzione (già avviata) delle ASL. Da 12 a 3 Aziende USL di Area Vasta (1- Firenze, Pistoia e Prato; 2- Siena, Arezzo e Grosseto; 3- Pisa, Livorno, Lucca e Massa), dotate di personalità giuridica di diritto pubblico e di autonomia imprenditoriale e dirette da altrettanti super-manager che avranno come unico obiettivo quello del risparmio economico e che dovranno spartirsi la gestione di ben 4 milioni e 200.000 assistiti per un giro di affari da far girare la testa: 8 miliardi e mezzo l’anno. Una cifra che potrebbe risvegliare veri appetiti ”in una situazione di corruzione e malaffare dilagante, che non ha certamente risparmiato la Toscana”, ha scritto Gavino Maciocco (Dipartimento di Sanità pubblica dell’Università di Firenze) sul sito Salute Internazionale (http://www.saluteinternazionale.info). La motivazione di Rossi (per 10 anni assessore alla Sanità della Regione: 2000-2009) a questa vera e propria rivoluzione (ma il suo dream è creare un’unica, enorme, ASL regionale) è stata quella del risparmio, da 250 a 350 milioni di euro per il 2015.
“Non esiste alcuno studio che metta in relazione le macro-fusioni delle organizzazioni sanitarie con l’ottimizzazione della spesa e con il miglioramento della qualità dei servizi – ha scritto Maciocco. A suo supporto, uno studio del King’s Fund (il più importante istituto di ricerche britannico) che conclude affermando che raramente queste fusioni raggiungono gli obiettivi stabiliti (miglioramento della produttività e della posizione finanziaria) ma sicuramente mettono in evidenza che “quanto più alto è il grado di cambiamento organizzativo, tanto più alto è il rischio che il beneficio non sia raggiunto”. In questa situazione di vero e proprio smantellamento del sistema sanitario toscano, i cittadini sono costretti a pagare i ticket più alti d’Italia (in pratica pagano di tasca loro il 30% della spesa sanitaria complessiva) mentre le liste di attesa restano lunghissime (ad es. 116 giorni per una radiografia all’ASL5 di Pisa, 367 giorni per una mammografia all’ASL6 di Livorno ecc.). E per un tumore al seno in Toscana sono necessari 40 giorni di attesa per essere ricoverati a fronte di un dato nazionale pari a 24 giorni. Per questi motivi chi può permetterselo economicamente sceglie già la strada del privato con la conseguenza di ridurre ulteriormente le risorse destinate alla sanità pubblica. Con la prospettiva, non remota, hanno scritto medici e veterinari toscani contrari al riordino, di vedere le classi più abbienti spostarsi verso l’intermediazione finanziaria, in particolare nel settore della specialistica e della diagnostica ambulatoriale. Si rischierà di avere, quindi, un doppio binario: un sistema sanitario pubblico, povero, per i poveri, ed uno ricco di risorse economiche e di professionalità in mano alle assicurazioni. Ma c’è un dato molto più preoccupante. In Toscana già l’11% della popolazione sta rinunciando a curarsi perché non può pagare.

Referendum subito!

Una situazione decisamente inaccettabile. Per questo è nato in Toscana il Comitato Promotore per il referendum sulla legge regionale 28/2015 che comprende comitati, associazioni di cittadini, soggetti politici e sindacali che in questi anni si sono battuti per la difesa del servizio sanitario pubblico regionale. Il referendum si svolgerà probabilmente nella primavera 2016 che si preannuncia già come una grande stagione referendaria. All’appuntamento referendario sulla sanità toscana si uniranno con molta probabilità, anche i referendum contro l’Italicum, la “buona scuola”, il Jobs Act. L’augurio è che gli italiani ed i toscani ritrovino l’entusiasmo di essere protagonisti di una svolta storica. In difesa dei propri diritti costituzionali attaccati e profondamente lesi da decisioni politiche antidemocratiche e, soprattutto, autoreferenziali. “Partecipazione diretta” sarà il nostro slogan referendario.

Razzismo, in Italia cresce sempre di più. Lo dicono le agenzie governative Autore: fabio sebastiani da: controlacrisi.org

Aumentano in Italia le segnalazioni di casi di discriminazione, +17,1% in un anno, e la maggior parte di questi episodi è a sfondo razziale o etnico. I pregiudizi sono duri a morire, e la crisi economica sicuramente non favorisce un clima di convivenza serena. L’Unar, Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali, anche quest’anno ha istituito la Settimana d’azione contro il razzismo, per la quale ha chiamato a raccolta Governo, enti locali, mondo della scuola e dello sport. La presentazione dell’undicesima edizione della Settimana, e della relativa campagna “Accendi la mente e spegni i pregiudizi”, è stata l’occasione, oggi a Palazzo Chigi, anche per fare il punto sulla riforma della cittadinanza. Con il sottosegretario con delega all’Integrazione, Franca Biondelli, che ha ricordato che in Parlamento giacciono più di 50 proposte di legge e ha assicurato che “il Governo affronterà il problema”. Per Biondelli infatti “la situazione è insostenibile” e “occorre mettere insieme un testo unico”. Anche l’Anci sta facendo pressione per una riforma della cittadinanza. Il presidente Piero Fassino ha sottolineato che “il 10% della popolazione in Italia è di origine straniera” e che “ci sono tanti bambini nati qui ma che secondo la legge non sono cittadini italiani. Cresce di mese in mese, infatti, il numero dei Comuni che, in mancanza di quella vera che si può ottenere solo a 18 anni, concedono la cittadinanza onoraria ai ragazzi delle seconde generazioni.
I direttore di Unar Marco de Giorgi ha spiegato che “i dati statistici 2014 sulla discriminazione attestano che più del 30% del cosiddetto ‘discorso di odio’ viaggia online ed è questa la frontiera più difficile da contrastare”. Sui pericoli dei pregiudizi si è soffermato anche il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, che ha invitato a “tenere sempre alta la guardia perché‚ si tratta di una battaglia che non è vinta una volta per tutte”. Per il 2015, Reggio Calabria è stata scelta come capitale anti-razzista d’Italia, e sarà il cuore di tante iniziative: è a Reggio infatti che si celebrerà, con la partecipazione di centinaia di ong e associazioni, l’evento centrale del 21 marzo, Giornata mondiale contro il razzismo indetta dalla Nazioni Unite

Chi vuole liberare Meriam Cheikh? da: UDI – Unione Donne in Italia

 

È la domanda che rivolgiamo a chi può, in Italia, spendere parole istituzionalmente autorevoli e fare i passi giusti.

La vicenda di Meriam nel suo paese, in Mauritania, è rappresentativa di una pratica politica e sociale che legittima la schiavitù per oltre un quinto della popolazione, pur avendola ufficialmente abolita dal 2007.

Questo terribile crimine colpisce prevalentemente l’etnia Haratin, per secoli discriminata e umiliata con ogni tipo di persecuzione.

A Meriam è stato impedito di sostenere gli esami universitari alla facoltà di ingegneria che frequentava, perché donna e Haratin. A Meriam è stato contestato il crimine di aver manifestato contro gli arresti indiscriminati di attivisti e militanti dell’IRA (initiative de resurgence du mouvement abolitionniste de Mauritanie), tra cui il presidente del movimento Biram Ould Dah Abejed. È stata incarcerata e poi posta in isolamento per aver protestato per gli abusi compiuti dal personale carcerario.

Dal Novembre 2014 questa giovane donna è in carcere per aver protestato legittimamente contro pratiche che ufficialmente, anche in Mauritania, sono considerate crimini.

Crimini. Il primo fra tutti la schiavitù, che per le donne è sinonimo di violenze sessuate, maltrattamenti e l’avvio nelle reti della tratta di esseri umani.

L’IRA Mauritania in Italia, Amnesty, le Donne in Nero, hanno denunciato, oggi noi dell’UDI denunciamo che quanto avviene in Mauritania viene coperto da reticenze e silenzi inspiegabili.

Per Meriam e per le altre, insieme a tutte e tutti coloro che si battono contro la schiavitù faremo da oggi la nostra parte, perché il nostro paese segua tutte le vie diplomatiche e politiche per la liberazione delle donne ingiustamente detenute.

A partire da una domanda: chi vuole davvero liberare Meriam Cheikh?

 

Il Coordinamento Nazionale UDI – Unione Donne in Italia

Call Center, quella “terra di nessuno” chiamata Italia. Il 21 è sciopero generale Autore: remo pezzuto da: controlacrisi.org

Sciopero nazionale dei call center il 21 novembre. Le segreterie nazionali di Slc Cgil, Fistel Cisl e Uilcom Uil hanno deciso di dichiarare la seconda giornata di sciopero nazionale del settore con manifestazione a Roma, che sarà accompagnata da una vera e propria ‘Notte bianca dei call center’. Il settore è investito da centinaia di licenziamenti. 

Una ricerca condotta dall’Istat e dall’Isfol certifica che gli addetti ai call center sono oggi in Italia i lavoratori che stanno attraversando la crisi con il maggior senso di insicurezza ed insoddisfazione. Nel nostro Paese sono 2.270 le aziende di call center e ci lavorano circa 80.000 donne e uomini. Nonostante sia un settore in crescita, sia in termini di fatturato che di addetti, la mancanza di regolamentazione degli appalti ha creato una competizione sleale sul mercato: i lavoratori sono alla totale mercé di un sistema che permette che le commesse vengano tolte ed assegnate su criteri che esulano totalmente dal fattore lavoro.

Nella provincia jonica gli operatori di call center sono circa 4.000, sparsi tra le varie micro sedi e le imprese più grandi come Teleperformace – che, solo a Taranto, conta oltre 1500 dipendenti e centinaia di lavoratori a progetto, Mach10 e Human Power. La loro condizione lavorativa, le tutele e i diritti vanno di pari passo con il tipo di contratto con il quale sono assunti. Si va da una realtà dove le tutele sono relativamente alte come Teleperformance – dove ci sono lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato -, ad aziende in cui ancor oggi concetti come “tutele e diritti” sono obiettivi da raggiungere – per non dire da conquistare. Le ultime denunce della Slc-Cgil di Taranto hanno evidenziato però che esiste una forte presenza di “sommerso”. Sono stati censiti infatti circa 134 lavoratori privi di contratto (come nel caso del call center di Grottaglie), pagati 2,50 € l’ora – rispetto alle 5 € previste dal contratto collettivo nazionale di lavoro. Motore di questo fenomeno sono i committenti e a pagare le conseguenze delle gare a ribasso sono i giovani o chi vive in uno stato di bisogno. Le condizioni che gli vengono imposte dal ricatto occupazionale degli imprenditori da “sottoscala” sono al limite della schiavitù. Ripresi costantemente da telecamere, i lavoratori sono costretti a non chiedere mai spiegazioni, pena la sospensione o l’allontanamento e licenziamento dall’azienda, come risulta dalla denuncia effettuata dall’Slc nel caso di un call center di Taranto.

In questi anni la regolarizzazione e la stabilizzazione dei precari nel settore in-bound (ovvero i call center che ricevono le chiamate) sono state barattate dai governi con incentivi alle imprese; ciò ha prodotto una proliferazione di unità e la frammentazione del settore. Finiti però gli incentivi, le aziende hanno preso a scaricare il loro rischio d’impresa sui lavoratori attraverso esternalizzazioni, appalti, subappalti (nel migliore dei casi), sino ad arrivare alla delocalizzazione. Il settore ha vissuto anche delocalizzazioni “interne”, fra diverse regioni d’Italia, che hanno prodotto ulteriori divisioni all’interno del Paese e nel fronte dei lavoratori, messi uno contro l’altro per un lavoro sottopagato. Le grandi aziende appaltano l’assistenza clienti a società di servizio, che spesso a loro volta subappaltano il lavoro: in tutti questi passaggi le aziende guadagnano a discapito dei lavoratori, le cui condizioni di lavoro vengono riviste invariabilmente al ribasso.
Come potrebbe sentirsi sicuro il lavoratore di un’azienda che si vede togliere il lavoro da un importante committente e che vede il proprio futuro legato a meccanismi di vero e proprio ricatto occupazionale?Perché dovrebbe sentirsi protetto un lavoratore che sa bene che la propria storia retributiva, la propria professionalità sono considerati un peso da eliminare dalla maggior parte degli uffici acquisti delle grandi committenze, che vedono nella compressione brutale del costo del lavoro e dei diritti la strada maestra per massimizzare i profitti?

Eppure l’Unione Europea ha emanato la Direttiva 23/2001 che prevede clausole speciali per il mantenimento dei diritti in caso di esternalizzazione ad altra azienda. La mancata trasposizione di quella direttiva, che ha impedito l’estensione delle tutele previste dall’articolo 2112 del c.c. in occasione della successione o cambio di appalti, ha creato in Italia un vuoto normativo che consente di creare crisi occupazionali esclusivamente per ridurre il salario dei lavoratori e comprimerne i diritti
La crisi occupazionali delle aziende di call center non sono determinate quindi da un calo dell’attività lavorativa, ma unicamente dall’opportunità concessa al committente di cambiare liberamente il fornitore del servizio senza essere tenuto a garantire la continuità occupazionale a quei lavoratori che già prestavano la propria attività. Presso la sede di Taranto di Teleperformace quasi due anni fa si è firmato un accordo sindacale per ridurre il costo del lavoro, con un abbassamento del livello e il congelamento degli scatti d’anzianità per tutta la durata dell’accordo, da gennaio 2013 a giugno 2015. I call center sono realtà in cui la struttura dei costi si basa quasi esclusivamente sui salari; la tendenza è quindi a scaricare gli sconti sulle tutele e i diritti dei lavoratori, e naturalmente sugli stipendi, così come previsto appunto dall’accordo del 10 gennaio 2013 che ha aperto alle deroghe al contratto nazionale. In questo modo il committente mantiene basso il costo con gli sgravi contributivi permanenti e le retribuzioni dei lavoratori ai minimi contrattuali e senza anzianità, mentre lo Stato paga due volte: gli ammortizzatori sociali per i disoccupati e gli incentivi per le nuove assunzioni, senza creare nemmeno un posto di lavoro nuovo.

In nessun paese europeo ciò è possibile, in quanto il recepimento della direttiva su citata ha portato al varo di leggi che direttamente, come nel caso della TUPE inglese (o con rimandi ai contratti di lavoro, come accade in Spagna), impone di garantire continuità occupazionale in caso di successione di appalti per le stesse attività. In questo modo quei mercati hanno deciso di premiare le aziende che investono in tecnologia e che riescono ad essere efficaci sviluppando ed investendo in IT e ricerca.
In Italia invece si premia l’imprenditore più spregiudicato, che viola regole e leggi e in questo modo comprime il costo del lavoro. In questi anni, però, non solo le aziende hanno diviso il fronte dei lavoratori, ma anche i governi. La “politica dei due tempi” del governo Prodi e del suo ministro del lavoro, Cesare Damiano, ha prodotto una spaccatura verticale tra gli operatori dell’in-bound, che hanno vissuto i processi di stabilizzazione, e i lavoratori dell’out-bound, che continuano a lavorare con contratti a progetto o addirittura con la partita Iva pur essendo nella realtà dipendenti.
Sul fronte sindacale, a Taranto, quella di Teleperformance è tra le realtà più sindacalizzate. Slc-Cgil conta più di 500 iscritti su 1700 lavoratori. In vista della manifestazione del 25 ottobre promossa dalla Cgil si stanno organizzando assemblee per sensibilizzare i lavoratori. Ma non essendo uno sciopero, le adesioni maggiori provengono da chi non è in turno, e sono comunque alte. Le modifiche del governo all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, oltre che le norme sulla videosorveglianza potrebbero servire all’azienda per mandare via personale senza passare dai ministeri e dagli ammortizzatori sociali.
Le mobilitazioni organizzate dagli operatori di call center sono tantissime. Per lo più focolai sparsi sul territorio nazionale. Tuttavia questa azione a macchia di leopardo dovrebbe confluire in una mobilitazione nazionale per bloccare il settore, ampliare il fronte rivendicativo allo scopo di migliorare la condizione di tutte e tutti indipendentemente dal contratto o dal servizio che offrono (inbound/outbound). I lavoratori vogliono un lavoro di qualità non sottopagato, sfruttato fino all’osso, precario e sotto ricatto.
Oggi il governo deve confrontarsi con le paure di questi migliaia di lavoratori, paure che non si possono risolvere con un hashtag o con un selfie. Per portare il terrificante dato italiano a livelli accettabili ci voglio fatti concreti e decisioni coraggiose, in linea con quanto avvenuto nel resto d’Europa. L’attuale condizione degli operatori e operatrici di call center è inaccettabile e dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, che non è più rinviabile in Italia una norma che garantisca i lavoratori nei cambi di appalto e che, una buona volta, tolga i lavoratori dalla tenaglia del costante gioco a ribasso dei committenti e dalla sfrenata ricerca di profitti di certi imprenditori.

No alle guerre- Si alla Pace- Difendi la Costituzione

LA PACE


Art. 11
L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli
e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in
condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un
ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce
le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

“Le lapidi sono importanti, i monumenti sono importanti, ma il più grande monumento,
il maggiore, il più straordinario, che si è costruito in Italia, alla Libertà, alla Giustizia, alla
Resistenza, all’Antifascismo, al Pacifismo, è la nostra Costituzione” (…).

Teresa Mattei

Il terremoto elettorale delle europee Autore: Cesare Salvi da: controlacrisi.org

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Le elezioni europee sono state un autentico terremoto politico non solo in Italia. Molte analisi sono state dedicate alla travolgente vittoria del Pd in Italia, e ai contraddittori risultati negli altri paesi dell’Unione. Ma vorrei qui concentrarmi sulle prospettive per la sinistra in Italia. La lista Tsipras ha superato lo sbarramento, e questo certamente è un dato positivo per chi si è impegnato per questo risultato.
Vanno segnalati in questi contesti risultati molto superiori alla media nelle grandi città, e, tra quelli dei candidati, il cospicuo numero di preferenze nella circoscrizione del nord est per Paola Morandin. Ma ora la domanda è: si è trattato di un episodio già concluso, dopo il quale ciascuno tornerà come prima, o è possibile ripartireda questo 4% per costruire in Italia un partito della sinistra?
I primi segnali non sono incoraggianti. Già nelle elezioni regionali amministrative le forze della sinistra si sono per lo più presentate divise, con risultati modesti (è significativo che invece laddove si sono presentate unite il risultato è stato molto migliore rispetto alla somma dei partiti). Soprattutto, subito dopo il voto, non vengono segnali incoraggianti dalle forzepolitiche che hanno concorso alla lista europea. Sel appare divisa tra chi pensa a una confluenza nel Pd, o comunque a un rapporto privilegiato con questo partito, abbandonando quindi la prospettiva di una sinistra unita, e chi, sul versante opposto, ripropone, per andare avanti, pregiudizialidi ogni tipo. Si rischia però in questo modo di rinunciare definitivamente alla possibilità di dare all’Italia una formazione politica analoga a quelle che non solo in Grecia, ma anche in Germania, in Francia, in Spagna, hanno mostrato in queste elezioni di avere un significativo radicamento e consenso.
Questi partiti hanno assunto come denominazione la parola “sinistra”, e hanno dimostrato che è possibile unire socialisti, comunisti, ambientalisti, le forze nuove dei movimenti, intorno a un progetto condiviso. La mia opinione è che occorre fare la stessa cosa in Italia. Bisogna subito dare vita a una costituente della sinistra, partendo dal programma della lista per le europee. Il percorso va concluso con la costituzione di unvero e proprio soggetto politico, basato sulla regola “una testa un voto”.
Non bisogna fare del rapporto con il Pd la questione dirimente, e in questo momento divisiva. Il buon senso dice che la questione va affrontata volta per volta, confrontandosi sul programma, a livello nazionale, regionale e amministrativo. Ilprimo banco di prova sarà l’anno prossimo, quando dieci regioni andranno al voto. Bisognerebbe essere pronti per allora. Per molti aspetti il Pd di Renzi resta da decifrare. I prossimi mesi diranno come sarà utilizzato il grande consenso conseguito, sul piano sia economico sociale sia dell’assetto costituzionale. Dividersi adesso non avrebbe senso. E in ogni caso solo una democrazia partecipata, non intese o contrasti di vertici ristretti, può offrire gli strumenti per le decisioni che dovranno essere prese dall’ipotizzato nuovo soggetto politico. Come si dice in questi casi, pessimismo della ragione, ottimismo della volontà.

Crisi, l’Ue tiene l’Italia sotto tiro: a settembre si prospetta un’altra manovra Autore: fabrizio salvatori da: contrlacrisi.org

Oggi l’Ue ha fatto conoscere le “raccomandazioni” per paese, ovvero la lista dei promossi e dei bocciati. Per il momento non ci sono cifre, ma per l’Italia il “compito” di una manovra aggiuntiva è sicuro. E se da una parte grazie a un intenso lavoro diplomatico si evita il pronunciamento ufficiale sulla richiesta di dilazione avanzata da Renzi, dall’altra non c’è alcun ammorbidimento: l’Italia deve stare dentro i parametri. Anzi, visto che il bonus è piaciuto, dovrà anche trovare i soldi per replicare. Ma questo non potrà avvenire facilmente con gli scenari “ottimistici” delineati dal Governo Renzi. E quindi se per il momento una leggera indulgenza è giustificata dalla recessione, la Commissione Ue è pronta a rimettere il Bel Paese in tensione. Nel documento, si sottolinea piu’ volte l’esigenza di interventi aggiuntivi nel 2014 e nel 2015 per ridurre il deficit strutturale che al momento, secondo la Commissione, non e’ in linea con le richieste del Patto alla luce delle regole sul debito. A chiarire il ‘pensiero’ della Commissione e’ stato anche il responsabile per gli affari economici Olli Rehn. “E’ importante sottolineare – ha detto rispondendo a una domanda sull’Italia nel corso della conferenza stampa – che rinviare il raggiungimento degli obiettivi di medio termine non pone l’Italia in una buona posizione nei confronti delle regole che ha sottoscritto e che ha inserito nella Costituzione”.”Lo scenario macroeconomico sul quale si fondano le proiezioni di bilancio” del Programma nazionale di riforme dell’Italia “è leggermente ottimistico, in particolare per quanto riguarda gli ultimi anni del programma”, fa rimarcare l’Ue. E del resto la ripresa dell’economia in Italia “e’ ancora molto fragile”: come dice Rehn, “se l’Italia dovesse tornare in recessione tutte le regole dovrebbero essere riviste da cima a fondo” ed e’ quindi importante che “mantenga un livello di consolidamento del bilancio continuo ma che sia anche favorevole alla crescita”. In particolare, Rehn ha citato la “razionalizzazione della spesa pubblica e della politica fiscale”, sottolineando che deve essere mantenuta “la pratica della disciplina sui conti pubblici, rafforzando le misure adottate o pianificate come le privatizzazioni”.
LaCommissione Ue ricorda che l’Italia “si e’ impegnata a portare avanti riforme considerevoli” il cui slancio dovrebbe ora “intensificarsi” perche’ “si creino le condizioni per una ripresa forte e duratura nella crescita e nella creazione di occupazione”. Rehn non dimentica poi di sottolineare che “gli sforzi di consolidamento fatti dall’Italia negli ultimi anni le hanno permesso di uscire l’anno scorso dalla procedura per deficit eccessivo” che era partita nel 2009.

Rom, disabili, gay: ecco l’altra memoria da: globalist

Film, dibattiti, mostre, incontri, flash mob. Diverse iniziative in tutta Italia ricordano l’omocausto, l’uccisione di oltre 10 mila omosessuali nei campi di concentramento.


Desk3
sabato 25 gennaio 2014 16:57

Dieci, forse 13 mila. È difficile stimare quanti omosessuali siano morti nei campi di concentramento. Valutare con certezza quale sia stata la portata dell’omocausto, come è stato ribattezzato, è un’impresa complessa. Perché, una volta che i carri armati alleati hanno abbattuto i cancelli dei lager nazisti, moltissime delle persone che fino a quel momento erano state costrette a indossare una divisa a righe con cucito un triangolo rosa, hanno preferito ritirarsi nell’anonimato, perché la persecuzione, per loro, ancora non era finita.

“Quello che non si dice – spiega Marco Reglia, referente per le iniziative sulla memoria di Arcigay – è che la repressione degli omosessuali, che nel periodo nazista ha fatto registrare il suo picco, era in vigore prima di Hitler e lo è stata dopo”. Molti dei sopravvissuti, infatti, vennero riarrestati, perché il Paragrafo 175 del codice penale tedesco – in vigore dal 1871 – che aveva portato al loro arresto lo rimase sino al 1969 e, anche se in parte riformato, venne abolito definitivamente solo nel 1994: il Paragrafo 175 considerava un crimine ogni gesto tra uomini giudicato sconveniente. “Nel periodo nazista l’omosessualità era considerata un handicap, una malattia contagiosa che avrebbe potuto compromettere la perfezione della razza ariana – continua Reglia -: era, quindi, un problema interno”. Si iniziava tentando di curare la malattia: moltissime sperimentazioni vennero fatte sugli omosessuali nei lager (la percentuale dei morti è stimata intorno al 60 per cento, nel caso di prigionieri politici è del 41). Poi, si passava alla castrazione: “Moltissime volte erano gli stessi omosessuali a chiederla: si sentivano sbagliati”.

L’ultimo passaggio, l’eliminazione. In Italia, il primo codice penale italiano, il Codice Zanardelli del 1889, non prevedeva una norma contro l’omosessualità (al contrario del codice penale sardo poi esteso, dopo il 1861 a tutta la penisola): “Ma questo non significa apertura, anzi: se ci fosse stato un articolo specifico, ci sarebbero stati degli arresti e, di conseguenza, pubblicità. Invece, non si disse nulla, così nessuno ne avrebbe parlato. A una repressione corrisponde una reazione che la contrasta. Senza una norma che nega un diritto, tutto è sepolto nel silenzio”. Un silenzio durato fino agli anni Settanta, quando alcuni militanti hanno cominciato a fare ricerche e a parlare di quello che successe agli omosessuali e ad altre minoranze nei lager nazisti. Un silenzio che, per alcuni versi, arriva sino a oggi. Per questo, per dare voce, oltre che a ebrei, anche a gay, lesbiche, travestiti, rom, sinti, prostitute, testimoni di Geova, anarchici, sono moltissime le iniziative che si rincorrono in tutta Italia in occasione del Giorno della Memoria.

Bologna. Tante le iniziative a Bologna. Si comincia questa sera alle 19 al Cinema Odeon con la proiezione di “Il rosa nudo” (ingresso 3,5 euro), film che racconta storia di Pierre Seel, internato e torturato dai nazisti nel 1941. Lavoro sperimentale del regista cagliaritano Giovanni Coda, “Il rosa nudo” prende spunto da “Moi, Pierre Seel, déporté homosexuel”, autobiografia di Seel in cui racconta il suo internamento nel campo di Schirmeck, dove assistette alla morte atroce del compagno. Dopo il film, interverranno il regista, Luki Massa, direttrice di Some Prefer Cake, Porpora Marcasciano, direttrice di “Divergenti” ed Enza Negroni, presidente di DER-documentaristi Emilia-Romagna. Lunedì 27 gennaio alle 9.45 al giardino di Villa Cassarini, commemorazione delle vittime gay, lesbiche e trans del nazifascismo presso la lapide che le ricorda. Sempre lunedì, ma alle 16, a Palazzo Marescotti sarà proiettato “Paragraph 175” di Rob Epstein e Jeffrey Friedman, uno dei primi documentari sull’omocausto. La proiezioni sarà preceduta da una conferenza di Marco Reglia su “Nazismo e omosessualità: l’apice di una lunga e continua repressione”. Infine, alle 21 nella sede del circolo Arcigay, inaugurazione di “Rosa Cenere”, mostra curata da Jacopo Camagni realizzata dai volontari del gruppo Peopall e prodotta da Cassero gay lesbian center in collaborazione con Renbooks. Diacissette tavole di 19 giovani artisti – illustratori e fumettisti – per raccontare 11 storie di gay e lesbiche perseguitati durante il nazifascismo. All’inaugurazione parteciperà Lucy, transessuale sopravvissuta ai campi di concentramento.

Roma. Per domenica 26 gennaio l’Associazione 21 luglio e l’Associazione Sucar Drom organizzano “Samudaripen. Tutti morti. Memorie dello sterminio dimenticato di rom e sinti”. Alle 18, presentazione di “Memors, il primo museo virtuale del Porrajmos in Italia. La persecuzione dei Rom e dei Sinti nell’Italia fascista”. Alle 19, il convegno “Respingere, contenere, concentrare. Le declinazioni dell’esclusione dallo sterminio nazifascista alle attuali politiche securitarie”. Interverranno Luca Bravo dell’Università Telematica L. Da Vinci di Chieti, Gabriele Rigano dell’Università per Stranieri di Perugia, Sergio Bontempelli di OsservAzione onlus, con la video testimonianza di Moni Ovadia. Alle 20, proiezione di ‘Terrapromessa’: il campo rom di Masseria del Pozzo a Giugliano, Napoli, protagonista del documentario di Mario Leombruno e Luca Romani. Anche quest’anno, l’Istituto Statale Sordi (Iss) conferma la propria adesione alla Risoluzione Onu 60/7 Holocaust Remembrance organizzando un seminario di commemorazione delle vittime dell’olocausto. ‘Testimonianze Silenziose’ si terrà giovedì 30 gennaio 2014 alle ore 16 presso la Sala Seminari dell’Istituto Statale Sordi. Per l’occasione sarà proiettato il documentario “Noi c’eravamo. La seconda guerra mondiale nelle testimonianze dei sordi romani”, prodotto da una collaborazione tra l’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione – CNR e l’Istituto Statale Sordi e Cooperativa Le Farfalle. ‘Noi c’eravamo’ racconta i mesi dell’occupazione nazista di Roma dal punto di vista di bambini e ragazzi sordi che guardavano il mondo degli adulti e cercavano di comprendere la ferocia della guerra. Divenuti anziani, i bambini di un tempo hanno deciso di affidare la memoria del proprio vissuto alle nuove generazioni di sordi. La narrazione e le testimonianze sono rese interamente in Lingua dei Segni Italiana (LIS). La proiezione sarà accompagnata da una performance teatrale tratta dallo spettacolo “Oltre gli occhi” della Compagnia CineTeatro Laboratorio Zero con la regia di Dario Pasquarella.

Torino. Domenica 26 gennaio, in piazza Castello, dalle ore 16 ‘Attenti a non ripetere’, flash mob dedicato a dedicato a tutte le vittime dell’Olocausto: per ricordare Ebrei, Rom, Sinti, omosessuali, disabili, oppositori politici, testimoni di Geova e tutti coloro che sono caduti durante l’occupazione nazista dell’Europa nella Seconda Guerra Mondiale. (ambra notari)

L’Italia è razzista? Rispondono i giornalisti delle testate per gli stranieri Fonte: redattoresociale.it | Autore: Lucia Ghebreghiorges

Insulti, intimidazioni, sit in di protesta. Per Cécile Kyenge sono praticamente questione di tutti i giorni, da quando si è insediata al ministero dell’Integrazione. E si intitola appunto “ I giorni della vergogna” il libro in cui il portale StranieriinItalia.it ha scelto di raccoglierei principali episodi e che è stato presentato ieri a Roma alla presenza dell’interessata.

Gli autori, Gianluca Luciano e Eugenio Balsamo, hanno composto un vero e proprio mosaico di attacchi differenziati, sul web, sulla carta stampata, sui muri: quasi tutti a sfondo politico. Non mancano ovviamente le offese del vice presidente del Senato Roberto Calderoli: “Quando la vedo non posso non pensare ad un orango”. O dell’eurodeputato Borghezio: “Faccetta nera, non degna di essere considerata italiana e tanto meno abilitata ad occupare un posto di ministro”. Ma soprattutto ci sono i muri imbrattati, i gruppi Facebook in cui tra sbeffeggi vari si diffondo vere e proprie minacce e istigazioni alla violenza. Attacchi a Kyenge per colpire le politiche di cui si è fatta sponsor: “L’immigrazione uccide”, firma Forza Nuova nei muri e nei manifesti. E sempre da questo gruppo arrivano i manichini insanguinati che hanno dato più volte il “benvenuto alla ministra “in occasione di incontri pubblici, con l’obiettivo di dire no allo ius soli.

E proprio dagli insulti nascono le riflessioni, riportate nel libro, dei giovani stranieri o di origine straniera, che scrivono per le testate coordinate dal portale: alla domanda “L’Italia è un Paese razzista?” le risposte sono diverse e variegate, ma su una cosa convergono tutti: il razzismo c’è e sopratutto cresce il linguaggio razzista. “L’Italia non è razzista – scrive Milton Kwami , redattore di africanouvelles.com – non lo è la stragrande maggioranza degli italiani, come testimonia il cammino del paese per l’integrazione dei nuovi cittadini, che sono stati accolti e che l’hanno eletta seconda patria”. “Un percorso – continua – che ha permesso l’approdo dei deputati di origine straniera al Parlamento e la recente nomina della ministra Kyenge nel governo Letta”.

Per Sorin Cehan, di Gazeta Romaneasca , arrivato in Italia nel 92, il razzismo non è aumentato: se ne parla di più: “con internet c’è più informazione al riguardo e su alcuni atteggiamenti. La gente può sembrare più razzista parlando di quello che ha letto oggi sulla stampa”. “Nonostante le discriminazioni e gli stereotipi – prosegue – a livello privato, rispetto all’immagine pubblica che ne dà la stampa, gli italiani hanno atteggiamenti diversi. Chiedete ad un italiano cosa ne pensa dei romeni, vi dirà che quelli che conosce personalmente sono bravi”.

Samia Oursana , giornalista per il blog italiani più, racconta di non aver avuto esperienze dirette di razzismo, ma in generale per lei “il razzismo esiste. Nel nostro paese non è presente una reale forma di razzismo e odio verso l’altro perché diverso, ma dal mio punto di vista si manifesta più una diffidenza, una rivalità: ci rubano il lavoro, gli assegnano tutte le case popolari, c’è una forma di rivalità, di concorrenza”.

Infine Stephen Ogongo di Africanews, riferendosi agli attacchi alla ministra Kyenge scrive che “ l’Italia non è razzista, ma piena di razzisti a livelli alti ”. Ed è quindi nel linguaggio politico, per lui, che si manifesta sopratutto e si diffonde il seme dell’intolleranza.

Ma come difendersi dalle discriminazioni? L’unica arma è la conoscenza dei propri diritti, secondo gli autori. Per questo la pubblicazione si conclude con una breve guida giuridica in cui, come una sorta di promemoria, si citano i principali provvedimenti italiani e internazionali di contrasto alle discriminazioni.

Cile, lo sciopero dei camionisti portò Pinochet da: Linkiesta

 

Le code sono lunghe. Per il gasolio che è quasi scomparso. Nei supermercati iniziano a scarseggiare i prodotti. Ci sono strade sbarrate, blocchi autostradali, ritorsioni nei confronti di chi non si ferma: basta un niente e gli tagliano le gomme. Chiunque avrà pensato all’Italia di questi ultimi giorni. Tutto questo era, in Cile, il settembre 1973. La vigilia della dittatura di Augusto Pinochet. Oggi è tutto diverso in Italia, ma le situazioni quotidiane sono identiche ad allora.

 

 

 

C’è una strana atmosfera in giro. Qui da un po’, tutto si svolge nella strada. Da qualche giorno, però, dietro l’agitazione e le (solite) parole d’ordine delle rispettive categorie sociali, s’è instaurata una attesa inquieta. Le code sono lunghe. Per il gasolio, soprattutto, che è quasi scomparso. Nei supermercati iniziano a scarseggiare i prodotti. Non manca tutto, ma quelli più deperibili: frutta, verdura, latte, pesce, formaggi. Dopo la crisi i prezzi sono saliti alle stelle, ora l’inflazione ricomincia a crescere. La produzione industriale del paese è crollata da un bel po’. La macchina economica, in generale, sembra essere sul punto di rottura. Il governo ha fatto quello che poteva, ma non è bastato.

 

Da giorni la lotta sociale è costante: pubblico impiego, scuola e trasporti pubblici, pensionati, tassisti, farmacisti, operai, studenti. Prima le bombe dimostrative contro alcune agenzie pubbliche. Poi gli agricoltori. Ora lo sciopero degli autotrasportatori. Alcuni di loro dimostrano un maggior attivismo di altri. Strade sbarrate, blocchi autostradali, ritorsioni nei confronti di chi non si ferma: basta un niente e gli tagliano le gomme. In alcuni casi, donne e bambini hanno raggiunto i camionisti e le loro macchine. Nelle proteste c’è scappato perfino il morto. Protestano contro il caro benzina, l’aumento delle tasse, i modelli di trasporto, con tariffe costose per lo spostamento su gomma. Mettono a rischio l’attività dei porti più importanti del paese, delle fabbriche nazionali dove non giungono i rifornimenti, provocano danni per milioni.

 

Ciò che colpisce di più in queste manifestazioni spontanee, spesso populiste e violente, è la passività del governo. Si prendono provvedimenti forti, impopolari, a livello generale. Poi nessuno dà spiegazioni, fornisce risposte. Non si prende, almeno nella direzione di questi ribellioni, misura alcuna. Non si fa alcuna dichiarazione sulle proprie intenzioni per risolvere la crisi. Si dice che si dovranno presto affrontare le questioni politiche ed economiche di fondo, strutturali, sul lavoro, la riforma costituzionale, ma bisogna pur arrivarci a quel punto: i giorni passano, restano in piedi in conflitti, le lotte tra le categorie, tra i partiti, tra gli stessi singoli individui, mentre i problemi economici sono sempre più vivi.

 

Volgendo lo sguardo al cuore del paese, balza agli occhi, sempre più, lo stridore dei contrasti. Squallore e povertà, mense per gli immigrati prese d’assalto da individui del ceto medio impoveriti, famiglie allo sbando, venti di anti-politica dirompente. La corruzione finisce per coinvolgere un numero sempre crescente di popolazione, per il pure desiderio di condurre un tenore di vita pari a quello degli altri, dei più ricchi: così tutti vogliono belle case, macchine nuove, viaggi all’estero. Ma tutta la miseria e la disperazione più cupa sta nel mondo dei sotto occupati e dei disoccupati: non hanno i soldi per sfamare le loro famiglie, i loro figli, e la rabbia non fa che crescere. E poi, invece, boutique di lusso, concessionarie di auto costose, negozi di oggetti di alta tecnologia. Tutto il denaro è là, nelle mani dell’evasione, di pochissimi privilegiati, industriali, grandi commercianti, medici, avvocati, funzionari locali e stranieri. Tutto, costi e profitti, appartiene a questo mondo, il resto, gli altri ne sono esclusi.

 

Chiunque, leggendo queste righe, avrà pensato all’Italia di questi ultimi giorni. Eppure non è così. Al quadro, crudo e drammatico, che ho appena descritto, faccio seguire un brano tratto da un diario, un testo scritto da un grande sociologo di nome Alain Touraine, che commenta tutto ciò che successe, convulsamente, qualche giorno dopo quelle durissime proteste popolari:

 

«Angel Parra, le cui canzoni amavo, è in ora in prigione. ll suo amico Victor Jara, che cantava la contestazione, è stato arrestato all’università al momento del colpo di stato. Una settimana dopo, hanno invitato sua moglie a portarsi via il cadavere dall’obitorio. La sua morte è stata annunciata senza commenti. Pablo Neruda, che ha dato un nome alle rocce e agli uccelli dell’America latina, che ha fatto correre su tutto il continente le parole tenere e disperate dell’amore, della collera, e della speranza, è abbandonato in questa casa depredata, saccheggiata. Il poeta scompare e la dittatura impone il silenzio della menzogna. Ieri, mentre moriva, il fuoco acceso dall’esercito bruciava i suoi libri tra le torri del quartiere San Borja. Non dimenticherò le mie ultime ore a Santiago. Parto domani. Io non posso fare più niente, qui. È crollato un mondo, è crollata una speranza. Da oggi bisogna pensare alla lotta che comincia, allo sforzo di un popolo per riconquistare la libertà».

 

Tutto questo era, dunque, in Cile. Era il settembre 1973. Allende moriva assediato alla Moneda e i militari di Pinochet prendevano il potere. Colpisce, in questo racconto che parla della situazione cilena, la somiglianza con i problemi sociali e civili che stiamo vivendo in Italia in questi giorni. La protesta degli autotrasportatori di questi giorni ricalca perfettamente i blocchi e le violenze dei camionisti cileni in quei tragici giorni che precedettero il golpe: oggi in Italia essi protestano per il rincaro dell’autostrada, per l’eccessivo costo del gasolio, per l’aumento dell’Iva e delle addizionali Irpef, mentre ancora il 90% delle merci, circa 1,5 miliardi di tonnellate, viaggia su strada, su 4,7 milioni di Tir e a differenza di tutti i più avanzati paesi europei. Mettendo a rischio l’incolumità degli automobilisti italiani, ma nessuno da decenni fa nulla. Mettendo a rischio, in questi giorni, più di 50 milioni di euro di prodotti italiani, in un contesto di crisi già nerissima per l’agricoltura e, più in generale, la vendita al dettaglio.

Il contesto storico è, con tutta evidenza, completamente diverso, il mondo è cambiato, viviamo in un un’età globale, la politica, le dinamiche sociali sono completamente differenti, ma quello che lascia stupefatti è che le situazioni quotidiane delle varie categorie sociali e degli individui alle prese con la crisi finanziaria ed economica sono le stesse, identiche a quelle di allora. I modi della protesta, pure. Che ci sia di fronte un governo di Unità Popular o un governo di tecnici, con l’appoggio tacito di quasi tutto l’arco parlamentare, poco cambia. Certo, il finale di quella vicenda fu una dittatura feroce e sanguinaria, appoggiata da una potenza straniera. Oggi l’evoluzione di quei problemi sarà, di certo, diversa.