Vi aspettiamo in tanti, numerosi, numerosissimi e coloratissimi per il corteo del Catania Pride. Portate amici, genitori, zii, vicini di casa, cani, gatti, Catania Pride 2 Luglio Catania concentramento: 17.30 in Piazza Cavour Percorso: Piazza Cavour, Via Etnea, Via San Giuliano, conclusione in Piazza Teatro Massimo

Ringrazio l’ARCIGAY Catania per aver voluto che fossi la Madrina del Catania Pride
Personalmente è un onore partecipare sia come Madrina ma anche come presidente ANPI Provinciale Catania
In un momento come quello che stiamo attraversando dove l’odio, il razzismo, l’omofobia e il femminicidio sembra che stiano imperando è necessario non rinchiudersi ma scendere in piazza.
Non è con la paura che si combatte la violenza, l’odio ma reagendo con l’amore, far capire ai cittadini che amare il prossimo tuo come te stesso non è solo un comandamento ma è l’amore fra gli esseri umani.
Invito tutte e tutti a partecipare
Santina Sconza
presidente ANPI Provinciale Catania 13497986_1119132281483220_1486028776062204329_o

Fonte: rifondazione.it Voto sul referendum inglese sulla brexit al Parlamento Europeo

Riguardo la #Brexit, il gruppo Gue-Ngl ha presentato la mozione di seguito riportata.
Il gruppo parlamentare della Sinistra Unitaria Europea, nel quale la delegazione italiana è guidata da Eleonora Forenza, ha votato la mozione di maggioranza (popolari, socialisti, liberali e verdi) in quanto non conteneva il minimo riferimento alla necessità di cambiare questa Europa.

La mozione del gruppo Gue-Ngl:

Il Parlamento europeo,

– visto l’articolo 123, paragrafo 2, del suo regolamento,

A. considerando che il popolo di uno Stato membro ha preso la decisione storica di uscire dall’Unione europea a seguito di un referendum;

B. considerando l’esito del referendum in cui il popolo britannico ha chiaramente votato a favore della Brexit; considerando altresì che le crescenti critiche nei confronti dell’UE non solo non possono essere ignorate, ma dovrebbero essere affrontate mediante un’agenda di riforma di ampia portata, che garantisca trasparenza, apertura e democratizzazione, nonché una più forte partecipazione dei cittadini;

C. considerando che l’esito del referendum dimostra che le crescenti disuguaglianze sociali ed economiche fra gli Stati membri e in seno ad essi rappresentano una delle principali minacce alla stabilità e alla coesione dell’UE;

D. considerando che l’articolo 50 del trattato sull’Unione europea (TUE) prevede che uno Stato membro possa recedere dall’Unione;

E. considerando che l’intesa raggiunta in occasione del Consiglio europeo del febbraio 2016 tra David Cameron, a nome del governo britannico, e l’Unione europea, è ormai nulla;

1. rispetta la decisione del popolo britannico, che dovrebbe essere vista come uno stimolo a costruire un’altra Europa;

2. chiede che l’articolo 50 TUE sia immediatamente applicato;

3. ricorda che l’articolo 50 TUE prevede che il Parlamento dia la sua approvazione e chiede che tale istituzione sia coinvolta in tutte le fasi dei negoziati riguardanti l’accordo di recesso;

4. rammenta che tutte le decisioni riguardanti le relazioni future tra l’UE e il Regno Unito, dopo l’uscita di quest’ultimo, devono essere il risultato di un processo democratico e coinvolgere sia il Parlamento europeo che i parlamenti nazionali;

5. sottolinea che l’esito del referendum dimostra che è necessaria un’altra Europa, la quale dovrà essere costruita con l’accordo dei cittadini, che si aspettano decisioni concrete su questioni sociali quali l’occupazione, la trasparenza e il welfare, e il rifiuto delle misure di austerità;

6. sottolinea che l’esito del referendum e la decisione del popolo britannico dimostrano chiaramente che l’UE sta attraversando una profonda crisi, che è il risultato delle politiche neoliberali e di austerità, e dell’erosione della democrazia; ritiene pertanto che per l’UE sia giunto il momento di affrontare i problemi reali dei cittadini per il tramite di un profondo cambiamento di politica atto a soddisfare le loro aspettative;

7. ribadisce la difesa di valori quali la democrazia, la pace, la tolleranza, il progresso e la solidarietà, nonché la cooperazione fra i popoli; condanna le forze nazionaliste di destra in ascesa ed evidenzia il fatto che la via da seguire deve essere quella di un’Europa che si assume maggiori responsabilità quanto all’accoglienza dei rifugiati, anziché chiudere le proprie frontiere a coloro che fuggono guerre e conflitti;

8. osserva che i cittadini dell’Irlanda del Nord hanno scelto di rimanere nell’UE; è del parere che il governo britannico abbia perso ogni mandato a rappresentare gli interessi dei cittadini dell’Irlanda del Nord in relazione all’UE;

9. ritiene che vi sia l’esigenza democratica di tenere un referendum sull’unità irlandese, quale previsto dall’Accordo del Venerdì santo;

10. invita l’UE a continuare a sostenere il processo di pace in Irlanda;

11. incarica il suo Presidente di trasmettere la presente risoluzione al Consiglio e alla Commissione nonché ai governi e ai parlamenti degli Stati membri.

Fonte: help consumatori “L’unica possibilità di salvare le coste italiane è dare vita ad aree protette”. I dati choc di Legambiente

Qual è il futuro delle coste italiane? Negli ultimi decenni al ritmo di 8 km all’anno, il 51% dei nostri litorali sono stati trasformati da palazzi, alberghi e ville. Un terzo delle spiagge è interessato da fenomeni erosivi. Nel 2014 sono state accertate 14.542 infrazioni (40 al giorno, 2 ogni km) tra reati inerenti al mare e alla costa. Questa la foto delle coste italiane analizzate a 360 gradi dal Rapporto Ambiente Italia 2016 di Legambiente, presentato ieri a Roma.

Con ben 16 contributi di esperti, il Rapporto fornisce una fotografia dettagliata dello stato delle nostre coste che sono al centro di uno dei mari più delicati del pianeta per ragioni ambientali ma anche culturali e commerciali, banco di prova imprescindibile rispetto ai cambiamenti climatici, sui quali pesano le conseguenze di politiche miopi e inefficienze storiche. L’habitat marino è costantemente messo alla prova dall’inquinamento, con il 25% degli scarichi cittadini ancora non depurati (40% in alcune località) e ben 1.022 agglomerati in procedura di infrazione europea. Il 45% dei prelievi realizzati da Goletta Verde nel 2015 è risultato inquinato, mentre la plastica continua a colonizzare spiagge e fondali marini. Solo il 19% della costa (1.235 chilometri) è sottoposta a vincoli di tutela.
“Le coste sono uno straordinario patrimonio del nostro Paese che dobbiamo liberare dalla pressione di cemento e inquinamento – ha dichiarato Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente e curatore insieme a Sebastiano Venneri e Giorgio Zampetti del volume – Il Rapporto Ambiente Italia presenta una fotografia di questi impatti con dati davvero inquietanti e studi che dimostrano come sia possibile invertire questa situazione attraverso un cambio delle politiche. Proprio la sfida che i cambiamenti climatici pongono alle aree costiere del Mediterraneo, con impatti significativi sugli ecosistemi, sulla linea di costa e sulle aree urbane, deve portare a una nuova e più incisiva visione degli interventi. Occorre rafforzare la resilienza dei territori ai cambiamenti climatici e spingere verso la riqualificazione e valorizzazione diffusa del patrimonio costiero”.
Tra le minacce incombenti il fenomeno dell’erosione costiera, che oggi interessa in maniera più o meno diffusa tutte le regioni italiane, come racconta nel suo contributo Enzo Pranzini. Oggi più di un terzo delle nostre spiagge è in erosione e il futuro sembra ancora più arduo per l’innalzamento del livello del mare e l’intensificarsi dei fenomeni climatici estremi, cui attualmente non stiamo dando risposte adeguate. In molti casi, per rispondere all’emergenza locale, si è intervenuti con la costruzione di scogliere aderenti alla costa che hanno, di fatto, solo spostato il problema, col risultato che oggi abbiamo interi tratti di costa coperti da scogliere artificiali, che non permettendo il ricambio idrico e la sedimentazione delle sabbie, contribuiscono al progressivo abbassamento dei fondali e ai possibili crolli cui si tenta di rispondere con strutture sempre più massicce e impattanti. Inoltre, queste difese artificiali provocano correnti pericolose che possono causare annegamenti. Di recente si è passati a utilizzare la tecnica del ripascimento dei litorali che sembra aver avuto maggiore efficacia ma che ha costi economici superiori.
D’altra parte, spiega Michele Manigrasso parlando di consumo di suolo, in Italia, il 51% delle coste è stato trasformato dall’urbanizzazione. Legambiente ha realizzato una analisi di dettaglio dei 6.477 chilometri di costa da Ventimiglia a Trieste e delle due isole maggiori, senza considerare quindi le numerose isole minori: 3.291 chilometri sono stati trasformati in modo irreversibile, nello specifico 719,4 chilometri sono occupati da industrie, porti e infrastrutture, 918,3 sono stati colonizzati dai centri urbani. Un altro dato preoccupante riguarda la diffusione di insediamenti a bassa densità, con ville e villette, che interessa1.653,3 chilometri, pari al 25% dell’intera linea di costa. Tra le regioni, la Sicilia ha il primato assoluto di km di costa caratterizzati da urbanizzazione meno densa ma diffusa (350 km), seguita da Calabria e Puglia; la Sardegna è invece la regione più virtuosa per quantità di paesaggi naturali e agricoli ancora integri e comunque è la regione meno urbanizzata d’Italia. E’ davvero preoccupante sottolineare come dal 1988 ad oggi, malgrado fosse in vigore la legge Galasso che avrebbe dovuto tutelare le aree entro i 300 metridalle coste, sono stati trasformati da case e palazzi ulteriori 220 chilometri di coste, con una media di 8 km all’anno, cioè 25 metri al giorno. Tra le regioni più devastate la Sicilia con 65 km, il Lazio con 41 e la Campania con 29. Nelle aree costiere, secondo i dai Istat, nel decennio 2001 – 2011 sono sorti 18mila nuovi edifici. Ben 700 edifici per chilometro quadrato sia in Sicilia che in Puglia, 600 inCalabria ma anche 232 per chilometro quadrato in Veneto, 308 inFriuli Venezia Giulia e 300 in Toscana, Basilicata e Sardegna.
E i nostri mari continuano a essere minacciati dai problemi di inquinamento, per i ritardi nella depurazione di troppe città, non solo costiere, che fanno scappare i turisti. La maladepurazione riguarda il 25% dei cittadini italiani. Dato confermato purtroppo anche da due sentenze di condanna della commissione europea (nel 2012 e 2014) e da una procedura aperta nel 2015 per il mancato rispetto della direttiva 91/271sulla depurazione degli scarichi civili. Sono ben 1.022 (il 32% del totale), gli agglomerati coinvolti dai procedimenti europei: 81% di quelli Campani, il 73% della Sicilia, il 62% della Calabria. Problema non proprio ininfluente, visto che le sanzioni costeranno 476 milioni di euro l’anno dal gennaio 2016 a completamento delle opere. In positivo, le regioni più virtuose per depurazione sono il Veneto con “solo” il 17% dei comuni coinvolti, la Toscana col 18% e il Friuli Venezia Giulia col 24%. Anche le analisi delle acque condotte da Goletta verde nel 2015 sono risultate inquinate nel 45% dei casi. Complessivamente leinfrazioni accertate ai danni delle coste e del mare nel solo 2014 sono state 14.542, pari a 40 al giorno, 2 ogni chilometro di costa, con 18mila persone denunciate e ben 4.777 sequestri effettuati. Le infrazioni inerenti specificatamente all’inquinamento sono state 4.545, il 31% del dato nazionale, con 7mila persone denunciate o arrestate e 2.741 sequestri. Uno dei fenomeni più preoccupanti di inquinamento del mare è la quantità di rifiuti presenti, e in particolare di plastica galleggiante. Legambiente ha realizzato un’attività di monitoraggi della beach litter, con Goletta Verde che viene raccontata nel volume, e che dimostra come serva una strategia per ridurre i rifiuti portati dai fiumi e quelli prodotti dalle attività presenti nel Mediterraneo.
“Per il futuro delle aree costiere – ha dichiarato Rossella Muroni, presidente nazionale di Legambiente – abbiamo la possibilità di ispirarci e scegliere un modello che si è già rivelato di successo. Quello delle aree protette e dei territori che hanno scelto di puntare su uno sviluppo qualitativo e che stanno vedendo i frutti positivi anche in termini di crescita del turismo. Come il sistema di 32 aree protette nazionali, che sono un esempio virtuoso di gestione delle aree costiere di cui essere orgogliosi. O come i Comuni che ogni anno Legambiente premia con le cinque vele, che dimostrano come la strada più lungimirante sia oggi quella che coniuga la tutela del territorio con la valorizzazione e recupero del patrimonio edilizio esistente. Per dare una spinta a questa prospettiva occorre però che ci siano regole chiare, senza dimenticare che il nostro Paese deve anche muovere le ruspe per demolire le migliaia di case abusive che deturpano le nostre coste e avviare operazioni di riqualificazione in aree che potranno, in questo modo, avere un futuro turistico fuori dal degrado”.

15 fatti sul collasso dell’economia USA che il mainstream non vuole farti conoscere da: resistenze.org

Michael Snyder  | theeconomiccollapseblog.com
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

15/06/2016

Stiamo per conoscere la prova inconfutabile che l’economia USA è in rallentamento da un bel po’ di tempo. Ed è vitale che prestiamo attenzione ai fatti, perché in tutta Internet troverete molte e molte persone che esprimono  opinioni su cosa sta accadendo all’economia. E naturalmente i media mainstream cercano sempre di mettere le cose in modo che Barack Obama ed Hillary Clinton ne vengano fuori bene, perché quelli che lavorano nei media mainstream sono molto più liberisti della popolazione americana nel suo complesso. E’ vero che anch’io ho la mia opinione, ma come avvocato ho imparato che le opinioni non significano nulla finché non sono corroborate dai fatti. Pertanto lasciatemi per cortesia qualche minuto per condividere con voi le prove che dimostrano chiaramente che siamo entrati in una grande recessione economica. I 15 fatti che seguono riguardano l’economia USA che sta implodendo e sono fatti che i media mainstream non vogliono farvi sapere…

1. La produzione industriale è in declino da oltre nove mesi di fila. Non abbiamo mai visto accadere questo nella storia degli USA al di fuori dei periodi di recessione.

2. I fallimenti negli USA sono aumentati sulla base annua per sette mesi di fila e sono ora oltre il 51% in più da settembre.

3. Il tasso di criminalità sui mutui commerciali ed industriali è in aumento sin da gennaio 2015.

4. Il totale degli scambi commerciali negli USA è andato stabilmente scendendo fin dalla metà del 2014. No, non ho detto 2015. Il totale degli scambi commerciali è oggi in declino da quasi due anni e abbiamo appena saputo che è sceso ancora…

Il totale degli scambi in USA ha fatto in aprile quello che sta facendo da luglio del 2014: è crollato: -2,9% dall’anno scorso fino agli 1,28 miliardi di miliardi di dollari che l’ufficio statistiche (Censues Bureau) ha riportato mercoledì. Questi sono stati gli scambi di aprile 2013!

5. Gli ordinativi delle imprese USA stanno crollando da 18 mesi di fila.

6. L’indice di cassa delle spedizioni via nave è in caduta su base annua da 15 mesi consecutivi.

7. La produzione USA di carbone è scesa ai più bassi livelli da 35 anni a questa parte.

8. Goldman Sachs ha il suo indicatore interno dell’economia USA ed è sceso al livello più basso fin dall’ultima recessione.

9. Gli “indici di recessione” di JP Morgan sono saliti al livello più alto mai visto dall’ultima recessione.

10. il gettito fiscale federale e quello statale di solito iniziano a scendere nel momento in cui si entra in una nuova recessione, ed è precisamente ciò che sta accadendo adesso.

11. L’indice delle condizioni del mercato del lavoro della Federal Reserve è in caduta da cinque mesi di fila.

12. Le cifre dell’occupazione che il governo ha diffuso per l’ultimo mese sono state le peggiori mai viste negli ultimi sei anni.

13. Secondo Challenger, Gray & Christmas, le richieste di cassa integrazione per le principali imprese sono in aumento del 24 % in più quest’anno di quanto lo erano nello stesso periodo dell’anno scorso.

14. Le offerte di lavoro on-line sul sito del network d’affari LinkedIn sono in costante calo da febbraio, dopo 73 mesi che erano in stabile crescita.

15. Il numero dei lavoratori temporanei negli USA raggiunse il picco e scese precipitosamente prima che iniziasse la recessione del 2001. La stessa identica cosa successe un attimo prima dell’inizio della recessione del 2008. Così, vi sorprenderebbe venire a sapere che il numero dei lavoratori temporanei ha avuto il picco in dicembre e da allora è  drammaticamente sceso?

Solo ieri abbiamo appreso che due delle nostre più grandi società licenzieranno sempre più lavoratori. Bank of America, che è in possesso del nostro denaro più di ogni altra banca del paese, ha annunciato tagli per ulteriori 8000 lavoratori.

Si prevede che Bank of America ridurrà il personale nel proprio settore del credito al consumo di 8000 posti.

La banca al dettaglio più grande della nazione per depositi ha già ridotto il personale nel suo settore di credito al consumo da più di 100.000 nel 2009 a circa 68.400 alla fine del primo quarto del 2016, ha detto Thong Nguyen, Presidente dei servizi bancari al dettaglio di Bank of America e coamministratore del credito al consumo alla Morgan Stanley Financials Conference di martedì.

E Wal-Mart ha annunciato che sta eliminando i ruoli contabili nell’amministrazione in circa 500 punti vendita.

Wal-Mart sta cercando di tagliare ruoli contabili in amministrazione in 500 negozi nel tentativo di diventare più efficiente.

I tagli avverranno prevalentemente nei negozi dell’ovest e coinvolgeranno lavoratori della contabilità e delle spedizioni, ha detto il portavoce Kory Lundberg. Al loro posto, le funzioni di contabilità verranno deviate alla sede centrale di Walmart, a Bentonville, Ark. La cassa dei negozi verrà contabilizzata dai computer.

Giorno per giorno sentiamo di tagli ed esuberi come questi qui. E allora perché questo accadrebbe se l’economia degli USA fosse veramente in ripresa?

Anche con i dati del PIL manipolati come lo sono in questi giorni, Barack Obama si avvia ad essere l’unico Presidente in tutta la Storia degli Stati Uniti che non ha avuto un singolo anno in cui l’economia sia cresciuta di almeno il 3 per cento. La verità è che la nostra economia si è impantanata già dalla fine dell’ultima recessione ed ora è chiaramente iniziato un nuovo ciclo recessivo.

E sapete chi altri lo hanno capito, questo?

Gli investitori stranieri.

Lo scorso mese, gli investitori stranieri si sono liberati dei titoli di debito USA con la velocità più alta che sia mai stata registrata…

Gli investitori stranieri hanno venduto una quota record di titoli ed obbligazioni del Tesoro USA per il mese di aprile, secondo i dati del Dipartimento del Tesoro degli USA di mercoledì, così come gli stessi investitori hanno fissato il prezzo di pochi punti superiore a quello della Federal Reserve di quest’anno.

Gli stranieri hanno venduto 74,6 miliardi di dollari del debito del Tesoro USA nel mese, dopo averne acquistato 23,6 miliardi in Marzo. Lo squilibrio in uscita di aprile è stato il più grande da quando il Dipartimento del Tesoro degli USA ha iniziato a registrare le transazioni sul debito nel gennaio 1978.

Non c’è più da discutere – la prossima crisi economica è già qui. A questo punto, ciò è così ovvio che anche George Soros sta febbrilmente vendendo titoli ed acquistando oro.

Potremmo discutere se l’economia USA abbia iniziato la fase recessiva nell’ultimo 2015, nel primo 2015 o nell’ultimo 2014, ed è un bene che si facciano tali discussioni.

Ma alla fine della fiera, ciò chè è molto più importante e quello che ci troveremo davanti. Fortunatamente, la nostra recessione è stata fino ad ora abbastanza graduale, e speriamo che si mantenga così il più a lungo possibile.

In molti altri posti del mondo, le cose sono già in conclamata modalità panico. Fino ad ora, il Venezuela era stato una delle nazioni più ricche del sudamerica, ma ora la gente ha iniziato letteralmente a cacciare cani e gatti per mangiarli.

In assenza di un grande evento riconoscibile e imprevedibile di qualche sorta, non vedremo ciò che sta succedendo negli Stati Uniti ancora per un po’, ma senza dubbio stiamo correndo a tutto vapore verso una grande depressione economica.

Sfortunatamente per tutti noi, non c’è nulla che qualsivoglia nostro politico sia in grado di fare per fermarlo.

Comunicato stampa del CC del KKE sul risultato del referendum in Gran Bretagna sull’uscita dalla UE da: resistenze.org

Partito Comunista di Grecia (KKE) | kke.gr
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

24/06/2016

Il risultato del referendum nel Regno Unito dimostra il crescente malcontento della classe operaia e delle forze popolari verso l’UE e le sue politiche antipopolari. Tuttavia queste forze devono svincolarsi dalle scelte di specifiche sezioni della borghesia e delle loro forze politiche, acquisendo caratteristiche radicali e anticapitaliste. Il risultato registra la disillusione delle aspettative alimentate da tutti i partiti borghesi, come in Grecia, in sinergia coi meccanismi dell’UE, ossia che i popoli possano vivere in prosperità all’interno dell’UE.

Il fatto che la questione del ritiro di un paese dall’UE sia stata posta in modo così spinto – e in un paese delle dimensioni della Gran Bretagna – è dovuto da un lato alle contraddizioni interne all’UE e all’ineguaglianza delle sue economie e dall’altro allo scontro in atto tra i centri imperialisti, per la recrudescenza della recessione economica. Questi fattori rafforzano il cosiddetto euroscetticismo, le tendenze separatiste e altre tendenze che cercano un cambiamento nella forma di gestione politica dell’UE e dell’eurozona.

I vettori reazionari dell’euroscetticismo, sono i partiti nazionalisti, razzisti e fascisti, come il Partito per l’Indipendenza del Regno Unito di Farage (UKIP), il Fronte Nazionale di Lepen in Francia, la “Alternativa per la Germania” e formazioni simili in Austria, Ungheria e in Grecia, per esempio la formazione fascista Alba Dorata, Unità nazionale di Karatzaferis e altri. Ma l'”euroscetticismo” è espresso anche da partiti che utilizzano l’etichetta di sinistra, criticano o rifiutano l’UE e l’euro, sostengono una valuta nazionale e cercano altre alleanze imperialiste, con una strategia che opera nel quadro del capitalismo.

Queste contraddizioni e antagonismi permeano le classi borghesi di ogni stato membro dell’UE. I processi economici e politici in corso, sia in Gran Bretagna che nell’UE, i negoziati relativi alla posizione della borghesia inglese il giorno dopo, possono portare a nuovi temporanei accordi tra l’UE e il Regno Unito. Quello che è certo è che fino a quando la proprietà capitalistica dei mezzi di produzione e il potere borghese restano in piedi, qualsiasi sviluppo sarà accompagnato da nuovi dolorosi sacrifici per la classe operaia e le forze popolari.

Il risultato del referendum in Gran Bretagna espone le altre forze politiche greche, che nel corso degli anni passati benedivano la partecipazione della Grecia nell’Unione europea, presentandola come un processo irreversibile o seminando l’illusione circa la necessità di ancora “più Europa della democrazia e della giustizia”. Espone anche quelle forze che considerano la valuta nazionale come la panacea che porterà alla prosperità. La Gran Bretagna con la sua sterlina ha adottato le stesse misure antioperaie e antipopolari degli altri paesi della zona euro. E continuerà a prendere le stesse misure al di fuori dell’UE, in quanto è essenziale per la competitività e redditività dei suoi monopoli.

È certo che nei prossimi giorni le voci e le “lacrime” si moltiplicheranno, sia da parte del governo SYRIZA-ANEL che da parte degli altri partiti borghesi sulla “necessità di una nuova fondazione dell’Unione Europea”, sul fatto che la “UE ha perso la sua strada e c’è bisogno di tornare alle sue radici”, ecc. Tuttavia, l’Unione Europea sin dalla sua creazione è stata ed è un’alleanza reazionaria delle classi borghesi dell’Europa capitalista, con l’obiettivo di spremere il sudore dei lavoratori e derubare gli altri popoli del mondo, nel quadro della concorrenza con gli altri centri imperialisti. Non è stato e non sarà un accordo permanente, così come le alleanze simili del passato non sono state permanenti. L’ineguaglianza e la concorrenza capitalista, i mutamenti nei rapporti di forza, prima o poi portano le contraddizioni alla superficie, contraddizioni che non si potranno più colmare con compromessi temporanei e fragili. Allo stesso tempo sul terreno del capitalismo giungeranno a buon fine nuovi fenomeni e processi per nuove alleanze reazionarie.

Gli interessi del popolo greco, del popolo britannico, di tutti i popoli d’Europa non devono porsi sotto una “falsa bandiera”. Non devono schierarsi sotto le bandiere della borghesia e delle sue varie sezioni, che determinano le loro scelte e le loro alleanze internazionali in base ai loro interessi e sulla base del massimo sfruttamento possibile dei lavoratori. La condanna necessaria dell’alleanza predatoria del capitale, l’Unione europea, la lotta per il disimpegno di ogni paese da essa, per essere efficaci, devono essere collegate al rovesciamento del potere del capitale da parte del potere operaio e popolare. L’alleanza sociale della classe operaia e degli altri strati popolari, il raggruppamento e il rafforzamento del movimento comunista internazionale sono precondizioni per aprire la strada per questa prospettiva di speranza.

Dichiarazione dell’Ufficio stampa del CC del KKE

Si segue la pista Isis Aeroporto di Istanbul, terroristi sparano sulla folla e si fanno esplodere: 36 morti e 147 feriti da: rainews.it

 Decine di morti e feriti all’aeroporto Ataturk di Istanbul dove un commando di 3 (forse 7) persone ha aperto il fuoco sulla folla al terminal internazionale. Poi 3 di loro si sono fatti saltare in aria al parcheggio dei taxi Tweet Prime immagini dall’aeroporto Ataturk di Istanbul In 13 anni sono stati 17 gli attentati più importanti che hanno colpito la Turchia Attentato aeroporto di Istanbul: l’arrivo dei feriti in ospedale Istanbul, attentato aeroporto Ataturk: le drammatiche immagini dei primi soccorsi Turchia, attacco all’aeroporto: il momento delle esplosioni ripreso dalle telecamere di sorveglianza 29 giugno 2016 Almeno 3 terroristi (forse sette) armati di kalashnikov hanno aperto il fuoco intorno alle 22 locali ai controlli di sicurezza nella zona degli arrivi dell’aeroporto Ataturk, provocando 37 morti e 147 feriti. Poco dopo, si sono fatti saltare in aria durante uno scontro a fuoco con la polizia al parcheggio dei taxi. Allo stato attuale però l’unica certezza, purtroppo, riguarda il numero delle vittime perchè la dinamica degli avvenimenti è ancora poco chiara. Secondo fonti della polizia il commando sarebbe stato composto da 7 persone, di cui altre 3 sarebbero in fuga e 1 arrestata. Lo scalo è rimasto chiuso per diverse ore sia ai voli in partenza che a quelli in arrivo, dirottati su altri aeroporti. Come indica il sito web dell’aeroporto, stamattina è ripresa l’attività, anche se con modalità ridotte rispetto al normale. Le esplosioni udite nello scalo sono state almeno 3. Sul posto decine di ambulanze. Alcuni testimoni raccontano di scene drammatiche con feriti portati via anche in taxi. Non si hanno ancora notizie sull’identità delle persone coinvolte. L’aeroporto Ataturk ha un doppio sistema di controlli di sicurezza, il primo dei quali all’ingresso dello scalo, ancor prima di arrivare ai banchi di accettazione. E’ lì che è avvenuto almeno uno degli attacchi, mentre spari sono stati uditi anche in un parcheggio vicino. L’azione terroristica è stata confermata direttamente dal ministro della Giustizia turco, Bekir Bozdag. Il primo ministro turco Binali Yildirim afferma che finora tutte le indicazioni suggeriscono che ci sia la mano dell’Isis dietro all’attacco all’aeroporto. Yildirim spiega che gli aggressori sono arrivati all’aeroporto in taxi e si sono fatti esplodere dopo aver aperto il fuoco. Alla domanda se un quarto aggressore possa essere fuggito, ha detto che le autorità non hanno tale valutazione ma stanno prendendo in considerazione ogni possibilità. Il premier turco ha aggiunto che tra le vittime ci sono alcuni stranieri e che molti tra i feriti hanno lesioni lievi, ma altri sono in gravi condizioni. Yildirim fa notare infine come l’attacco arrivi mentre la Turchia sta avendo successo nella lotta al terrorismo e sta cercando di normalizzare i rapporti con i paesi vicini come la Russia e Israele. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha condannato l’attacco, ricordando che è avvenuto durante il mese sacro islamico del Ramadan. Messaggi di solidarietà sono giunti alla Turchia da tutto il mondo. Il segretario generale delle Nazioni unite Ban Ki-moon ha condannato “l’attacco terroristico” di ieri sera all’aeroporto Ataturk di Istanbul, chiedendo che i responsabili siano identificati e portati davanti alla giustizia. Un messaggio di vicinanza e cordoglio è arrivato dal primo ministro Renzi:”Voglio esprimere solidarietà e vicinanza al popolo turco. Quel che sta avvenendo a Istanbul conferma la necessità di una risposta forte e coesa al terrorismo. Esprimo a nome del governo e del popolo italiano solidarietà al popolo turco”. – See more at: http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Aeroporto-di-Istanbul-terroristi-sparano-sulla-folla-e-si-fanno-esplodere-36-morti-e-147-feriti-48eaab7f-b076-480c-ac58-2757e5372e5c.html

Calcio e Nazionali, il gender pay gap riguarda anche loro da: ndnoidonne

E’ tempo di Europei, di calcio mercato e inevitabilmente di cifre, ma è passata inosservata la notizia che la nazionale di calcio femminile degli Stati Uniti ha vinto i Mondiali e ha guadagnato una cifra milionaria ben al di sotto di…

inserito da Silvia S. G. Palandri

Calcio e Nazionali, il gender pay- gap riguarda anche loro
Silvia S. G. Palandri

In periodo di Campionato Europeo di calcio, di calcio mercato e di relativi numeri e cifre, non ha trovato spazio, tra le reti delle squadre nazionali, la notizia che la Nazionale di calcio femminile statunitense ha ottenuto una proposta di legge arrivata fino al Senato americano con la quale richiede parità salariale con i suoi colleghi.
La Nazionale di calcio femminile degli Stati Uniti infatti ha vinto i Mondiali e per questo ha ricevuto un premio di ben 2 milioni di dollari che però messo a confronto con i 30 milioni vinti dalla Nazionale tedesca nel 2014 per la stessa vittoria mondiale fa risaltare una disparità eclatante che ha portato la Nazionale di calcio femminile a protestare apertamente per questo trattamento di palese disuguaglianza. Le giocatrici stesse hanno stimato di guadagnare ben il 25% in meno rispetto ai loro colleghi.
La senatrice Patty Murray ha così deciso di supportare la loro protesta e con altri venti senatori ha presentato una risoluzione che è stata largamente approvata. La Risoluzione tuttavia non ha alcun effetto legale ma solo una valenza di pressione pubblica sugli enti governativi del calcio tanto che un altro senatore, Patrick Lealhy, ha pensato di presentare direttamente alla FIFA un’altra petizione che però è stata duramente osteggiata ritenendo più urgenti e necessarie altre questioni per il Paese. Ma questa risoluzione non è la sola proposta sull’equità salariale a giacere dimenticata, infatti anche il “Paycheck Fainess Act” che apporterebbe ulteriori garanzie alla parità retributiva a livello federale, aggiornando la “Equal Pay Act” del 1963, è per ora fermo al Senato così che è ancora in vigore la legge di epoca “kennediana”.

L’ unica legge recente approvata sull’equità salariale è stata quella del 2009, la “Lilly Ledbetter Fair Pay Act” firmata dal Presidente Obama all’inizio del suo primo mandato. Con questa legge si è voluto marcare una realtà di disequilibrio esistente tra i salari maschili e quelli femminili cercando di sancire per legge la parità salariale a parità di mansione. Questo provvedimento legislativo porta il nome della cittadina americana, Lilly Ledbetter, che una volta in pensione si è resa conto di percepire una somma inferiore ben al 40% rispetto ai suoi colleghi e che dopo una battaglia legale contro la sua ex azienda non ha visto riconosciute le sue istanze, perdendo la causa.

Sarà stato per evitare questo effetto sorpresa che in Germania, dove le donne guadagnano il 22% in meno rispetto ai colleghi, la Ministra alle politiche familiari, per gli anziani, le donne e i giovani, Manuela Schwesig ha presentato lo scorso anno un disegno di legge preliminare per risolvere il pay-gap che avrebbe dovuto dare i suoi effetti già nel 2016 se non si fosse arenato in Parlamento osteggiato dalle numerose critiche di fattibilità sia a livello economico per le aziende sia per la conseguente paura per i livelli occupazionali femminili; per alcuni infatti questa uguaglianza scoraggerebbe le aziende nell’assumere le donne.
Questa legge propone tra l’altro, come strumento di garanzia di parità salariale, la pubblicazione online degli stipendi dei relativi colleghi, non a livello nominale ma per categoria, così che ognuno può confrontare e verificare l’adeguatezza della propria remunerazione.
Nel resto d’Europa la situazione per le donne è altrettanto poco remunerativa visto la media del divario salariale che si attesta al 16.4% e dove in Spagna una donna guadagna il 17% in meno di un collega o in Francia il 15% e riceve una busta paga più leggera del 20% in Ungheria, del 30% in Estonia, del 19.4% in Finlandia e del 23.4% in Austria.
La situazione si presenta simile anche in paesi fuori dall’Unione Europea come la Svizzera dove a Febbraio scorso è stata attivata la campagna “Equal Pay Day” con l’intento di far reinserire nella programmazione legislativa 2016-2019, la legge per l’equità salariale che è sancita dall’art.8 della Costituzione Elvetica e che invece il Consiglio Nazionale ha stralciato dal Programma di Legislatura triennale.
La legge per la parità salariale tra uomini e donne prevedeva misure concrete che, a detta dei promotori della campagna, avrebbero permesso di superare lo squilibro di retribuzione che nel paese elvetico è pari al 18.4%.

In Italia la situazione non è diversa dal resto d’Europa se la stima percentuale dei salari femminili, calcolata per ore lavorative, secondo uno studio dell’Unione Europea è pari al 6.7% in meno rispetto agli stipendi maschili. E nel Calcio? Il Calcio e tutti gli sport italici vengono regolati dal CONI e dalle sue Federazioni che ad oggi non hanno modificato le regole per le quali gli sport femminili risultano estromessi dal professionismo in base ad una legge del 1981, la n. 91 del 23 Marzo, che definisce i requisiti dell’atleta professionista, i quali sono materia esclusiva delle Federazioni. Così le donne sono e rimangono delle “dilettanti”.
L’Associazione Nazionale Atlete, ASSIST, nell’incontro annuale tenutosi a livello nazionale ha voluto rendere nota questa palese situazione di disuguaglianza e discriminazione che affligge le donne non solo sul piano economico ma che incide a livello di considerazione sociale e di valutazione prestazionale.
La protesta delle atlete è stata recepita dal ddl n. 1996 “Idem-Fedeli” del 2015 per volontà della Vice-Presidente del Senato Valeria Fedeli e della Senatrice Josefa Idem e che volge al pieno riconoscimento professionale delle atlete italiane.
Il ddl “Modifiche alla Legge 23 marzo 1981 n. 91, per la promozione dell’equilibrio di genere nei rapporti tra società e sportivi professionisti” è stato presentato nel Luglio dello scorso anno e dopo la lettura in Senato, seguita alla presentazione, è a tutt’oggi in attesa di discussione.
La FIGC, Federazione Italiana Gioco Calcio, da parte sua sta tentando una riabilitazione del ruolo e delle abilità femminili. Di fatto i club di calcio femminile rientrano nella Lega Nazionale Dilettanti, LDN, tuttavia per la stagione 2015-2016 le società professionistiche di Serie A e Serie B maschili sono tenute a tesserare almeno 20 ragazze under 21 per aumentare la possibilità che le donne possano competere nelle varie categorie a seconda dell’età. Si è inoltre data la possibilità di cedere il titolo sportivo per invogliare i club professionisti ad interessarsi al calcio femminile anche nei livelli più avanzati.
Questi accorgimenti sono stati previsti nell’ambito delle Linee Programmatiche per lo Sviluppo del Calcio Femminile. Nel frattempo, forse anche grazie a queste decisioni, come primo effetto, c’è stato un contratto di sponsorizzazione per una centrocampista, Aurora Galli, con una nota marca di scarpe e prodotti sportivi italiana che per la prima volta ha scelto come sponsor una calciatrice.
Un assist favorevole dalla FIGC quindi al Calcio Femminile che dovrebbe dare i suoi risultati nel tempo ma che può portare a vincere la partita più importante, quella della parità in ogni campo, economico e professionale.

Migranti, più di cento Ong contro il piano dell’Ue: “La violazione dei diritti umani genererà altri rifugiati” Autore: fabrizio salvatori da. controlacrisi.org

L’Europa rischia di distruggere la sua politica estera sui diritti umani e di pregiudicare il diritto d’asilo: la denuncia arriva da ben 104 Ong firmatarie di un appello contro il piano della Commissione Ue sull’immigrazione, questa settimana all’esame di un vertice a Bruxelles.

“La complicita’ e la responsabilita’ per le violazioni dei diritti umani non terminano ai confini dell’Europa” sottolineano le organizzazioni non governative. Nel documento si evidenzia che gli accordi per la “gestione dell’immigrazione” con Paesi dove i diritti umani sono violati “saranno nel lungo termine controproducenti”. Intese del genere, continuano le Ong, finiranno per “compromettere i diritti umani nel mondo e perpetuare il ciclo di violazioni e repressione che costringe le persone a fuggire”.

Il piano Ue propone di usare aiuti, scambi commerciali e altre forme di finanziamento per incoraggiare i Paesi di origine e di transito dei migranti a ridurre il numero delle partenze verso l’Europa. Secondo Amnesty International, firmataria dell’appello insieme con World Vision, Oxfam e Save the Children, la strategia e’ la stessa dell’accordo sottoscritto tra l’Ue e la Turchia. Un’intesa, denunciano le Ong, “che ha lasciato migliaia di persone intrappolate in Grecia in condizioni disumane e degradanti”

Crisi, dopo i dati sul calo di imprese e famiglie Confesercenti prevede una ulteriore frenata dei consumi a fine anno Autore: fabrizio salvatori da. controlacrisi.org

Si conferma la tendenza al peggioramento del clima di fiducia delle famiglie italiane. A giugno l’indice scende per il terzo mese consecutivo, un calo prolungato che potrebbe prefigurare una frenata dei consumi nel corso della seconda meta’ dell’anno. E’ l diagnosi dell’economia italiana che fa Confesercenti commentando i dati sulla fiducia diffusi dall’Istat in mattinata.
“Il segnale lanciato dai cittadini – sostiene Confesercenti – e’ rafforzato dai dati sulla fiducia delle imprese, che mostrano un andamento al ribasso analogo a quello delle famiglie, anche se meno lineare. Colpito con particolare intensita’ il commercio al dettaglio, che a giugno segna la quarta riduzione consecutiva dell’indice. A pesare sono le valutazioni delle imprese sull’andamento delle vendite, che negli ultimi mesi sono apparse improntate ad una maggiore prudenza, in contrasto con il costante miglioramento registrato sino ad inizio anno. Una prudenza ispirata dalla situazione di sostanziale stallo in cui pare entrato il mercato interno: da diversi mesi ormai le vendite al dettaglio continuano a registrare una stabilizzazione al ribasso, senza lasciare intravedere una chiara inversione di tendenza. E anche la domanda di autovetture, pure in prossimita’ di volumi di vendita relativamente elevati, si sta assestando.Confesercenti ribadisce la necessita’ di “un ulteriore alleggerimento del fisco che grava su famiglie e imprese: il percorso di riduzione della pressione fiscale iniziato dal Governo, sottolineato dal Ministro Padoan anche oggi, deve accelerare. Solo cosi’ potremo evitare un
consolidamento del clima di incertezza che potrebbe avere conseguenze negative gia’ a partire dalla prossima stagione
autunnale”.

Pessimo risultato delle elezioni spagnole da: rifondazione comunista

di Ramon Mantovani –

Le elezioni anticipate (convocate dopo mesi di sterili trattative per formare il governo) si sono risolte con un’avanzata del Partito Popolare (PP), con una tenuta del Partito Socialista Operaio Spagnolo (Psoe), con un secco arretramento di Unidos Podemos (coalizione composta da Podemos, Izquierda Unida, Equo e da coalizioni più ampie e comprendenti forze locali in Catalunya, Galicia, Pais Valencià e Illes Baleares), e con un più modesto arretramento di Ciudadanos (C’s). Le forze indipendentiste e nazionaliste catalane e basche hanno confermato sostanzialmente gli stessi voti del turno precedente.

Vediamo i risultati nel dettaglio per le forze principali.

La partecipazione al voto è calata dal 73,20 % al 69,84 % con un milione e duecentomila elettori in meno.

Il PP passa da 7.236.265 voti (28,71 %) a 7.906.185 voti (33,03 %) e da 123 a 137 seggi.

Il Psoe passa da 5.545.315 voti (22,00 %) a 5.424.709 voti (22,66 %) e da 90 a 85 seggi.

Unidos Podemos passa da 6.146.527 voti (24,47 %) a 5.049.734 voti (21,10 %) conservando i 71 seggi della tornata precedente. Nella tornata precedente Podemos e Izquierda Unida si presentarono divise tranne che in Catalunya e Galicia. E nelle Isole Baleari la forza locale MES si presentò da sola.

C’s passa da 3.514.528 voti (13,94 %) a 3.123.769 voti (13.05 %) e da 40 seggi a 32.

È bene sapere che le incongruenze fra voti e seggi sono dovute al sistema elettorale spagnolo che è diviso in 52 circoscrizioni (50 province e 2 città autonome, Ceuta e Melilla) in ognuna delle quali vengono attribuiti i seggi con il sistema D’Hondt e con uno sbarramento del 3 %. Non esistendo un collegio unico statale per riequilibrare il rapporto voti-seggi i voti che non riescono ad eleggere nelle singole province sono dispersi.

Il segretario di Ciudadanos nel primo commento dopo il voto ha lamentato la ingiustizia del sistema elettorale, come del resto hanno fatto per 40 anni il PCE e Izquierda Unida. Ed ha portato l’esempio della regione Castilla y Leon, dove nelle 9 province che la compongono, Ciudadanos con il 14,15 % dei voti elegge 1 deputato, Unidos Podemos con il 15,50 % ne elegge 3, il Psoe con il 23,17 ne elegge 9, mentre il PP con il 44,33 ne elegge ben 18.

Detto questo passiamo ai miei modesti commenti.

La destra spagnola è forte.

Nessun sondaggio ha previsto l’avanzata del Partido Popular. Né alcun commentatore. Né, tantomeno, nessun altro partito avversario.

Dopo le elezioni precedenti il Presidente del PP Mariano Rajoi propose un governo di coalizione con il Psoe e, forse, con Ciudadanos. Avendo ottenuto risposte negative da entrambi rifiutò l’incarico del RE di tentare di formare il governo, prevedendo di non avere i voti sufficienti per essere investito dal parlamento come Presidente del governo.

Affinché i lettori italiani comprendano meglio è bene che sappiano che il parlamento spagnolo accorda la fiducia (investidura) al solo Presidente del governo, che solo dopo averla ottenuta forma il governo, senza che questi debba ottenere a sua volta la fiducia. In altre parole può essere, come è successo più volte nella storia parlamentare spagnola, che vi siano partiti che, con il voto favorevole o con l’astensione, partecipano all’elezione del capo del governo per poi rimanere all’opposizione. Permettendo in questo modo un governo sorretto da una minoranza parlamentare, che sui singoli provvedimenti si allarga poi a geometria variabile.

Rajoi, accusato di immobilismo dalla gran parte dei commentatori, si mantenne in questa posizione fino alla fine, ribadendo la sua proposta di governo di grande coalizione con il Psoe. E osservando compiaciuto il fallimento del tentativo, del quale parleremo più avanti, del segretario socialista di ottenere i voti di Ciudadanos e Podemos per essere investito Presidente.

Bisogna sapere che prima ed anche dopo la campagna elettorale del 20 novembre del 2015 il PP è stato travolto da potentissimi scandali per corruzione. Con dirigenti nazionali ed interi gruppi dirigenti locali incarcerati e/o incriminati per reati gravissimi. Pochi giorni prima del voto del 26 giugno, inoltre, il quotidiano digitale di sinistra “el Publico” ha diffuso le registrazioni di conversazioni fra il Ministro degli Interni ed un giudice incaricato di dirigere l’ufficio anticorruzione catalano. Il contenuto delle conversazioni restituisce con evidenza inequivocabile che erano in corso manovre giudiziarie, e diffusione delle stesse, volte a screditare i due maggiori partiti indipendentisti catalani (Esquerra Republicana de Catalunya e Convegencia Democratica de Catalunya) per inesistenti casi di corruzione e il gruppo dirigente di Podemos per presunti, ed ovviamente inesistenti, casi di finanziamento illecito di Podemos ad opera dei governi venezuelano ed iraniano. Ovviamente questa specie di caso “watergate” ha provocato la reazione di tutti i partiti, e perfino dei sindacati di Polizia e Guardia Civil, che unanimemente hanno chiesto le immediate dimissioni del ministro. Il quale però non si è nemmeno sognato di darle ed ha ottenuto, invece, la piena solidarietà del Presidente del Governo per la diffusione di registrazioni illegali delle sue conversazioni con un giudice.

Viene davvero da chiedersi come sia possibile che un partito al governo nel tempo della crisi sociale più grave della storia spagnola, travolto da casi gravissimi di corruzione e preso con le mani nel sacco ad ordire trame illegali, utilizzando a questo fine strutture dello stato, contro i propri avversari politici, possa non solo non crollare elettoralmente (anche se a dire il vero il crollo lo aveva avuto nelle precedenti elezioni passando da quasi 11 milioni di voti (44,63 %) a 7 milioni e 200mila voti (28,72%) e dalla maggioranza assoluta con 186 seggi a 123) ma perfino risalire in voti assoluti e seggi.

Non è facile rispondere a questa domanda. Si tratta di qualcosa di molto profondo e complesso che sarà necessario, per le forze della sinistra spagnola, analizzare molto bene.

Ma possiamo dire che il PP ha utilizzato alla perfezione una strategia elettorale che ha funzionato.

Una strategia con tre assi fondamentali.

1) vantare successi economici (crescita del PIL e diminuzione della disoccupazione) pur riconoscendo la persistente crisi sociale. Addebitandola però al governo Zapatero e alla pesante eredità che questo governo aveva lasciato. Si tratta di una bufala, perché anche dal punto di vista liberista rimane un grave deficit e debito pubblico e perché in realtà la diminuzione della disoccupazione è solo formale in quanto per effetto delle “riforme” del mercato del lavoro di Zapatero e poi del PP si tratta di un incremento occupazionale dovuto esclusivamente a contratti precari per il 90 % inferiori a una settimana. Ma se ben presentata insieme alla prospettiva di un salto nel buio (l’esempio della Grecia è stato il leit motiv ripetuto) rappresentato da un governo diretto o con la partecipazione di Unidos Podemos (sempre definito estremista, comunista, chavista e soprattutto amico di Syriza), ha evidentemente avuto il successo sperato fra le classi medie impoverite ma terrorizzate da prospettive più buie. Senza contare la conservazione del consenso attraverso le più classiche politiche clientelari sociali e territoriali.

2) elevare alla massima potenza il messaggio nazionalista spagnolo. Mostrando una totale intransigenza contro le aspirazioni nazionali di baschi e catalani, anche rinverdendo contenuti chiaramente franchisti e utilizzando la repressione giudiziaria contro gli indipendentisti. Il fine giustifica qualsiasi mezzo per impedire agli indipendentisti e ai comunisti di distruggere la sacra nazione spagnola. Perciò lo scandalo della trama ordita contro gli indipendentisti catalani e contro Podemos alla fine si è risolta a favore del PP. Allo stesso tempo si è mostrato totalmente e acriticamente europeista (gli argomenti antieuropei in Spagna non hanno nessuna popolarità). Sulla base di tutto questo ha accusato gli avversari di voler minare l’unità della Spagna e di voler aprire una controversia con l’Unione Europea che si sarebbe risolta con un disastro economico, come in Grecia. A questo fine la proposta di governo di grande coalizione è stata sempre accompagnata dagli esempi di grandi coalizioni in altri paesi europei, a cominciare dalla Germania.

3) minimizzare i casi di corruzione ed utilizzando i casi analoghi, anche se meno gravi, del Psoe e della destra catalana, e quelli falsi ed inesistenti di Podemos, per generalizzare il problema. Insomma, è vero che c’è molta corruzione, ma lo fanno tutti, e comunque le leggi e la giustizia funzionano visto che i casi del PP sono stati perseguiti di più con il PP al governo.

Il PP per quanto sia ben lungi dal riprendersi la forza che ebbe nel 2011 esce certamente vincitore da queste elezioni. I problemi sociali, economici, istituzionali e politici del paese restano tutti, e il PP non potrà che aggravarli nei prossimi anni, sia obbedendo alla Troika, sia producendo uno scontro frontale con il governo indipendentista catalano, ma intanto ha superato il momento più difficile della sua storia.

Ciudadanos fa parte della destra spagnola a tutti gli effetti, sia per la condivisione sostanziale della politica economica del PP, con accenti anche, se possibile, più liberisti, sia per la vocazione nazionalista spagnola e nemica giurata del diritto all’autodeterminazione di baschi e catalani. Anche a naso è evidente che i voti persi da Ciudadanos sono andati al PP. Certamente a causa della disponibilità di C’s a votare l’investitura del segretario socialista Pedro Sanchez nelle trattative degli scorsi mesi. E probabilmente, ma quasi certamente, perché il profilo “nuovo”, “moderno”, anticasta e anticorruzione esibito contro Rajoi e il PP non ha funzionato in una campagna elettorale estremamente polarizzata. Paradossalmente Ciudadanos ha fatto un enorme autogol partecipando fortemente alla campagna contro Podemos, utilizzando più di altri le false accuse di finanziamento illecito, e descrivendo un governo con Unidos Podemos come un salto nel buio. In questo modo ha semplicemente alimentato la paura che ha spinto elettori reazionari e conservatori a turarsi il naso e votare il vero baluardo anticomunista rappresentato dal PP.

Il Psoe tiene ma esce indebolito dalle elezioni.

La crisi del Psoe non è esplosa, visto che il sorpasso di Unidos Podemos non c’è stato, ma non si è nemmeno arrestata.

Il risultato elettorale del Psoe è infatti il più basso della storia, sia dal punto di vista dei voti che dei seggi.

La campagna elettorale del Psoe è stata incentrata sulla giustizia sociale, ma presentando disoccupazione, precarietà, diseguaglianze e tagli sociali come effetti unicamente delle politiche del PP, e senza mai mettere in discussione né le vere cause della crisi, a cominciare dalle politiche neoliberiste del governo socialista di Zapatero che accellerò la deindustrializzazione del paese e favorì un’enorme bolla speculativa edilizia, né le politiche di austerità imposte dalla UE. Con contorno di difesa dei diritti civili, sui quali il Psoe è indubbiamente progressista.

Insomma, un profilo apparentemente più di sinistra e sociale del Psoe di Zapatero, ma in realtà in totale linea di continuità con l’impianto liberista delle politiche economiche dominanti.

Sulla questione catalana il Psoe ha proposto una riforma costituzionale federale, ma senza mai precisare di che tipo, ed ha comunque negato anche solo l’ipotesi di un referendum consultivo in Catalogna. Proposta difesa fino a due anni fa anche dal Partito dei socialisti catalani, che poi se la sono rimangiata subendo per questo una scissione ed una grave crisi.

Ma, a mio avviso, l’arma vincente che ha permesso a Pedro Sanchez e al Psoe di impedire la crescita di Unidos Podemos e il previsto sorpasso è stata l’accusa, ripetuta ossessivamente da tutti i candidati socialisti in tutti i dibattiti televisivi, a Podemos di non aver voluto sostenere un governo guidato dai socialisti dopo le precedenti elezioni favorendo così il PP, e imputando questa scelta alla presunzione, arroganza e sete di potere di Pablo Iglesias.

Si tratta di una falsità, o meglio di una mezza verità.

Podemos propose per primo un governo di coalizione concordato fra Psoe, Podemos, Izquierda Unida e le tre liste unitarie di Catalunya, Galicia e Pais Valencià (Confluencias), con la ricerca di sostegno (visto che la somma dei deputati delle forze di governo non raggiungeva la maggioranza) fra le forze basche e catalane. Queste ultime già in campagna elettorale avevano dichiarato che avrebbero sostenuto, anche con il voto a favore se necessario, un governo che si impegnasse a permettere referendum di autodeterminazione. Ma Pablo Iglesias commise, a mio avviso, l’errore di presentare questa proposta corredandola della richiesta della vicepresidenza del governo per se stesso (dopo aver detto nei mesi precedenti che mai avrebbe personalmente accettato di far parte di un governo del quale non fosse presidente) e di un lungo elenco di ministeri, fra i quali interni e difesa.

Il Psoe ebbe così modo di rispondere che i socialisti erano interessati a discutere di programma e che erano meravigliati del fatto che Podemos dimostrasse una tale brama di poltrone.

Le richieste programmatiche di Podemos, che pure erano state esposte, sparirono dalla discussione sui mass media e l’immagine di Podemos e di Pablo Iglesias subì un duro colpo.

In seguito il Psoe precisò la propria posizione dicendo che era necessario un governo di cambiamento ed avviando trattative separate con Ciudadanos da un lato e con Podemos, IU e le Confluencias dall’altro. Ma anche dicendo che si rifiutava di ricercare appoggi esterni di partiti indipendentisti catalani e nazionalisti baschi.

Firmò con Ciudadanos un programma di governo e chiese, con un chiaro ricatto, a Podemos, IU e Confluencias di sostenerlo dall’esterno.

Ovviamente questi ultimi rifiutarono ribadendo la proposta del governo progressista e gli stessi partiti baschi e catalani riproposero la propria disponibilità a sostenerlo. Ma fu inutile.

Nel corso dei due dibattiti parlamentari (ritrasmessi dalle tv in diretta) sulla “investidura” di Sanchez, Iglesias alternò discorsi durissimi contro il Psoe con discorsi improntati al clima di “amore” necessario fra se stesso e Sanchez, corredati da volgari ed inascoltabili allusioni a un presunto flirt fra una deputata del PP e un deputato di Podemos (sic).

Come è noto alla fine il tentativo di Sanchez di formare il governo fallì per il voto negativo della maggioranza del parlamento.

Tutto ciò, però, permise a Sanchez di glissare sulle questioni programmatiche, visto che i mass media diedero eco enorme sia agli attacchi di Iglesias al Psoe sia alle curiose note “di colore” provocate dal discorso di Iglesias sull’amore, e di ribadire la critica a Podemos di aver impedito un governo alternativo al PP.

Ripeto, per mesi e in modo ossessivo, in campagna elettorale il Psoe ha insistito sul fatto che Podemos “ha impedito il cambiamento”, “ha fatto un favore al PP” con il quale, se non un accordo tacito, “ha in realtà un interessa comune” che “è impedire al Psoe di governare” anche a costo di provocare nuove elezioni nella speranza di aumentare i propri voti.

Naturalmente questa versione dei fatti di Sanchez è stata enormemente amplificata dal potente dispiegamento dei mass media dei poteri forti vicini al Psoe, a cominciare dal quotidiano “el Pais”.

Va da sé che questa campagna ha ottenuto il doppio risultato di mobilitare, o almeno di contenere la smobilitazione, degli elettori socialisti, e di deprimere una parte degli elettori di Podemos, che sono, non va dimenticato, in grande maggioranza voti di opinione fortemente influenzabili, nel bene ma anche nel male, dall’immagine di Podemos e del leader sui mass media.

La sinistra ora è più debole?

Se si concepisce la politica come marketing elettorale e si affida tutto all’immagine del leader, e alla suggestione del cambiamento nel quale il conflitto sociale è evocato ma non protagonista, è chiaramente più debole.

Se, al contrario, si è coscienti che per motivi contingenti, e spesso irripetibili, si può “sfondare” elettoralmente, nel periodo della crisi, ma che bisogna unire, consolidare, allargare, e soprattutto motivare il conflitto sociale e culturale con una strategia realistica per conquistare il governo, perdere una battaglia può anche essere salutare.

I dirigenti di Podemos e IU, delle Confluencias, hanno già detto che l’unità raggiunta non è messa in discussione dalla sconfitta elettorale.

Come sempre, sia dentro Podemos sia dentro Izquierda Unida, quelli restii o contrari all’unità proveranno a metterla in forse, utilizzando argomenti specularmente contrapposti.

Gli uni dicendo che l’unità con IU ha offerto il fianco a chi ha descritto Unidos Podemos come forza estremista, comunista, e incapace per questo di porsi l’obiettivo di conquistare la maggioranza del popolo. E gli altri dicendo che la diluizione di IU in una forza leaderistica, eclettica, e priva di radici reali nel tessuto sociale e nel conflitto è un’avventura che può disperdere un patrimonio storico e di lotta importante.

Si badi bene, io penso che entrambe queste posizioni, che non condivido, contengano però un nucleo di verità.

Era da mettere nel conto che PP, Psoe e Ciudadanos, oltre che alla grancassa massmediatica dei poteri forti, avrebbero giocato la carta dell’accusa di estremismo e di veterocomunismo per appannare l’immagine di una forza nuova, priva di precedenti sconfitte, che per questo per due anni è stata descritta come il “nuovo che avanza” da tutti.

Come è evidente che per militanti ed elettori orgogliosi della propria identità di sinistra e comunista, è di difficile digestione l’unità con un partito che si dichiara un giorno né di destra né di sinistra, un altro giorno populista di sinistra, un altro ancora veramente socialdemocratico, e così via.

Negare o sminuire queste cose è fuggire dalla realtà. Ma assolutizzarle sarebbe una fuga dalla realtà ancora più precipitosa e fallimentare.

Per il semplicissimo motivo che ci sono 5 milioni di persone in carne ed ossa, il 99 % delle quali rimarrebbe irrimediabilmente delusa da divisioni che non comprenderebbe in nessun modo, che sono convinte, magari superficialmente e confusamente, che la crisi è stata prodotta dal capitalismo, che bisogna difendere le conquiste in pericolo, che bisogna democratizzare le istituzioni e rendere la politica non un “affare” appannaggio delle élites privilegiate con il popolo spettatore passivo, bensì uno strumento di trasformazione della propria condizione materiale.

È indispensabile rimanere in sintonia con questi 5 milioni di persone, molti dei quali, per altro, sono direttamente impegnati in lotte durissime.

Ma per farlo non si devono scambiare i propri desideri con la realtà.

Una cosa è avere il vento in poppa con un’opinione pubblica favorevole, con i mass media amici che osannano il leader, con prospettive suggestive di cambiamento facile e subitaneo. Un’altra è avere i mass media che tentano di demolire il leader, e soprattutto affrontare scelte che comportano comunque prezzi elettorali. Come per esempio votare no al Psoe e lasciare il PP a governare. O come votare si al Psoe e rinunciare a molti dei propri contenuti. Non esistendo una terza presentare una delle due scelte come risolutiva e senza controindicazioni è una sciocchezza in termini logici e un crimine da imbroglioni di quarta categoria in termini politici.

Una cosa è resistere, anche eroicamente, e attraversare un deserto fatto di sconfitte e delusioni, senza avere mai la possibilità, per colpa di cause oggettive ed estranee alla propria volontà, ma non per questo meno reali come per esempio sistemi elettorali nemici, di incidere realmente dalle istituzioni nella realtà sociale, senza capire che così si può essere percepiti come parte del problema invece che come parte della soluzione. Ed un’altra è resistere per il tempo necessario, avendo coscienza dei propri limiti, senza mai perdere di vista l’obiettivo di unire tutto il possibile per un cimento che è e deve essere considerato come parziale e mai come totale. Quello elettorale.

La sconfitta di Unidos Podemos non è una disfatta. E ci sono tutte le condizioni per procedere nella costruzione di un’unità strategica, che non imponga a nessuno di rinunciare alla propria identità ed organizzazione e che al tempo stesso costruisca dal basso uno spazio democratico e partecipato. Che tenga conto degli errori fatti e che man mano si liberi di timori e soprattutto di facili illusioni.

Non sta certo a me approfondire questo tema e tanto meno indicare soluzioni politiche ed organizzative.

Come ho già detto in passato, però, penso che il modello della coalizione catalana En Comù Podem, che non per caso ha ribadito il proprio successo, che è profondamente e direttamente legata ai forti movimenti di lotta di cui i dirigenti sono espressione diretta, che agisce in una società densa di partecipazione e funziona collegialmente, e che ha saputo unire tutti i partiti e piccole organizzazioni della sinistra fin dalle scorse elezioni, sia un esempio valido.

Anche per la sinistra degli altri paesi europei.