Scatta l’allarme bomba davanti all’abitazione di Salvatore Borsellino da: repubblica.it

Lasciato un pacco davanti all’ingresso della casa al mare di Salvatore Borsellino, il fratello del giudice Paolo assassinato da Cosa nostra nel 1992. Lui commenta: “Le minacce vere sono quelle verso Lucia”

Alle sei del mattino hanno suonato con insistenza al citofono e sono scappati. Lasciando un pacco davanti all’ingresso della casa al mare di Salvatore Borsellino, il fratello del giudice Paolo assassinato da Cosa nostra nel 1992. La mattina del 9 agosto (lo si è appreso solo ieri) c’è stato un gran via vai di polizia nel centro di Mondello. Dopo l’allarme al 113 è arrivata anche una squadra di artificieri, che ha fatto brillare il pacco con una microcarica. All’interno, c’era sterco. Sull’episodio indaga la polizia, che si sta occupando anche delle minacce che riguardano la figlia di Paolo, Lucia. Qualche giorno dopo l’episodio di Mondello, una fonte dell’Interpol in Germania ha riferito del rischio di possibili ritorsioni nei confronti dell’ex assessore regionale alla Sanità. Alla vigilia di Ferragosto, dopo un giro di comunicazioni fra Interpol e Viminale, a Lucia Borsellino è stata assegnata una scorta. È un’estate complicata per i Borsellino, impegnata su vari fronti.
In questi ultimi mesi, Salvatore ha realizzato un progetto alla Kalsa, nei locali della farmacia di famiglia: “La casa di Paolo “, un centro di formazione informatica. Dice Salvatore Borsellino: “Forse, alla Kalsa, qualcuno non avrà gradito questa iniziativa, ma io vado avanti con decisione, perché credo molto nel lavoro con i ragazzi “. Sull’episodio di Mondello, Salvatore Borsellino allarga le braccia. E prova a gettare acqua sul fuoco. Ma per gli inquirenti resta comunque un episodio inquietante, nessuna pista viene esclusa. Attorno ai Borsellino, l’attenzione è massima.

“Non volevo che questa notizia trapelasse, non volevo che gli fosse data importanza, ma soprattutto in un momento in cui ci sono minacce veramente serie a Lucia non volevo che le due cose potessero essere sovrapposte o anche in qualche modo accostate”. Così Paolo Borsellino, fratello del giudice ucciso dalla mafia nel 1992, commenta all’Adnkronos la notizia. Il fratello del giudice è tranquillo e anzi non crede che quel pacco contenente dello sterco, fosse una minaccia rivolta a lui. “In pochi sanno che ho questa casa a Mondello – spiega – e poi si tratta di una palazzina in cui vivono cinque famiglie, alcune delle quali hanno esercizi commerciali, non è detto che il pacco fosse per me”. Salvatore Borsellino è restio anche a pensare che la presunta minaccia possa essere in qualche modo collegata al progetto che sta realizzando nel quartiere Kalsa di Palermo: un centro di formazione informatica dal nome “La casa di Paolo”. “Non credo che questo progetto possa avere dato fastidio – dice – Siamo ancora agli inizi e la gente di questo quartiere non ha mostrato alcuna ostilità, anzi ho ritrovato figli di persone che conoscevano mio padre e ho instaurato buoni rapporti”. Ma quello che lascia perplesso il fratello del giudice è soprattutto il tipo di intimidazione. “Purtroppo conosco bene i metodi e le regole della mafia – aggiunge – se fosse il progetto alla Kalsa ad aver dato fastidio a qualcuno il pacco sarebbe arrivato lì. Certe cose devono essere autorizzate e all’esterno di un mandamento non si fa nulla se non hai l’autorizzazione”.

A morte i Borsellino! Crocetta sta bene dove sta! da: antimafia duemila

lodato-borsellinodi Saverio Lodato – 18 agosto 2015

Di questi Borsellino non deve rimanere neanche la semenza. E’ un cognome che in Sicilia deve essere cancellato, per sempre. Hanno fatto più danni loro ai mafiosi che lo Stato italiano in un secolo e mezzo di chiacchiere sull’argomento.
Paolo, il capostipite, faceva il magistrato e si mise insieme a quell’altro gentiluomo di Giovanni Falcone per rendere la vita impossibile ai “picciotti” e alle loro famiglie. La lezione gli venne data, eccome se gli venne data, ma è come se non fosse servita a niente.
Suo figlio Manfredi, infatti, fa il poliziotto, cioè “lo sbirro”, e pretende pure di lavorare in Sicilia. Lo capite: magistrato il padre, “sbirro” il figlio…
Suo fratello, Salvatore, da anni si è messo in testa di trovare l’”agenda rossa” che abili manine dello Stato-Mafia e della Mafia-Stato ritennero più conveniente far sparire dalla scena del delitto. Non solo. Salvatore si scontrò perfino duramente con Giorgio Napolitano, il capo dello Stato che voleva intralciare a tutti i costi il processo di Palermo sulla trattativa con l’accusa pericolosamente rappresentata (sono punti di vista) da Nino Di Matteo.
Sua sorella Rita da anni, scendendo in politica, ha fatto le umane e divine cose perché il sentire comune della gente sulla metastasi mafiosa cambiasse radicalmente. Niente da fare.
Sua figlia Lucia, pretendeva addirittura di inceppare il sistema sanitario siciliano ostacolando ambizioni, interessi, affari sporchi, di una casta di medici e funzionari che si richiamavano invece al “Metodo Tutino”.
Ecco perché ai “bravi ragazzi” di Sicilia, al solo sentire pronunciare il cognome Borsellino va il sangue agli occhi.
Perché dalla strage di Via D’Amelio sono trascorsi 23 anni anche per loro. E non accettano, non capiscono, non digeriscono che un’intera famiglia abbia ereditato il messaggio del capostipite.

I giornali riportano la notizia che, per decisione del Viminale, Lucia sarà scortata da uomini armati e potrà svolgere il suo “prezioso lavoro” nel pianeta Sanità a patto di lasciare Palermo e trasferirsi a Roma. Molti dicono che “non si conoscono” i motivi di questa scelta romana. La stessa Lucia si è detta sorpresa dalle notizie che la riguardano. Qualche politicante siciliano, esprimendole “solidarietà!  ha perso una buona occasione per tacere. C’è chi si interroga su oscure “segnalazioni” dell’immediato pericolo che corre Lucia, c’’è chi ipotizza l’esistenza di intercettazioni telefoniche coperte da segreto e che avvalorerebbero tali preoccupazioni.
Ed è quasi con tenerezza che siamo costretti a registrare l’imbarazzo di certi opinionisti che nelle ultime settimane si erano gettati a capofitto nel piatto ricco del’”antimafia delle passerelle” e che ora non sanno darsi una “lettura” di questa nuova minaccia contro Lucia salvo dovere ammettere che se la mafia continua a esserci, di una qualche forma di antimafia continuerà a esserci gran bisogno.
Serve a poco chiedersi “cosa c’è dietro”. Basta e avanza ciò che è sotto gli occhi di tutti.
Lo dicevamo all’inizio: dei Borsellino non deve restare neanche la semenza.
La Sicilia continua a produrre vittime designate, bersagli mobili, liste nere di persone a rischio per le cose che dicono, per quello che fanno, per quello che rappresentano nell’immaginario collettivo. Ma sul serio, non a parole.
La Sicilia che si libera, la Sicilia che si emancipa, la Sicilia che volta le spalle al passato resta, nella migliore delle ipotesi, una pia illusione che troppo ancora dovrà attendere per tradursi in realtà, nella peggiore, invece, il cavallo propagandistico di una politica senza scrupoli che con la mafia convive, ci sta in ottimi rapporti, ci fa affari come niente fosse.
Prendete il buon Rosario Crocetta. E’ rimasto “governatore” a dispetto dei santi. Ha evitato – in un  soprassalto di umana lucidità – di suicidarsi quando la valanga delle intercettazioni, proprio sull’argomento Sanità-Tutino-Lucia Borsellino lo aveva investito in pieno. Poi, a rianimarlo del tutto, sono arrivate le bombole d’ossigeno dei capi bastone di Sala D’Ercole per i quali una poltrona da onorevole val bene un Crocetta… Il Pd poi, che come sapete è il partito dei primi della classe, da un lato gli dà l’ossigeno e dall’altro, un giorno sì e un giorno no, minaccia di asfissiarlo. State tranquilli: ci sono scorte di bombole sino alla fine della legislatura.
Non risultano – tranne che non ci siano sfuggite – dichiarazioni del buon Crocetta su Lucia che finisce sotto scorta. E dire che Crocetta – a sentirlo in tv – deve volere un gran bene a Lucia.
Allora che dobbiamo concludere?
Diciamo così: Lucia ha perduto la sua battaglia a palazzo D’Orleans. Si ritrova sotto scorta e deve lasciare la Sicilia.
Il buon Crocetta, che fu lungimirante nell’evitare il suo suicidio, resta dov’era umanamente e politicamente.
Va tutto secondo copione gattopardesco.
Ma che qualcuno non ci venga a dire, Crocetta in primis, che il suo governo è mal visto dalla mafia.
Crocetta – con tutto il rispetto che merita la sua carica – minchiate non ne deve raccontare.
Sono i Borsellino che stanno sui coglioni alla mafia. Non il suo governo. E almeno a questa elementare verità Crocetta abbia il buon senso di rassegnarsi.

saverio.lodato@virgilio.it

Intercettazioni Tutino: “Me ne sto fottendo, pure che si chiama Lucia Borsellino” da: antimafia duemila

tutino-sampieridi AMDuemila – 18 luglio 2015

Nelle carte della Procura di Palermo dell’indagine su Matteo Tutino (primario di chirurgia plastica ora agli arresti domiciliari per truffa, ndr) non c’è traccia, a detta della Procura, della frase “va fatta fuori come il padre” contro Lucia Borsellino. Emergono però intercettazioni ad ogni modo allarmanti ed offensive. Dialoghi che dimostrerebbero l’avversione, nei confronti di Lucia Borsellino, di Tutino e del commissario straordinario dell’ospedale Villa Sofia di Palermo, Giacomo Sampieri, oltre che la vicinanza dei due medici al governatore Crocetta.
Il Giornale di Sicilia ha pubblicato stamani alcuni stralci di queste intercettazioni in cui un interlocutore di Tutino arriverebbe persino a definire l’assessore alla Sanità “quella b… della Borsellino”.

Dopo che la Borsellino aveva revocato il mandato a Giacomo Sampieri, quest’ultimo, secondo quanto pubblicato nel quotidiano, parlando con Tutino avrebbe raccontato di voler fare un esposto contro l’assessore: “La denuncio per illecito… Me ne sto fottendo, pure che si chiama Lucia Borsellino”, e Tutino risponde: “Bravo”. La cosa più clamorosa è che quando i due si rivolgono a Crocetta, in riferimento alla revoca di Sampieri, il governatore avrebbe risposto: “Ora ma viru io cu Lucia”. Inoltre sarebbe emerso che un dipendente del pronto soccorso di Villa Sofia quando va a trovare Tutino gli racconta che “suo fratello – scrivono gli inquirenti – ha parlato con Ignazio Tozzo (il designato a sostituire Sampieri, ndr) ma tutto viene da quella b… della Borsellino e il presidente non la vuole fare muovere da lì…”. E ancora: “La Borsellino ha chiesto che Tozzo vada via dall’assessorato… ora hanno messo una persona onestissima per bruciarlo ed è stato messo lì appositamente perchè dà fastidio alla Borsellino”. Emerge quindi un clima di tensioni e conflitti dove anche se non si capisce con chiarezza la posizione presa da Crocetta si possono comprendere maggiormente le parole di Lucia Borsellino dopo le sue dimissioni: “Il rapporto tra Crocetta e questo primario mi ha creato forte disagio in questi anni”.
Dalle intercettazioni emergono anche alcuni colloqui tra Sampieri e Tutino sul rapporto tra il governatore e la Borsellino: “Io credo che ci sia qualcosa sotto in tutto questo e Lucia e il presidente sono in disaccordo…” dice il commissario straordinario dell’ospedale Villa Sofia. E Tutino, sottolineando ancora una volta il legame tra lui e il governatore, risponde: “Sì, totale ma mi ha detto (il presidente, ndr) stai tranquillo”.
I due, nelle conversazioni riportate dal quotidiano, si definiscono “uomini del presidente” che operano “per la legalità” e su “mandato” di Crocetta, “sapevamo – dicono tra loro – che è la linea del governo regionale perseguire il mallaffare ovunque si annidi… e lo abbiamo fatto!”
E ancora, il 28 febbraio 2014 Tutino rimarca la vicinanza privilegiata con il presidente della regione: “Senti noi abbiamo per fortuna questo rapporto che ci possiamo permettere di parlare con il presidente serenamente”.
Una vicinanza tale che, in vista delle nomine, il 25 marzo 2014 Tutino avrebbe preparato “la lista dei fedelissimi” e parlando con il segretario particolare di Crocetta, Giuseppe Comandatore, dice: “Senti, lui (Crocetta, ndr) mi ha detto che domani gli devo portare la lista dei pretoriani del presidente”. “Sì – dice Comandatore – la porti, vieni al palazzo… lo visiti, gli guardi cose e via”. “Avremo bisogno di mezz’ora – dice Tutino – perché gli parlerò di ognuno con il curriculum in modo molto… Sono fedelissimi”.

Con le intercettazioni pubblicate questa mattina la figura di Crocetta, al di là dell’esistenza o meno delle intercettazioni riportare da L’Espresso e smentite dalla Procura, è quanto meno criticabile per non aver preso le difese della Borsellino e per la vicinanza ad uomini del livello di Tutino. Già ieri gli zii di Lucia, Rita e Salvatore Borsellino, avevano chiesto al governatore della Sicilia, prima che uscissero queste nuove intercettazioni, di “non presentarsi alle manifestazioni in via D’Amelio perché non sarebbe una persona gradita”.
Di fronte alla schizofrenia esplosa in questi giorni, tra notizie e smentite, a subire il degrado mediatico e politico è soprattutto Lucia Borsellino, a cui ribadiamo con forza la nostra solidarietà e vicinanza.

I Borsellino contro l’Antimafia Carnival da: antimafia duemila

lodato-c-barbagallo-big0di Saverio Lodato – 11 luglio 2015

Manfredi e Lucia Borsellino hanno il sacrosanto diritto di manifestare un profondo disagio di fronte all’Antimafia Carnival che da oltre un ventennio si è inesorabilmente appropriata di date, cerimonie, anniversari, commemorazioni, scopertura di lapidi, fasce tricolori, partite del cuore, navi, treni, pullman della legalità, t-shirt, centri studi, fondazioni, docu-fiction TV, gadget di ogni tipo, fondi e finanziamenti.
Se gente di ceppo antico, come sono i Borsellino, si è stufata al punto da annunciare che il 19 luglio di quest’anno preferirà starsene chiusa in famiglia ricordando Paolo, il capostipite, nel raccoglimento in una piccola cappella di una chiesetta di Pantelleria, ciò significa che quel profondo disagio assomiglia molto alla nausea e al disgusto per ciò che è diventata, anno dopo anno, l’Antimafia Carnival. I Borsellino, di natura loro, non sono mai stati estremamente loquaci, avendo la preoccupazione costante che ogni parola pronunciata possa dare adito a strumentalizzazioni interessate, a letture “politiche” di scelte che loro chiedono, invece, che rimangano l’espressione di un doloroso percorso personale. E sia chiaro che non tutti i Borsellino reagiscono allo stesso modo, visto che invece Salvatore, il fratello di Paolo, anche quest’anno parteciperà al ricordo della strage di via D’Amelio. E allora?
Diciamo subito che a noi piace la scelta di Manfredi e di Lucia di “non andare”, la scelta di Salvatore di “andare ancora una volta”, e persino il silenzio di Rita sull’argomento, e che ci appare altrettanto eloquente dei pensieri che le staranno passando per la testa.
No, no.
Non siamo diventati cerchiobottisti.
Non vogliamo tenere il piede in due scarpe.
Non ci va bene tutto e il contrario di tutto.
Ci vanno bene – dicendola in maniera un po’ grossolana – i Borsellino così come sono, presi in blocco, non essendo noi giudici o esegeti del pensiero di ciascun membro della famiglia, e non avendo, oltre che titolo, alcun interesse a strattonare questo o quello per finalità che con la lotta alla mafia non c’entrano un fico secco. Spieghiamo meglio.
In questi ultimi mesi si è assistito a una gazzarra indegna attorno alla presenza di Lucia, in qualità di assessore alla sanità, nel governo regionale di Rosario Crocetta.
Fu liberissima di entrare in quel governo, ritenendo che si fossero finalmente aperti degli spazi per un cambiamento della politica siciliana, dopo il Decennio Orribile dei Cuffaro e dei Lombardo.
Fu liberissima di uscirne, come ha fatto, essendosi a un certo punto resa conto che purtroppo neanche con Crocetta i siciliani avevano dove andare. A molti piacque quando Lucia scese in politica – primo fra tutti proprio il Crocetta che intendeva fortificare facile facile “l’immagine” antimafia del suo governo – e ora sono dispiaciuti perché se ne sia andata.

A molti, al contrario, la sua nomina non andò giù, mentre ora sono felicissimi del “gran rifiuto” di Lucia.
Andrebbe qui aperta una lunghissima parentesi per affrontare la fulminea degenerazione del “fenomeno Crocetta” passato anche lui, dai tempi in cui era sindaco a Gela, da un antimafia intesa come spirito di servizio all’Antimafia Carnival che oggi va in scena nei baracconi dei Luna Park. Il che c’entra non poco con i due fuochi concentrici dentro cui si è venuta a trovare proprio Lucia Borsellino. Ma Crocetta se ne starà inchiodato a Palazzo d’Orleans, sapendo benissimo che i maggiorenti PD, che a parole vorrebbero cacciarlo, la spina non la staccheranno mai perché – come si potrebbe dire parafrasando Bertold Brecht – prima vien la poltrona e poi vien la morale.
E gli opinionisti? Anche gli opinionisti hanno preso la palla al balzo per infilzare l’antimafia, magari scrivendo anche tre articoli al giorno, dividendosi equamente fra i due schieramenti che salutarono in maniera differente la nomina di Lucia Borsellino. Alcuni dei commentatori che oggi fanno le pulci a Crocetta, – del quale abbiamo già detto quello che pensiamo – beatificando Lucia Borsellino perché se ne è andata, erano gli stessi che si affollavano davanti al vassoio di cannoli di Toto’ Cuffaro, quando “zu vasa, vasa” era ancora in auge, potente e riverito. Giusto per ricordare.
In conclusione. In questi ultimi mesi sono accaduti fatti sconcertanti. Mettere ordine è quasi impossibile.
Per molti, infatti, l’Antimafia è diventata un affare. Non sappiamo dirla in altro modo. Un businnes, come quello dei beni confiscati alle cosche. E che sembra argomento fatto apposta, non per una, ma per più puntate di “Report”. E perché escludere che un giorno vadano in onda? La famiglia trapanese dei Virga, che proprio in questi giorni ha subito un sequestro miliardario a opera della Dia, si era annidata nelle pieghe delle associazioni antiracket sperando, anche lei, che l’antimafia fosse una cosa facile facile.
Le inchieste che hanno investito Antonello Montante – e si vedrà come andranno a finire – raccontano di un rappresentante apicale della piramide che gestisce, per l’appunto, i beni sequestrati e confiscati alle famiglie mafiose. E col tempo sapremo dove conducono gli accertamenti patrimoniali che lo riguardano. Perché ci saranno, a rigor di logica. Da nessuna parte – sembra il giudizio sicuro della Confindustria, siciliana e nazionale – che a Montante ribadisce fiducia, così come il senatore PD Giuseppe Lumia che in un’intervista mette in guardia dalla “delegittimazione contro la Confindustria di Lo Bello e di Montante”. Una linea che non si discosta molto da quella dei partiti quando i loro sodali finiscono nei guai giudiziari.
Poi c’è il caso di Roberto Helg, l’imprenditore palermitano finito in manette perché nei giorni pari tuonava contro il pizzo e nei giorni dispari lo pretendeva.
Ammetterete che lo spettacolino fa un po’ schifo.
Ma l’Antimafia Carnival procede per la sua strada. Imperterrita, nel disprezzo del ridicolo.
Piaccia o no, i Borsellino hanno detto come la pensano. Lo farà anche la signora Maria Falcone, che porta un cognome altrettanto evocativo? Lasciateci dire che ne dubitiamo fortemente.

saverio.lodato@virgilio.it

Foto © Giorgio Barbagallo

Fuga dalla giunta, atto terzo Si dimette Lucia Borsellino da: blog sicilia

luciaborsellino
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E alla fine le dimissioni arrivarono. Non è ancora arrivata la lettera al presidente della Regione ma Lucia Borsellino ha scelto gli sms (inviati dai suoi fedelissimi) per avvertire chi le è più vicino e chi con lei ha collaborato.

L’assessore del rinnovamento, la figlia del magistrato ucciso dalla mafia, lascia la giunta Crocetta e lo fa non senza polemiche. La lettera era già pronta alle 7 di stamattina quando Lucia chiamò a raccolta nella grande stanza dell’assessore alla salute, intorno al tavolo ovale che si trova davanti alla libreria, a ridosso della porta della segreteria, i suoi direttori ed i più stretti collaboratori. La scrivania dell’assessore era lontana 5 o 6 passi ma in quel momento sembravano  già chilometri. I telefoni spenti ad iniziare da quello della stessa Borsellino che oggi non parla neanche con le persone più vicine. Qualcuno fra i collaboratori lo tiene acceso ma non risponde.

In questo clima si sono decisi i tempi dell’addio, alla fine più rapidi diq uanto ci si potesse attendere. Con l’arresto di Matteo Tutino, l’assessore Borsellino si è tolta un peso ed ora si sente libera. Lo ha confessato in una intervista a Repubblica che stamani esce in edicola con tutto il carico di critiche non più troppo velate. Lucia, che ieri ha incassato dal procuratore Francesco Lo Voi il sostegno e la conferma pubblica del suo atteggiamento non solo collaborativo ma trasparente, adesso non intende più stare in silenzio.

Già nell’intervista a Repubblica l’intenzione di lasciare era chiara. Forse non oggi, ma presto, lasciava capire. Invece è stato proprio oggi. e non sarebbe potuta restare dopo aver detto chiaramente che il clima che si respira in giunta non è quello della trasparenza. Dopo aver confermato sospetti circolati per mesi circa l’ingerenza forte del Presidente nella scelta di alcuni manager che lei non avrebbe mai nominato.

“I motivi che mi avevano spinto ad entrare in questa giunta non esistono più” ha detto la Borsellino in quell’intervista. Dunque cadesso lascia. ASveva pensato tante volte di farlo e stavolta l’ha fatto E lasciando disinnesca anche la strategia di difesa di Crocetta che pensava già di contrattaccare per difendersi dall’assalto degli alleati di questi giorni, sparando proprio sulla sanità. E’ lei a scegliere, non intende più subire. Ha subito troppo in questi due anni che definisce “devastanti”.

L’addio della Borsellino, falsamente annunciato mesi fa, stavolta è arrivato davvero. Ed è un addio che fa tremare le fondamenta di palazzo d’Orleans e le poltrone di sala d’Ercole. La scossa di avvertimento era già arrivata. Nitida! Adesso è il terremoto.

Della Sanità restano solo macerie Lucia Borsellino pronta a dimettersi da: livesicilia

Della Sanità restano solo macerie
Lucia Borsellino pronta a dimettersi

Venerdì 13 Febbraio 2015 – 19:17 di

La decisione dopo le parole del ministro Lorenzin rispetto a un possibile “commissariamento”.  Da Crocetta e dalla maggioranza un coro unanime: ci ripensi. E’ l’ultima battaglia persa dopo tante amarezze. E ora senza lo scudo della sua faccia perbene, per la Sanità siciliana si può aprire l’ennesima partita di potere

 

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PALERMO – La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la dichiarazione al vetriolo del ministro Beatrice Lorenzin. Parole pesanti come pietre, troppo per Lucia Borsellino. L’ennesima amarezza per la donna gentile, dal viso pulito e dal cognome ammantato da un dovuto sacro rispetto, che Rosario Crocetta volle accanto in campagna elettorale. E che ora annuncia le sue dimissioni. Il velo del suo buon nome e della sua faccia pulita cade e restano le macerie di quel disastro a cielo aperto che è la Sanità siciliana, eterno oggetto di appetiti famelici. Quella sanità siciliana a cui la figlia di Paolo Borsellino ha dedicato impegno e fatica, con una serietà che le è universalmente riconosciuta, ma che le è costata anche amarissimi bocconi.

L’ultimo in queste ore, dopo la tragedia di Catania, dopo l’inaccettabile morte di una neonata mentre era su un’ambulanza, dopo che a Catania non erano stati trovati posti in Unità di terapia intensiva prenatale. Un dramma che l’ha certamente scossa dal punto di vista umano e che l’ha travolta dal punto di vista politico. E ad assestare il colpo del ko è stato il governo “amico” di Matteo Renzi. Per bocca del ministro Lorenzin, che ha ventilato l’ipotesi del “commissariamento” a seguito del caso Catania.

È stata l’agenzia stampa Adnkronos a dare notizia della scelta di Borsellino di dare le dimissioni. “Le parole del ministro Lorenzin sono state particolarmente dure e io ritengo che non ci siano più gli elementi minimi perché io possa proseguire il mio mandato, ecco perché annuncio le mie dimissioni”, ha detto all’agenzia la Borsellino. “Ho già fatto presente questa mia posizione al Presidente Crocetta – dice – Nei prossimi giorni rassegnerò le mie dimissioni. Contribuirò anche da dipendente dell’assessorato Sanità all’accertamento della verità sul caso della piccola Nicole. Non voglio aggiungere altro”.

Subito l’assessore è stata invitata da governatore e Pd a un ripensamento. Crocetta ha definito “improvvide e ingenerose” le dichiarazioni del ministro invitando l’assessore a ripensarci. “Le sue dimissioni sarebbero un grave danno per la Sicilia e per la Sanità della regione”, ha detto il governatore. Analoghi inviti giungono in rapida sequenza dal segretario e capogruppo del Pd Fausto Raciti e Baldo Gucciardi, dal presidente della commissione Sanità Pippo Di Giacomo, dal segretario dell’Udc Giovanni Pistorio e ancora Antonello Cracolici e via dicendo. Ci ripensi, chiedono i politici. Anche se è difficile immaginare che Lucia cambi idea. La tragedia di Catania, un colpo pesantissimo, è stata solo l’ultimo di una serie di grandi e dolorosi imbarazzi che l’hanno vista suo malgrado protagonista. Dal pasticcio dei posti letto dell’Humanitas, che provocò all’assessore giorni di sofferenza, al tira e molla farsesco sulle nomine dei manager, che richiesero una teoria infinita di annunci e rinvii, di quelli da perderci la faccia. E la faccia perbene di Lucia Borsellino sembrava patrimonio troppo prezioso da consumare per gli eterni e arcinoti giochi di potere che da sempre affondano le fauci nelle carni della sanità siciliana, questa terra di conquista in cui si incrociano lame in scontri all’ultimo sangue per una nomina. Lucia ci ha provato ad affrontare il mostro con la sua cifra, sobria e gentile, forse troppo. Con lei la sanità ha continuato a far progressi sul fronte dei conti, ma non è arrivato quel cambio di passo nella qualità, che dipende da troppe variabili, disseminate anche assai lontano da Piazza Ottavio Ziino. La Borsellino si è mossa in una giungla insidiosissima, ritrovandosi sola un mese fa sulla controversa vicenda delle nomine “catanesi” dei due manager Cantaro e Pellicanò.

Una guerra impari, in un assessorato che piace a molti. E che fa gola tanto più se si scommette su venti di campagne elettorali vicine. Dentro e fuori il cerchio magico del governatore, a quell’avamposto di potere si guarderebbe con attenzione. E se fin qui si è preteso di parare tutti i colpi e contraccolpi confidando su Lucia, prezioso parabordo, ora la musica potrebbe cambiare. Salvo che il coro di inviti a ripensarci non sortisca effetto facendo rientrare, o magari solo posticipare, le dimissioni dell’assessore Borsellino.

Lucia Borsellino: “Su agenda rossa indagini dopo vent’anni, è vergognoso” da: antimafia duemila

di AMDuemila – 19 giugno 2014
“Io vi posso dire solo una cosa e portare qui una testimonianza che sarebbe divenuta verità processuale, se solo fosse stata depositata agli atti dalla procura di Caltanissetta” a raccontarlo è stata Lucia Borsellino, figlia primogenita di Agnese e del giudice Paolo ucciso nella strage di via D’Amelio insieme agli agenti di scorta. L’episodio al quale l’attuale assessore alla cultura della Regione Siciliana si è riferita risale a “quando vent’anni fa con mio fratello (Manfredi Borsellino, ndr) andammo a consegnare l’unica agenda rimasta a casa, quella grigia dell’Enel, l’unico documento in cui si evince che mio padre avesse incontrato l’onorevole Mancino e qualcun altro”. La Borsellino ha espresso tutta la sua indignazione in uno sfogo durante la presentazione del libro “Dalla parte sbagliata, la morte di Paolo Borsellino e i depistaggi della strage di via D’Amelio“, di Dina Lauricella e Rosalba Di Gregorio (edito da Castelvecchi). “Questa agenda l’andai a consegnare personalmente – ha continuato – un commesso me la stava sottraendo dalle mani perché fosse messa agli atti. Ho chiesto che venissero fatte le fotocopie davanti a me, pagine per pagina, e me la sono portata a casa”. Per questo passaggio da lei richiesto, ha aggiunto, “Ho visto dei volti quasi infastiditi”.

Lucia Borsellino ha poi raccontato davanti ai presenti che “Quando il caro La Barbera è venuto a casa mia a consegnare la borsa di mio padre ho scoperto dopo vent’anni che questa consegna non era stata verbalizzata agli atti. E quando l’aprii e vidi che non c’era l’agenda rossa che ho visto aprire e chiudere da mio padre quella mattina, perché dormivo nel suo studio, dissi ‘come mai questa agenda non è presente?’ Mi risposero: ‘Ma di quale agenda sta parlando?’. Ho sbattuto la porta e lui ebbe il coraggio di dire a mia madre: “Faccia curare sua figlia perché sta male, sta vaneggiando”. Io queste cose le raccontai a Caltanissetta. E dopo vent’anni sono tornata lì e non c’era nulla, non c’era una traccia nei verbali”.
Il mistero dell’agenda rossa è rimasto a distanza di oltre vent’anni ancora insoluto: Borsellino la portava sempre con sé, eppure questa non è pervenuta alla sua famiglia insieme agli altri effetti personali contenuti nella borsa che il giudice, quando si era avvicinato al citofono per chiamare la madre e accompagnarla dal cardiologo, aveva lasciato all’interno dell’auto. Dopodichè, l’inferno. Ma in quel girone di corpi lacerati e macchine carbonizzate è stata notata, a distanza di anni, in alcuni documenti fotografici e audiovisivi, la presenza del capitano dei Carabinieri Giovanni Arcangioli che si allontanava dal luogo della strage con in mano la borsa di Paolo Borsellino, per poi fare ritorno alcuni minuti dopo. L’accusa per la sottrazione dell’agenda si è conclusa però, al Tribunale di Caltanissetta, con un’assoluzione: non ci sono prove del fatto che l’agenda in quel momento fosse effettivamente dentro la borsa, nonostante si sapesse che Paolo Borsellino, soprattutto dopo la morte dell’amico e collega Giovanni Falcone, la portasse sempre con sé. Fatto sta che, dal giorno, quell’agenda nella quale il giudice scriveva spunti, pensieri e riflessioni scomparve. “Un mese fa – ha proseguito Lucia Borsellino – è venuta la Polizia scientifica nel mio ufficio per farmi un tampone salivare. Ho chiesto a che cosa potesse servire dopo vent’anni, mi hanno risposto: “Per escludere le impronte digitali dalle impronte sulla valigia di mio padre, per vedere chi mai l’avesse potuta prendere”. Tutto questo è un’offesa. Io però voglio continuare a sperare, solo per dare una ragione alla morte di mia madre che negli anni non ha fatto altro che sperare che queste verità venissero fuori. Perché è veramente vergognoso, non solo per noi, ma per i nostri figli, le nuove generazioni. Perché la verità si deve dire, non c’è niente da fare. E loro (Dina Lauricella e Rosalba Di Gregorio, ndr) stanno facendo uno sforzo in questa direzione che spero possa essere anche emulato da altri”
Cosa conteneva effettivamente l’agenda rossa per fare sì che non lasciasse più traccia è uno degli enigmi ancora indecifrabili, anche se non è difficile pensare che Paolo Borsellino, vero ostacolo alla trattativa in corso tra Stato e mafia nei primissimi anni ’90, avesse raccolto una serie si conoscenze che senza dubbio potevano essere considerate pericolose per gli indicibili accordi che le due parti si proponevano di raggiungere.

I misteri su Via D’Amelio di Mario Santo Di Matteo irrompono nel Borsellino quater da: antimafia duemila

di matteo proc borsellino quaterTra i teste di oggi anche Leonardo Messina e Angelo Fontana

di Aaron Pettinari – 28 maggio 2014
Terzo giorno di trasferta romana per il processo “Borsellino quater” che vede come imputati i boss Vittorio Tutino e Salvo Madonia e i falsi collaboratori di giustizia Calogero Pulci, Francesco Andriotta e Vincenzo Scarantino.
Oggi è stata la volta dell’audizione del collaboratore di giustizia Mario Santo Di Matteo,  padre di Giuseppe, il bambino rapito da Cosa nostra e sciolto nell’acido dopo due anni prigionia.
Il pentito ha ribadito di aver preso parte alle fasi preparatorie dell’attentato contro il giudice Giovanni Falcone, e di aver fornito ai fratelli Graviano, i boss mafiosi del quartiere palermitano di Brancaccio, i telecomandi che poi sarebbero stati utilizzati per far saltare in aria l’autobomba che 57 giorni dopo uccise a Palermo il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta. “Un paio di telecomandi li aveva comprati Brusca, erano di quelli che si usano per le macchinette – ha raccontato l’ex boss di Altofonte – Li prese in un negozio di giocattoli. Altri due invece li portò Rampulla. Facemmo più prove per l’attentato di Capaci. Questi telecomandi li avevo io in custodia e qualche tempo dopo venne Antonino Gioé a chiedermi questi telecomandi su ordine di Brusca. E li consegnammo ai Graviano. Siamo prima della strage di via d’Amelio ma io non sapevo che servivano per quello”. Ma non è solo su questo aspetto che i pm nisseni, Gozzo, Luciani e Paci hanno voluto sentire il pentito. Quella di Mario Santo Di Matteo non è sicuramente stata una collaborazione con la giustizia facile. Eppure che non abbia ancora rivelato tutto quello che sa in merito all’attentato al giudice Borsellino, in cui persero la vita anche gli uomini della scorta, è un dubbio più che legittimo in particolare se si prende in esame l’intercettazione del 14 dicembre del 1993 in cui questi si trova a colloqui con la moglieFrancesca Castellese, presso i locali della Dia, a poche settimane dalla scomparsa del figlio. Un dialogo drammatico in cui la madre appare disperata con il padre che è convinto che per suo figlio non c’è più nulla da fare. E’ a quel punto che la Castellese invita il marito a non parlare più:

CASTELLESE: tu a tò figliu accussì l’ha fari nesciri, si fa questo discorso
DI MATTEO: ma che discorso? Ma che fa
CASTELLESE:  parlare della mafia
DI MATTEO: Ah, nun ha caputu un cazzu
CASTELLESE:  come non ha caputu un cazzu?
Parlano sottovoce
CASTELLESE: Oh, senti a mia, qualcuno è infiltrato (?) per conto della mafia
DI MATTEO: (?)
CASTELLESE:  Aspè, fammi parlare (incomprensibile) Tu questo stai facendo, pirchì tu ha pinsari alla strage di BORSELLINO, a BORSELLINO c’è stato qualcuno infiltrato che ha preso (?)
DI MATTEO: (?)
CASTELLESE:  Io chistu ti dicu … forse non hai capito
DI MATTEO: tu fa finta, ora parramo cu’…
CASTELLESE:  Io haia a fare finta, io quannu cu’ papà ci dissi ca dà vota vinni ni tì capito, parlare cu to figlio
Parlano sottovoce e velocemente: incomprensibile
DI MATTEO: No tu dici se u’ sannu, lu sta dicinnu tu
CASTELLESE: capire se c’è qualcuno della Polizia infiltrato pure nella mafia e ti …  
DI MATTEO: Cu?
CASTELLESE: mi dievi aiutare da tutti I punti di vista, picchì iu mi scantu, mi scantu
DI MATTEO: intanto pensa a to (figliu)
(…..)
CASTELLESE:  cioè io pensu au picciriddu, caputu? Tu m’ha capiri! Però, Sa, u discursu è chuistu, nuatri hamma a fari (?)
Incomprensibile, parlano a bassa voce
DI MATTEO: Iddu mi dissi, dice, tò muglieri (?) suo marito ava a ritrattari (Inc.) Iddu, BAGARELLA e Totò (?) sanno pure che c’hanno

E’ partendo da questa conversazione che il pm Nico Gozzo ha lanciato in aula un appello ulteriore al collaboratore di giustizia affinché dica davvero tutto quello che sa sulla strage di via d’Amelio. Del resto lo stesso pentito, intervistato dal Tg1 il 23 novembre 2008, aveva dichiarato che avrebbe presto fatto “i nomi dei Killer della strage di Via d’Amelio”. Eppure, ancora una volta, Mario Santo Di Matteo ha preferito trincerarsi dietro “l’errore”. “Non può essere così – ha detto – io ho sempre detto tutto. Io se sapevo altre cose su Borsellino le avrei dette. Caso mai su Capaci volevano che stavo zitto. Si parlava così di mio figlio. Mia moglie era preoccupata. Si parlava di poliziotti che potevano interessarsi per cercare mio figlio. Non c’è assolutamente altro”. Eppure è tutto scritto nero su bianco e sembra davvero esserci poco spazio per le interpretazioni. Non solo, in un verbale del 1997 parla anche dei coinvolgimenti di Giovanni Brusca, Pietro Aglieri e Carlo Greco nella strage di via d’Amelio e che Riina aveva incaricato i Graviano della strage, anche se oggi ha ridimensionato) “Di Brusca dico che era per forza informato come capomandamento”) dicendo che Aglieri e Greco erano presenti ad un incontro nel periodo precedente alla strage. Di Matteo ha anche escluso di aver ricevuto in questi anni nuove minacce da quando è stato ucciso il figlio.

L’ultimo colloquio con Gioè
Altro episodio misterioso che ha visto coinvolto Di Matteo prima che fosse pentito è quello dell’ultimo dialogo con Antonino Gioé, prima che questi morisse in circostanze che ancora oggi sono tutte da chiarire nella notte tra il 28 e il 29 luglio del 1993. “Mi trovavo presso il carcere di Rebibbia e passeggiavo all’esterno durante l’ora d’aria. Da una finestra si affaccia Gioé. Mi sembrava un barbone per come era messo in viso. Gli chiesi come stava se faceva colloqui con la famiglia. Mi disse che stava bene che mangiava pesce spada e che tutti i giorni vedeva il fratello. In quel momento capii che stava combinando qualcosa e pensai che stesse collaborando. E all’indomani mattina mi portano all’Asinara. Lì dopo qualche giorno che si diffuse la notizia della morte vennero ad interrogarmi e mi dissero che Gioé aveva parlato di me nella lettera. Io sono sempre convinto che si sia ucciso perché aveva saltato il fosso”.
Di Matteo ha anche confermato degli incontri tra Antonino Gioé e Paolo Bellini, uomo che “a dire di Gioé era appartenente dei servizi segreti. Ci serviva perché si doveva interessare del fatto del carcere duro. Lui ne aveva parlato con Brusca. In cambio avremmo dovuto recuperare un quadro ma poi questa cosa è finita”.

Leonardo Messina: “Feci a Borsellino i nomi di D’Antona e Contrada”
Il secondo collaboratore di giustizia sentito in aula è stato Leonardo Messina. Di fornte alla Corte d’assise di Caltanisetta, il collaboratore di giustizia ha parlato di una riunione che si è tenuta ad Enna in cui “si sviluppò una nuova strategia. In quel periodo c’erano contatti con altre forze politiche per nuovi contatti. Mi informarono anche che la Lega era nostra alleata che Bossi era un ‘un pupo’. Mi si spiegò che l’uomo forte della Lega era Miglio, che era in mano ad Andreotti”. Non solo.
Sollecitato dalle domande dei pm ha parlato anche della massoneria (“Era usuale che alcuni membri di Cosa nostra entrassero in contatto con certe entità. Io stesso entrai e informai Piddu Madonia”), e del rapporto che vi era tra le varie organizzazioni mafiose italiane: “Mi riferirono che c’era una commissione nazionale, una struttura che deliberava tutte le decisioni più importanti ed evitava la guerra continua tra le varie mafie. In commissione sedevano i rappresentanti delle organizzazioni criminali. C’era Cosa nostra, la ‘Ndrangheta e i napoletani”.
Nel corso della sua deposizione, il pentito di San Cataldo si è soffermato anche sulla riunione nella quale si decise di uccidere Giovanni Falcone e Gaspare Mutolo (anch’egli collaboratore di giustizia). Messina non partecipò a quell’incontro, ma venne a conoscenza dei temi trattatati tramite il suo referente mafioso (Borino Miccichè). “Nessuno si oppose – ha raccontato il pentito – si decide anche di usare la sigla terroristica Falange Armata. Era una nuova strategia politica della Commissione a cui nessuno apparentemente si oppose anche se in realtà c’erano due correnti a quel punto. Un’ala stragista e una più moderata. Queste cose le dissi a Borsellino quando iniziai a collaborare”. E in realtà al giudice ucciso dalla mafia il 19 luglio 1992 aggiunse anche altro. “Noi avemmo un breve dialogo non verbalizzato pochi giorni prima dell’attentato. Io alle riunioni non sentii mai l’idea di un attentato a Borsellino e glielo dissi allo stesso giudice. Eppure lui aveva il volto tirato, temeva di morire di lì a poco. La sera prima di morire, mi disse che non ci saremmo più visti. Sapeva di dover morire. Io gli dissi che nella riunione (nella quale venne deciso di uccidere Falcone, ndr) non era stato fatto il suo nome. Forse sbagliai a rassicurarlo. Gli dissi anche che sapevo che Mutolo collaborava. Da chi lo appresi? Dagli ambienti della caserma in cui mi trovavo”.
A Borsellino parlò anche di contatti tra Cosa nostra ed esponenti dei Servizi segreti. “Noi sapevamo che Contrada era vicino. Ma lo era anche Ignazio D’Antona, dirigente della Squadra Mobile di Palermo. Questi nomi li ho fatti al dottor Borsellino nel nostro colloqui informale. Ma gli parlai anche di vigili urbani, pretori, avvocati, onorevoli. Tutti a braccetto con la mafia”.

Fontana, l’Addaura e il Castello Utveggio
Ultimo dei teste a sfilare quest’oggi innanzi alla Corte presieduta da Balsamo è stato il pentito Angelo Fontana. Questi ha iniziato la propria deposizione ripercorrendo le fasi della propria collaborazione entrando subito nel vivo del proprio “ripetuto cambio di versione” in merito al proprio coinvolgimento nei fatti. “Per essere considerato in un certo modo come collaboratore di giustizia dovevi aver compiuto qualcosa di un certo tipo ed io avevo bisogno di accreditarmi in qualche modo – ha detto rispondendo alle domande dei pm – Così mi inventai la partecipazione all’attentato fallito contro il giudice Falcone. Ma a parte questo ho detto quello che so e che mi è stato raccontato”. L’ex boss dell’Acquasanta, che aveva accusato il cugino Angelo Galatolo di aver partecipato al fallito attentato, non poteva essere infatti presente in quanto, a quel tempo, si trovava in America dove viveva con l’obbligo di firma a New York. A prescindere dalla propria presenza o meno non si può ignorare il riscontro della polizia scientifica che incastra proprio Angelo Galatolo, che era stato già condannato nel primo processo per la bomba piazzata da Cosa nostra davanti alla villa del giudice Giovanni Falcone, nel giugno 1989. Anche perché gli accertamenti hanno ribadito che è sua la macchia di sudore rinvenuta ventuno anni dopo su una maglietta che era stata abbandonata accanto alla borsa carica di esplosivo. “Galatolo aveva il telecomando in mano – ha raccontato il collaboratore – era dietro uno scoglio, a circa 50 metri, in un incavo tracciato dal mare. Poi, l’attentato non si fece perché Nino Madonia fece segnale a tutti di rientrare dopo aver notato la presenza della polizia sugli scogli. Galatolo, che aveva il telecomando, si gettò in acqua”.
Ma il pentito ha fornito un contributo, e per questo in particolare ha deposto quest’oggi, sul Castello Uveggio. L’ex boss dell’Acquasanta ha ribadito, seppur con meno certezza, che “ Vincenzo Galatolo mi disse che Gaetano Scotto andava a Monte Pellegrino per incontrare alcune persone dei Servizi. Anche se non ho mai approfondito. A me mi parlavano di amici, delle persone”. Scotto è uno degli scagionati della strage, anche se, così come scoperto da Gioacchino Genchi, telefonò per ben due volte al Cerisdi, che si trovava proprio all’Utveggio, il 6 febbraio ed il 2 marzo 1992. Un aspetto che resta tutto da chiarire.
Il processo è stato quindi rinviato a domani quando, sempre all’aula bunker di Rebibbia, saranno sentiti i collaboratori di giustizia Malvagna, Vara e Grazioso.

Mutolo accusa Ayala in aula: “Era avvicinabile e diede solo dieci anni a Gambino” da: antimafia duemila

mutolo-tribunale-caltanissettadi Aaron Pettinari – 26 maggio 2014Al Borsellino quater sentiti anche i pentiti Trombetta e Romeo“Prima del maxiprocesso, mandai a dire a Riina che potevo intercedere per Signorino e per l’altro pm Ayala. Lui mi disse ”fatti il carcerateddu e poi fuori ci pensiamo noi. Al momento dell’imputazione, a me hanno chiesto 25 anni e al mio capo mandamento, Giacomo Giuseppe Gambino, hanno chiesto solo 10 anni. Questo lo vedo come un ‘favore’ che Ayala ha fatto a Gambino

E’ la prima volta che il collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo parla in aula del giudice Giuseppe Ayala. Lo ha fatto quest’oggi al processo Borsellino Quater che si sta celebrando innanzi alla Core d’assise di Caltanissetta, in trasferta presso l’aula bunker di Rebibbia a Roma. “Queste cose le dissi anche al giudice Natoli – ha aggiunto Mutolo – Gli raccontai di questo episodio e lui tempo dopo mi spiegò che Ayala aveva scambiato “u’tignusu” (Giacomo Giuseppe Gambino) per un altro Gambino della Guadagna che era comunque a processo. A Natoli avevo detto di questo fatto di Ayala ma non insistetti anche perché ormai era entrato in politica non lo facevo come un pericoloso. Per me restava una figura ambigua. Seppi da Enzo Sutera, mafioso di Partanna Mondello, che c’era chi ci portava droga. E si diceva che avesse il vizio del gioco”.
Ma non è questa l’unica “rivelazione inedita” che ha espresso oggi in aula. Parlando della propria collaborazione con la giustizia ha infatti detto di aver avuto diversi colloqui con “personaggi di Palermo”. “Dopo le stragi c’era l’urgenza di arrestare la violenza dei corleonesi. Per combattere la mafia era una lotta senza quartiere. Io cercavo collaboratori. Ho aiutato diversi mafiosi a pentirsi. Penso ai miei colloqui con Cancemi e Di Matteo. Ma parlavo anche con altri. Alla Dia lo sapevano che mi vedevo con queste persone. Informavo De Gennaro e Gratteri. Sono professionisti, qualcuno di loro è anche andato in galera come il professore Barbaccia”.

L’incontro con Borsellino
Rispondendo alle domande dei pm Mutolo ha poi riferito dell’incontro con Paolo Borsellino, il primo luglio del 1992. “Quell’incontro doveva essere segreto. Borsellino venne con il giudice Aliquò. Io chiesi di lui dopo aver parlato con Falcone. Io misi subito le cose in chiaro con Borsellino. Dovevamo fermare i corleonesi, fermare la potenza militare che avevano. Poi ci saremmo occupati di altro e gli feci i nomi di Signorino e Contrada. Questo  scambio di parole non fu verbalizzato perché era stato in un momento in cui ci eravamo appartati. Quando iniziamo a verbalizzare ad un certo punto arriva una telefonata e Borsellino mi dice: “Vado dal ministro”. Quando è tornato da me il giudice era assai nervoso, rosso in faccia con le sigarette nelle mani. Ne aveva appena accesa una che già ne teneva una seconda in mano. Era preoccupato perché aveva incontrato Parisi e Contrada e mi disse che già sapevano del nostro incontro. Anzi mi portò addirittura i saluti di Contrada che si era messo a disposizione nei miei confronti ‘per qualsiasi cosa avessi di bisogno’. Per lui fu un vero choc”.
Rispondendo alla domanda di Fabio Repici, avvocato di Salvatore Borsellino, Mutolo non ha escluso totalmente che tra i nomi fatto al giudice Borsellino vi fosse anche il nome di Ayala. “Non mi ricordo. Certo non lo posso affermare anche perché parlai di diversi giudici. Se ho fatto certi nomi era per far capire quella che era la situazione del tribunale di Palermo. Io mi fidavo di Borsellino perché sapevo che certi nomi sarebbero rimasti in quel momento segreti. Temevo per me e la mia famiglia. Non ci potevamo permettere che certe cose arrivassero a certe figure”. Quindi ha parlato del tema della dissociazione: “La prima vola che sentii questo termine fu dal dottor Borsellino non nel primo interrogatorio ma in quelli avvenuti pochi giorni prima di morire. Io ero distante ma lo ascoltai discutere con altre persone. E lui gridando diceva ‘Sono pazzi, sono pazzi’. Lui non era d’accordo con questa dissociazione. Se ne parlava perché c’erano boss che volevano ripudiare la camorra e la mafia senza dover dire nulla sui fatti, sulle famiglie”.
Tra le altre cose dichiarate oggi in aula poi vi sono state la a morte di Impastato, “voluta da Gaeano Badalamenti prima di essere messo da parte” e del depistaggio che ne ha seguito. “Si inventarono che Impastato faceva l’attentato dinamitardo ma non era vero”.

Trombetta: “Spatuzza mi disse che questo Scarantino diceva caz…”
A salire sul banco dei testimoni a Roma è anche il collaboratore di giustizia Agostino Trombetta, favoreggiatore della famiglia di Brancaccio, che ha portato un importante conferma alle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza su Maurizio Costa, il cui nome è tra gli atti (indagato per false dichiarazioni al pm ndr) che la Procura generale di Caltanissetta ha inviato alla Corte d’appello di Catania, per supportare la richiesta di revisione del processo sulla strage di via d’Amelio. Spatuzza sostiene che Costa non sapesse a cosa doveva servire la 126, ma il pentito ha spiegato che era comunque “a disposizione” del clan di Brancaccio, “per sistemare le auto rubate”. Nello specifico il boss di Brancaccio parlò di centomila lire date a Costa “per comprare i pezzi di ricambio gli spiegai che dovevamo fare un lavoretto su una 126, per sistemare la frenatura. Gli dissi che la cosa dovevamo farla sul posto dove si trovava la 126. Gli dissi soprattutto di non andare a dire a nessuno cosa stavamo andando a fare”. E Trombetta oggi in aula ha confermato certe circostanze: “Se c’era bisogno di un luogo per dormire per la latitanza di Gaspare Spatuzza Maurizio era a disposizione”. E poi ha aggiunto: “Costa smontava le auto al magazzino di Spatuzza. In genere si portavano lì le auto rubate. Una volta ricordo che lo vidi arrivare dalla stradina che porta al magazzino. Lo stavo cercando da un po’ e lui mi disse che lo aveva mandato a chiamare Gaspare, che gli aveva dato centomila lire, di non dire niente a nessuno. Che quei soldi servivano per sistemare un fanale e le pastiglie dei freni. Mi raccontò anche che stava entrando in macchina ma che Spatuzza lo fermò praticamene e poi gli diede quei soldi. Mi rimase in testa perché era strano che Gaspare non mi diceva niente così come strano era che lui pagava centomila lire. In genere ero io a pagare i soldi per i pezzi di ricambio. Anche io vidi quella macchina molto vecchia al magazzino e quando chiesi a Gaspare cosa dovevamo farci mi disse che era da sistemare per la sorella”.
Trombetta fa riferimento anche ad un altro fatto particolarmene importante in merito ad un discorso in auto avuto con Spatuzza riguardo a Vincenzo Scarantino: “Sì mi disse che era un pezzo di merda, perché diceva cazzate e stava rovinando tutti. Già si sapeva che collabrava con la giustizia e che parlava della Fiat 126. Quando è accaduto questo colloquio? Tra il 1994 ed il 1995. Non ne parlai prima perché non diedi peso a questa dichiarazione. Per me Spatuzza mi diceva soltanto che Scarantino diceva fesserie. Poi nel 2009 ho ricollegato”.

“Le stragi? Per il 41 bis e Berlusconi
Ultimo pentito ascoltato in aula è stato poi Pietro Romeo, artificiere della cosca mafiosa di Brancaccio già condannato per la strage di via dei Georgofili, ha raccontato di quelle che erano le motivazioni che hanno portato poi alle stragi. “Ne parlavo con Francesco Giuliano. Lui mi disse che si facevano per il 41 bis”. Nello specifico ne parlarono poi anche in un’altra occasione in cui vi era presente anche Gaspare Spatuzza. “Giuliano mi raccontava che c’era un politico che ci diceva che si dovevano mettere le bombe. Io prima avevo sempre saputo da Francesco Giuliano di un politico, ma non sapevo chi era. Poi un giorno eravamo io, Francesco Giuliano e Gaspare Spatuzza. Giuliano commentava gli attentati e chiese a Spatuzza ‘Perché li abbiamo fatti, per chi, per Andreotti o Berlusconi?’ e Spatuzza rispose: ‘Per Berlusconi’.” E sempre stando a quanto aveva appreso da altri mafiosi e dallo stesso Gaspare Spatuzza, Romeo ha aggiunto che “era Giuseppe Graviano che andava a trovare il politico con il quale aveva i contatti”. E se le stragi dovessero concludersi con quella all’Olimpico o meno ha detto: “Non lo so ma io ho fatto ritrovare dell’altro esplosivo che stava a Roma”.  Il processo si è quindi concluso con il rinvio alla giornata di domani quando, in base al programma, saranno sentiti i pentiti Ferrante, Grigoli, Sinacori e Drago.

Silvia Resta: “Ignorati gli avvertimenti di Falcone e Borsellino, l’informazione non ha fatto il suo dovere” da: antimafia duemila

resta-silvia2-men.raffdi AMDuemila – 22 maggio 2014

Palermo. “Falcone alla fine del ’91, in un dibattito a Castello Utveggio ci avvertì che Cosa nostra stava entrando in borsa. Ci stava dicendo che la mafia non era più coppola e lupara, ma stava scalando i palazzi del potere ed entrando dentro le cattedrali del potere economico e politico”. Lo ha detto Silvia Resta, giornalista televisiva, nel corso dell’incontro organizzato dall’Associazione culturale Falcone e Borsellino intitolata “Menti raffinatissime”, che parte dalle intuizioni del giudice Giovanni Falcone all’indomani del fallito attentato all’Addaura. “Anche Borsellino, pochi giorni prima di morire – ha continuato la giornalista – intervistato da alcuni giornalisti francesi ci diede lo stesso avvertimento. Ci parlava di Vittorio Mangano, boss di Porta Nuova che era arrivato fino ad Arcore dove esisteva un imprenditore del settore televisivo ed edilizio (Silvio Berlusconi, ndr) che cominciava ad avere legami con la politica”, “ci metteva in guardia perché Cosa nostra non era più solo pizzo e droga, ma sta diventando altra cosa”.

La Resta ha ricordato che all’indomani della morte di Falcone e Borsellino “si è cercato di oscurare questi avvertimenti che erano stati lanciati, e che trovano esplicitazione con le elezioni del ’94 in cui nasce una forza politica (il partito Forza Italia, ndr)”, “figlia di Marcello Dell’Utri, un personaggio di cui Borsellino aveva già parlato” e da poco “condannato in via definitiva per mafia” menti-raffinatissime-pubblico
Questa forza politica, ha continuato la giornalista, “ha preso potere in questo Paese per vent’anni, e ci ha lasciato solo macerie. Io penso – ha detto ancora – che in questi vent’anni l’informazione non ha fatto fino in fondo il suo dovere, forse per via di quelle menti raffinatissime che hanno controllato passaggio per passaggio, processo per processo”, “i giornalisti che hanno provato ad indagare, a puntare il dito contro il potere criminale sono stati additati come anti italiani, colpevoli di tradire la democrazia” perché “nelle grandi televisioni e redazioni è stato fatto un controllo capillare su questi temi”. Ma, ha precisato la Resta “questo ventennio non è ancora finito, e ancora oggi un giornalista non tira le somme” per “comprendere che questa mafia che Falcone aveva capito voleva scalare i palazzi c’era infine arrivata”.
“Oggi sono venuta qui – ha poi concluso – per chiedere scusa a Di Matteo, a Tartaglia, a Del Bene, che non mi vedono mai durante le udienze del processo trattativa Stato-mafia. Perché a fare i servizi televisivi non mi ci mandano”. “Chiedo scusa a nome di tutta la stampa italiana, sperando che con il sostegno di tutti voi, soprattutto dei giovani, si possa riportare l’informazione a una dimensione civile”.