Stefano Rodotà: “Il referendum? Riporta il potere nelle mani dei cittadini” da. l’espresso

Parla il giurista dei beni comuni sulla consultazione del 17 aprile: “Renzi dice che sono inutili, perché sa che quando sono promossi dal basso producono ricomposizione sociale”

di Luca Sappino  
Stefano Rodotà: Il referendum? Riporta il potere nelle mani dei cittadini

Qui siamo oltre l’esibito fastidio per qualche gufo o professorone». Stefano Rodotà parla con un tono tra il dispiaciuto e il preoccupato: «Quello era folclore, se vogliamo, mentre oggi assistiamo a qualcosa di molto più grave. Il fastidio di Matteo Renzi questa volta non è per qualche singolo oppositore ma è direttamente per uno strumento costituzionale. Renzi ce l’ha con i referendum, e dice che sono inutili, perché sa che oltre agli effetti concreti sulle norme, quando sono promossi dal basso verso l’alto, dai cittadini o dalle regioni, e non sono plebiscitari come quello che avremo sulla riforma costituzionale, i referendum producono ricomposizione sociale.

Ed è invece sulla disgregazione della società che il presidente del Consiglio ha impostato la sua strategia di governo, come dimostra la politica dei bonus, che dà qualcosa a ognuno – il bonus ai giovani, il bonus ai poliziotti, il bonus ai professori – e non a tutti». E «con l’attacco frontale ai referendum, cercando ogni modo per non attuarli, come nel caso dell’acqua pubblica, o dicendo che non bisogna andare a votare, come sulle trivellazioni, Renzi prosegue sulla strada della passivizzazione dei cittadini. Che è una strada che percorriamo da anni. Si diceva che i cittadini sono ormai carne da sondaggio, ma è un’espressione vecchia. Ora sono carne da tweet o da slide».

Professore però, effettivamente, a vedere cosa ne è dell’esito del referendum del 2011, potrebbero sembrare parole di verità quelle di Serracchiani, di Guerini o appunto di Renzi. I referendum possono essere inutili, si aggirano, si ignorano…
«Ma non è certo colpa dei cittadini. È il governo, e il Parlamento, che dovrebbero lavorare per dare attuazione a quanto indicato dalle consultazioni».

Ma non succede. Con quali effetti sullo strumento?
«Con effetti pericolosi e non solo per lo strumento referendario. Perché il ridursi degli spazi di partecipazione istituzionale produce reazioni extra istituzionali: quando si demonizza il referendum, che sia proposto da una raccolta firme o dalle regioni non cambia, si sta dicendo ai cittadini che è inutile rivolgersi alle istituzioni e alla politica. E i cittadini, per come possono, si rivolgono altrove».

La minoranza dem attacca la segreteria del partito sostenendo che mai è successo che il Pci-Pds-Ds-Pd si dichiarasse ostile alla consultazione referendaria. In realtà c’è il precedente del 2003: «Astenersi è un diritto, parola dei Ds», era lo slogan. Fu un errore anche in quel caso?
«È sempre un errore. E richiamare un cattivo precedente per giustificare una mossa politica, vuol dire perseverare».

Quello sull’acqua pubblica è un referendum tradito?
«È un referendum che ha bloccato un processo di privatizzazione ma che si sta cercando di tradire. Senza peraltro preoccuparsi di farlo in maniera smaccata. Scandaloso, ad esempio, è l’articolo 25 del decreto Madia sui servizi pubblici che prevede “l’adeguatezza della remunerazione del capitale investito”, usando esattamente le parole cancellate dal voto sul secondo quesito referendario. È palese l’illegalità costituzionale. Nel 2012 la Corte costituzionale aveva già dichiarato illegittime le norme che riproducono norme abrogate con il referendum».

vedi anche:

Ma quel referendum obbliga a una gestione pubblica dell’acqua o ne stabilisce la proprietà pubblica, consentendo anche una gestione privata?
«Oggi si dice con superficialità: il voto non ha escluso la via di una gestione privata. Ma quello che il voto ha stabilito è però che quella privata non può essere la via preferenziale, come stabiliva il decreto Ronchi, con Berlusconi, e come vuole stabilire nuovamente il governo Renzi, sempre con il decreto Madia e con l’emendamento che ha riscritto la legge in discussione in parlamento, che originariamente riprendeva quella di iniziativa popolare. L’indicazione che si fa finta di non vedere è che la gestione dell’acqua deve essere in via prioritaria pubblica, pur nelle forme variamente partecipate, e slegata da logiche di mercato».

L’argomento del governo è che il pubblico produce inefficienza e non ha le risorse per i necessari investimenti sulla rete.
«Ancora una volta è la dimostrazione che si vuole ignorare l’esito referendario: l’argomentazione usata è la stessa di cinque anni fa, come se non ci fosse stato il dibattito. E, esattamente come quando si discusse all’epoca, si dice che la gestione pubblica è giocoforza pessima rimuovendo che i luoghi dove la gestione dell’acqua è migliore sono invece Milano e Napoli, dove è completamente pubblica».

L’indicazione del Pd su quel referendum fu per il sì, anche se – se non per iniziativa dei singoli circoli – non raccolse le firme. Cinque anni dopo, su “l’Unità”, il direttore, rispondendo a un suo articolo su “Repubblica”, scrive: «Non ha più senso la demagogia del bene comune che non fa i conti con la realtà concreta».
«Capisco che leggere i libri è un’attività che si sta perdendo e che il dialogo è ritenuto pericoloso. Ma il discorso sui beni comuni si sta svolgendo in tutto il mondo ed è un percorso opposto a quello che si vorrebbe imporre in Italia, dove le multiutility vogliono impedire che si avvii. Se si leggessero i libri, se ne troverebbero di scritti con particolare attenzione alle modalità di gestione, senza inconsapevolezza né ideologia».

Anche l’uso plebiscitario del prossimo referendum costituzionale sembra indicare una crisi dello strumento.
«Indica invece l’uso congiunturale che si è ormai soliti fare delle istituzioni. Il referendum viene usato quando fa comodo, quando può essere utilizzato per misurare il consenso del leader, mentre nelle altre occasioni se ne parla male. Invece il referendum – così come lo ha voluto il costituente, che ha escluso i plebisciti perché consapevole dei rischi – è proprio quello dal basso, promosso dai cittadini o da almeno cinque regioni. Ed è quello che rivitalizza la democrazia e la politica. Politica che peraltro, in questa fase, è stata fortemente sequestrata da una logica accentratrice. Intorno ai referendum si determina una ricomposizione sociale, di cui c’è molto bisogno, visto che ultimamente è stata favorita invece la frammentazione sociale, considerando superflui, ad esempio, i corpi intermedi».

La scelta di invitare a disertare le urne referendarie fa il paio con le riforme costituzionali ed elettorali volute da Matteo Renzi?
«Mi pare evidente. Anche se a voler legger bene la riforma Boschi c’è persino una contraddizione rispetto a quello che è l’atteggiamento di Renzi, che invita all’astensione scommettendo sul mancato raggiungimento del quorum, con una furbizia che prima di lui hanno usato in tanti, dalla Chiesa a Craxi. La riforma invece modifica i requisiti per la validità dei referendum proprio per scoraggiare il gioco dell’astensione».

Il referendum è l’antidoto alla deriva autoritaria che avete più volte evocato?
«C’è più modernità nei referendum, in questo sulle trivelle e in quelli che avremo nel prossimo anno, per cui si stanno raccogliendo le firme, dal Jobs Act alla scuola, che in tutta la riforma Boschi. Che è anzi una riforma conservatrice, che accentra il potere. Innumerevoli politologi hanno studiato il progressivo accrescimento del potere esecutivo e si sono chiesti come ricostruire gli equilibri costituzionali, come organizzare la politica e le istituzioni nell’era della sfiducia, per citare uno solo di questi scienziati politici, il francese Pier Rosanvallon. Una delle principali risposte è quella dei referendum, che riportano il potere nelle mani del cittadino, fosse anche come legislatore negativo».

Patria Indipendente News n. 8 del 25 marzo 2016

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Stragi nazifasciste: una mappa dell’orrore Isabella Insolvibile
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I partigiani dell’agricoltura Giampiero Cazzato
Dino Scanavino, imprenditore vitivinicolo e Presidente della Confederazione italiana agricoltori: “perseguiamo un equilibrio tra la terra, l’uomo e l’imprenditore che agisce in una logica di sviluppo sostenibile”; “custodiamo il territorio modificandolo e usandolo ma sempre rispettosamente. Questa è la bioresistenza”
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Il pluriomicida frustrato e il saluto nazista Natalia Marino
Sul caso Breivik parla Giulio Vasaturo, criminologo: «Il nazismo stigmatizza ed etichetta i deboli ed essendo una dottrina orientata alla xenofobia, al razzismo, all’odio delle minoranze, consente di dare una motivazione politica del tutto strumentale alla violenza»
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L’elzeviro Umberto Eco e il piacere “a memoria”  Irene Barichello
La memoria, strumento che consente, attraversando manuali versi enciclopedie siti web, di staccarsene infine arricchiti per andare a cercarne altri. Per non essere condannati a rileggere sempre la stessa pagina, a restare sprovveduti e dipendenti da chi ci racconterà la storia in una qualsivoglia versione
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La perdita della memoria, malattia di una generazione Umberto Eco
Una lettera di Umberto Eco al nipotino. Internet e Kuala Lumpur. “La cavallina storna” e D’Artagnan. Con un consiglio finale: imparare a memoria “La Vispa Teresa”
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Librarsi Un ragazzo di Ravenna, l’ANPI e la storia d’Italia Gianfranco Pagliarulo
Edmondo Montali, “Il comandante Bulow – Arrigo Boldrini partigiano, politico, parlamentare”, prefazione di Carlo Smuraglia, introduzione di Adolfo Pepe, Ediesse, 2015, 301 pagine, 14 euro
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Leonardo I droni: l’arma aerea 2.0 Vito Francesco Polcaro
“Velivoli aerei senza uomini”, usati a scopi civili e militari, da ricognizione o da combattimento, non contro il “nemico certo” ma contro il “nemico altamente probabile”
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Pentagramma “Bella ciao”, le montagne e il cuore dei curdi Antonella De Biasi
Come e perché la canzone della liberazione italiana è diventata l’inno della libertà di un popolo senza Stato. Il fabbro Kawa e il popolo dei Medi. Il modello della lotta partigiana del nostro Paese e le donne
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Red Carpet La storia vera della parità e del riscatto Serena D’Arbela
“Suffragette” (2015), di Sarah Gavron con Carey Mulligan, Helena Bonham Carter, Meryl Streep
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Forme Cento anni di donne e lavoro Paola Varesi
Promossa al Museo Cervi di Gattatico una mostra fotografica sul tema delle lavoratrici in Emilia-Romagna dal 1860 al 1960
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ULTIME DA PATRIA
Servizi Fosse Ardeatine: l’omaggio alle 335 vittime del nazifascismo Redazionale
Presenti fra gli altri il Presidente della Repubblica, il Presidente del Senato, il Vicepresidente della Camera Valeria Fedeli, il ministro Pinotti. In rappresentanza dell’ANPI nazionale, Claudio Maderloni, commissario dell’ANPI di Roma
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Cronache antifasciste A Roma distrutta la lapide dedicata alla partigiana e costituente Adele Bei Redazionale
Secondo atto vandalico contro le targhe in memoria del valore delle donne durante la Resistenza romana. Richiesta dall’ANPI di Roma maggiore vigilanza
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Itinerari della Resistenza Sprofondati nella nebbia e nella neve Monica Emmanuelli
Un itinerario storico naturalistico in Cansiglio che ripercorre i luoghi della Brigata partigiana “Ciro Menotti”
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… e poi tutti gli articoli delle uscite precedenti
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Argentina: 40 anni tra una dittatura e l’altra da:www.resistenze.org – popoli resistenti – argentina – 25-03-16 – n. 582

Carlos Aznárez | resumenlatinoamericano.org
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

23/03/2016

Il golpe civile-militare-imprenditoriale-religioso-mediatico sviluppato dall’oligarchia, con un significativo sostegno degli Stati Uniti, è stato coronato nel marzo 1976, ma era già in gestazione da molto tempo, in funzione dei deliri e delle complicità del governo di Isabel Perón e José López Rega in prima istanza e successivamente della stretta relazione tra la vedova di Perón e dei suoi seguaci (Italo Luder per esempio) coi settori più reazionari dei vertici militari. In realtà, tutto andò storto da quando Perón decise di dare per terminata – brutalmente per settori più combattivi del peronismo – la cosiddetta “primavera camporista”, che durò solo un paio di mesi e che risvegliò speranze in chi aveva subito 17 anni di prigionia, tortura e sparizione (ricordate l’operaio metallurgico Felipe Vallese) e che si iniziò a chiamare la “prima resistenza” e successivamente “la seconda” con inizio nella gesta del “Aramburazo”

Perón ruppe un patto non firmato coi suoi giovani più fedeli e rivoluzionari, che a quel tempo chiamava “gioventù meravigliosa” o che sul piano della resistenza armata alla dittatura del generale Lanusse, definiva “formazioni speciali”. Il vecchio generale, abituato a oscillare come un pendolo, da destra a sinistra e viceversa, fra le passioni e i pensieri politici del suo Movimento, non poté sopportare che gli venisse contestato lo spazio del potere e ancor meno che in quella “avventura” si fossero imbarcati quei giovani militanti cresciuti col “Perón o Morte” sulle labbra, ma che ora sentivano che, per essere coerenti, bisognava continuare ad avanzare verso la concretizzazione di una Patria Socialista.

Ciò che avvenne dopo è più o meno conosciuto: il frustrato rincontro del leader col suo popolo a Ezeiza, dove le bande fasciste presenti nel peronismo assassinarono centinaia di combattenti, il successivo discorso di Perón che accusava le vittime della carneficina, la conformazione del governo, sotto il coordinamento di López Rega ma con l’approvazione indubbia del Generale, a quell’embrione criminale che fu la Tripla A [Alleanza Anticomunista Argentina]. Capitolo a parte la rottura tra i militanti della Tendenza Rivoluzionaria e Perón è sintetizzata in quel doloroso atto di Plaza de Mayo, nel quale il Generale insultò non solo coloro che avevano lottato per il suo ritorno, ma ruppe definitivamente la possibilità che il peronismo avanzasse per un sentiero rivoluzionario verso il socialismo. Perón scelse, come fece tante volte con i burocrati sindacali e politici, sapendo che molti di loro erano parte della squadra di sostegno e appoggio logistico (oltre a partecipare concretamente all’uccisione di militanti) dei mercenari della Tripla A. Dopo quel suicidio politico, Perón morì e con lui scomparve l’ultimo grande punto di riferimento di un momento che avrebbe potuto essere glorioso per le classi popolari, ma che non lo fu per i limiti ideologici che ciclicamente si ripetono in alcuni movimenti dalle caratteristiche progressiste. Al momento di rompere con il modello capitalista, per quanto avanzati siano i settori di base legati a quelle esperienze di potere, appare sempre un freno (ideologico) e comincia un rapida involuzione.

Il crollo del pendolo

Dopo la morte di Perón, si aprì nel Movimento il confronto tra peronisti di sinistra ed elementi fascistoidi da sempre presenti nelle sue fila, divenendo insopportabile per una società che giorno dopo giorno si svegliava contando morti su morti.

A partire da quel momento e con tutti questi precedenti a suo favore – auge, decadenza e caduta di un peronismo che abbandonava la possibilità di contendere il potere all’oligarchia e ai suoi disegni imperialisti – appare con maggiore chiarezza l’immagine di come nell’ombra era andata formandosi l’idea interventista fra i settori più duri delle Forze armate. Approfittando dello scardinamento del governo di Isabel e delle sue ricadute “caotiche ed anarcoidi”, due parole futili che i militari e gruppi di destra normalmente usano ogni volta che desiderano dare una delle loro tradizionali unghiate, bastava solo mettere insieme un po’ più di legna sul fuoco affinché la caduta precipitasse. Il proclama golpista del generale Videla alla fine del 1975 a Tucumán, dove i combattenti dell’ERP [Esercito Rivoluzionario del Popolo] mantenevano aperta con tremendi sacrificii un’esperienza di guerriglia contadina, lasciava intendere che a breve quel malgoverno “peronista” sarebbe stata cosa del passato.

A differenza di altre epoche in cui il potere militare interveniva nelle situazioni derivate dall’azione governativa, in tutti quegli ultimi mesi avevano preferito mantenersi come osservatori di fronte al potere politico e le sue derivazioni, oltre alla sua attiva e criminale partecipazione alla lotta di contro-guerriglia. Preparavano così il clima per quello che presto si sarebbe trasformata in una delle dittature militari più sinistre del continente. Questo potere militare aveva notato meglio di nessun altro che durante e successivamente al ritorno di Perón, le decine di migliaia di giovani con o senza armi, nei quartieri, fabbriche, come nelle scuole, università e ogni angolo del paese avevano occupato uno spazio di costruzione del potere popolare, contavano su una formazione politica di grande profondità, erano inflessibili e respingevano il consumo capitalista, immaginando per la loro generazione e per quelle future di vivere per sempre in una società nuova senza sfruttatori né sfruttati. Non accarezzavano solo la possibilità di impadronirsi del governo a medio termine ma erano convinti che avrebbero dato l’assalto al cielo. Questa percezione si radicò profondamente anche nel nemico più diretto, rappresentato da quelli in uniforme che, rinunciando ai principi degli eserciti sanmartiniani [nel solco tracciato dal generale José de San Martín, liberatore dell’Argentina dal giogo coloniale e fondatore del moderno Stato sudamericano, ndt], preferivano adorare un totem avvolto nella bandiera a stelle e strisce. E in funzione di ciò, dell’odio viscerale verso tutto quello che significava peronismo rivoluzionario o marxismo, hanno deciso di intraprendere una nuova Crociata.

Un “processo” a misura di Washington

Tra il marzo 1976 e l’aprile 1982, le tre forze armate applicarono tutti gli insegnamenti della Scuola delle Americhe e la strategia di annichilimento francese utilizzata in Algeria e in altri paesi dell’Africa. Tutto per imporre un piano economico ad uso del FMI, della Banca Mondiale e delle multinazionali più voraci. Risultato: maggiore indebitamento, distruzione dei benefici sociali acquisiti durante anni di lotta, divieto di entità corporative e partiti politici di sinistra. Per eseguire queste politiche affamatrici, era necessaria una repressione senza precedenti che a forza di sparizioni, (30 mila non è una cifra inventata ma un dato obiettivo di cosa fu quella barbarie) campi di concentramento, incarceramenti massicci e centomila esiliati involontari.

In questo quadro di morte, ci furono anche resistenze di ogni tipo. Dai conflitti dei lavoratori che sfidarono il potere militare con scioperi e boicottaggi sul lavoro fino ad azioni armate di organizzazioni che non smettevano di cercare di ricreare un clima di disturbo nei confronti del nemico nonostante venissero decimate dalla repressione.

Resistere è vincere

Di quelle rivolte organizzate e non, era difficile sapere qualcosa a causa della grande censura informativa, ma ci furono numerosi esempi di lotte che analizzate oggi acquistano un’importanza maggiore per essere state praticate in momenti di dura repressione. Decine di giovani militanti organici o non collegati alle strutture formali dei nuclei politico-militari o dei raggruppamenti di base che per ragioni di sicurezza o perché semplicemente perdevano i contatti, seguivano la lotta secondo i propri criteri di autodifesa.

Anche, e bisogna sottolinearlo ora che la destra cerca di imporre una nuova modalità del discorso unico, dal peronismo rivoluzionario e dalle organizzazioni marxiste si sono potute costruire strutture contro-informative, così utili in tempi di blackout totale. Per avere fatto parte di una di esse, sottolineo il lavoro in quel senso portato avanti da Rodolfo Walsh e da chi lo accompagnava nell’esperienza dell’Agenzia di Notizie Clandestine (ANCLA)

La questione dell’ANCLA è stata di grande importanza: bisognava trasformare uno spazio di clandestinità in una fonte contro-informativa e di denuncia degli eccessi, degli oltraggi, delle violazioni dei diritti umani (torture, omicidi, campi di concentramento) e di altre nefandezze che stavano commettendo i militari delle tre armi insieme al folto gruppo di civili che li accompagnavano nel genocidio. Inoltre, diventava fondamentale evitare la censura per fare conoscere le numerose azioni che la resistenza popolare (non solamente armata) stava compiendo giorno dopo giorno in ogni angolo del paese. L’esperienza durò poco più di un anno, ma come dicevamo è riuscita a dimostrare che “si può fare buon giornalismo in tempi molto difficili”. Ed ottenere vittorie durevoli, come la Lettera alla Giunta militare che scrisse Walsh, poco prima di essere ucciso in combattimento.

Dopo la resa umiliante delle Malvine, la dittatura cominciò a preparare la sua ritirata nella misura in cui i settori popolari – alcuni dei quali avevano erroneamente appoggiato quell’avventura indetta da Galtieri – rinnovavano con maggior vigore il rifiuto di un modello autoritario imposto dalla forza delle armi. In realtà, non fu una caduta fragorosa bensì il passaggio da un modello che proteggeva il Terrorismo di Stato ad un altro rappresentato da una successione di governi che bevevano dalla fonte della democrazia borghese e rappresentativa. Democrazie rigorosamente controllate da Washington che inviò ciclicamente contingenti di multinazionali e specialisti minerari, agroalimentari e di devastazione territoriale.

A parte ciò la lotta delle organizzazioni dei diritti umani, soprattutto Madres eAbuelas [Madri e Nonne di Plaza de Mayo] che erano in prima linea nella lotta per i 30.000 detenuti-scomparsi in piena epoca dittatoriale e raddoppiarono gli sforzi nella battaglia contro le leggi dell’impunità (Legge dell’obbedienza dovuta, Legge del punto finale e il nefasto indulto menorista). Tutte queste istanze furono contestate nelle strade e quello sforzo fu l’ariete principale che, una volta arrivato il Kirchnerismo al governo, permise di avviare la revisione di tutto quanto compiuto precedentemente e dare via libera a processi per lesa umanità che riuscirono a mettere in prigione numerosi genocidi.

Questo oscuro presente

Ora, a 40 anni da quegli anni di piombo, è indubbio che il panorama locale e regionale sia cambiato molto. Per lo meno, nell’appena inaugurata esperienza macrista cominciano a vedersi atteggiamenti, gesti ed iniziative legate a frammenti del discorso autoritario della dittatura. Sia a livello economico, dove si avanza nuovamente verso l’imposizione di un piano neoliberale che, come quello imposto da José Martínez de Hoz nel 1976, richiede una repressione per facilitarne il compito, sia nell’aspetto lavorativo, compiendo un’ondata di licenziamenti che colpiscono il settore statale e privato.

Il paese vive un’altra dittatura, questa volta “democratica”, legittimata dai voti, come lo fu dalle armi quella del ’76 e dal beneplacito di frange reazionarie della popolazione. La società, quella parte che ha votato il macrismo, si sta rapidamente fascistizzando, tanto quanto il varo di decreti reazionari da parte del governo. Il revanscismo impera in tutti gli ordini della carica conservatrice e si stanno percorrendo strade che conducono a più attacchi ai diritti umani e alla volontà di un ampio settore del paese di difenderli ed approfondirli.

Si vive un clima di militarizzazione della società. Funzionari in divisa di varia provenienza, i quali già esistevano nel precedente governo, diventano forti per strade e tentano di interferire contro l’organizzazione popolare. A questo bisogna sommare l’apparizione di nuclei paramilitari che operano in quartieri poveri e aggiungendo in questa maniera più terrore ad un panorama di per sé già molto delicato.

Di fronte a queste situazioni, la resistenza è quasi un obbligo per coloro che si sentono militanti per la vita. Così come ai tempi della dittatura militare c’erano sempre uomini e donne che non tacevano di fronte all’ingiustizia o lavoratori che sfidavano il rincaro della vita, i licenziamenti e la presenza militare nelle fabbriche, oggi diventa necessario ricordare i motivi, la voglia ed il coraggio dei nostri 30 mila fratelli e sorelle che sfidarono tutte le difficoltà e diedero vita a una lotta per il socialismo fino alle ultime conseguenze. Se non lo facessimo, se sperassimo “di vedere cosa succede”, se ci sbagliassimo sottovalutando il nemico che affrontiamo oggi, pensando che lo stesso passato non può tornare o guardassimo da altre parti per vigliaccheria, la destra imperialista vedrà spianata la strada per stare molti anni al governo. In memoria di Rodolfo Walsh e Haroldo Conti, di Santucho e Pujadas, di Carlón Pereyra Rossi e di Silvio Frondizi, di Padre Carlos Mujica e Rodolfo Ortega Peña, non possiamo permetterci altre frammentazioni e dobbiamo tentare di illuminare l’unità nell’azione, cercando di risolvere uno dei grandi temi pendenti nel campo della sinistra popolare e rivoluzionaria. Se ci riusciamo, il resto verrà da solo.

Petizione internazionale contro la chiusura degli Archivi Lukacs a Budapest da: www.resistenze.org – osservatorio – mondo – politica e società – 24-03-16 – n. 582

Solidarieté internationale | solidarite-internationale-pcf.over-blog.net
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

19/03/2016

Il regime ultrareazionario insediato in Ungheria, presieduto oggi da Victor Orban, persegue lo sporco lavoro di sradicamento della memoria del movimento marxista e comunista del paese. Approfittando della campagna mediatica di odio contro i rifugiati del Medio oriente, vorrebbe far passare sotto silenzio la chiusura degli Archivi Lukacs a Budapest. L’Accademia delle Scienze dell’Ungheria ne ha annunciato l’imminente chiusura e la vendita dell’appartamento dove abitava Lukacs e che ospita l’archivio e il trasferimento o il pensionamento dei ricercatori che se ne occupano.

Il prestigio internazionale del filosofo e dell’uomo politico George Lukacs (1885-1971) aveva fino ad adesso preservato questo luogo di memoria e di ricerca. Protagonista della rivoluzione ungherese del 1919, che seguiva la Rivoluzione d’Ottobre, continuatore dell’opera di Marx ed Engels, con degli scritti diffusi in tutto il mondo come la “Storia e coscienza di classe” (1923), pensatore innovatore dell’estetica marxista, della “teoria del romanzo”, Georges Lukacs rimane un grande filosofo la cui eredità è difficile da occultare o travisare.

Gli Archivi Lukacs di Budapest comprendono migliaia di libri, di lettere, di manoscritti, di cui una imponente corrispondenza, non pubblicata, con, tra gli altri, Thomas Mann, Ernst Bloch, Jean-Paul Sartre.

Noi protestiamo contro la chiusura degli Archivi Lukács attraverso una petizione internazionale, per firmarla seguire il collegamento

No Tav, se il diritto di cronaca viene “recintato” Fonte: fatto quotidianoAutore: beppe giulietti

La Corte di Cassazione sarà chiamata, il prossimo 7 aprile, a pronunciarsi sulla richiesta degli avvocati Francesco Arata e Margherita Benedini di annullare la sanzione di 100 euro inflitta, dal tribunale di Torino, alla cronista di Radio Popolare, Flavia Mosca Goretta, per le sue cronache, nel novembre del 2011, dalla Val di Susa. Si tratta di una vicenda esemplare e potenzialmente rischiosa per l’esercizio del diritto di cronaca e per i valori racchiusi nell’articolo 21 della Costituzione. Flavia Mosca Goretta stava, infatti, seguendo e documentando una delle tanti manifestazioni che hanno segnato e segnano, in Val di Susa, la contrastata vicenda della realizzazione di una nuova tratta della ferrovia ad alta velocità.
Radio popolare, storica emittente di Milano, ha da sempre fatto del racconto in presa diretta un suo tratto distintivo, anche per questo Flavia Mosca era entrata nel cuore della manifestazione e delle tensioni di quella giornata, raccogliendo testimonianze dirette e non mediate dalle parti in conflitto. Da qui la denuncia per non aver rispettato le disposizioni della polizia e addirittura di aver partecipato ad azioni di danneggiamento. Il giudice monocratico di Torino ha archiviato l’accusa di danneggiamento, ma ha ritenuto di infliggere un’ammenda di 100 euro, perché la cronista “… si era introdotta nell’area interdetta per acquisire notizie utili, pur potendole acquisirle anche diversamente…”. La sanzione è esigua, ma il principio è pericoloso e ambiguo, in radicale contrasto con il diritto di cronaca, con le sentenze della Cassazione e con l’articolo 21 della Costituzione. Compito del cronista, infatti, è proprio quello di andare oltre le versioni ufficiali, di svolgere una funzione di controllo pubblico e sociale, come per altro affermano testualmente tutte le sentenze della Corte europea. Cosa avrebbe dovuto fare la cronista, restare fuori dal recinto? Attendere le versioni della Questura o dei NoTav e limitarsi a registrarle? Utilizzando lo stesso metro cosa avrebbero dovuto fare i cronisti, per fare un solo esempio, nei giorni della “macelleria cilena” alla caserma Diaz di Genova? Avrebbero potuto acquisire notizie di “pubblico interesse” restando fuori dai recinti autorizzati?Ci auguriamo che la sanzione decisa dal giudice di Torino possa essere cancellata dalla Cassazione, anche per evitare che, dentro quei recinti, possa essere rinchiuso non solo il diritto ad informare del giornalista, ma anche il diritto ad essere informato che appartiene ad ogni cittadino della Repubblica.

Il 9 e 10 aprile parte la raccolta delle firme per i tre referendum contro la “deforma” costituzionale e l’Italicum da. controlacrisi.org

Il 9 e 10 aprile parte la raccolta delle firme per i tre referendum contro la “deforma” costituzionale e l’Italicum. Domenico Gallo e Alfiero Grandi dichiarano: «Il governo metterà in campo grandi risorse; noi possiamo farcela se avremo l’appoggio dei cittadini. Firmare e far firmare l’appello degli intellettuali (già 153mila le adesioni). Poi tutti ai banchetti»«Il governo si muoverà a favore delle sue scelte mobilitando le grandi risorse che ha a sua disposizione, noi possiamo farcela solo se avremo l’appoggio dei cittadini che vanno coinvolti e mobilitati convintamente per evitare una deriva istituzionale che tende a sostituire il ruolo del parlamento con quello del governo e in particolare delinea una svolta preoccupante verso l’uomo solo al comando che la Costituzione nata dalla Resistenza ha esplicitamente escluso e che solo queste modifiche rendono possibile», sottolineano Domenico Gallo e Alfiero Grandi nella lettera/appello che lancia la campagna di raccolta firme per i tre referendum (uno sulle modifiche costituzionali e due sulla legge elettorale “Italicum”).

Ai Comitati promotori è richiesto un «impegno enorme»: quello di raccogliere le 500mila firme necessarie attraverso i banchetti a partire dal week end del 9-10 aprile. Un impegno che «per essere raggiunto richiede la simpatia e l’appoggio dei cittadini per colmare la sproporzione di forze in campo». A questo scopo l’appello delle personalità “di sana e robusta costituzione” (che ha già raccolto 153mila adesioni) è senz’altro uno strumento fondamentale, perché, sottolineano Domenico Gallo e Alfiero Grandi, «appoggia e incoraggia la raccolta delle firme» rendendo protagonisti i cittadini: «Siamo convinti che occorra mettere un ulteriore impegno nel fare conoscere questo appello e nell’invitare ancora alla sua sottoscrizione attraverso Il Fatto quotidiano on line oppure tramite il link: https://www.change.org/p/cittadini-perchè-votare-no-al-referendumcostituzionale-e-fermare-la-legge-elettorale».

Il testo della lettera-appello
Le persone che sottoscrivono l’appello degli intellettuali e delle personalità, definite scherzosamente di sana e robusta Costituzione, sono oltre 153.000.
Queste firme appoggiano la raccolta delle firme lanciata dai rispettivi Comitati per promuovere il referendum per dire No alle modifiche della Costituzione previste dalla legge Renzi-Boschi – che avrà tra poche settimane il passaggio finale alla Camera – e per abrogare le due norme più inaccettabili della legge elettorale (Italicum) che la fanno assomigliare fin troppo al porcellum.
Si tratta di 3 referendum, uno sulle modifiche della Costituzione e due sulla legge elettorale, che vedranno protagonisti i cittadini sia nel promuoverli che in seguito nel pronunciarsi con il voto nei referendum.
Siamo convinti che occorre mettere un ulteriore impegno nel fare conoscere questo appello e nell’invitare ancora alla sua sottoscrizione attraverso Il Fatto quotidiano on line oppure tramite il link: https://www.change.org/p/cittadini-perchè-votare-no-al-referendumcostituzionale-e-fermare-la-legge-elettorale
Infatti questo appello incoraggia tutta la campagna di raccolta delle firme per chiedere i referendum che inizierà il 9 aprile con i banchetti, nelle forme previste dalla legge, per realizzare l’obiettivo di almeno 500.000 firme valide per ciascuno dei referendum promossi.
Per i Comitati promotori dei tre referendum si tratta di un impegno enorme che per essere raggiunto richiede la simpatia e l’appoggio dei cittadini per colmare la sproporzione di forze in campo.
Il governo si muoverà a favore delle sue scelte mobilitando le grandi risorse che ha a sua disposizione, noi possiamo farcela solo se avremo l’appoggio dei cittadini che vanno coinvolti e mobilitati convintamente per evitare una deriva istituzionale che tende a sostituire il ruolo del parlamento con quello del governo e in particolare delinea una svolta preoccupante verso l’uomo solo al comando che la Costituzione nata dalla Resistenza ha esplicitamente escluso e che solo queste modifiche rendono possibile.
Per questo dobbiamo dare il massimo risalto e la massima pubblicità alla presenza dei banchetti per la raccolta delle firme per fare sapere che inizia la raccolta delle firme per arrivare ai referendum vi chiediamo pertanto di segnalare al più presto LUOGO/DATA/ORARIO dell’allestimento dei banchetti all’email banchetti.referendum@gmail.com o compilando il modulo sottostante così da avere il tempo di caricarli sulla mappa interattiva da condividere sui siti e sui social network.

Assemblea per la preparazione 25 aprile presso salone CGIL via Crociferi n.40 Mercoledì 6 Aprile ore 18

Care compagne/cari compagni
si avvicina la data del 25 Aprile, 71° Anniversario della Liberazione, ed anche quest’anno l’ANPI intende celebrare degnamente questa ricorrenza, nel solco di una tradizione ultraventennale che vede la nostra Associazione farsi promotrice delle iniziative nella nostra città finalizzate al ricordo di questa importante data. Per queste ragioni invitiamo le forze politiche, sindacali e dell’associazionismo democratiche di Catania e della provincia ad intervenire mercoledì 6 Aprile 2016 alle ore 18 presso la sala “Sebastiano Russo” della Camera del lavoro di Via Crociferi 40 per preparare degnamente la celebrazione del prossimo 25 Aprile.
Data l’importanza dell’argomento vi preghiamo di essere tutti presenti per dare un contributo fattivo alla riuscita della celebrazione.
Cari saluti.
la presidente provinciale
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24 marzo 1999, la “guerra umanitaria” di Clinton e D’Alema contro i nostri vicini di casa. Il video dei massacri Autore: redazione da. controlacrisi.org

Diciassette anni fa, il 24 marzo 1999, si scateno’ sopra la Repubblica Federale di Jugolsavia l’ingerenza umanitaria della NATO.
ECCO IL VIDEO GIRATO DALLE RSU IN QUELLA OCCASIONE
Per 78 giorni una coalizione formata da 19 Paesi, i piu’ ricchi e forti del pianeta, senza alcuna legittimita’ formale determinata da una dichiarazione delle Nazioni Unite, rovescio’ dal cielo un inferno di fuoco su un piccolo e povero Paese indipendente nel cuore dell’Europa, contravvenendo ai principi basilari di qualunque legge internazionale.
I primi obbiettivi di questi bombardamenti furono installazioni militari, ma quando fu chiaro che, contrariamente a quanto gli strateghi della NATO pensavano e cioe’ che la Jugoslavia sarebbe capitolata in due-tre giorni, la ferocia di questi attacchi non ebbe piu’ limiti, furono colpiti ponti, strade, ferrovie (con autobus e treni pieni di persone) ospedali, scuole, case, persino prigioni, raffinerie, impianti chimici, fabbriche di tutti i tipi e dimensioni.
Quando si bombardano le fabbriche di un Paese si vuole distruggere un popolo, gettarlo nella fame, nella miseria, togliergli qualunque speranza nel futuro.
Per quanto riguarda il nostro Paese un governo guidato dal sergente bombardiere Massimo D’Alema fece strame della nostra Costituzione repubblicana, nata dalla Resistenza al nazi-fascismo, ed apri’ la porta alla sciagurata partecipazione del nostro Paese a tutte le successive guerre per l’esportazione della democrazia e dei diritti umani in ogni angolo del globo, dall’Afghanistan alla Libia, passando per l’Iraq.
Non ci sono guerre giuste o umanitarie. Ci sono solo guerre per l’egemonia territoriale, politica ed economica, per il controllo della terra e delle sue risorse, compreso il lavoro umano.
Da quella aggressione e’ nata la piccola ONLUS Non Bombe Ma Solo Caramelle, che il nome dell’Antifascismo, della Pace, della Liberta’, del Lavoro e della Solidarieta’ Internazionale tra lavoratori e popoli continua ad operare a fianco di quelle popolazioni bombardate che videro in un attimo sparire il futuro per esse e per i loro figli.
Come insegna la storia del movimento operaio, la solidarieta’ e l’unita’ tra i lavoratori e’ il bene piu’ grande che abbiamo nelle nostre mani.

“Mare di nessuno”/Quinta puntata. Quelle navi fantasma per pesca e traffici illegali inseguite per mesi negli oceani di mezzo mondo Autore: francesca marras da. controlacrisi.org

È durato 110 giorni l’inseguimento del peschereccio Thunder, lungo un percorso di 10.000 miglia nautiche, e si è concluso nell’Aprile 2015 con il suo affondamento. Protagoniste dell’azione sono state le navi della Sea Shepherd, organizzazione internazionale senza fini di lucro che persegue l’obiettivo di proteggere e preservare l’habitat naturale e le sue specie negli oceani.
Con la quinta puntata dell’inchiesta di Controlacrisi “Mare di Nessuno” ci focalizziamo su questa imbarcazione, dedita alla pesca massiccia illegale, partendo sempre dai reportage del giornalista Ian Urbina “The Outlaw Ocean series” (qui).

“As the Thunder, a trawler considered the world’s most notorious fish poacher, began sliding under the sea a couple of hundred miles south of Nigeria, three men scrambled aboard to gather evidence of its crimes. In bumpy footage from their helmet cameras, they can be seen grabbing everything they can over the next 37 minutes — the captain’s logbooks, a laptop computer, charts and a slippery 200-pound fish. The video shows the fishing hold about a quarter full with catch and the Thunder’s engine room almost submerged in murky water”, scrive Ian Urbina, raccontando gli ultimi istanti prima dell’affondamento della nave, quando gli uomini della Sea Shepherd sono saliti sulla Thunder ormai collassata per riprendere con una telecamera quanto più possibile: i giornali di bordo del capitano, un computer portatile, cartine…

Secondo quanto riportato da Urbina, intorno alla pesca illegale ruota un business globale di 10 miliardi di dollari all’anno. Un business incentivato indirettamente dalle autorità dei Paesi, che si impegnano a controllare le proprie coste, ma raramente si spingono nelle acque internazionali. Ricordiamo a questo proposito la normativa marittima che impone alle imbarcazioni di rispettare le leggi nazionali dei Paesi di cui portano la bandiera, i quali dovrebbero a loro volta controllarne la buona condotta in mare.

La nave Thunder è stata costruita nel 1969 in Norvegia, ha cambiato molti nomi nel corso degli anni (Vesturvón, Arctic Ranger, Rubin, Typhoon I, Kuko, e Wuhan N4) e ha portato la bandiera di diversi Paesi (Gran Bretagna, Isole Faroe, Seychelles, Belize, il Togo, la Mongolia) e, più recentemente, della Nigeria.
Il peschereccio bracconiere, che nei mesi precedenti all’inseguimento ha viaggiato con un equipaggio formato da 40 marinai (indonesiani, spagnoli e cileni), si dedicava alla pesca massiccia, con un tipo di rete chiamato “tramaglio”, di una specie particolare: il “branzino cileno”, considerato un pesce pregiato perché venduto a prezzi molto alti nei ristoranti americani. La pesca con alcuni tipi di rete, di cui abbiamo parlato anche nella terza puntata di Mare di Nessuno (qui), è considerata illegale in alcuni Paesi e danneggia gravemente l’ecosistema marino, in quanto non permette una pesca selettiva.

La Thunder figurava nella lista nera delle imbarcazioni con la peggiore condotta in mare, tanto da essere stata bollata con una “Purple Notice” redatta dall’Interpol, ossia una notifica che la inseriva tra le navi peggiori, alla pari di altre quattro imbarcazioni nel mondo. Il suo fatturato è stato stimato intorno ai 76 milioni di dollari negli ultimi dieci anni.
Dopo essersi reso latitante viaggiando con il radar spento per muoversi indisturbatamente nei mari, il peschereccio è stato cancellato dai registri della Nigeria, di cui portava la bandiera, diventando ufficialmente “stateless” e perseguibile da parte delle autorità marittime di qualunque Paese.
L’inseguimento si è concluso, nell’aprile 2015, con l’affondamento della nave Thunder e con il salvataggio del suo equipaggio da parte degli attivisti della Sea Shepherd; i superiori sono stati arrestati e tre ufficiali sono stati accusati di alcuni crimini, tra cui inquinamento e contraffazione. Inoltre alcuni governi, come quello spagnolo, hanno avviato delle indagini contro i proprietari del peschereccio, accusati di pesca illegale, evasione fiscale e riciclaggio di denaro.
Rimangono sospette le cause dell’affondamento, anche perché gran parte del pesce pescato è stato trascinato nei fondali dal peschereccio, così come i computer di bordo e le attrezzature da pesca. Secondo la Sea Shepherd l’equipaggio della nave non avrebbe messo in atto alcune manovre che sono invece consuete per ritardare il più possibile l’affondamento, come chiudere tutte le porte e i portelli per favorire il galleggiamento. Secondo quanto emerge dalle dichiarazioni dei membri della Sea Shepherd, invece, risulta che nessuna porta fosse stata chiusa e che la stiva contenente il pescato fosse stata aperta di proposito.
Il dubbio è che l’affondamento possa essere stato causato volontariamente dall’equipaggio per nascondere le prove delle sue attività illegali.

Quarta puntata e precedenti 

“La precarietà è un danno”. Importante sentenza a favore di alcuni lavoratori nella sanità Fonte: help consumatoriAutore: redazione

Un’altra importante sentenza a favore dei precari del pubblico impiego. Parliamo in particolare della sanità: con la sentenza del 15 marzo scorso le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno stabilito che le Aziende Ospedaliere non possono più ricorrere al continuo rinnovo dei contratti a tempo determinato senza assumere personale tramite concorso. Se lo fanno, devono risarcire il danno cagionato ai propri dipendenti per averli costretti ad una condizione di precarietà. Ne dà notizia il Codacons, che ha avviato da tempo una battaglia giudiziaria in favore dei precari italiani.“La vicenda – spiega l’associazione – nasce dal ricorso presentato presso il Tribunale di Genova da due dipendenti assunti a termine dalla Azienda Ospedaliera Universitaria “San Martino”, i cui contratti a tempo determinato venivano di volta in volta rinnovati addirittura dal 1999. Il ricorso è stato presentato per ottenere la stabilizzazione, le differenze retributive dovute in relazione all’anzianità di servizio maturata e il risarcimento del danno per gli anni di precariato cui i ricorrenti erano stati costretti.

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello di Genova hanno dato ragione ai due lavoratori e, il 15 marzo scorso, anche le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Pres. Renato Rordorf, Rel. Giovanni Amoroso), hanno duramente condannato il comportamento della Azienda Opsedaliera, scrivendo nella sentenza: “Il lavoratore, che abbia reso una prestazione lavorativa a termine in una situazione di ipotizzata illegittimità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro o, più in generale, di abuso del ricorso a tale fattispecie contrattuale, subisce gli effetti pregiudizievoli che, come danno patrimoniale, possono variamente configurarsi”.

Con particolare riguardo, poi, alla prova in giudizio del danno, il principio affermato dalla Corte è stato, se possibile, ancora più rivoluzionario. Le Sezioni Unite hanno infatti chiarito che il danno per il dipendente pubblico è altro rispetto a quello subito dal lavoratore privato, posto che, nel caso del pubblico dipendente: “occorre (…) una disciplina concretamente dissuasiva che abbia, per il dipendente, la valenza di una disciplina agevolativa e di favore”.
Ecco dunque, il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite: “nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto al risarcimento del danno con esonero dall’onere probatorio nella misura e nei limiti di cui alla l. 4 novembre 2010, n. 183”.
“Ora tutti i lavoratori precari della sanità possono avanzare analoga richiesta risarcitoria, e ottenere fino a 50mila euro di indennizzo ciascuno e la stabilizzazione della propria posizione lavorativa – spiega il presidente del Codacons Carlo Rienzi – Per tale motivo il Codacons ha lanciato oggi sul sito http://www.codacons.it un’zione collettiva in favore dei lavoratori di Asl e ospedali pubblici che abbiano subito il continuo rinnovo dei contratti a termine in violazione delle norme vigenti. Per aderire è sufficiente seguire le indicazioni riportate sul sito.