Democrazia, se il popolo non conta più nulla di Angelo Cannatà da: micromega.net

Quanto conta il popolo nella nostra democrazia? Molto sul piano teorico (“La sovranità appartiene al popolo”, non si poteva dir meglio); sul piano pratico, invece, nella politica e nei giochi di Palazzo, nulla, il popolo non conta nulla. Questa orribile dicotomia mostra – più di ogni cosa – la crisi in cui viviamo.

Il popolo non conta nulla 1. Perché diritti, bisogni, proteste – e i Movimenti che li rappresentano – sono tacciati di populismo e ghettizzati nell’irrilevanza: nell’universo politico delle oligarchie che affossano il Paese non c’è posto per il demos. 2. Perché dopo la vittoria del 4 dicembre – per dirla in breve – resta al governo chi ha perso e ha provato (maldestramente) a riformare la Costituzione. 3. Perché, nonostante milioni di cittadini vogliano pronunciarsi sul Jobs Act, otto membri politicizzati della Consulta glielo impediscono: qualcuno può giurare, per dire, che Amato – l’amico di Craxi – non abbia espresso un voto politico dietro lo schermo (ipocrita) del neutralismo giuridico?

A questo siamo. La Repubblica fondata sul lavoro non consente ai cittadini di pronunciarsi sulla legge che nega i diritti del lavoro. Perché? Perché la Consulta fa politica con le sentenze. Bisogna dirlo, gridarlo dai tetti. Una seconda sconfitta – questa volta sull’articolo 18 – avrebbe demolito definitivamente ogni pretesa di Renzi alla guida del Paese. Il referendum andava fermato o depotenziato: chi doveva capire ha capito e votato – nell’organismo “impolitico” – secondo i desideri della politica: della maggioranza governativa, s’intende. E i cittadini? I cahier de doléances? Proteste, referendum vinti, mobilitazioni, referendum richiesti (con milioni di voti) non contano nulla. Il popolo – teoricamente sovrano – è ignorato. E impoverito: la disoccupazione cresce (vedi dati Istat), “l’occupazione crolla sotto i 50 anni e salgono i voucher”. Camusso ha ragione: “Non c’è libertà nel lavoro senza diritti”. Di più: non c’è democrazia reale senza attenzione ai bisogni primari dei cittadini: le persone non sono numeri.

È una sentenza ingiusta, quella della Consulta, arrivata mentre il popolo è offeso anche su altri versanti: le banche, a cominciare da Montepaschi, sono state spolpate da imprenditori rapaci (che hanno abusato di Orazio: “Fai quattrini, onestamente, se puoi, e se no, come ti capita”). C’è da stupirsi se qualcuno s’incazza? Mi meraviglio piuttosto della capacità di sopportazione degli italiani. Decisivi i 5Stelle: altro che Movimento anti sistema! Contengono la protesta nei binari della legalità. La sinistra renziana, ormai, è aliena rispetto al mondo operaio: può dirsi di sinistra un partito che salva Montepaschi ma non riesce a tutelare i diritti dei lavoratori né dalle truffe bancarie né dagli illegittimi licenziamenti del Capitale?

È il nodo politico dei nostri giorni: la sinistra di governo – com’è stata ridotta – non rappresenta più l’universo del lavoro. Il M5S è percepito come il nuovo (diritti, partecipazione, democrazia diretta) ma deve evitare errori grossolani in politica estera: le giravolte dal gruppo anti all’iper europeista. Non presti il fianco a chi parla di “Setta dell’Altrove”. Non è così. Il Movimento è affidabile e combatte in Italia battaglie di civiltà, ma lo scivolone di Bruxelles c’è stato. Bisogna riconoscerlo e ripartire: con la consapevolezza che le vere “sette” nel nostro Paese hanno spolpato Montepaschi (vogliamo la lista dei grandi debitori); influenzato la Consulta sul Jobs act; costruito governi anomali; demonizzato il popolo: il M5S ha il consenso necessario per spazzare via tutto questo.

Non disperda le sue energie con scivoloni assurdi e cerchi alleanze nella società civile: ha bisogno di una classe dirigente preparata. Basta con la richiesta di denaro ai transfughi (ci sono sempre stati in tutti i partiti), il Movimento si pensi, adesso, come forza di governo. Nulla fa più paura, alla varie massonerie che ammorbano il Paese, della normalità politica conquistata/conquistabile dai pentastallati. “La moderazione – a un certo punto – diventa la tattica preferibile”.

(16 gennaio 2017)

Spataro: “La riforma Renzi? Come quella di Berlusconi” da: micromega


Dopo le barricate per bloccare la riforma del 2006, il noto magistrato è attivo ora nella campagna per il NO e invita tutti a leggere la riforma confrontandola con l’attuale Costituzione: “Chi ha realmente a cuore il bilanciamento costituzionale dei poteri dello Stato, allora, comprenderà le ragioni di un impegno per opporsi alla demolizione di principi e valori irrinunciabili per la nostra storia, per la tutela piena dei diritti dei cittadini e per ogni democrazia”.

intervista a Armando Spataro di Giacomo Russo Spena

Già nel 2006 è stato protagonista della campagna referendaria per bloccare la riforma costituzionale di Berlusconi, Armando Spataro – procuratore della Repubblica e uno dei magistrati più attivi nella lotta in Italia contro il terrorismo e l’infiltrazione della ‘ndrangheta al Nord – è nuovamente sulle barricate, ora, per contrastare il disegno renziano: “Le due riforme hanno l’identica caratteristica di fondo, cioè il fine di attribuire al capo del partito di maggioranza la carica di presidente del Consiglio e la possibilità di governare il Parlamento, tendenzialmente ridotto ad un ruolo di ratifica delle sue decisioni”. Nello stesso momento Spataro invita alla pacatezza del dibattito non intravedendo rischi per la nostra democrazia e ribadendo la necessità di far conoscere ai cittadini i contenuti della riforma: “Consiglio sempre di rispettare e cercare di comprendere il pensiero di tutti, anche di chi sostiene il SÌ”.

Lei ha apertamente dichiarato di votare per il No al referendum del 4 dicembre. Non considera inopportuno, legittimo ma inopportuno, che i magistrati si schierino in un referendum di natura costituzionale? Non si tradisce così la terzietà?

La Costituzione non equivale ad un manifesto di partito sicché tutti possono e devono impegnarsi nella direzione che reputano migliore. I magistrati, in particolare, possono farlo come tutti i cittadini, pur dovendo rispettare specifiche norme deontologiche e disciplinari: di qui la necessità di prudenza nella selezione delle occasioni in cui intervenire. Sento inoltre la necessità di un impegno personale sia a causa dello sbilanciamento evidente dell’informazione sul referendum, che per la “divisività” che caratterizza questa riforma, nonostante la Costituzione debba unire e non dividere il Paese.

Si è schierato per il NO anche alla riforma del 2006 di Silvio Berlusconi. Vede somiglianze tra le due riforme?

Beh, è sufficiente richiamare all’attenzione l’intervista al Foglio di Renzi (“Il referendum si vince a destra”) del 29 settembre scorso ed anche un documento diffuso nel sito “BastaUnSì” in cui venivano poste in evidenza le somiglianze – rispetto a questa riforma – di alcuni passaggi del programma di Berlusconi per le elezioni del 2013.

Nella partita referendaria come giudica la presa di posizione dell’ex presidente Giorgio Napolitano? Ha giocato un ruolo fondamentale nella partita?

Napolitano ha sostenuto senza riserve la necessità di una riforma costituzionale. Con lui non condivido l’esternazione secondo la quale se questa riforma non passasse, “non se ne faranno altre per 30 anni”: basta pensare a quelle approvate dopo la bocciatura della riforma berlusconiana del 2006 per non condividere la visione del futuro ed il tipo di preveggenza che quell’affermazione contiene. Però – va aggiunto – ha ben fatto a consigliare a Renzi di spersonalizzare la campagna referendaria.

È sbagliato quindi considerare il referendum un voto sul governo? E nel caso di vittoria del NO, cosa succederà?

Si vota sulla Costituzione, non su Renzi. E il 4 dicembre non sarà affatto un referendum sul governo: è dovere dei “non politici” che discutono di questa riforma quello di spiegare che la sua sorte è estranea al nostro impegno. In altre parole, mi è del tutto indifferente quel che accadrà alla maggioranza di governo ed al suo leader. Se sosteniamo il contrario, si rischia di cedere ad una provocazione e si offrono ragioni di propaganda al “Fronte del SÌ”.

In questo referendum è a rischio la nostra democrazia, come paventa qualcuno? Esiste il rischio di una svolta oligarchica in caso di vittoria del SI’?

Non penso, occorrono serenità e ragionevolezza. Tanto che non apprezzo neppure le affermazioni di chi sostiene che dietro questa riforma vi sia la massoneria o che essa richiami il piano-Gelli. Si diffondono in tal modo argomenti inutili e secondo me anche privi di fondamento. Diverso – evidentemente – è il richiamo alle aspettative del mercato finanziario internazionale, non a caso diffusamente favorevole al SÌ. A me pare doveroso e sufficiente, comunque, affermare e tentare di dimostrare che questa riforma sbilancia il rapporto tra i poteri dello Stato, esaltando – in nome della mitica “governabilità” – le competenze dell’esecutivo e penalizzando quelle del Parlamento. Mi basta – e ne avanza pure – per sentirmi preoccupato.

Si riduce il numero di senatori, si risparmiano soldi e sprechi e, soprattutto, si semplifica l’iter legislativo superando il bicameralismo paritario, oltre alla cancellazione del Cnel… Cosa non la convince della riforma?

La riduzione del numero dei Senatori – è stato dimostrato dalla ragioneria di Stato – non riduce affatto i costi nella misura pubblicizzata, sempre ammesso che – quando si parla di funzioni fondamentali dello Stato – quella del risparmio sia una finalità decisiva. Ma la riduzione in sé del numero dei senatori (100) a fronte di quello dei deputati (630) conferma ancora lo sbilanciamento di cui ho parlato, specie ove si considerino un paio di ulteriori rilievi: il Senato non perde affatto tutte le sue competenze di natura legislativa in materie che esulano da quelle di interesse regionale, ma in tal modo, visti i diversi numeri dei componenti, soccombe di fronte alla Camera. Inoltre, l’iter legislativo – ormai è noto a tutti – non è affatto semplificato ma si complica, tanto che gli studiosi ne hanno individuati almeno otto diversi (alcuni dieci) con grande confusione. Le due camere potrebbero entrare persino in conflitto tra loro ed i conflitti dovrebbero essere risolti dai due rispettivi presidenti. Come ciò avverrà in caso di dissenso non è dato di capire.

Al referendum però non si voterà sulla legge elettorale e l’Italicum potrebbe essere modificato in Parlamento…

E’ vero che non voteremo sull’Italicum ma il “combinato disposto” (termine efficace per significare le ricadute della legge stessa sul futuro assetto costituzionale) è gravido di pericolose conseguenze, come ammettono anche coloro che, nel partito di maggioranza, chiedono ormai di cambiare la legge, nonostante fosse stata approvata a seguito di mozione di fiducia. L’Italicum consegna al partito di maggioranza relativa al ballottaggio 340 seggi, senza una soglia minima di consenso richiesto e sganciando in larga parte gli eletti dalle preferenze dei cittadini. La legge elettorale del Senato è invece ancora un mistero: sarà approvata dalle future due camere ma la previsione secondo cui, oltre i cinque designati dal Capo dello Stato, i senatori – 21 sindaci e 74 consiglieri regionali – saranno eletti dai consigli regionali “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi” è ancora oggetto persino di interrogativi di natura lessicale. Altro che semplificazione dell’iter legislativo o superamento del bicameralismo perfetto! Se poi passiamo al rapporto tra Parlamento e Governo e a quello tra Stato e Regioni, o alle ricadute sulla elezione del Capo dello Stato, dei membri della Consulta (non si comprende perché separatamente tre debbano essere eletti dalla Camera e due dal Senato, nonostante la citata sproporzione numerica dei rispettivi componenti) e di quelli del CSM, ancora una volta ci troviamo a dovere constatare una criticabile nozione di governabilità nel senso già indicato ed una spinta alla centralizzazione, in capo allo Stato, di competenze che devono logicamente essere regionali. Per non parlare del “Senato mutante” visto che il mandato dei senatori – comunque quasi impossibile da esercitare con la doverosa attenzione ove si consideri la duplicità dei loro ruoli politici – viene meno quando decadono i consigli regionali che li hanno eletti o quando cessano di essere sindaci.

La Costituzione si può modificare ed è migliorabile oppure dovrà rimanere così vita natural durante?

Certo che si può modificare e migliorarla, come è infatti è avvenuto varie volte da quando è stata approvata (dicembre del 1947). Ma un governo costituente, come è chiaro, non può esistere se non si sforza di trovare un vasto consenso in Parlamento, attraverso la elaborazione di principi e di procedure di loro valorizzazione che devono essere chiare anche ai cittadini.

Qualche sera fa, in televisione, c’è stato un confronto tra Renzi e De Mita. Per il fronte del SI’ è l’emblema del nuovo contro il vecchio, del cambiamento contro la conservazione. E, in effetti, De Mita non mi sembra un grande sponsor per il NO, non trova?

Di fronte alla Costituzione ed al rischio di un suo stravolgimento è dovuto l’impegno di tutti, senza distinzione. E va tra l’altro considerato che conta soprattutto il contenuto del pensiero (e quello di molti personaggi dalla lunga storia politica personale non è affatto secondario), non la modalità del messaggio rapido e fulminante che le regole della comunicazione moderna ci impongono. Aggiungo pure che mi sono trovato a parlare in vari eventi, durante gli ultimi 30 giorni, con politici ed accademici impegnati per il NO, di diverse generazioni ed estrazioni politiche. Ma – discutendo – ho apprezzato il loro pensiero e l’ho detto pubblicamente.

Più in generale, il fronte del NO come può ribaltare la propaganda renziana dell’essere un voto di “conservazione” e contro il cambiamento?

Non credo che dobbiamo cedere alle logiche propagandistiche fondate anche sull’accusa di conservatorismo rivolte al Fronte del NO. Continuo ad avere fiducia, forse ingenuamente, nella capacità e volontà dei cittadini italiani di conoscere e capire. Per questo invito tutti a leggere la riforma confrontandola con la Costituzione come approvata nel dicembre 1947 e con il testo vigente. Chi ha realmente a cuore il bilanciamento costituzionale dei poteri dello Stato, allora, comprenderà le ragioni di un impegno per opporsi alla demolizione di principi e valori irrinunciabili per la nostra storia, per la tutela piena dei diritti dei cittadini e per ogni democrazia.

(3 novembre 2016)

Referendum sulla costituzione: cosa ci ha insegnato Dossetti di Giovanni Nicolini

Dossetti a messa – Sariano di Trecenta (1995) – © credit http://www.dossetti.eu

BOLOGNA – In questo grave momento per le sorti del nostro paese, per la mia adesione alla Regola di don Giuseppe Dossetti, che fu giurista e padre costituente, ritengo che non si possa dimenticare che egli spese le ultime energie della sua vita per la difesa della Costituzione, fondamento di unità e di giustizia di tutto il nostro popolo. È quindi per me doveroso lasciarci guidare dal suo insegnamento.

Egli fortemente combatté la riforma berlusconiana e per mostrare quanto la sua posizione di allora sia del tutto attuale e applicabile alla riforma di oggi basta rileggere alcune sue affermazioni.

1. Senza ombra di dubbio Dossetti avrebbe combattuto questa riforma prima di tutto perché operazione illegittima e pericolosa: un parlamento eletto con legge dichiarata incostituzionale che si arroga il compito di cambiare un’ampia parte della Costituzione (47 articoli, pari a 1/3 della Costituzione) con stretta maggioranza politica.

In occasione della festa della liberazione del 1994 così scriveva al sindaco di Bologna:

Si tratta di impedire a una maggioranza che non ha ricevuto alcun mandato al riguardo, di mutare la nostra Costituzione: si arrogherebbe un compito che solo una nuova Assemblea Costituente, programmaticamente eletta per questo, e a sistema proporzionale, potrebbe assolvere come veramente rappresentativa di tutto il nostro popolo. Altrimenti sarebbe un autentico colpo di stato (Bazzano, 25 aprile 1994)

2. In secondo luogo perché ne risulterebbe una Costituzione di parte. I padri costituenti parlavano di “Casa comune”.  La costituzione del ‘48 fu scritta insieme e fu votata a larghissima maggioranza, 88%, da quanti erano avversari politici. La riforma di oggi invece divide gli italiani: se prevalesse il sì, metà degli italiani non si riconoscerebbero nel nuovo testo della Costituzione.

Ricordando i lavori dell’Assemblea Costituente Dossetti osservava:

È qui il luogo di ricordare che questa base di largo consenso – nonostante i dibattiti assai vivaci lungo il corso di tutti i lavori e gli antagonismi che dividevano allora il paese – portò a una votazione finale del testo della Costituzione che raggiunse quasi il 90% dei componenti dell’Assemblea costituente (Le radici della Costituzione, Monteveglio 16 settembre 1994).

3. Infine non si tratta di discutere se c’è qualcosa di buono nel progetto di riforma ma di difendersi dalla manipolazione del consenso.

Esprimendo la sua preoccupazione, Dossetti diceva: Ora la mia preoccupazione fondamentale è che si addivenga a referendum, abilmente manipolati, con più proposte congiunte, alcune accettabili e altre del tutto inaccettabili, e che la gente totalmente impreparata e per giunta ingannata dai media, non possa saper distinguere e finisca col dare un voto favorevole complessivo sull’onda del consenso indiscriminato a un grande seduttore: il che appunto trasformerebbe un mezzo di cosiddetta democrazia diretta in un mezzo emotivo e irresponsabile di plebiscito (Lettera ai Comitati per la difesa della Costituzione, Oliveto 23 maggio 1994).

Giovanni Nicolini

Fonte: huffington postAutore: tomaso montanari “Riforma costituzionale, il diavolo si nasconde nel dettaglio. Numeri bizzarri per eleggere il capo dello Stato”. Intervento di Tomaso Montanari

Una delle tante aberrazioni della “riforma” che Renzi e i suoi alleati vogliono imporci per obbedire all’ordine impartito nel 2013 dalla JP Morgan Chase & Co.
«Vogliamo una democrazia che decide», sostiene il fronte del Sì. «Anche noi! Ma decidere non vuol dire comandare, o dominare: avete costruito una dittatura della maggioranza, un sistema in cui chi vince prende tutto. Un sistema in cui non esistono più garanti terzi», ribattiamo dal fronte del No. È stato questo il leitmotiv del mio confronto con Luciano Violante, arbitrato venerdì scorso da Enrico Mentana. Un punto cruciale del dibattito ha riguardato l’elezione del presidente della Repubblica. Come il vecchio, il nuovo articolo 83 prevede che: «Il Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta comune dei suoi membri». Solo che – se vincesse il Sì – il Parlamento sarebbe così composto: 630 membri della Camera (come ora: si sono ben guardati dal limitarne il numero, alla faccia della retorica del risparmio!), 95 senatori nominati dai consigli regionali (iddio sa come), fino a 5 senatori nominati dal presidente della Repubblica (durano sette anni, e dunque il loro numero al momento del voto è imprevedibile: dipende quando saranno stati nominati) e i senatori di diritto e a vita in quanto ex presidenti della Repubblica.
Immaginiamo dunque l’elezione del successore di Mattarella, e consideriamo il corpo elettorale più ampio possibile (augurando lunghissima vita a Giorgio Napolitano): 630+95+5+2, cioè 732 elettori.Dobbiamo subito dire che, a legislazione attuale (dunque ad Italicum vigente), il partito di maggioranza avrà (per legge) 340 seggi alla Camera, e, diciamo, una maggioranza di 60 senatori (qua il dato è, per forza di cose, empirico: ma è una ragionevole proiezione del peso attuale del Pd): dunque un pacchetto di 400 voti.
«Ebbene, nei primi tre scrutini (come ora) per eleggere il Capo dello Stato ci vorranno i due terzi: 488. Il partito di maggioranza dovrebbe trovarne 88: il che implica un’alleanza politica di una certa ampiezza. Già, però, dal quarto al sesto scrutinio il quorum per l’elezione presidenziale scende ai tre quinti dei componenti: 440. E qua cominciano i problemi, perché basta una piccola ‘aggiunta’ (esempio non troppo astratto: un drappello di volenterosi verdiniani) per fare schiavo colui che dovrebbe essere il massimo garante di tutti.

«Ma la vera e propria crisi democratica si manifesta con ciò che viene previsto dal settimo scrutinio: quando basteranno i tre quinti dei votanti. Si tratta di un inedito quorum mobile: ma fino a che punto potrà abbassarsi? L’unico limite è quello imposto dall’articolo 64 della Costituzione (non toccato dalla riforma), che impone il numero legale: perché il presidente possa venire eletto è necessario che siano presenti la metà più uno dei componenti, cioè 367 elettori. Ora, i tre quinti di 367 è pari a 221: e dunque la nuova Costituzione prevede che dalla settima votazione il Capo dello Stato si elegga con una maggioranza minima di 221 voti, cioè con una maggioranza che è tutta nella disponibilità del singolo partito che avrà vinto le elezioni (340 deputati), anche se al Senato non dovesse avere nemmeno un seggio!
«Di fronte all’evidenza dei numeri, Violante ha risposto che si tratta di un’eventualità remotissima, perché alle elezioni presidenziali tutti sono presenti. Benissimo: ma allora perché la nuova Costituzione dovrebbe prevedere una simile stranezza? Come è ovvio, le Costituzioni dovrebbero evitare le trappole, non configurarne di bizzarre. Mentre qua si aprono scenari bizantini complicatissimi, fatti di giochi incrociati di assenze e presenze: una geometria dalle mille varianti che consegna un margine enorme alla peggiore politica, quella da corridoio parlamentare. A questo punto Violante ha ammesso che la ratio di questa bizzarra norma è evitare uno stallo nell’elezione presidenziale, perché questo potrebbe creare un danno all’immagine del Paese.
E così – dopo mille infingimenti, mille tentativi di negare l’evidenza – è finalmente emersa la verità. Che è questa: gli autori della riforma preferiscono consegnare la massima magistratura dello Stato all’arbitrio di un singolo partito, piuttosto che permettere che la sua elezione duri qualche giorno (perché di questo si tratta). E basterà ricordare che Sandro Pertini fu eletto al sedicesimo scrutinio per far capire come possa invece valer la pena di aspettare un po’. Se vince il Sì, il Presidente della Repubblica potrà dunque essere eletto solo dalla maggioranza creata a tavolino dall’Italicum. Sarà improbabile, ma è possibile: anzi, è esplicitamente previsto.
Ora, questo particolare cruciale rivela moltissimo dello spirito della riforma su cui siamo chiamati a votare. Una riforma che baratta decisionismo con democrazia, e che aumenta il potere della maggioranza senza aumentare le garanzie delle minoranze. È qui il suo carattere totalitario: letteralmente totalitario, nel senso che chi vince si prende tutto, e a chi perde non rimane alcuna tutela.

Accanto all’arroganza maggioritaria, la cialtroneria della scrittura: non si è fin qui notato che – a rigore – per il regolamento della Camera (quello che vige nelle sedute comuni dei due rami del Parlamento) il numero legale è distinto dal quorum richiesto per le votazioni di natura elettiva. Tra i presenti che rendono valida la seduta potrebbero essercene alcuni (o anche moltissimi) che non rispondono alla chiama, e non partecipano alla votazione: in pura teoria per eleggere il presidente della Repubblica basterebbero 3 voti su 5 votanti, purché ci siano 367 presenti a garantire il numero legale. Non accadrà mai? È molto probabile. Ma diventa davvero colossale l’arbitrio dei signori del voto parlamentare, che potranno agitare la minaccia di colpi di mano, fare uscire ed entrare dall’aula interi gruppi, pescare nel torbido: con i famosi 101 franchi tiratori che impallinarono la presidenza Prodi abbiamo imparato quanto l’elezione dell’inquilino del Quirinale possa essere velenosa e opaca.
Appare dunque plasticamente evidente come la riforma costituzionale che stiamo per votare sia stata scritta con sciatteria, ignoranza, inettitudine. Oltre che con colossale arroganza.
Il diavolo si nasconde nel dettaglio, ammesso che l’elezione del Capo dello Stato sia un dettaglio. E il 4 dicembre non vogliamo andare all’inferno.

Questo è uno stralcio del lungo discorso con cui Palmiro Togliatti chiede sia votata la pregiudiziale di incostituzionalità sulla riforma della legge elettorale presentata dal ministro degli interni Mario Scelba, la cosiddetta “legge truffa”. Qui potete leggere il testo completo.

Palmiro Togliatti parla alla Camera l’8 dicembre 1952

Questo è uno stralcio del lungo discorso con cui Palmiro Togliatti chiede sia votata la pregiudiziale di incostituzionalità sulla riforma della legge elettorale presentata dal ministro degli interni Mario Scelba, la cosiddetta “legge truffa”.
Qui potete leggere il testo completo.

Togliatti
La Costituzione sancisce che l’Italia è una Repubblica democratica, e dal concetto che fa risiedere nel popolo la sovranità deriva il carattere rappresentativo di tutto il nostro ordinamento, al centro del quale stanno le grandi Assemblee legislative, la Camera e il Senato della Repubblica, a cui tutti i poteri sono coordinati e da cui tutti i poteri derivano.
Ma vi è di più. Questo ordinamento costituzionale democratico e rappresentativo ha una natura particolare, che nessuno può negare, perché la Costituzione non soltanto dice che l’Italia è una Repubblica democratica ma che essa è una Repubblica fondata sul lavoro. E di qui derivano molte cose. Di qui derivano tutti i diritti economici e sociali, deriva la previsione di quelle riforme delle strutture economiche,che volemmo fosse nella Costituzione come indicazione di una strada per l’avvenire, e a proposito della quale un dibattito elegante ebbi allora con l’onorevole Calamandrei, e risolvemmo la cosa accontentandoci di metterci d’accordo su una citazione di Dante. Le riforme economiche, però, sono rimaste nella Costituzione e ne sono parte essenziale.
Da questa definizione particolare del nostro ordinamento democratico non possono non derivare, però, particolari conseguenze per quanto si riferisce al diritto politico .e ai rapporti fra lo Stato e i cittadini.
Quando si asserisce che la Repubblica è fondata sul lavoro, quando si dice che i cittadini hanno eguaglianza di diritti, pari dignità sociale, e quando si aggiunge che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica dello Stato, non si può non riconoscere che il fatto che noi abbiamo definito la Repubblica italiana come Repubblica fondata sul lavoro ha particolari conseguenze per il diritto politico, per la definizione esatta, cioè, dell’ordinamento costituzionale dello Stato.
Infine, vi è una organizzazione storicamente determinata, quella dei partiti politici, che la Costituzione stessa richiama in quel suo articolo 49 dove dice che i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico (cioè in eguaglianza) a determinare la politica nazionale.
Questo è il nostro ordinamento costituzionale, questo e non altro. È evidente che in siffatto ordinamento l’elemento che si può considerare prevalente e che certamente è essenziale è la rappresentatività. È un elemento essenziale per ciò che si riferisce ai rapporti tra i cittadini e le assemblee supreme dello Stato. Ma che vuol dire che un ordinamento costituzionale sia rappresentativo?
[…]
Se guardiamo alla storia, incontriamo all’inizio e partiamo da una visione della rappresentanza come istituto di diritto privato, nel senso che essa riguarda la tutela, attraverso un delegato o mandatario, di determinati interessi di gruppi precostituiti. Alludo alle assemblee rappresentative elette secondo il principio della curia, applicando i quale si ha in partenza una schiacciante maggioranza di “deputati” delle classi possidenti e una minima rappresentanza di operai, di contadini, di lavoratori. Ho voluto ricordare questa bizzarra forma di degenerazione di una istituzione che dovrebbe essere rappresentativa, perché è quella che maggiormente rassomiglia al sistema che viene proposto qui dall’onorevole Scelba. Non vi è dubbio, infatti, che la visione che traspare dalla legge in discussione ci prospetta un Parlamento diviso in curie, non più secondo un criterio economico o sociale, ma secondo un criterio politico. Precede alla elezione del Parlamento un’azione del governo per riuscire, partendo dai dati delle precedenti consultazioni, a raccoglier determinate forze politiche a proprio appoggio. A questo gruppo è quindi già assegnato, prima che si sia proceduto alle elezioni, un numero fisso di mandati, e un numero fisso e ridotto di mandati è assegnato, in modo precostituito, agli oppositori del governo. A questo ci vorrebbe riportare l’onorevole Scelba: al Parlamento eletto per curie. Ed è peggio, direi, il Parlamento per curie ordinate secondo un criterio politico che non secondo un criterio economico, perché scompare qualsiasi base oggettiva della differenziazione. Unica base rimane la volontà sovrana del potere esecutivo.
[…]
Ed ecco subito un altro concetto non facile a districare, quello che definisce la natura nostra, di deputati in quanto rappresentanti. Noi siamo, sì, rappresentanti dei nostri elettori. Nessuno lo può negare: essi si rivolgono a noi, ci inviano lettere, ci sottopongono quesiti; ad essi parliamo, con essi esiste un legame particolare. Ciascuno di noi però – e la Costituzione lo afferma – rappresenta tutto il paese. Nel dibattito intorno a questo concetto, l’estensore della relazione a questo disegno di legge fa naufragio. Mi rincresce doverglielo dire e sottolineare: fa naufragio.
La realtà è che nello sviluppo della scienza del diritto pubblico il fascismo ci ha spinti molto all’indietro. Quando noi oggi andiamo a rivedere i testi e i trattati di diritto costituzionale che andarono per la maggiore durante il fascismo, siamo costretti a inorridire. Ci troviamo di fronte a tale mostruosa contorsione di concetti, a tali bizzarri travestimenti di idee un tempo chiare, per cui comprendiamo come oggi chi allora appartenne a quella schiera non possa comprendere nulla.
[…]
Lei ha peccato contro lo spirito, onorevole Tesauro, e questo peccato non è remissibile. Lei lo sa!
La difficoltà da cui Ella non è riuscito a districarsi è di comprendere come mai il deputato, eletto da un gruppo di cittadini, sia rappresentante di tutto il paese. Sono nato a Genova, mi hanno eletto a Roma, rappresento tutta l’Italia. Come mai? Perché? Questo non si comprende, se non si guarda a tutto lo sviluppo del sistema. La cosa – dice Vittorio Emanuele Orlando -, cioè la rappresentanza come tale, è una nozione che non presenta difficoltà se si riconduce a un «fatto esterno e visivo». Qui affiora, attraverso questa ardita semplificazione, il concetto giusto, che è in pari tempo, vedremo subito, il concetto nuovo della rappresentanza politica e, quindi, dell’ordinamento costituzionale rappresentativo.
Curioso! Questo concetto nuovo venne formulato la prima volta più di 150 anni fa, nell’Assemblea nazionale francese, nel 1789, dal conte di Mirabeau. «Le assemblee rappresentative – diceva – possono essere paragonate a carte geografiche, che debbono riprodurre tutti gli ambienti del paese con le loro proporzioni, senza che gli elementi più considerevoli facciano scomparire i minori». Ecco il concetto nuovo, per cui la rappresentanza viene ridotta quasi a un elemento visivo, e quindi immediatamente compresa nel suo valore sostanziale.
[…]
II 1848 è l’anno in cui appare sulla scena per la prima volta in modo autonomo una nuova classe, la classe operaia, che rivendica non soltanto una rappresentanza e quindi una parte del potere, ma collega questa rivendicazione al proprio programma di trasformazione sociale. Nel 1871 la classe operaia va assai più in là della rivendicazione di una parte del potere per se stessa. Essa afferma la propria capacità di costruire un nuovo Stato.
Questi grandi fatti storici si impongono all’attenzione di tutti. Agli uomini politici di più chiaro spirito liberale e democratico essi indicano la necessità di fare quel passo che separa i parlamenti liberali dai parlamenti democratici rappresentativi. Di non accontentarsi cioè di dire che la maggioranza rappresenta l’opinione generale, anche quella della minoranza, ma di costruire un organismo nel quale si rispecchi la nazione, sperando e augurando che questo consenta uno sviluppo progressivo senza scosse rivoluzionarie. La rivoluzione operaia del giugno 1848 è soffocata nel sangue. Sull’atto di nascita del regime borghese, istallatosi in Francia dopo il secondo crollo napoleonico, sta la macchia di sangue delle fucilate con le quali venne fatta strage degli eroici combattenti della Comune. È una macchia indelebile. Si spegne l’eco delle fucilate, ma resta odor di polvere nell’aria! Il movimento operaio si afferma, va avanti. Il problema è posto, bisogna progredire, bisogna tener conto delle forze nuove che si affermano. Per questo vi è chi comprende che ormai è necessario forgiare l’ordinamento dello Stato in modo che consenta questo progresso e lasci che queste forze, nello Stato stesso, si possano affermare. Per questo il sistema di rappresentanza proporzionale delle minoranze nel Parlamento, che è l’approdo tecnico del movimento, può veramente essere definito il punto più alto che sino ad ora è stato toccato dalla evoluzione dell’ordinamento rappresentativo di una società divisa in classi. Così lo hanno sentito tutti i nostri politici, e non solo quelli che ho già citato. Filippo Turati, quando propose, nel 1919, di passare alla rappresentanza proporzionale, asseriva per questo che la sua proposta aveva un valore storico. Sidney Sonnino si richiamava apertamente, nel proporre e difendere la proporzionale, al fatto storico della Comune. Si trattava di dare una impronta definitiva di democraticità, di rappresentatività e di giustizia all’ordinamento costituzionale dello Stato, nel momento in cui il movimento sociale non può più essere soppresso con la forza.
Naturalmente, il modo in cui si realizza il principio non è uniforme […]. Lo so. Non è stato trovato ancora un modo di avere la perfetta proporzionalità della rappresentanza. Rimane sempre un certo scarto tra la realtà del paese e la rappresentanza nella Camera, a seconda che si adotti un determinato sistema di conteggio dei voti e dei rappresentanti in rapporto ai voti, oppure un altro sistema. Ma questo non ha niente a che fare con l’abbandono del principio. Quello che interessa è il principio. Il principio per cui noi siamo rappresentanti di tutto il paese nella misura in cui la Camera è specchio della nazione. Dello specchio, veramente, si può dire che ogni parte, anche piccolissima, di esso, è eguale al tutto, perché egualmente rispecchia il tutto che gli sta di fronte. Qualora il principio venga abbandonato, è distrutta la base dell’ordinamento dello Stato che la nostra Costituzione afferma e sancisce.

Quella di Stefano Cucchi fu una “morte improvvisa ed inaspettata per epilessia in un uomo con patologia epilettica di durata pluriennale, in trattamento con farmaci anti-epilettici”. da: larepubblica,it

E’ l’ipotesi “dotata di maggiore forza ed attendibilità” adottata dai periti nominati dal gip Elvira Tamburelli nell’ambito dell’inchiesta bis avviata per accertare la natura, l’entità e l’effettiva portata delle lesioni patite da Stefano Cucchi, il geometra romano morto il 22 ottobre 2009 una settimana dopo il suo arresto per droga. Dunque, secondo i tecnici, non ci sarebbe un nesso tra il violento pestaggio cui è stato sottoposto Cucchi nella notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 da parte dei carabinieri appartenenti al comando stazione di Roma Appia che lo fermarono per droga e il decesso avvenuto sei giorni dopo all’ospedale Sandro Pertini.

La sorella: “Morte causata da fratture”. “Queste sono le conclusioni della perizia Introna – scrive Ilaria Cucchi su Facebook in un post intitolato “Avremo un processo per omicidio” – Il perito Introna tenta di scrivere la sentenza finale del processo per i responsabili del violentissimo pestaggio a mio fratello. Riconosce ‘bontà sua’ la frattura di L3 da noi per sette anni sostenuta e riconosciuta dai pm, poi alza una cortina di fumo dicendo che è impossibile determinare con certezza una causa di morte di Stefano. Il collegio peritale poi si avventura a formulare due ipotesi di morte. La prima, per epilessia, che se in un primo momento viene ritenuta forse più probabile, nelle conclusioni la definisce ‘priva di riscontri oggettivi'”. Le fratture e il globo vescicale “sono la causa di morte da noi sempre sostenuta in questi anni, che a differenza dell’epilessia ha elementi oggettivi e riscontrati dagli stessi periti”. E aggiunge Ilaria Cucchi: “Gli unici dati oggettivi scientifici che la perizia riporta sono il riconoscimento della duplice frattura della colonna e del globo vescicale che ha fermato il cuore. Con una perizia così ora sappiamo che finalmente abbiamo ottime possibilità di vedere processati gli indagati per omicidio preterintenzionale. Con buona pace dei medici e degli infermieri che vengono continuamente assolti”.

I nuovi accertamenti sono stati fatti nell’ambito dell’incidente probatorio (atto che assume valore di prova in caso di processo) disposto alla luce dell’inchiesta bis avviata dalla Procura di Roma che ha indagato cinque carabinieri, tre per lesioni personali aggravate e abuso d’autorità e due per falsa testimonianza. “Le lesioni riportate da Stefano Cucchi dopo il 15 ottobre 2009 non possono essere considerate correlabili causalmente o concausalmente, direttamente o indirettamente anche in modo non esclusivo, con l’evento morte”, hanno sottolineato i quattro esperti tecnici nominati dal giudice.

Tutte le tappe della vicenda

L’atto istruttorio (che si compone di 250 pagine) è stato depositato oggi. Il collegio di esperti è composto dai professori Francesco Introna (Istituto di Medicina legale del Policlinico di Bari) e Franco Dammacco (Clinico medico emerito dell’Università di Bari), e dai dottori Cosma Andreula (neuroradiologo Anthea Hospital di Bari) e Vincenzo D’Angelo (neurochirurgo della Casa ‘Sollievo della sofferenza’ di San Giovanni Rotondo). L’inchiesta bis sulla morte di Cucchi vede indagati cinque carabinieri della stazione Roma Appia: si tratta di Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro, Francesco Tedesco (tutti per lesioni personali aggravate e abuso d’autorità), Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini (per falsa testimonianza, e il solo Nicolardi anche di false informazioni al pm). A giugno furono assolti i medici dell’ospedale Pertini di Roma dove era ricoverato Stefano Cucchi.

Benché, in base alla ricostruzione dei fatti, i dati raccolti “non consentono di formulare certezze sulla(e) causa(e) di morte”, per i periti guidati dal professor Introna, due sarebbero le ipotesi prospettabili: una riconducibile all’epilessia e l’altra alla frattura alla vertebra sacrale. La prima, per i periti più attendibile, “è rappresentata da una morte improvvisa ed inaspettata per epilessia” per la quale “la tossicodipendenza di vecchia data può aver svolto un ruolo causale favorente per le interferenze con gli stessi farmaci antiepilettici”, i periti hanno attribuito analoga “concausa favorente” anche alla “condizione di severa inanizione” (l’indebolimento dell’organismo per carenza di alimentazione ndr), in cui versava Cucchi.

Gli esperti hanno anche preso in esame l’ipotesi che la morte del ragazzo sia legata “alla recente frattura traumatica di S4 associata a lesione delle radici posteriori del nervo sacrale”. Un’ipotesi “possibile” – hanno detto i periti – ma da ritenere comunque meno attendibile di quella connessa all’epilessia “dotata di maggiore forza ed attendibilità”.

L’avvocato di uno dei carabinieri. “Premesso l’estraneità del mio assistito e degli altri appartenenti all’Arma
alle lesioni che Stefano Cucchi aveva e delle quali s’ignorano le cause, quanto da noi sostenuto in sede d’incidente probatorio è stato confortato e confermato alla perizia disposta dal gip”, è quanto ha dichiarato l’avvocato Eugenio Pini, legale di uno dei carabinieri indagati. L’effetto – conclude l’avvocato Pini – “è che chiederemo all’Ufficio di procura l’archiviazione del procedimento nei confronti dei carabinieri”.

Autore: Redazione Una maratona nel nome di Stefano Cucchi. Domenica ci si batte per i diritti negati

 

Sara’ “una vera e propria maratona degli affetti” la manifestazione ‘Corri con Stefano’ che si terra’ a Roma domenica prossima. Ilaria Cucchi, sorella della di Stefano, il giovane geometra morto sette anni fa all’ospedale Pertini di Roma, l’ha presentata ieri a Roma. L’evento consiste in una gara podistica competitiva di circa 6 km ed una non competitiva di circa 3 km, con la cronaca del giornalista Francesco Repice. La manifestazione, che partira’ alle 10 da via Lemonia, e’ realizzata con il patrocinio della Regione Lazio e di Roma
e Capitale e l’adesione del Municipio II e vede la collaborazione dell’Unione Italiana Sport per Tutti-Uisp oltre che di numerose associazioni, artisti e musicisti.
Dopo l’evento sportivo della mattina, fino alle 17 ci saranno incursioni culturali, artistiche, musicali e laboratori per i piu’ piccoli. Tra gli altri, sono previsti gli interventi de Il Muro del Canto, Assalti Frontali, Daniele Vicari, Ascanio Celestini, Jasmine Trinca, Andrea Rivera, Giulio Cavalli, Alessio Cremonini, Paolo Romano, Massimiliano D’Ambrosio, Tiziano Scrocca, Silvia e Gaia Tortora, Ilaria Bonaccorsi, Stefano Anastasia e il senatore Luigi Manconi.
“Saremo qui a ricordare Stefano, ma non solo- sottolinea Ilaria- a ricordare cio’ che ha rappresentato e continua a
rappresentare, a ricordare una battaglia per il riconoscimento di diritti umani troppo spesso negati”.

La No-Tav Nicoletta Dosio posta agli arresti domiciliari. Prc: “Atto vendicativo. Adesso denunciateci tutti” Autore: redazione da: controlacrisi.org

La disobbediente No Tav Nicoletta Dosio è stata posta l’altra mattina agli arresti domiciliari per non avere ottemperato all’obbligo di dimora nel comune di Bussoleno per delle ipotesi di reato risibili riferite a proteste e contestazioni di un anno fa. Nicoletta , in questo periodo, ha partecipato a diverse iniziative di discussione – tra cui la Festa Nazionale di Rifondazione Comunista di Firenze – sulle ragioni della lotta No Tav in Valsusa e anche a sostegno della campagna per il No allo stravolgimento della Costituzione nata dalla lotta di Liberazione.

“L’aggravamento delle misure restrittive disposto dall’autorità giudiziaria di Torino – commenta in una nota Ezio Locatelli, segretario del Prc provinciale – ha il sapore di un atto vendicativo visto che viene motivato con “l’entità del numero e della frequenza delle violazioni, le quali evidenziano una personalità estremamente negativa, intollerante delle regole e totalmente priva del minimo spirito collaborativo”. A Nicoletta la solidarietà piena e incondizionata di Rifondazione Comunista. Disobbedire contro misure ingiuste e ingiustificate non è reato! Adesso denunciateci tutti per favoreggiamento”.

Caro Giuliano, questa volta “no” dal blog di nandodallachiesa.it

Nando dalla Chiesa

18 settembre 2016. 2016

Tutti sanno la stima e l’amicizia che provo verso Giuliano Pisapia. Durante il suo mandato l’ho soprannominato “il sindaco galantuomo” avendo visto la correttezza estrema con cui gestiva le relazioni del comitato antimafia di esperti da lui nominato. Quelle relazioni avevano via libera anche se potevano produrre qualche problema di immagine alla sua amministrazione. Roba rara. Ma stavolta sento il dovere di dichiarare il mio più rispettoso e profondo disaccordo dal suo invito a votare “sì” al referendum (letteralmente: a non dividersi a sinistra) perché se no si farebbe un favore alla destra. Caro Giuliano, cari amici, è arrivato il momento di chiarirci su quale sia lo spazio che vogliamo assicurare alla nostra libertà di pensiero. Ormai questa storia che bisogna votare in un certo modo se no si fa vincere la destra sta davvero tracimando, e inonda il campo intoccabile del diritto di scegliere senza ricatti morali.

Datemi un argomento nel merito, per favore: vota questa legge perché è buona e se ci riesci mi spieghi anche perché è buona; vota questo candidato perché è bravo e capace, pulito e credibile, e non perché dall’altra parte c’è la destra (anzi, “questa destra”), quando la destra (esattamente “questa destra”, Verdini per capirsi) è largamente penetrata nella sinistra. Si fanno cose buone o buonine e si chiede di votarle. Si fanno cose non buone e ci si rassegna a non essere votati. E poi, andiamo a vedere la questione specifica. Qui non è come alle elezioni dei sindaci, quando il risultato poteva essere di fare governare la destra. Qui quale sarebbe il risultato del “no”? Di fare vincere la Costituzione nata dalla Resistenza. E di questo dovrebbe preoccuparsi la sinistra??? Così farebbe un regalo alla destra? Ma stiamo impazzendo tutti? Semmai dovrebbe essere la destra a dolersi che quella Costituzione resti in piedi e si affermi il principio che una Costituzione non è un giocattolo da piccolo chimico (e io sono tra coloro che vorrebbero cambiarla, sia chiaro; ma in meglio). Qui, se continua così, un giorno arriverà un signore con etichetta di sinistra, si metterà a fare e disfare cose da matti e una corte di benpensanti a lui di intorno si affannerà a dire che bisogna dargli ragione perchè è di sinistra e non bisogna far favori alla destra. Un incubo orwelliano.

No, così la partita si sta spostando. E direi che è ancora più grande e larga. Ora la questione è anche se gli elettori di sinistra hanno diritto di votare per i loro principi oppure il loro compito è quello di ubbidire. Per non favorire la destra, naturalmente.
P. S. Quanto alla teoria demenziale (non di più, non di meno) che “l’importante è cambiare” rimando alla parabola di Glasgow di cui ho scritto qui qualche settimana fa. Che il cielo faccia rinsavire questo paese.

Scontri al corteo anti Renzi, il questore Cardona: “Facinorosi venuti da tutt’Italia” da: sudpress.it

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 Il questore di Catania Marcello Cardona ha incontrato stamattina i giornalisti per spiegare la dinamica degli incidenti scoppiati ieri pomeriggio all’incrocio tra le vie Umberto ed Etnea. “La Polizia è intervenuta non appena alla testa del corteo sono comparsi i caschi neri per evitare che la situazione degenerasse”

La Polizia è intervenuta non appena alla testa del corteo sono comparsi i caschi neri. Il questore di Catania Marcello Cardona ha incontrato stamattina i giornalisti per fare una serie di puntualizzazioni sulla dinamica degli incidenti scoppiati ieri pomeriggio all’incrocio tra via Umberto e via Etnea al termine del corteo organizzato per protestare contro la presenza del premier e segretario del Pd Matteo Renzi alla chiusura della Festa nazionale dell’Unità alla Villa Bellini.

“Era necessario evitare che potessero far degenerare ulteriormente le cose e che potessero unirsi ad altri manifestanti con le stesse intenzioni, ha spiegato il questore aggiungendo che le indagini continuano per individuare, grazie ai filmati della polizia Scientifica, gli altri facinorosi coinvolti.

Al momento due le persone fermate e denunciate per aggressione e resistenza a pubblico ufficiale. Sono due giovani catanesi di 24 e 21 anni, appartenenti al collettivo Aleph”. Durante gli scontri non ci sono stati contusi, se si esclude una persona nei pressi della quale è scoppiata una bomba carta.

Il questore ha sottillineato che l’apparato di sicurezza ha consentito di mettere immediatamente fine all’azione di un piccolo gruppo di violenti che, mescolandosi alle persone che formavano il civilissimo e ordinatissimo corteo, è sceso in campo munito di mazze, bottiglie di vetro e bastoni, indossando pure una tenuta “in nero” in stile black block, col chiaro intento di mettere in atto azioni di guerriglia: sono stati isolati e due di essi, appartenenti ai centri sociali catanesi, sono stati bloccati e denunciati dalla Digos.

Il corteo era composto da diverse anime, la maggior parte moderate, ha ribadito Carlo Ambra, dirigente della Digos, tant’è che dopo il momento di criticità la parte pacifica dei manifestanti “ha allontanato i facinorosi che si stavano riorganizzando per riattaccarci”, ha sottolineato il capo della Digos.

“Il contingente delle forze dell’ordine – ha continuato Ambra  – non ha fatto altro che contenere il tentativo di forzatura a testa di ariete da parte dei manifestanti, messo in pratica con uno striscione rigido, issato a mo’ scudo”.

Il gruppo dei facinorosi era composto da diverse decine di anarchici e antagonisti. “Dalle informazioni che abbiamo avuto, sono venuti da tutta Italia. Nei giorni precedenti il corteo, ne abbiamo identificato alcuni provenienti da Trieste, Torino, Lecce, da gran parte della Calabria, in particolare dalla provincia di Cosenza”, ha aggiunto Ambra.

Dall’esame dei filmati emerge che “il nocciolo duro dei contestatori, diverse decine posti nelle prime file del corteo, era composto da antagonisti catanesi, altri provenienti da Palermo e Reggio Calabria. Continueremo a esaminare i filmati della polizia Scientifica, nei quali si vedono immagini chiare dei facinorosi. Insieme a colleghi delle altre Digos, lavoreremo per identificarli tutti”, ha concluso il capo della Digos.