VERSO UNA REPUBBICA FONDATA SUL LAVORO … SERVILE di Maria Mantello da: tutti i colori del rosso

 

Lo Statuto dei Lavoratori non è un capriccio, un puntiglio dei Sindacati, un privilegio da abbattere. È un baluardo contro gli assalti di quelle aree imprenditoriali e forze politiche con loro conniventi che vogliono cancellare diritti e tutele nella speranza di riportare i lavoratori a una situazione da medioevo, dove i padroni dell’industria e della finanza tornano a dominare senza Legge né Stato. Quando infatti, nella grancassa ben orchestrata degli spot mediatici, la Costituzione sarà assoggettata agli interessi di chi comanda, la scuola statale privatizzata, le tutele e i diritti sul lavoro cassati, davvero l’Italia cambierà verso: non sarà più una Repubblica democratica fondata sul lavoro, ma sul servaggio. In questo processo reazionario, lo scalpo della legge 300 ha un valore simbolico altissimo, da sbandierare come rivincita del padronato nella resa di conti antidemocratica.

Lo Statuto dei diritti dei lavoratori, legge 300 del 20 maggio 1970, non è una delle tante leggi del diritto del lavoro. È la Dichiarazione d’indipendenza dei lavoratori. L’orizzonte di demarcazione che la Repubblica democratica fondata sul lavoro ha voluto sancire come diritto umano alla dignità per una società affrancata da sfruttati e sfruttatori. Una conquista formidabile, perché la Costituzione è entrata in fabbrica, come si disse giustamente allora, perché le libertà civili e democratiche non possono essere sospese sui posti di lavoro. Non più zone franche per la legge del padrone. Con lo Statuto dei lavoratori si realizzava una fondamentale conquista di civiltà e di democrazia, che dava al “pane quotidiano” il sapore forte dell’emancipazione individuale e sociale nel lavoro e col lavoro. E proprio con l’art. 18 quell’emancipazione la si salvaguarda contro il ricatto del licenziamento ingiusto, introducendo il principio del reintegro del lavoratore, a cui dovevano essere versate le retribuzioni dalla data dell’illegale licenziamento azzerato dal magistrato.

Un formidabile paletto contro gli abusi di chi licenziava senza “giusta causa” (es. furti o altri reati) e “giustificato motivo” (notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al suo regolare funzionamento): «Il giudice… condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata l’inefficacia o l’invalidità stabilendo un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell’effettiva reintegrazione». E proteggendo il lavoratore dall’eventualità che possa essere liquidato con una somma sostitutiva del reintegro, l’art. 18 stabiliva che questa eventualità è possibile solo se lo richiede il lavoratore: «al prestatore di lavoro è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto».

La riforma Fornero, nel clima di esaltazione per il governo dei bocconiani che aveva contagiato anche la sinistra, riuscì a mettere le mani sull’art.18, prevedendo il reintegro solo nei casi di discriminazione del lavoratore (es. appartenenza politica, orientamento religioso, sessuale, ecc.) ma sostituendolo con l’indennizzo in tutti gli altri casi. Insomma una mancia di benservito! Ma Renzi vuole adesso lo scalpo non solo dell’art.18, ma dell’intero Statuto, additato come un privilegio e impedimento della ripresa occupazionale. E ci ripropone la vecchia favola per cui solo se c’è più flessibilità (ovvero assenza di stabilità del lavoratore, come pur la Costituzione prevede) le imprese assumerebbero e l’Italia uscirebbe dalla crisi. La flessibilità l’abbiamo vista, i posti di lavoro no. E neppure la ripresa economica. Abbiamo visto solo la moltiplicazione pluridecennale delle tipologie di aggiramento del contratto a tempo indeterminato (lavoro a collaborazione, ripartito, intermittente, accessorio, a progetto, ecc.), che dal “pacchetto Treu” alla “legge Biagi al decreto di maggio scorso dell’attuale ministro Poletti hanno reso strutturale la precarietà.

Lo scandalo è questo e non basta per eliminarlo la battuta facile intrisa nella bivalenza renziana delle formule: “togliamo le garanzie dell’art.18, ma garantiamo la sicurezza ai precari”. Non argomenta il “giovane” Renzi, lui spara twitter-spot. Non vuole neppure essere disturbato a discutere con chi si oppone alla dismissione finale del diritto del lavoro. “O così o decreto”, ripete. Insomma “qui comando io”. Eppure, all’epoca del governo Monti aveva detto “lo Statuto non si tocca”. Ma doveva conquistarsi il posto di capo-partito e quello di capo di Governo. Adesso l’obbiettivo finale è avere in mano tutto il partito. E forse, l’attacco all’art. 18 gli serve per sbarazzarsi di quanto in esso resta di sinistra. Così alla fine si compirà l’ultima metabolizzazione del Pd: un partito qualunque. Un partito post ideologico, come usano dire quelli veramente di destra. Chissà se anche tutto questo non rientri nel patto Berlusconi – Renzi.

Il Cavaliere intanto si gode la sua Resurrezione, e gongola in attesa di riprendersi tutto il palcoscenico della politica, mentre il suo ventriloquo gli fa il lavoro sporco.

 

La rete ECO – Ebrei Contro l’Occupazione – ha aderito e ha partecipato alla manifestazione nazionale a sostegno del popolo palestinese, indetta dal Coordinamento delle Comunità Palestinesi d’Italia il 27 settembre scorso a Roma. da:tutti icolori del rosso

La rete ECO – Ebrei Contro l’Occupazione – ha aderito e ha partecipato alla manifestazione nazionale a sostegno del popolo palestinese, indetta dal Coordinamento delle Comunità Palestinesi d’Italia il 27 settembre scorso a Roma. Ecco il testo del loro documento:

“Aderiamo in solidarietà ai nostri fratelli e sorelle palestinesi che, a partire dalla grande catastrofe del 1948 (che ha reso profughi oltre due terzi della popolazione), continuano a subire quotidianamente varie forme di pressione per mano dello Stato di Israele: dalle “semplici” discriminazioni, alle incarcerazioni senza processo; dall’espropriazione delle terre all’assedio ed altro ancora, fino ad arrivare ad aggressioni omicide com’è recentemente accaduto a Gaza, e non per la prima volta. Tutte queste forme di pressione hanno come risultato una continua e strategica pulizia etnica della Palestina.

Questa manifestazione, così vicina al capodanno ebraico, cade in una stagione di particolare importanza nel nostro calendario: un periodo in cui ogni individuo ha il dovere, ma anche il privilegio, di esaminare criticamente le proprie azioni passate, per correggere il proprio comportamento nell’anno a venire. Ci auguriamo che numerosi cittadini israeliani, anch’essi nostri fratelli e sorelle, riescano a rendersi conto di questi terribili misfatti e, al di là della propaganda, oltre le paure reali e indotte, si uniscano ai dissidenti e spingano il proprio governo a cambiare radicalmente strada per trovare nella giustizia e la riconciliazione una soluzione che avvicini la pace anziché alimentare la violenza ad oltranza. Invitiamo inoltre gli esponenti delle Comunità ebraiche costituite a considerare le conseguenze del loro sostegno incondizionato alle politiche e alle azioni dei governi israeliani.

Purtroppo negli anni, nonostante, o anche a causa di prolungati ma futili negoziati di facciata, la situazione dei palestinesi continua a peggiorare, la colonizzazione della Palestina procede a gonfie vele, e la fattibilità di una soluzione giusta e duratura ai problemi della regione si riduce. Ciò avviene anche perché, finora, Israele è rimasto non solo incensurato e impunito, ma addirittura armato e assistito sia dagli USA sia dall’Europa.

Aderiamo per rimarcare l’assoluta urgenza di una forte pressione internazionale che ponga fine a questo stato di cose. Aderiamo per ribadire l’importanza di imporre sanzioni politiche ed economiche contro Israele, di fermare il rifornimento di armi allo stesso e revocare tutti gli accordi militari con esso. Ci appelliamo anche a tutti i membri della società civile in Italia, in altri paesi europei, in USA e ovunque, a tutti coloro che si impegnano per la pace, i diritti umani e la giustizia, affinché sollecitino i propri governi e le organizzazioni internazionali a far valere i diritti dei palestinesi e il diritto internazionale, ripetutamente violato dallo Stato di Israele.

Costringere Israele a fermare la colonizzazione dei territori palestinesi, cessare l’assedio e le offensive militari contro Gaza, smantellare il muro, revocare il perenne “stato d’assedio” causa di numerose violazioni di diritti umani, tra cui le incarcerazioni senza processo, garantire completa uguaglianza ai suoi cittadini palestinesi, e il diritto al ritorno dei profughi”.

Arresto di Nunzio D’Erme e domiciliari a Marco Bucci: comunicato dell’ANPI Provinciale di Roma

Arresto di Nunzio D’Erme e domiciliari a Marco Bucci: comunicato dell’ANPI Provinciale di Roma

L’ANPI di Roma esprime perplessità per l’arresto del nostro iscritto, Nunzio D’Erme e per i domiciliari a Marco Bucci, per fatti risalenti al maggio 2014. Riteniamo inquietante il provvedimento non solo per la sua portata, ma anche perchè non abbiamo notizie di simili misure adottate nei confronti degli appartenenti di Militia Christi, autori di una grave interruzione durante un dibattito istituzionale sul tema della Omofobia nel VII Municipio.

La città di Roma è stanca di manifestazioni squadristiche e provocazioni di stampo fascista, per le quali, come Anpi, abbiamo chiesto a più riprese il totale rispetto delle Leggi della Repubblica Democratica Italiana, Scelba e Mancino.

Augurando ai due antifascisti la pronta libertà, gli siamo vicini ed esprimiamo la nostra sincera solidarietà.

ANPI di Roma e Provincia

27 settembre 2014

Verso lo sciopero generale Fonte: il manifesto | Autore: Mario Pierro

Corso Italia. Il direttivo Cgil a Bologna approva a stragrande maggioranza un documento contro la riforma del lavoro del governo Renzi. Camusso: «Se andrà avanti con un decreto sarà blocco totale». Prima tappa: il 25 ottobre a piazza San Giovanni a Roma

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Da Bolo­gna una Cgil com­patta ha uffi­cia­liz­zato ieri la data della mani­fe­sta­zione per il lavoro sabato 25 otto­bre a Roma in piazza San Gio­vanni. Il diret­tivo ha appro­vato un docu­mento finale con­tro il Jobs Act con soli quat­tro voti con­trari su 151 dele­gati: «È un record», ha detto la segre­ta­ria gene­rale Sus­sana Camusso. Poche ore prima, al mat­tino, dall’assemblea nazio­nale della Fiom a Cer­via, Camusso ha lan­ciato un monito al governo Renzi: «Se si deci­desse di pro­ce­dere attra­verso il decreto, biso­gnerà pro­cla­mare lo scio­pero generale».

La mani­fe­sta­zione del 25 otto­bre potrebbe essere il primo passo di un per­corso che con­durrà ad uno scio­pero gene­rale. «Siamo dispo­ni­bili al con­fronto, ma met­tiamo in conto anche la pos­si­bi­lità degli scio­peri. Quando orga­niz­ziamo un impe­gno dedi­chiamo le ener­gie lì – ha aggiunto Camusso — È evi­dente che il giorno dopo ci doman­de­remo come pro­se­guire per­chè quello non è la fine ma l’inizio di una sta­gione di mobi­li­ta­zione, che sarà legata a quanto avverrà». Camusso ha detto di «essere rispet­tosa» del pro­cesso in corso in Cisl e Uil e ha espresso la con­vin­zione che «entre­remo rapi­da­mente in un per­corso uni­ta­rio. È l’augurio che ci fac­ciamo». La posi­zione della segre­ta­ria Cgil ha rac­colto gli applausi dell’assemblea dei metalmeccanici.

Camusso ha pre­ci­sato di non volere stare dalla parte del «No», rea­gendo all’accusa ren­ziana sui sin­da­cati «con­ser­va­tori». «Non pos­siamo avere una sta­gione che è solo con­tro. Biso­gna ria­bi­tuare il Paese al fatto che non c’è solo il sì o il no ma anche un’altra pro­po­sta in campo: dob­biamo riven­di­care un diritto alla plu­ra­lità delle pro­po­ste e costruire un con­fronto che non è con­cer­ta­zione». In vista della legge di sta­bi­lità, la pro­po­sta alter­na­tiva della Cgil è «la patri­mo­niale sulle grandi ric­chezze». Le risorse così otte­nute potreb­bero essere usate «per far ripar­tire l’occupazione. Con­ti­nuiamo a pen­sare che la scelta di pigliar­sela con il mondo del lavoro sia la scelta di chi se la prende con il più debole e non ha la forza di con­fron­tarsi con i poteri veri».

Per Camusso non è vero che l’unica poli­tica espan­siva sia il taglio dell’Irap alle imprese: il recente pas­sato ha dimo­strato che non ha por­tato a inve­sti­menti nelle imprese e sul lavoro». In com­penso, il lavoro è stato ridotto ad un’idea «ser­vile» e «con meno diritti». «Noi — ha con­cluso — con­ti­nuiamo a pen­sare di essere più moderni di chi pensa che a can­cel­lare i diritti si vada verso il futuro anche per­chè il lavoro ser­vile è quello che ha carat­te­riz­zato l’ottocento, almeno rima­niamo verso il futuro».

Il segre­ta­rio della Fiom Mau­ri­zio Lan­dini ha con­fer­mato la tem­pi­stica del per­corso illu­strato da Camusso, a riprova della ritro­vata unità tra i mec­ca­nici e la con­fe­de­ra­zione. «Deve essere chiaro a tutti che non sarà una mani­fe­sta­zione che con­clude una fase, ma una mani­fe­sta­zione che ini­zia una fase di mobi­li­ta­zione. Nella Cgil c’è sem­pre stata una discus­sione delle posi­zioni, que­sta è la forza della Cgil» ha detto Lan­dini che, prima di entrare nella Camera del lavoro dove il diret­tivo della Cgil ha discusso di Jobs act, ha aggiunto che la con­fe­de­ra­zione «non è mai stata divisa». Forse si rife­riva alla posi­zione del sin­da­cato con­tro Renzi che intende asfal­tare l’articolo 18 per dare un segnale ai custodi dell’austerità in Europa, non alle pole­mi­che che hanno diviso più volte la Fiom dalla Cgil negli ultimi anni.

«Non abbiamo inten­zione di accet­tare peg­gio­ra­menti e stra­vol­gi­menti dei diritti dei lavo­ra­tori — ha aggiunto — Ave­vamo già pro­cla­mato delle ore di scio­pero che si faranno nei ter­ri­tori, neces­sa­rie anche per pro­cla­mare lo scio­pero gene­rale della cate­go­ria». Rispetto all’ipotesi di una mobi­li­ta­zione uni­ta­ria con Cisl e Uil Lan­dini non ha escluso la pos­si­bi­lità di una con­ver­genza: «È impor­tante che la Cgil abbia una sua pro­po­sta, una sua piat­ta­forma e noi la rivol­giamo a tutti. È impor­tante lavo­rare per l’unità dei lavo­ra­tori che non è sem­pli­ce­mente la somma delle orga­niz­za­zioni sin­da­cali». «Non pos­siamo offrire l’idea di libertà del lavoro dando un mes­sag­gio che il sin­da­cato non è unito nel riven­di­care que­ste cose».

Poi l’affondo, pro­ba­bil­mente defi­ni­tivo, con­tro il governo Renzi. Per mesi si è voci­fe­rato sull’asse pre­fe­ren­ziale che Lan­dini avrebbe costruito con il pre­si­dente del Con­si­glio. Ieri il lea­der della Fiom sem­bra averci messo una pie­tra sopra. Il Governo Renzi «non è di cen­tro­si­ni­stra» ha detto. «Non vor­rei che il nostro pre­mier, fre­quen­tando troppo Mar­chionne e Detroit, pen­sasse di pren­dere la resi­denza in Svizzera».

Rossana Rossanda: Hollande e Renzi ai piedi di Draghi | Fonte: Sbilanciamoci.info | Autore: Rossana Rossanda

Sono bastati una riunione dell’Ecofin e l’ammonimento di Draghi per far abbassare la cresta a Francia e Italia, e ridurre a zero le ambizioni della campagna elettorale di Hollande e della non campagna di Renzi. Altro che investimenti produttivi per i quali i due leader si impegnavano a tenerli fuori dai vincoli di bilancio europeo: ambedue si sono orientati a premere esclusivamente sulla riduzione non solo del costo del lavoro ma dei salari (magari come ulteriore riduzione degli occupati). Hollande non ha bisogno di leggi ad hoc, annuncia che rifarà il massiccio codice del lavoro e viene da settimane di fuoco: prima ha licenziato in tre ore il ministro della crescita produttiva Arnauld Montebourg, seguito da Hamon e Filippetti, messi fuori dal governo in quattro e quattr’otto; poi ha dovuto incassare trenta voti contrari della sua maggioranza in Parlamento, mantenendo la propria per un solo seggio. Ma questo non lo ha fatto deviare dalla strada intrapresa: il presidente ha preso la parola per una conferenza stampa nella quale ha assicurato che non avrebbe cambiato di una virgola la sua rotta disastrosa. Fra non molto, ci saranno le elezioni regionali e prestissimo quelle del Senato; di questo passo sarà un’altra tempesta che si addensa sui socialisti ma sia Hollande sia Valls tengono fermo, forse sperando, come confermano alcuni personaggi a loro vicini, in una benevola “curva di Kondriatev”, l’”onda lunga” del ciclo economico che assicurerebbe una ripresa naturale della crescita entro la fine del mandato.

In Italia, Renzi ha parzialmente scoperto le carte dell’ormai famoso Jobs Act. E ha affrontato a muso duro lo scandalo di un’ennesima messa fuori campo dell’articolo 18, quello che impediva il licenziamento “discriminatorio”. L’intera stampa italiana si è schierata con lui, eccezion fatta del manifesto, argomentando soprattutto che il famoso articolo avrebbe soltanto un valore simbolico, in quanto viene raramente usato – è noto che la maggior parte dei licenziamenti si fa per vere o presunte ragioni economiche, che non riguardano crisi di bilancio delle aziende ma un mutamento delle strategie, soprattutto in direzione delle delocalizzazioni. Mentre viene sottovalutato quel che a me pare il maggior scandalo, e cioè il dispositivo per cui nei primi tre anni di impiego “a tempo indeterminato” qualsiasi lavoratore sarebbe soggetto al licenziamento. Perché tre anni? Qualsiasi operaio vi dirà che per imparare a menadito la mansione che gli è richiesta basta al massimo una settimana; dunque anche a metterne due l’azienda è in grado di rendersi rapidamente conto se egli sia è in grado o no di inserirsi nel piano produttivo. Perché consentire al padrone ben tre anni di “flessibilità” gratis? Nessuno lo spiega. È un sistema per prolungare il precariato – non so come potrebbe essere definito differentemente – rendendo tutti precari fin dall’inizio del cosiddetto “impiego a tutele crescenti”: tre anni a tutele zero.

Salvo Luciano Gallino e Pierre Carniti, tutta la stampa ha dato rilievo positivo alla scelta di Renzi, accompagnata, come sua abitudine, da insolenze verso il sindacato. La stampa presunta di centrosinistra, come Repubblica, si è distinta nella crociata contro il conservatorismo di chi vorrebbe conservare qualche diritto al lavoro: fra questi una parte del Pd considerata vecchia e conservatrice. Non solo i giovani Fassina e Civati, ma il vecchio Bersani. Vedremo per quanto tempo la minoranza dell’area ex comunista resisterà all’attacco, ma è certo che se molla sarà scomparsa anche l’ombra dell’abominato Pci e resterà da constatare che cosa ne assumerà il cambio senza confondersi col centrismo vero e proprio, peraltro rappresentato in primo luogo dal giovane premier. È in corso la trasformazione finale della scena politica italiana. Quella francese non ne ha neanche più bisogno, se si considera che al posto dell’irruente ministro Montebourg è stato nominato un dirigente della banca Rotschild. In più, in Italia, naturalmente, resta – avvinto a Renzi – l’evergreen Berlusconi. Per chi pensava di aver diritto diritto a un lavoro, pieta l’è morta.

L’Usb indice lo sciopero generale il 24 ottobre. E il 14 novembre è nella mobilitazione dello sciopero sociale Autore: redazione da: controlacrisi.org

Usb ha deciso: sciopero generale il 24 ottobre per l’intera giornata e sostegno allo “sciopero sociale generalizzato promosso collegialmente dal sindacalismo di base e da settori dell’attivismo sociale per avviare un percorso di lotta contro la precarietà, per l’occupazione, il reddito il diritto all’abitare”. “A tal fine dispone almeno ulteriori quattro ore di sciopero – si legge nel dispositivo approvato all’unanimità dal Coordinamento nazionale – da effettuarsi nella giornata del 14 novembre con articolazioni a livello territoriale e/o di categoria. Inoltre, ribadisce il sostegno e la promozione delle Giornate internazionali indette dal 13 al 16 novembre 2014 a Roma dalla Coalizione Internazionale dei Sans Papier, Migranti e Rifugiati di cui la USB e’ parte integrante.

Nello specifico queste le motivazioni:

– Contro le politiche economiche e sociali del governo Renzi che provocano disoccupazione e precarietà, contro il Jobs Act, contro l’abolizione dell’articolo 18, contro le altre misure per il mercato del lavoro e la riforma Fornero del sistema previdenziale, per la riduzione dell’orario di lavoro e la crescita dell’occupazione.

– Contro il blocco dei contratti nel pubblico impiego e per consistenti aumenti salariali per tutti i lavoratori.

– Contro il Piano Renzi per la scuola, per l’assunzioni di tutti i precari docenti ed Ata.
Per un ruolo del pubblico nell’economia, per massicci investimenti nella scuola, sanità, trasporti e servizi pubblici, per la difesa dei beni comuni e contro l’attacco generalizzato al welfare, contro le privatizzazioni, le grandi opere e la distruzione del territorio.

– Contro il Fiscal Compact e gli altri trattati antipopolari dell’Unione Europea, contro il pareggio di bilancio inserito nella Costituzione.
Per reddito garantito, salario minimo, rivalutazione delle pensioni, salute e sicurezza sui posti di lavoro, diritto all’abitare, contro precarietà e lavoro gratuito (modello Expo).

– Contro l’accordo del 10 gennaio 2014 tra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil  e per la difesa e lo sviluppo della democrazia sui posti di lavoro e del diritto di sciopero. Contro la guerra che sta coinvolgendo l’Europa e l’Italia, contro le spese militari e le politiche di riarmo.

Il documento finale del Coordinamento nazionale

Il vecchio e il nuovo | Fonte: Il Manifesto | Autore: Piero Bevilacqua

Renzi defi­ni­sce con­ser­va­tori i com­pa­gni del suo par­tito, che resi­stono all’abolizione defi­ni­tiva dell’art. 18. Non è la prima volta, negli ultimi anni, che nel dibat­tito poli­tico esplode il motivo del con­flitto tra con­ser­va­tori e inno­va­tori. Con un rove­scia­mento di senso rispetto a quel che nor­mal­mente signi­fi­cano que­sti due termini.

È un col­lau­dato arti­fi­cio reto­rico per met­tere in dif­fi­coltà chi difende diritti e con­qui­ste sociali con­so­li­dati, bol­lan­dolo come oppo­si­tore delle splen­dide novità por­tate dalla sto­ria che avanza. Ci sarebbe da chie­dersi se tutto il nuovo che si rea­lizza nel corso del tempo cor­ri­sponda ad aspi­ra­zioni gene­rali, porti bene­fici per tutti.

Pren­diamo ad esem­pio il campo della scienza, quello che al senso comune appare come il campo trion­fante del pro­gresso. Dav­vero tutto l’avanzamento scien­ti­fico dell’età con­tem­po­ra­nea è andato a bene­fi­cio dell’umanità?

La bomba ato­mica è stata una delle più grandi inno­va­zioni scien­ti­fi­che del ’900. In campo mili­tare si è pas­sato dalle armi per com­bat­tere un nemico sul ter­reno a uno stru­mento di geno­ci­dio, di can­cel­la­zione di tutto il vivente. Mi pare dif­fi­cile ascri­verla tra i pro­gressi dell’umanità.

L’amianto è un magni­fico mate­riale igni­fugo, che ha tro­vato infi­nite appli­ca­zioni indu­striali. È un vero pec­cato che esso induca il tumore mor­tale alla pleura o al pol­mone. Ma quella magni­fica inno­va­zione ci è costata e con­ti­nua a costarci migliaia di morti all’anno oltre alle somme ingenti per eli­mi­narlo da case e aziende.

Anche i gas clo­ro­fluo­ro­car­buri, quelli che ser­vi­vano alla refri­ge­ra­zione, rap­pre­sen­ta­vano una geniale inno­va­zione chi­mica. Com è noto, lace­rano lo strato atmo­sfe­rico dell’ozono ed espon­gono gli esseri viventi a raggi solari che alte­rano la strut­tura del dna. Dun­que, non sem­pre andare avanti signi­fica miglio­rare le cose.

Que­sta idea che cam­biando l’esistente si approdi neces­sa­ria­mente al meglio, che andando più in là si diventi più felici che stando qui, è un vec­chio cascame cul­tu­rale soprav­vis­suto all’illuminismo. È una super­sti­zione pae­sana, e ora dispo­si­tivo reto­rico di un ceto poli­tico senza pro­spet­tive, che crede di cam­biare il mondo cam­biando il senso delle parole.

Ma poi è sem­pre da con­dan­nare la con­ser­va­zione? Chi si oppone a che un ter­ri­to­rio verde venga coperto col cemento di nuove costru­zioni genera un danno alla col­let­ti­vità o crea qual­che van­tag­gio agli abi­tanti del luogo e più in gene­rale ai viventi? Chi lotta per­ché la via Appia non divenga luogo di lot­tiz­za­zione per vil­lette pri­vate è cer­ta­mente un con­ser­va­tore: vuole pre­ser­vare le pie­tre di due­mila anni fa da edi­fici nuovi fiam­manti. Ma chi esprime rispetto per la bel­lezza e la gran­dezza del nostro pas­sato, chi ha una idea di società meno spi­ri­tual­mente gretta, chi pro­pone la visione di un pae­sag­gio irri­pro­du­ci­bile da godere col­let­ti­va­mente, chi si fa carico delle nuove gene­ra­zioni, chi esprime un senso dell’interesse gene­rale e del bene comune: è da met­tere alla gogna? Tutto que­sto distil­lato di civiltà dob­biamo but­tarlo via per­ché è vecchio?

Ma la reto­rica con­tro i con­ser­va­tori ha avuto come ber­sa­glio pre­va­lente le tutele dei lavo­ra­tori. Tanto il centro-sinistra quanto il centro-destra hanno aperto una vasta brec­cia di inno­va­zione nel mondo del lavoro: hanno inau­gu­rato l’era del lavoro precario:lavoro in affitto, a pro­getto, inte­ri­nale, som­mi­ni­strato, ecc. Un flo­ri­le­gio mai visto di inno­va­zioni legislative.

In Ita­lia la For­nero è riu­scita a creare una figura unica nel suo genere: gli eso­dati, lavo­ra­tori senza sala­rio e senza pen­sione. Nes­suno può dire che non si tratti di una inno­va­zione. Sta­bi­lire a van­tag­gio di chi è altra questione.

Anche il pre­si­dente della Repub­blica, nella discus­sione intorno all’articolo 18, ha por­tato un rile­vante con­tri­buto di inno­va­zione. Lo ha fatto sul piano del lin­guag­gio. Ha esor­tato il governo e i suoi ad avere più corag­gio. Corag­gio a ren­dere più facil­mente licen­zia­bili ope­rai e impie­gati, coloro che ten­gono in piedi l’economia e i ser­vizi del paese, spesso per un misero sala­rio, coloro che talora entrano ed escono dalla cassa inte­gra­zione, che si infor­tu­nano, che sul lavoro ci muoiono,che rinun­ciano alla mater­nità, che vivono nell’angoscia di un licen­zia­mento che può get­tarli in strada da un momento all’altro. Non siamo di fronte a una innovazione?

Chi è, nel senso comune uni­ver­sale, corag­gioso? Cer­ta­mente colui che affronta un avver­sa­rio più forte, che alza la voce con­tro chi sta in alto. Ad esem­pio chi mette in atto una poli­tica fiscale con­tro le grandi ric­chezze, chi cri­tica l’arrogante poli­tica bel­lica degli Usa, chi cerca di limi­tare l’arricchimento pri­vato di tante pub­bli­che professioni.Il pre­si­dente della Repub­blica capo­volge la verità sto­rica e anche quella delle parole e si schiera con­tro i lavo­ra­tori del suo paese. A favore degli impren­di­tori, che così potranno disporre in piena e com­pleta libertà della forza– lavoro. Come fac­ciamo a non con­si­de­rarlo un innovatore?

Ma que­sta inno­va­zione ci porta “avanti”? Inde­bo­lire la classe ope­raia, dun­que il lavoro pro­dut­tivo non sem­bra che fac­cia avan­zare le società del nostro tempo. La vasta ricerca di T.Piketty, (Il capi­tale nel XXI secolo, Bom­piani) mostra al con­tra­rio come l’ineguaglianza che si va accu­mu­lando, stia facendo ritor­nare indie­tro la ruota della sto­ria. Misu­rando il peso cre­scente che l’eredità va assu­mendo nelle società indu­striali odierne, egli ricorda che «il pas­sato tende a divo­rare il futuro:le ric­chezze pro­ve­nienti dal pas­sato cre­scono auto­ma­ti­ca­mente, molto più in fretta – e senza dover lavo­rare – delle ric­chezze pro­dotte dal lavoro, sul cui fon­da­mento è pos­si­bile rispar­miare. Il che, quasi ine­vi­ta­bil­mente, porta ad asse­gnare un’importanza smi­su­rata e dura­tura alle disu­gua­glianze costi­tui­tesi nel pas­sato, e dun­que all’eredità».
Le mort sai­sit le vif, si diceva un tempo, il morto tra­scina il vivo, il pas­sato ingoia il pre­sente. I nova­tori che avan­zano innal­zando i loro ves­silli cor­rono in realtà verso il pas­sato. L’innovazione dei corag­giosi capo­volge non solo la verità morale delle parole, ma anche il corso, pre­teso pro­gres­sivo, della sto­ria del mondo.

#lottoxil18 – Le tutele crescenti e l’apartheid generazionale Fonte: Il Manifesto | Autore: Luigi Pandolfi

Con­tiene qual­cosa di scon­vol­gente (nel senso let­te­rale di «scon­vol­gere») il prin­ci­pio con­te­nuto nell’emendamento del governo al Jobs Act sulle cosid­dette «tutele cre­scenti», da appli­care ai nuovi con­tratti di lavoro subor­di­nato. Leg­giamo: «(…) il Governo è dele­gato ad adot­tare, (…) in coe­renza con la rego­la­zione dell’Unione euro­pea e le con­ven­zioni inter­na­zio­nali, (…) la pre­vi­sione, per le nuove assun­zioni, del con­tratto a tempo inde­ter­mi­nato a tutele cre­scenti in rela­zione all’anzianità di ser­vi­zio».

Da que­sta dispo­si­zione si ricava che, nella nuova ver­sione del wel­fare ita­lico pro­spet­tata dal governo, sarà l’anzianità di ser­vi­zio a deter­mi­nare il livello di godi­mento dei diritti costi­tu­zio­nali da parte dei lavo­ra­tori, dun­que, nella gene­ra­lità dei casi, l’età dello stesso lavo­ra­tore.
Nel nostro ordi­na­mento, solo la mag­giore età costi­tui­sce uno spar­tiac­que nella sto­ria per­so­nale di un indi­vi­duo, deli­neando una linea di con­fine tra un prima e un dopo nella scala di godi­mento dei diritti san­citi dalla Costi­tu­zione. Benin­teso, un minore non ha diritto di voto, non ha facoltà piena di porre in essere atti nego­ziali, ma non per que­sto è pas­si­bile di soprusi e di discri­mi­na­zioni. Anzi, c’è una tutela raf­for­zata che li riguarda, in quanto «sog­getti deboli».

Nello schema pro­po­sto dal governo in mate­ria di rap­porti di lavoro, c’è invece un rove­scia­mento del prin­ci­pio: più sei gio­vane (in Ita­lia si può lavo­rare già a 13 anni) meno tutele e diritti avrai.
Nel caso spe­ci­fico dell’articolo 18 dello Sta­tuto dei lavo­ra­tori, e segna­ta­mente della rein­te­gra in caso di licen­zia­mento senza giu­sta causa di cui molto si parla, que­sto capo­vol­gi­mento di sce­na­rio impli­che­rebbe una ver­go­gnosa cor­re­la­zione tra gio­vane età e pos­si­bi­lità di subire licen­zia­menti arbi­trari o, addi­rit­tura, discri­mi­na­tori, anche licen­zia­menti fun­zio­nali al non rag­giun­gi­mento della soglia di «anzia­nità di ser­vi­zio» pre­vi­sta dalla legge per l’accesso al godi­mento di alcuni diritti.

Abile però il governo, e il pre­mier in par­ti­co­lare, a pre­sen­tare la «riforma» come un rime­dio al regime di apar­theid che oggi vige­rebbe nel mondo del lavoro, nel senso che la fat­ti­spe­cie denun­ciata sarebbe pro­prio quella che si andrebbe a con­cre­tiz­zare nel momento in cui venisse appro­vata la nuova disci­plina in mate­ria di rap­porti di lavoro pro­po­sta dall’esecutivo.

Se dav­vero il governo avesse in mente di eli­mi­nare le discre­panze esi­stenti tra lavo­ra­tori «tra­di­zio­nali» e lavo­ra­tori «ati­pici», cer­ta­mente non ini­zie­rebbe a occu­parsi dei diritti dei primi. Piut­to­sto met­te­rebbe mano alla giun­gla di con­tratti che negli anni ha gene­rato il mare di pre­ca­riato in cui sono immersi i secondi. Si por­rebbe, in sostanza, il pro­blema di esten­dere le tutele a chi oggi non ce l’ha, non a livel­larle verso il basso, isti­tu­zio­na­liz­zando nuove forme di discri­mi­na­zione su base generazionale.

Che c’entra il volersi occu­pare di «Marta», che «non ha la pos­si­bi­lità di avere il diritto alla mater­nità», col voler togliere diritti a «Fran­ce­sca», che invece quel diritto ce l’ha insieme all’altro di poter ricor­rere con­tro un licen­zia­mento senza giu­sta causa? Ma soprat­tutto, qual è il modello di società che si pro­spetta alle «Marta» d’Italia? Quello in cui chi è gio­vane e pre­ca­rio oggi sarà un vec­chio povero domani, che per giunta dovrà «gua­da­gnarsi» con l’anzianità di ser­vi­zio (di ser­vigi?) l’accesso al godi­mento di diritti fondamentali?

C’è una Costi­tu­zione, tut­tora vigente mi sem­bra, che all’articolo 3 san­ci­sce: «Tutti i cit­ta­dini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, (…)». Poi dice anche che la Repub­blica ha il com­pito di «rimuo­vere gli osta­coli di ordine eco­no­mico e sociale, che, limi­tando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cit­ta­dini, (…)».
Ecco, «pari dignità» e «rimo­zione degli osta­coli». Esat­ta­mente il con­tra­rio di ciò che il governo sta prospettando

Il sacrificio di Terranova, Mancuso e Saetta da: antimafia duemila

terranova-mancuso-bigdi AMDuemila

A trentacinque anni di distanza dall’uccisione del giudice Terranova e del maresciallo Mancuso, e a ventisei dall’omicidio del giudice Saetta, riproponiamo il ricordo del loro estremo coraggio nel combattere ogni forma di mafia e illegalità.

Oltre trent’anni fa il giudice Cesare Terranova ed il maresciallo Lenin Mancuso vennero uccisi da Cosa nostra in un agguato sotto casa del magistrato. La mattina del 25 settembre 1979, quando Terranova uscì dalla sua abitazione per recarsi in ufficio e raggiunse il maresciallo Mancuso che lo aspettava in auto, tre sicari armati circondarono la vettura facendo esplodere una trentina di colpi.
Cesare Terranova rappresentava per la mafia un pericolo troppo grande per non intervenire tempestivamente. Tornato da poco a Palermo, la mafia corleonese non aveva dimenticato, tra le tante indagini di cui si era occupato questo giudice scomodo e integerrimo, quelle sugli omicidi commessi a Corleone tra il ’58 e il ’63, che sfociarono a Catanzaro nel processo contro 115 mafiosi (tra cui il capomafia corleonese di allora Luciano Liggio). A seguito dell’assoluzione di tutti gli imputati per insufficienza di prove, Terranova oppose un ricorso che portò al riconoscimento delle accuse nei confronti di Liggio, condannato all’ergastolo nel 1974. L’odio che il boss di Corleone nutriva per il giudice che era riuscito a farlo condannare era risaputo, tanto che i colleghi di Terranova regalarono al magistrato una foto del capomafia, conservata in ufficio, per scherzare su quello storico antagonismo.

A seguito delle nuove assoluzioni che portarono alla conclusione di un nuovo processo, a Bari (nel 1969 vennero assolti 64 imputati tra cui Totò Riina) nel 1972 Terranova appese temporaneamente la toga al chiodo per ricoprire il ruolo di deputato alla camera nella lista del PCI, entrando anche a far parte per due legislature della Commissione parlamentare Antimafia.
Il Cesare Terranova che nel settembre 1979 tornò a Palermo dopo questa parentesi parlamentare, forte di una maggiore esperienza e di approfondite conoscenze su una mafia in continua evoluzione, aveva ben chiaro il modo in cui, ancora una volta, avrebbe messo i bastoni tra le ruote a Cosa nostra. Fece subito domanda per dirigere l’ufficio d’istruzione, e già girava la voce che la sua nomina veniva data per scontata. La mafia non poteva attendere oltre, e decise di regolare i conti a suon di proiettili.
Per l’uccisione di Terranova e Mancuso vennero condannati, il 15 maggio del 2000, Salvatore Riina, Bernardo Brusca, Bernardo Provenzano, Francesco Madonia, Pippo Calò, Nenè Geraci, Michele Greco. Leoluca Bagarella, Vincenzo Puccio, Pippo Gambino, Ciccio Madonia, esecutori materiali. Nell’ottobre 2004, la Corte di Cassazione ha confermato gli ergastoli per Totò Riina, Michele Greco, Nenè Geraci e Francesco Madonia.
saetta-antonino-stefano-bigNon trascorsero neanche dieci anni da quel 25 settembre 1979, e Cosa nostra tornò a colpire un altro giudice dalla schiena dritta. Il 25 settembre 1988 un commando mafioso uccise il giudice Antonio Saetta insieme al figlio Stefano in un ennesimo agguato poco prima di mezzanotte, sulla strada tra Canicattì e Caltanissetta. Saetta, in magistratura fin da giovanissimo, si occupò per la prima volta di mafia al processo sulla strage in cui morì Rocco Chinnici, nel corso del quale vennero aggravate le condanne per gli imputati, tra cui i Greco di Ciaculli. A Palermo Saetta venne nominato Presidente della I sez. della Corte d’Assise d’Appello, e presiedette al processo per l’omicidio del capitano Emanuele Basile.
Sul luogo dell’uccisione del magistrato vennero ritrovati un centinaio di proiettili. per il suo assassinio sono stati condannati all’ergastolo con sentenza definitiva il boss palermitano Francesco Madonia, e Pietro Ribisi, di Palma di Montechiaro.

25 settembre 2013

Foto: Lenin Mancuso e Cesare Terranova (in alto) e Antonio Saetta con il figlio Stefano (a destra)

Guatemala, massacro di indigeni, è stato d’assedio da: il manifesto

Parenti delle vittime a Guatemala City, dopo gli scontri a Pajoques

Stato d’emergenza in Gua­te­mala dopo una nuova mat­tanza di indi­geni e le con­se­guenti pro­te­ste. La zona inte­res­sata, il comune di San Juan Saca­te­pé­quez, si trova nella parte ovest del paese. Lì sono stati uccisi 11 lea­der delle comu­nità indi­gene, in lotta con­tro le grandi imprese del cemento, che inva­dono i loro ter­ri­tori senza con­trollo. Altre quat­tro per­sone sono rima­ste ferite dalle guar­die della Cemen­tos Pro­gre­sos S. a., che hanno spa­rato con­tro i mani­fe­stanti, in lotta da oltre sei anni con­tro i pro­getti di cementificazione.

Gli indi­geni hanno con­ti­nuato a pro­te­stare, cer­cando di difen­dersi con bastoni e machete. Il governo dell’ex gene­rale Otto Pérez Molina, detto Mano­dura, ha sospeso per 15 giorni «cin­que garan­zie costi­tu­zio­nali», in primo luogo il diritto a riu­nirsi e a mani­fe­stare e quello di orga­niz­zare festeg­gia­menti, pena l’impiego dell’uso della forza. Un con­tin­gente di oltre 300 effet­tivi è stato inviato nella zona, cin­que comu­nità hanno denun­ciato vio­lenze e abusi. La magi­stra­tura ha emesso 39 ordini di cat­tura e sono state arre­state cin­que per­sone. Per le orga­niz­za­zioni indi­gene, l’ennesima mat­tanza e l’ennesima provocazione.

Il con­flitto nell’ovest del Gua­te­mala è diven­tato più acuto nel 2006, quando l’impresa Pro­greso ha deciso di attuare i suoi pro­getti senza con­sul­tare le comu­nità. Nel 2011, il rela­tore spe­ciale delle Nazioni unite per i diritti dei popoli indi­geni, James Anaya, ha denun­ciato il caso, spie­gando: «La pre­senza delle grandi imprese nei ter­ri­tori indi­geni ha gene­rato una situa­zione di grave con­flit­tua­lità e ha cau­sato enormi divi­sioni nelle comu­nità». Una situa­zione comune a tutto il paese. Il governo di «Mano­dura» lascia campo libero alle mul­ti­na­zio­nali, e reprime con fero­cia la resi­stenza delle comu­nità, prive di tutele lavo­ra­tive e ambientali.

Molina — che le orga­niz­za­zioni indi­gene e la sini­stra vor­reb­bero vedere alla sbarra come geno­cida — cono­sce bene la pra­tica dei mas­sa­cri: per esser stato in prima fila durante la guerra civile che, dal 1960 al ’96 ha pro­vo­cato 200.000 morti e l’esilio di 450.000 per­sone. Oltre il 90% delle vit­time — in gran parte indi­geni maya — è stato ucciso dalle forze armate o dai gruppi para­mi­li­tari. Durante il suo governo, «Mano­dura» ha fatto ricorso varie volte allo stato d’eccezione per risol­vere i con­flitti nei ter­ri­tori indigeni.

La Cemen­tos Pro­greso è stata fon­data nel 1899 da immi­grati ita­liani, i Novella. Per acca­par­rarsi le risorse del paese — che, secondo le pre­vi­sioni del Fondo mone­ta­rio inter­na­zio­nale, quest’anno avrà una cre­scita del 3,4% e nel 2015 arri­verà fino al 3,7% — agi­scono diverse grandi società mine­ra­rie, com­pa­gnie petro­li­fere, idroe­let­tri­che, agroa­li­men­tari: cana­desi, sta­tu­ni­tensi, fran­cesi… Con gli accordi di pace del 1996, l’allora pre­si­dente, Alvaro Arzu ha spa­lan­cato loro le porte.

Il filone più red­di­ti­zio e per­va­sivo è però quello del nar­co­traf­fico, con annesso mer­cato delle armi. Le mul­ti­na­zio­nali del set­tore, ben pre­senti nelle imprese, finan­ziano le cam­pa­gne elet­to­rali, forag­giano set­tori dell’esercito (vero e pro­prio potere eco­no­mico) e lavano il loro denaro in certe ban­che. Il tes­sile è domi­nato dalle maquil­las, imprese di assem­blag­gio di vestiti e altri pro­dotti ad alto sfrut­ta­mento del lavoro, in cui sono impie­gate 70.000 per­sone, in mag­gio­ranza gio­vani donne.

Imprese che non rispet­tano nean­che le con­di­zioni minime san­cite dall’articolo 16 del Trat­tato di libero com­mer­cio, fir­mato con gli Usa nel 2006. E per que­sto, il governo degli Stati uniti ha annun­ciato che intende por­tare a giu­di­zio quello gua­te­mal­teco e ha messo in campo un arbi­trag­gio sul tema: con la pos­si­bi­lità di mul­tare il Gua­te­mala per 15 milioni di dol­lari. Molina si è lamen­tato di que­sto presso l’Organizzazione degli stati ame­ri­cani (Osa), addu­cendo la len­tezza del par­la­mento nel deci­dere le pro­po­ste di riforma al codice del lavoro, che inclu­de­reb­bero anche san­zioni alle imprese che non rispet­tano i diritti dei lavoratori.

Intanto, le comu­nità indi­gene e con­ta­dine, con l’apporto della sini­stra gua­te­mal­teca, con­ti­nuano a lot­tare per una riforma agra­ria e intanto cer­cano di recu­pe­rare le terre dalle quali sono state scac­ciate durante la dittatura.

Il Gua­te­mala tor­nerà alle urne alla fine del 2015 per eleg­gere il sosti­tuto di Pérez Molina e rin­no­vare par­la­mento e muni­cipi per il periodo che va dal 2016 al 2020. Il par­tito di governo, il Par­tido Patriota (con­ser­va­tore) ha già pre­sen­tato il suo pre­can­di­dato alla pre­si­denza, Ale­jan­dro Jorge Sini­baldi Apa­ri­cio: «La mia pro­po­sta di governo si baserà su una destra moderna — ha annun­ciato nel suo primo mee­ting — lo svi­luppo eco­no­mico è indi­spen­sa­bile, ma è inac­cet­ta­bile che circa il 60% dei gua­te­mal­te­chi viva in povertà e in povertà estrema».