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Le gravissime responsabilità storiche del Partito Democratico nel varo di provvedimenti rovinosi per scuole e università sono un fatto. Cominciamo con la scuola. Alla fine degli anni ‘90, con i decreti attuativi della legge sull’autonomia scolastica (D.P.R.275/99), si è avviato un nuovo modello di governo e di gestione della scuola pubblica che prevede l’affidamento alle singole scuole di una serie di poteri in materia di organizzazione didattica, ricerca e sperimentazione, funzionali alla progettazione e alla realizzazione del proprio piano dell’offerta formativa; contemporaneamente, si è disegnato un nuovo reticolo di rapporti con gli enti locali che pone la scuola talora al centro, talaltra alla periferia del sistema.
A quindici anni di distanza, il buon senso avrebbe suggerito almeno un tagliando. Una riflessione seria sugli esiti della riforma a livello nazionale, aggregando e disaggregando i dati locali multidimensionali. Tanto più dopo la falcidia operata da Gelmini che, nel 2008, senza dire né ahi né bai, ha tagliato di netto tutte le sperimentazioni. Sulle quali, credo, meritava che il Paese si interrogasse.
La legge sull’autonomia scolastica, e questo è un fatto, ha determinato la trasformazione della scuola da istituzione dello Stato a ente che eroga un servizio per lo Stato dotato di personalità giuridica, ponendola alla stregua delle scuole private che, ancorché paritarie, sono e restano enti privati che vendono il loro servizio formativo a clienti paganti. Le istituzioni scolastiche diventano, da quel momento, espressione di un’autonomia funzionale intesa non come tutela dell’autonomia del sistema scolastico, ovvero come tutela dell’autonomia della scuola della Repubblica e della Costituzione da qualunque illegittima e contingente ingerenza politico-ministeriale, bensì come sdoganamento della libertà anarchica di ogni singola scuola di inventarsi un suo peculiare profilo culturale ed una sua peculiare offerta di ‘servizi formativi’ da propinare alle famiglie ormai assuefatte ad ogni sorta di imbonimento e di marketing.
La progressiva, costante riduzione dei finanziamenti pubblici ha completato l’operazione di smantellamento indicata da Berlinguer. Oggi, l’unico capitolo di spesa che afferisce al bilancio dello Stato è costituito dagli stipendi dei lavoratori della scuola; il resto, e cioè il finanziamento del funzionamento delle scuole, si racchiude in cifre talmente risibili che definirle simboliche è un eufemismo. Di fatto, come tutti sappiamo, senza i contributi volontari delle famiglie le scuole statali italiane chiuderebbero.
E’ utile ripercorrere rapidamente la storia dell’autonomia scolastica? Forse sì, almeno per comprendere con chiarezza la genesi e le fonti del ddl Renzi attualmente in discussione in Parlamento, ovvero del progetto liberticida della scuola pubblica statale che, esasperando il dispositivo dell’autonomia in chiave personalistica e, oserei dire, patologica, ne configura oggi la definitiva cancellazione.
Come ci ricorda Antonia Sani [1], fu nell’estate del 1994 che il concetto di autonomia scolastica imboccò la via che vede oggi il suo epilogo nel ddl di Matteo Renzi. Il documento “Una nuova idea per la scuola”, di area centrosinistra, poneva al centro una nuova idea di autonomia scolastica, che sarà da quel momento in poi l’idea vincente. Il modello NON è l’autonomia del sistema scolastico dagli indirizzi prodotti dalle maggioranze governative del MIUR, ma una sorta di libertà dei singoli istituti di porsi in competizione sui livelli di efficienza offerti.
E’ servita quella competizione? E’ stato utile per le famiglie scegliere la scuola dei loro figli sulla base del POF più accattivante o della presentazione più o meno seduttiva fatta nelle giornate di orientamento per accaparrare iscrizioni? Con l’autonomia, la qualità dell’offerta formativa delle scuole italiane è cresciuta? Gli esiti degli apprendimenti degli studenti e le loro abilità fondamentali sono migliorati?
Queste sono le domande serie che bisognava porsi e a cui bisognava dare una risposta ragionata e argomentata. E non solo ai cosiddetti stakeholder (le famiglie, direttamente interessate al problema della scuola) ma a tutti gli italiani. Perché la scuola, e l’università, sono una questione che riguarda tutti gli italiani e non solo chi occasionalmente le frequenta. E tutti sono dunque ‘portatori d’interesse’.
In quel documento, firmato tra gli altri dallo stesso Berlinguer, si delineava l’idea dell’autonomia – all’interno di un sistema formativo pubblico, nazionale e unitario, che comprendesse scuole statali e non statali – come principio riformatore fondamentale e si indicava già allora la necessità di introdurre un bonus fiscale per un portafoglio di investimenti privati – da parte di cittadini, associazioni, fondazioni, imprese – all’interno delle scuole.
Et voilà, con l’autonomia e i suoi annessi il succulento banchetto della privatizzazione della scuola pubblica e della precarizzazione della professione docente è servito dal nostro Master Chef Renzi all’ingorda Confindustria, che con tre gole caninamente latra reclamando una volta per tutte il suo fiero pasto. Noi.
Veniamo all’università. Chiunque abbia vissuto i giorni di impegno forsennato contro la riforma Gelmini (la resistenza coriacea sui tetti, la febbrile produzione di analisi e documenti, le battaglie oscure all’interno degli atenei e le fatiche estenuanti all’esterno delle aule e dei corridoi) ricorderà il contegno sonnolento del Partito Democratico, per nulla turbato dall’enormità della posta in gioco.
Com’è noto, quella “riforma”, che un mantra facile e insidioso spaccia come “meritocratica” e “antibaronale”, ha inflitto al sistema pubblico della formazione e della ricerca una ferita insanabile di cui non si smetterà mai di scontare tutte le disastrose conseguenze (oltre che le disfunzionalità burocratico-amministrative: ma quello della governamentalità aziendale non era un universo dorato?). Nella sostanza, l’impianto della legge 240 viene deciso dalla convergenza di tutte quelle forze che fanno gravare sull’università e sulla ricerca, che non sia al servizio spicciolo dell’impresa, un diffuso sospetto di inutilità se non proprio di nocività.
Dopo aver fornito giustificazione teorica – la ‘razionalizzazione’ per le università, l’ ‘essenzializzazione’ per le scuole – al definanziamento sempre più insopportabile, la legge Gelmini apre la strada a un aumento indefinito della tassazione studentesca negli atenei, amplia a dismisura il potere dei vertici, precarizza la ricerca con la cancellazione della figura del ricercatore a tempo indeterminato (vanificando il senso stesso della trasmissione del sapere), decide l’ingresso degli esterni nei consigli di amministrazione in nome della “modernizzazione” del sistema e del rafforzamento del legame dell’università con il territorio (un ‘vizietto’ ereditato dal centrosinistra) e con l’impresa; il che significa, nei fatti, consegnare alle necessità del mercato l’orientamento delle politiche di ricerca e didattica di alcuni settori (politecnici, aree tecnologiche e mediche). E poco importa che i potenziali investitori siano distribuiti in modo diseguale sulla superficie nazionale del Paese.
Di fronte a questo disegno regressivo per la dignità, i giovani e il futuro il Partito Democratico si trincera dietro l’ipocrisia di una ‘solidarietà’ di facciata alla protesta (la passeggiata di Bersani sui tetti della Sapienza e il doveroso voto contrario in Parlamento) e si dimostra del tutto incapace di abitare un orizzonte culturale diverso da quello che avrebbe dovuto combattere. Per conformismo e per ignavia. E, d’altra parte, non è un segreto per nessuno che buona parte dell’impianto gelminiano sia stato suggerito, condiviso e sostenuto da intellettuali e riformatori scolastici politicamente vicini a quel partito.
Il fatto è che la contiguità – e la compromissione – dell’establishment del PD con il disegno strategico ‘modernizzatore’ varato dal Governo Berlusconi ha radici assai profonde: ha alle spalle anni in cui i riformatori “di sinistra” hanno gettato le basi per la creazione del rapporto tra università e impresa, formazione e interessi privati. E infatti, l’apertura al territorio, l’avvicinamento alle aziende, la partecipazione dei privati costituiscono il catechismo di ogni riforma da Luigi Berlinguer a Mariastella Gelmini. Alla base, naturalmente, una miracolosa capacità di regolamentazione del mercato e la concorrenza come ecologia della società: un von Hayek nudo e crudo. Per tacere dei miraggi professionali e delle effimere competenze dettate dalla moda del momento e incarnate nella riforma del 3 + 2.
Nulla di strano quindi che la promessa fatta sui tetti da Bersani di adoperarsi per l’abolizione della legge 240 venga poi prontamente smentita dall’appoggio concesso dal Partito Democratico al successore della Gelmini nel governo Monti, quel ministro Profumo rivelatosi l’esecutore testamentario della riforma: sua l’ineffabile uscita per cui la legge 240 non andava abolita, ma «oliata»; e infatti, l’emanazione dei decreti necessari alla legge reca la firma del ministro. In più, Profumo si illustra per il famigerato decreto AVA sull’AutoValutazione e l’Accreditamento delle sedi e dei corsi universitari (D.M. 47/2013).
Nel più totale silenzio della stampa mainstream, il dispositivo sancisce i parametri e le modalità di valutazione che verificano periodicamente e decretano la vita o la morte degli atenei e dei corsi di studi: un assemblaggio malfatto di requisiti puramente numerici, meri algoritmi difficili da soddisfare da parte di corsi di laurea che sopravvivono a stento, in un contesto caratterizzato dall’impossibilità di assumere nuovi docenti, dato il blocco del turn over imposto dalla Legge 133/08 e successivamente dalla spending review (d.l. 95/2012), oggi drammaticamente aggravato dalla legge di stabilità del governo delle larghe intese.
Né si tratta di questioni meramente tecniche: il decreto, che prevede vincoli stringenti solo per le università statali e deroghe generose per quelle non statali e telematiche, oltre a determinare un impoverimento notevolissimo della formazione universitaria, con la cancellazione di interi settori del sapere, non manca di orientare il sistema all’introduzione o all’inasprimento del numero chiuso o programmato, dal momento che la nuova formula per il calcolo dei docenti di riferimento stabilisce un numero superiore di docenti necessari alla sopravvivenza del corso di laurea in relazione al numero degli studenti.
Con tutte le conseguenze in termini di violazione del diritto allo studio che ciò comporta. Sebbene questi parametri si siano rivelati di fatto inapplicabili –a meno di non voler far chiudere battenti alla maggior parte degli atenei italiani– con il proprio appoggio il Partito Democratico si rende complice dei mandanti di una nuova, radicale accelerazione nella direzione di quello strozzamento del sistema universitario pubblico, del tutto sganciato da ogni considerazione di qualità sulla ricerca e sulla didattica, ma contrabbandato come icona del “merito”.
E tuttavia, non migliore fortuna si è registrata con la ministra piddina Maria Chiara Carrozza, impegnata sin da subito a battere il record negativo del precedente ministro. Carrozza sollecita insistentemente le sirene della selezione meritocratica, ma si capisce subito che “merito” è il termine vuoto con cui si intende stabilizzare e inasprire gli strumenti di ricatto e di disuguaglianza che disciplinano la società.
E così, dopo aver emanato il suo Decreto Ministeriale sul numero chiuso e promosso il ricorso ai test standardizzati come strumento di valutazione (con l’obiettivo dichiarato di introdurre l’Invalsi anche nell’Università: test standardizzati per tutti per standardizzare i pensieri di tutti), la ministra dà la stura all’ennesimo aggravamento del blocco del turnover negli atenei, che corrisponde a un taglio di svariati milioni di euro, al netto dei proclami del governo delle larghe intese sulla necessità di non fiaccare ulteriormente un malato terminale. E infatti, sull’università e i fondi di ricerca la priorità individuata è, manco a dirlo, quella di razionalizzare le poche risorse disponibili, unitamente al solito mantra del potenziamento del rapporto tra ricerca, territorio e impresa.
Ma il vero capolavoro di iniquità è il decreto sui punti organici, con cui si decide del ricambio generazionale e della possibilità stessa di fare ricerca nelle varie università italiane: due soli atenei del Nord (Milano e Bologna) ottengono gli stessi punti organico di tutte le università meridionali messe insieme. Il sistema di ripartizione premia, evidentemente, gli atenei delle regioni con PIL più alto rispetto agli atenei con PIL più basso.
La strategia dell’era Carrozza è evidente: ridurre drasticamente il numero degli atenei e creare poli accademici di serie A, ultra-finanziati e d’eccellenza, ed altri di serie B, sotto-finanziati e caratterizzati da una pessima didattica e da una ricerca inesistente. Il merito e la valutazione, dispositivi di controllo e disciplinamento sociale in una fase di crisi senza precedenti, diventano paradigma anche all’interno degli atenei, attraverso il braccio armato dell’ANVUR (il mostro “meritocratico” di emanazione governativa di cui proprio il PD e il ministro Mussi sono i benemeriti ideatori): dopo aver tagliato drasticamente settori cruciali della ricerca pubblica – i piani di ricerca nazionale e i dottorati di ricerca –, si redistribuiscono i residui secondo precisi interessi, che poco hanno a che fare con la qualità della didattica e ancor meno con il diritto allo studio, ormai svuotato d’ogni senso.
Carrozza, con buon seguito di replicanti, alimenta il mito ossessivo delle “tecniche di valutazione”, sottraendo al dibattito pubblico una visione di sistema condivisa, che rifiuti il concetto di premialità e lo sostituisca con l’impegno a uniformare ed estendere qualità e diritto allo studio su tutto il territorio e a porre un argine alla minaccia dell’esclusione. Sul nefasto interessamento del Partito Democratico per l’università molto altro si potrebbe dire: a intervalli regolari ma frequenti, il partito si è distinto per la proposta con cui il senatore Ichino (passato per breve periodo a Scelta Civica e poi nuovamente accolto dal PD come figliol prodigo, insieme all’altra figliola prodiga Giannini, che assunse la titolarità del MIUR alla vigilia della sua candidatura come capolista alle ultime elezioni europee, testimoniando, nei fatti, il suo reale e fattivo interesse per i problemi dell’istruzione e della ricerca in Italia) ha indicato, insieme a un ampio seguito di sostenitori, la strada del meccanismo del prestito d’onore e della liberalizzazione delle rette universitarie, nonché dell’abolizione del valore legale del titolo di studio.
Resta il fatto che, al momento, dato l’operato sulla scuola, nel merito e nel metodo, fanno rabbrividire i proclami renziani sulla prossima, buona università. Da qualche cenno del ‘novissimo’ premier e della sbiadita ministra Giannini, si preannuncia l’accentuazione della logica premiale e competitiva tra gli atenei, l’incentivazione dei finanziamenti privati, l’introduzione di premi e sanzioni basati sui risultati della gestione, l’ulteriore burocratizzazione della ricerca. Insieme alle consuete parole d’ordine del ‘merito’ e dell’‘eccellenza’, qualunque cosa questi termini significhino. Senza neppure il sospetto che scuole e università debbano essere il luogo di costruzione di un sapere diffuso e di una cittadinanza critica, non una palestra per eccellenti.
È del tutto evidente che a guidare le scelte di questa classe politica e del Partito Democratico è qualcosa che non ci rappresenta. “Basta Berlinguer”: una metonimia, un’antonomasia, un’iperbole? Di sicuro è lo slogan che deve riecheggiare nelle menti e nelle voci di chi crede ancora nel valore della scuola e dell’università come strumenti di cultura, di emancipazione, di eguaglianza, di cittadinanza e di democrazia. “Basta Berlinguer”, prima che sia veramente e drammaticamente troppo tardi.
Note:
[1] A. Sani, L’autonomia scolastica soffocata nella culla, La città futura, 30 maggio 2015
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02 aprile 2015
Divisioni. Iscritti in fuga. Infiltrazioni di ogni tipo, comprese quelle della criminalità mafiosa. «Un partito buttato», travolto da indagini giudiziarie e da minacce di scissione. È il Pd che si avvia alle elezioni regionali di fine maggio raccontato nell’inchiesta dell’“Espresso” di questa settimana.
Leggi l’inchiesta integrale su Espresso+
Un viaggio da Nord a Sud in quello che l’ex ministro Fabrizio Barca nel suo rapporto sul Pd romano definisce «un partito non solo cattivo ma pericoloso e dannoso», in cui «traspaiono deformazioni clientelari e una presenza massiccia di “carne da cannone da tesseramento”» e che «subisce inane le scorribande dei capibastone». Con il più importante dei suoi leader storici, Massimo D’Alema, in guerra con la magistratura e con la stampa dopo intercettazioni e notizie senza rilevanza penale che accostano la sua fondazione ai dirigenti della cooperativa Cpl Concordia arrestati da pm napoletani.
A Roma e a Ostia il Pd è chiamato a liberarsi dai condizionamenti della mafia. In Calabria non è stata ancora completata la formazione della giunta di Mario Oliverio, eletta quattro mesi fa. In Campania c’è il caso di Vincenzo De Luca e l’arresto a Eboli di funzionari accusati di sfruttare donne immigrate: certificati falsi di residenza in cambio di voti alle primarie comunali per il Pd. In Sicilia c’è il candidato vincente alle primarie del Pd Silvio Alessi che in realtà è di Forza Italia. Nelle Marche, al contrario, il presidente uscente del Pd Gian Mario Spacca guiderà una lista civica di centrodestra con gli uomini di Berlusconi.
In tutte queste situazioni c’è un solo protagonista, il Pd di sempre, con i vecchi uomini e i vecchi metodi, e un grande assente, il nuovo corso di Renzi. Decisionista da capo del governo, da segretario del Pd Renzi si rivela immobilista. Nei territori finisce in minoranza o è costretto ad affidarsi ai professionisti del trasformismo. E dietro di lui c’è il deserto. «vedo una contraddizione profonda tra il Pd di Roma e il territorio e tra Renzi e il renzismo.
Leggi l’intervista a Reichlin su Espresso+
C’è una grande distanza tra il segretario-premier e la sua classe dirigente», dice Antonio Bassolino. E sulla scissione, avverte il grande vecchio Alfredo Reichlin, «vedo in Renzi una preoccupazione. Lui sa che non si fa un partito del 40 per cento che vuole rappresentare il Paese nel profondo senza un rapporto con l’elettorato di sinistra e le sue rappresentanze». Ma anche per questo il Pd renziano rischia di apparire un’occasione perduta. Un partito buttato.
L’ARTICOLO INTEGRALE SULL’ESPRESSO IN EDICOLA VENERDI’ 3 APRILE E SU ESPRESSO+
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Partito democratico. L’avvento di Renzi è la conseguenza di una sinistra che da tempo non è più “contemporanea”
Renzi pensa, parla, agisce come un politico di destra? Può darsi, in molti casi è evidente, ma le domande a questo punto diventano altre e sono più impegnative: com’è possibile che un politico così abbia “espugnato” senza grande difficoltà il Pd e oggi goda di un consenso largamente maggioritario nell’elettorato che si sente di sinistra e che ha sempre votato a sinistra? Dipende solo dalle sue doti obiettivamente straordinarie di istrione e demagogo? Io non credo, penso che se il Pd si sta trasformando nel partito personale di Renzi perdendo molti connotati tradizionali di un partito “di sinistra”, questo dipende da com’è stata la sinistra prima di lui.
Renzi, insomma, è figlio di D’Alema e di Bersani, nel senso che il suo avvento è la conseguenza di una sinistra, della sinistra italiana erede del Pci, che non ha mai fatto i conti con i propri ritardi, i vizi, le anomalie rispetto a buona parte delle sinistre europee. Una sinistra che da tempo non è più “contemporanea”: per questo si è progressivamente allontanata dagli italiani, compresi tanti che hanno continuato a votarla per abitudine o per mancanza di alternative, e anche per questo Renzi l’ha “spianata”.
Non ha fatto i conti, la sinistra ex-Pci, con tre questioni su cui si sono costruiti prima il suo declino e poi la sua definitiva sconfitta.
Una questione è squisitamente ideologica. Gli ex-Pci cambiarono il nome subito dopo l’Ottantanove, quando peraltro la “cosa” già aveva già pochissimo di comunista. Ma di quella storia hanno conservato un abito mentale che è stato di grave ostacolo per la comprensione dei cambiamenti del mondo e dell’Italia. Così, hanno continuato a misurare il progresso secondo categorie antidiluviane che separano struttura – il lavoro, la condizione materiale delle persone — e sovrastruttura – la legalità, la cultura, l’ambiente, la dimensione immateriale del benessere -, e a concepire l’economia e lo sviluppo come un secolo fa: certo non più “soviet e elettrificazione” ma comunque carbone (Ilva e dintorni), asfalto, cemento.
Così, sono rimasti prigionieri dell’idea del primato della politica sulla società, e della convinzione di essere – loro élite politica — migliori del popolo rozzo e ignorante che si fa infinocchiare da Berlusconi o da Grillo; così, ancora, proprio in quanto ex-comunisti hanno tentato di tutto per dimostrare di non esserlo più: dando prova di una compiacenza sistematica verso interessi costituiti e poteri forti, praticando una rigorosa astinenza da qualunque radicalità si chiami patrimoniale o stop al consumo di suolo o diritti degli omosessuali…
Una seconda questione è culturale. Oggi l’alfabeto politico della sinistra novecentesca è del tutto insufficiente a rappresentare i valori, i bisogni, gli interessi di chi si considera “di sinistra”. Fatica a integrare pienamente nel proprio discorso temi come l’ambiente che settori crescenti della società considerano centrali, non riesce a vedere che malgrado i drammi incombenti legati a disoccupazione e povertà sempre di meno le persone basano il proprio “essere sociale” prevalentemente sul lavoro.
In nessuno dei movimenti sociali e di opinione degli ultimi decenni ascrivibili a idealità di sinistra, il lavoro è stato l’elemento centrale: dall’ambientalismo al femminismo, dai no-global ai movimenti giovanili, dalle mobilitazioni per i diritti civili a quelle per i beni comuni. Il lavoro naturalmente conta tuttora moltissimo, conta tanto più in una stagione di drammatica crisi economica come l’attuale per l’Europa; ma oggi per dare senso e futuro alla parola progresso, specialmente per avere qualcosa da dire su questo che interessi i più giovani, non si può e non si deve mettere al centro solo il lavoro. In molti casi – sicuramente in
Germania e nel nord Europa, meno in Francia — i socialisti europei si sono lasciati trasformare da questi nuovi paradigmi. Gli ex-Pci no.
Infine, la sinistra post-comunista e pre-renziana ha lasciato marcire al proprio interno la questione morale. Il Pci e i partiti suoi eredi hanno sviluppato, a partire almeno dai primi anni Ottanta, un’attitudine crescente a coltivare rapporti opachi con gli interessi economici: quanto più si separavano dalla propria “diversità” politico-ideologica, e dai vincoli anche finanziari con il comunismo sovietico, e tanto più sono andati strutturando un rapporto pragmatico e spregiudicato con l’economia. Un rapporto nel quale hanno assunto uno spazio e un peso sempre più rilevanti legami di scambio politico-elettorale con poteri economici consolidati, dall’edilizia alla grande industria di Stato o sovvenzionata (energia, acciaio, cemento) al sistema bancario, e nel sud con i poteri legati alla criminalità organizzata.
La sinistra erede del Pci è stata anch’essa coinvolta in pieno nella questione morale: da Penati al Mose, dalla sanità pugliese alle “rimborsopoli” esplose in quasi tutte le regioni — nella realtà.
Allora non è Renzi che ha spianato la sinistra italiana: lui si è limitato a seppellire le macerie. Renzi è molto di più che l’antagonista, alla fine vittorioso, di Bersani, D’Alema e compagnia: è figlio loro, semmai va notato che la discendenza non è del tutto “illegittima”. Al di là e al di sotto di un’efficacissima retorica da innovatore, nei comportamenti ripete alcuni schemi mentali e politici tipici della sinistra ex-comunista: non sopporta i corpi intermedi, soprattutto quelli non “collaterali” al suo potere; parla e straparla di partito liquido all’americana ma poi pretende disciplina e obbedienza dai parlamentari Pd; strilla contro i poteri forti ma poi dall’Eni a Finmeccanica, dal programma di “rilancio” dell’energia fossile alla proroga delle concessioni autostradali fa di tutto per corteggiarli e blandirli.
Finisco come ho cominciato, con una domanda. Date queste premesse, è realistica e soprattutto è imminente la rinascita in Italia di una sinistra forte e vera?
Qui non ho una mia risposta ma solo una convinzione: chiunque voglia impegnarsi per questo scopo deve sapere che l’impresa, per non essere pura follia, presuppone sì il superamento di Renzi ma altrettanto la definitiva sepoltura di molte delle idee e dei comportamenti che prima di Renzi abitavano la sinistra italiana e che continuano, mi pare, ad abitare buona parte degli anti-renziani del Pd.
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Poco prima dell’evento, trasmesso in streaming dal sito della Camera, da Rainews24 e da ‘la Cosa’, il professore Becchi scrive un post per il Blog di Beppe Grillo, digitando così: «La legge elettorale è un nodo da risolvere, spartiacque per la vita politica futura del paese. Dopo che la Consulta ha dichiarato che due punti fondamentali del Porcellum sono incostituzionali, Pd e Forza Italia hanno trovato l’intesa su un disegno di legge che presenta gli stessi profili di illegittimità di quella precedente. Con un grande gesto di responsabilità politica, l’opposizione ha offerto al principale partito del Paese di discutere una proposta alternativa che introdurrebbe in Italia un sistema elettorale in grado di bilanciare rappresentatività e governabilità. Anche gli organi di informazione si sono dovuti piegare alla realtà dei fatti ed ammettere che esiste un’alternativa e questa è già una grande vittoria per il M5S».
Le 14:30 arrivano, lo streaming parte e Movimento 5 Stelle e Pd sono di nuovo faccia a faccia.
Ma c’è qualcosa di molto diverso. I parlamentari pentastellati, qualsiasi sia il giudizio politico di chi legge queste righe, stanno lavorando con spirito di sacrificio e con grande dedizione.
Il frutto del loro alacre lavoro si è potuto sentire e vedere, dunque, attraverso la voce e i fogli che distribuiva Toninelli dalla sua postazione del tavolo, frontale al segretario del Partito Democratico.
I cinque stelle sono entrati nel terreno di traduzione del Partito Democratico e, verrebbe quasi da dire, i democratici ne sono fin troppo impacciati.
Ci si pizzica poco durante i primi minuti del confronto, si è attenti al primo relatore (Toninelli) che illustra la proposta chiamata Democratellum. Poi chiamata Toninellum e Complicatellum da Renzi nel corso del confronto.
Si ascolta e si interrompe poco.
Quando prende la parola Renzi che, oltre ad essere il segretario del Pd e Presidente del Consiglio dei Ministri, è l’uomo che aveva bollato con un ‘chi?’ un componente del suo stesso partito: qualche frecciatina vola. Ma i 5 stelle non cadono nel suo tranello, stavolta nervi saldi. Possono non piacere, ma sono cresciuti in maniera esponenziale.
Comunque sia, la proposta di Toninelli, come quella di Renzi, è – di fatto – a stampo maggioritario. Articolata e molto molto complessa sul voto delle preferenze che limiterebbe il voto di scambio, ma chiara su alcuni punti cardine: collegi uninominali molto piccoli, sbarramento al 5% per le liste, voto di preferenza.
«Abbiamo paura che possa capitare con l’Italicum quello che è capitato col Porcellum: pensiamo che Italia non si possa permettere una crisi istituzionale di otto anni come è capitato col Porcellum», ha dichiarato Danilo Toninelli nel corso dell’incontro.
«Dopo le elezioni ci sarà, quindi, una rosa di partiti ridotta e ci sarà una governabilità certa», conclude Toninelli. Di Maio, invece, porta gli esempi del 2006 quando la coalizione di Centrosinistra fu fatta cadere dai voti di Mastella e dalla sua piccola pattuglia, così come lo strappo Fini/Pdl aveva messo in moto il cataclisma che avrebbe poi portato alla nascita di Fli-futuro e libertà per l’Italia.
Nel documento della legge elettorale proposta dal Movimento 5 Stelle si legge: «Ci si attende pertanto che il sistema produca i seguenti effetti: un Parlamento rappresentativo di più forze politiche capaci di attrarre un certo consenso elettorale; esclusione dei partiti piccoli e piccolissimi, salvo quelli molto forti a livello regionale; incentivo alla stabilità intrapartitica; facilitazione alla creazione di maggioranze stabili; rafforzamento delle opposizioni parlamentari, anch’esse concentrate in pochi gruppi di minoranza e quindi in grado di svolgere con più forza la loro funzione di controllo, di proposta e di critica. Si tratta dunque di un sistema proporzionale che, pur incentivando le forze politiche ad aggregarsi prima del voto, non impone fittizie e artificiose costrizioni bipolari».
Da parte del M5S si propone come proporzionale la legge esposta per bocca di Toninelli che, per la verità,di proporzionale non ha molto e infatti, nel documento messo a disposizione dal portale di Grilli, si può ben leggere: «In quest’ottica è rivolta la scelta della rete a favore di un sistema proporzionale sensibilmente corretto con circoscrizioni di ampiezza intermedia. La formula proporzionale di attribuzione dei seggi viene preferita perché garantisce maggiormente la rappresentatività del Parlamento. Il sistema proporzionale non è però puro essendo sensibilmente corretto allo scopo di raggiungere una genuina governabilità del Paese».Corretto, dunque, ma che non va bene a Renzi: ci deve essere un doppio turno, chi vince deve governare. Si deve avere la certezza che, la sera delle elezioni, ci sia un vincitore scandisce il Primo Ministro e segretario del Pd. Inizia qualche battibecco quando entrambe le parti iniziano a rinfacciarsi questioni importanti: la questione delle preferenze ha portato Di Maio a far luce sul fatto che l’unica forza politica a non aver portato indagati e corrotti è stata la sua, al contrario di quella rappresentata dal segretario Renzi.
In sintesi, le resistenze renziane si fondano su alcuni blocchi: il doppio turno e il premio di maggioranza perché «vogliamo fare in modo, per il rispetto dei cittadini, che non ci siano più larghe intese». Non proprio una frase da Matteo Renzi che governa assieme al Nuovo Centrodestra di Alfano, a riprova della messa all’angolo del segretario adoperata dai 5 stelle.
Gli ultimi minuti i più infuocati ma con la proposta di aggiornarsi in un secondo incontro da tenere a breve, secondo di Maio la legge elettorale va fatta entro 100 giorni. Staremo a vedere, certo è che il confronto di oggi ha mostrato come se il M5S si confronta sul terreno del Pd, per i democratici l’asfalto si fa terribilmente scivoloso: l’alibi ‘Grillo urla’, stavolta, non c’è stato
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Il senatore Mineo dal canto suo ha svolto intensa attività professionale proprio nella Rai, come giornalista, nella parte più attaccata alla tradizione pubblica della società, quella soprannominata Telekabul da altri operatori giornalistici e da politici di orientamento diverso. Di conseguenza è certamente contrario a vendere parti della Rai, che considera un bene pubblico. D’altro canto il senatore Mineo, come del resto il senatore Vannino Chiti, e una dozzina di altri, ritiene che un Senato depotenziato e anzi composto da personalità non elettive rappresenti uno scadimento irreparabile per la tenuta stessa della democrazia italiana.
Il voto e in genere l’opposizione di Mineo e Chiti contribuiscono a rallentare il Pd che detesta i ritardi e quindi considera perdite di tempo ogni discussione. La discussione corrisponde a un veto sulla base di un ragionamento di questo genere: il tempo è scarso; o si fa tutto subito o non si fa più niente; quindi se si vuole fare, si deve fare subito; se si vuole fare subito, non si può che mettere in un canto la discussione, chiamandola dissenso e quindi veto . Da questa collana di sillogismi, veri o falsi che siano, poco importa – anzi importa moltissimo se non si deve perdere tempo – deriva una piccola frase “conta il voto, non il veto” che si rifà chiaramente al 40,8% delle elezioni europee e al ruolo di parlamentare nominati e non eletti dei due dissidenti che non ottengono neppure il diritto di parola o di replica alla direzione (o assemblea o come si chiama) del loro partito.
C’è qualche democratico (si può usare ancora questa parola o ne cercheremo un’altra?) che osserva l’esistenza di un diritto costituzionale ad esercitare le funzioni di parlamentare “senza vincolo di mandato”. Di solito si parla così, ma chi parla così esclude di fatto dal discorso la prima parte dell’articolo 67 che pure è uno dei tre o quattro più brevi dell’intera Costituzione. L’articolo dice: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Ogni membro del Parlamento “rappresenta la Nazione”, anche i senatori quindi, e in quanto rappresenta la Nazione non ha più vincoli con il suo partito o con i suoi particolari elettori. Alcuni personaggi minori, uomini o donne, a capo del Pd insistono sull’elemento che un parlamentare nominato (come tutti in questa fase), di elettori con i quali esercitare il proprio diritto a superare il vincolo di mandato, non ne ha affatto; quindi non esiste l’elettore e neppure l’eletto, non esiste il vincolo, esiste solo il partito, al quale assicurare fedeltà. Partito che deve essere aiutato in tutti i modi nel momento in cui per affermarsi deve fare in fretta. L’unica cosa che conta – dicono le seconde linee del Pd – è sapere che il dissenso è ammesso e nessuno viene espulso. Basta che non ci faccia perdere tempo. Inoltre le Commissioni parlamentari sono altra cosa; è il partito che nomina e può quindi revocare i propri rappresentanti. Solo che questo non è vero. La Costituzione all’art. 72 spiega che “le commissioni, anche permanenti, (sono) composte in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari”. Non si parla di fedeltà al partito, anzi si prevede che una minoranza qualificata possa chiedere che il provvedimento in esame torni all’assemblea plenaria. Si ammette insomma – si capisce tra le righe – che il divieto di vincolo di mandato valga anche in commissione. Insomma cacciata dalla porta, la democrazia si ripresenta alla finestra, perfino in parlamento. Perfino in Senato.
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L’occhio di Massimo Franco è molto attento e scrive che: «Il quadro che emerge è più sfaccettato di quello regalato di recente dalle urne europee. Ieri non c’è stata una replica della valanga renziana. […] la battaglia all’ultimo voto a Bergamo, risolta con la vittoria del Partito democratico, il successo dei Grillini in un bastione rosso per settant’anni come Livorno, sono indizi di un Paese che sta cercando nuovi equilibri e che comincia a sperimentarli votando, o astenendosi, nelle città».
Non si può certo dare torto all’attenta penna del ‘Corriere della Sera’: il Paese sta cercando di cambiare pelle alla rappresentanza più vicina che ha e cerca, come si direbbe semplicisticamente in questi casi, ‘volti nuovi’ da mandare come proprio rappresentante nelle istituzioni.
Volti che sta cercando Forza Italia che crolla praticamente dappertutto: i casi più eloquenti sono Livorno (7,46%), Padova (7,36% nonostante la vittoria del candidato leghista Bitonci), Potenza (5,14%).
Il partito di Berlusconi resta a mani vuote mentre la destra, Fd’I-An, a Potenza conquista la città assieme ai Popolari per l’Italia ed una lista civica.
Sta cercando di farsi largo una proposta ‘altra’ da quelle standardizzate e andate a secolarizzarsi come quelle del centrodestra e del centrosinistra, che sono – ormai è del tutto evidente – confini lessico semantici consuetudinari più che realmente politici e basati su imposizioni, più o meno rigide, programmatiche.
Questo è dimostrato di come l’Italia stia diventando sempre più a ‘Umori Variabili’ (titolo dell’editoriale di Franco sopracitato) e di come anche il Partito Democratico si stia smarcando da quella dicitura che lo accomuna, anch’essa più consuetudinaria che realmente comprovata, alle organizzazioni della sinistra italiana del passato.
Le reazioni dei dirigenti del Pd sono chiare e Lorenzo Guerini, vicesegretario dem, afferma: «Le sconfitte bruciano, certo. Ma Bergamo, Pavia, Cremona, Pescara,Vercelli, Biella, Verbania dove eravamo all’opposizione significano qualcosa».
Come a dire: ‘certo, Livorno persa è una mezza sconfitta, ma il Pd è altro’. E se ci fosse ancora bisogno di ribadire un concetto già affermato in più di un’occasione, per usare un’eufemismo, cioè che il Pd è un partito che si distacca da tutte le organizzazioni della sinistra italiana del passato, ci pensa chi afferma che gli sconfitti del Partito Democratico ai ballottaggi non erano renziani.
Non erano allineati, in sostanza, ecco pronta la motivazione di una sconfitta. Non erano stati rottamati, erano ancora forieri di quella ‘vecchia sinistra’ (sic!) che ‘infiniti lutti addusse agli Achei’, come l’ira di Achille. Certamente, colpa loro.
Anche perché «la rottamazione è appena cominciata», assicura Francesco Nicodemo.
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“Ancora abusi da parte delle forze di polizia, lunedì presenteremo un’interrogazione parlamentare”. E’ quanto fanno sapere i senatori Luigi Manconi, del Partito democratico e presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani di Palazzo Madama , e Peppe De Cristofaro, di Sinistra ecologia e libertà dopo la notizie arrivate nei giorni scorsi da Monza e Napoli riguardo presunte violenze ai danni di alcuni cittadini stranieri fermati dalle forze dell’ordine.
“Nelle ultime ore le agenzie di stampa riportano due vicende avvenute a Monza e a Napoli – spiegano i due senatori in una nota congiunta -. Protagonisti, in entrambe le situazioni, cittadini stranieri e forze di polizia. A Napoli, a seguito di una “retata” per sequestrare merce contraffatta a degli ambulanti, il rappresentante della locale comunità senegalese ha denunciato violenze da parte di alcuni uomini della guardia di finanza. Si apprende che un uomo di 47 anni sarebbe stato “picchiato fino a perdere i sensi” e l’avvocato dichiara le difficoltà riscontrate in ospedale per riuscire a far refertare il suo assistito: “ho dovuto fare una battaglia, sempre sotto lo sguardo di due finanzieri. Ad esempio non avevano riportato le numerose lesioni alle gambe e al gomito e la ferita al capo. Addirittura avevano scritto ‘paziente non collaborativo’ quando semplicemente, non parlando italiano, non capiva cosa gli venisse chiesto”.
Il caso di Napoli , va ad aggiungersi a quello di Monza, dove alcune foto apparse sui giornali mostrano un cittadino straniero ammanettato alle mani e ai piedi, riverso a terra, sotto gli occhi degli agenti del commissariato. Un “gravissimo comportamento attuato dagli agenti di polizia all’interno del commissariato di Monza”, spiegano i senatori. “Tutto questo deve indurre a una riflessione da parte del governo e in particolare da parte dei ministeri da cui dipendono le forze di polizia sui criteri con cui le stesse vengono formate e addestrate – continua la nota -. Sembra potersi dire che si rivela con drammatica frequenza un deficit di preparazione e di consapevolezza dei diritti dei cittadini”.
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Gli eletti nella circoscrizione Isole (dati ufficiali – tra parentesi i primi dei non eletti. Fonte: Youtrend.it):
Partito Democratico: Soru – Chinnici
Movimento 5 stelle: Corrao – Moi
Forza Italia: Pogliese
Gli eletti nella circoscrizione Sud
Partito Democratico: Pittella – Picierno – Gentile – Paolucci – Cozzolino – Caputo
Movimento 5 stelle: Adinolfi – Ferrara – D’Amato – Aiuto
Forza Italia: Fitto – Martusciello – Martusciello – Matera – (Baldassarre)
Nuovo Centro Destra: Cesa – (Picone)
Lista Tsipras: Spinelli – (Forenza)
Gli eletti nella circoscrizione Centro
Partito Democratico: Bonafè – Sassoli – Gasbarra – Bettini – Danti – Costa – Gualtieri – (De Angelis)
Movimento 5 stelle: Agea – Castaldo – Zama – Gamburrano
Forza Italia: Tajani – Mussolini
Nuovo Centro Destra: Lorenzin – (Casini)
Lista Tsipras: Spinelli – (Furfaro)
Gli eletti nella circoscrizione Nord-Est
Partito Democratico: Moretti – Zanonato – Kyenge – De Castro – De Monte – Schlein – Zoffoli – (Vantini)
Movimento 5 stelle: Borrelli – Affronti – Gibertoni – (Zullo)
Forza Italia: Gardini – Sernagiotto – (Sartori)
Lega Nord: Salvini – Tosi – (Bizzotto)
Sudtiroler Volkspartei: Dorfmann
Gli eletti nella circoscrizione Nord-Ovest
Partito Democratico: Mosca – Cofferati – Bresso – Toia – Panzeri – Briano – Morgano – Benifei – Viotti
Movimento 5 stelle: Beghin – Valli – Evi – Zanni
Forza Italia: Toti – Comi – Cirio – Maullu
Lega Nord: Salvini – Buonanno – Ciocca – (Bruzzone)
Nuovo Centro Destra: Lupi – (Salini)
Lista Tsipras: Ovadia – (Maltese) – (Sgrena)
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