Ttp e Ttip bloccati al Senato dalle opposizioni del partito democratico. Battuta d’arresto per Obama Autore: fabio sebastiani da: controlacrisi.org

L’obiettivo di Barack Obama di firmare in tempi brevi il Ttp il grande accordo commerciale con 11 Paesi dell’area del Pacifico, si blocca al Senato. L’attacco arriva dal cosiddetto “fuoco amico”, il gruppo di democratici che di fatto ha votato contro il proprio presidente, bloccando la legge che avrebbe dato alla Casa Bianca il potere di accelerare sull’intesa. Si tratta di quei poteri di “fast track” che Obama chiede da tempo al Congresso, per poter chiudere la complessa partita della Trans-Pacific Partnership.
Ora tutto e’ demandato al dibattito che si aprira’ in Congresso, con i tempi del TPP che inevitabilmente si allungheranno, rinviando quell’area di libero scambio che va dal Giappone all’Australia, dalla Corea del Sud alla Nuova Zelanda, passando per il Cile e il Messico. A questo punto però a cadere nelle maglie dell’opposizione potrebbe essere anche il Ttip, cioè l’accordo gemello che gli Usa stanno cercando di concludere con l’Europa.
Proprio pochi giorni fa dal quartier generale della Nike, in Oregon, Obama aveva lanciato un appello pubblico a fare in fretta. Ma l’effetto ottenuto è staato quello di aver portato allo scoperto le proteste. La Casa Bianca ha dovuto fare i conti con l’agguerrita pattuglia di democratici contrari, a partire da quelli appartenenti all’area liberal del partito, quella piu’ a sinistra rappresentata in particolare dalla senatrice Elizabeth Warren, protagonista negli ultimi giorni di un vero e proprio braccio di ferro con Obama. Ma determinante nello stoppare i piani del presidente è stato anche il ruolo del leader della minoranza democratica al Senato, Harry Reid.
Le obiezioni poste al TPP sono sostanzialmente tre, poste come ‘conditio sine qua non’ per concedere la ‘fast track’ al presidente: fornire assistenza ai lavoratori colpiti dall’accordo, a partire da quelli che subiscono le politiche di delocalizzazione; operare una stretta contro la manipolazione delle valute operata da alcuni Paesi che negoziano l’intesa; estendere il programma in scadenza che da’ la preferenza sul fronte degli scambi commerciali ai Paesi dell’Africa sub-sahariana.
Nei giorni scorsi un alto funzionario delle Nazioni Unite, in un’intervista al The Guardian, aveva avvertito i cittadini europei sulle conseguenze dell’approvazione del Trattato di libero scambio fra Stati Uniti ed Europa, i cui negoziati sono entrati nella fase cruciale. “L’Onu non vuole un ordine internazionale post democratico – dice il rappresentante dell’Onu Alfred de Zayas – Bisogna fare tesoro delle lezioni passate. Già in altri trattati internazionali le multinazionali sono riuscite a bloccare le politiche dei governi grazie all’aiuto di tribunali segreti che operavano al di fuori della giurisdizione nazionale. Lo stesso meccanismo si vuole riproporre con il Ttip”.

Il Datagate ha la faccia simpatica e il cuore militante dell’informatore Edward Snowden Fonte: ilciottasilvestriAutore: Roberto Silvestri

Citizenfour di Laura Poitras. Oscar 2015 per il documentario

Non è vero che il sistema di supercontrollo della National Security Agency, sede a Bluffdale, Utah, sulle nostre conversazioni quotidiane via telefono o internet, tuteli l’anonimato e la privacy, come sostenne Obama, giustificando la messa in accusa per alto tradimento dell’informatore Edward Snowden sulla base di leggi redatte nel primo dopoguerra per colpire le spie di una potenza straniera, ma soprattutto i comunisti, strutturalmente  tutti spie di Mosca. Attraverso questo sistema spionistico post-orwelliano la macchina del fango può colpire retroattivamente chiunque… rubare qualunque idea creativa o industriale, far vincere le elezioni a qualunque presidente e le primarie anche a un pd improbabile e distruggere qualunque nemico… Questo si era capito due anni fa.

Ora, proprio in queste ore l’Nsa, l’agenzia statunitense che ha architettato dopo il 2001 quell’ illegale piano di sorveglianza globale in nome della lotta al terrorismo, è messa sotto accusa dall’opinione pubblica tedesca anche perché si è scoperto che in combutta con i servizi segreti di Berlino e con grandi aziende conniventi controllava e maneggiava telefonate e email non tanto dei terroristi islamisti quanto delle concorrenti industriali europee, gettandole in balia dei conglomerati più potenti manovrati da Wall Street. Spionaggio. Gestito fifty-fifty con i politici della globalizzazione  dall’alto . Angela Merkel sapeva tutto. E sa in cosa consiste la tanto da lei sbandierata  libertà di mercato : ai pesci grandi è consentito divorare con ogni mezzo necessario i pesci medio-piccoli e le crisi economico-finanziarie servono, da sempre, solo a questo. Oltre che a erodere il potere dei sindacati e a impedire che abbiano una posizione di monopolio nell’organizzazione dei lavoratori e dei disoccupati del mondo. Forse la prova che la Grecia (e chissà forse anche l’Italia e la Spagna, l’Irlanda e il Portogallo) è stata la vittima sacrificale di una guerra elettronica che ne ha prosciugato e divorato la ricchezza, è proprio in quelle intercettazioni… In Italia non è che se ne parli troppo. Il brusio deve essere tutto attorno a Yanis Varoufakis, il ‘dilettante’.  Paranoia?

Sì. Entriamo in un bel film che è anche una magnifica macchina paranoica. Proprio di quelle che secondo gli anti psichiatri inglesi degli anni 60, Laing e Cooper, permettevano ai ragazzi di difendersi dalle sopercherie degli adulti…. Ma ne usciamo anche, e presto, “perché, i semplici cittadini, insieme, possono cambiare il mondo. Non possono più sopportare che il rapporto tra cittadini e governo non sia più tra eletto e elettore ma tra dominante e dominato. Non è Gramsci che parla. Ma il  whistle-blower  del Datagate. Che non può tornare in America a subire un giusto processo, come vorrebbe Obama. Proprio perché ha svelato che non esiste più un giusto processo in America.
Questi sospetti, queste nuove indagini e imbarazzanti rivelazioni che colpiscono anche la presidenza di Barack Obama – già attaccato in queste settimane dagli sceriffi razzisti anonimi, in vena di vendetta – rilanciano però l’interesse per il film del momento, in giro nelle sale italiane,  Citizenfour,  diretto da Laura Poitras ,  che ha vinto quest’anno l’oscar del miglior documentario dell’anno, e che è stato prodotto anche da Steven Soderbergh. Un film da non perdere assolutamente perché spiega esattamente cos’è la Nsa. E cioè “la più perfezionata arma d’oppressione mai concepita da mente umana”. Non solo per il contesto. Laura Poitras, che produce documentari dal 1998 e si è occupata via via di Tibet, omosessuali perseguitati, prigionieri di Guantanamo, Afghanistan e Osama Bin Laden, aveva già iniziato a indagare sull’agenzia per la sicurezza nazionale intervistando, per un cortometraggio, che certo ha attirato l’attenzione di Snoden, un ex funzionario dissidente in pensione, il matematico William Binney, il protagonista, stile Turing, di  The programm  (2012). Dopo 30 anni nei servizi segreti Binney gira per il mondo mettendoci in guardia dal sistema Nsa e dai suoi droni immateriali.
E lo fa anche all’inizio di  Citizenfour , che nel titolo wellessiano – è la parola d’ordine dei messaggi cifrati di Snowden –  anticipa già un intento formale rivoluzionario. L’interesse è alto, infatti, anche per il ‘testo’. Si tratta infatti di un documentario di tipo inedito. O meglio. Si ispira alla pratica-teorica un cineasta dimenticato di origine piemontese, Emile de Antonio, che documentando le lotte del sessantotto, diede la parola in  Underground  a un gruppo di militanti armati, ad alcuni Weathermen, e non solo uomini, in clandestinità, e dibatté con loro per oltre un’ora su tattica e strategia del movimento antagonista americano e sulla necessità di una rivoluzione mondiale. Fu uno shock. Mai visto un thriller così ricco di materia grigia. Di dialoghi dalla qualità così affascinante. E poi. Da un momento all’altro, infatti, con la porta sfondata e l’antiterrorismo col mitra in mano, potrebbe scatenarsi l’inferno. Lo snuff movie in diretta…. Mettere i generi nel fuori campo, far sentire l’emozione del possibile plausibile, è il grande colpo di genio di questi film di complicità totale con il proprio soggetto, “interni al movimento”. Quel film del 1976 venne imposto, senza censura, nelle sale pubbliche Usa da una opinione pubblica e grazie a un manifesto di sostegno pubblicato da decine di registi hollywoodiani che seppero tagliare definitivamente il cordone ombelicale che li legava inconsciamente al maccartismo e all’anticomunismo drastico.
Ma lo shock della ricezione era anche nella  sostanza dell’espressione . In una forma documentaristica che sa preparare la sua trasformazione in dramma e viceversa. Un’idea in testa e una cinepresa in mano, diceva Glauber Rocha. Il cinema documentaristico non deve solo scodellare domande, creare atmosfera e suggestioni profonde, come fa Frederic Wiseman, ma deve saper anticipare risposte alle drammatiche domande che il mondo, o almeno il 99% del mondo,  si pone in certi frangenti storici. E’ il suo dovere morale, replicava Rossellini. Il cinema deve arrivare a “occupare Wall Street” prima degli occupanti reali e della polizia che li manganella e dei magistrati che indagano sui reati.  Qui succede. In  Habemus papam  pure.   1992  no. Ma la fiction tv altro che dalla Nsa è controllata….

La regista Laura Poitras
Così l’uomo, eroe o traditore?, l’informatico di alto livello, che ha svelato al mondo il micidiale complotto spionistico di questa sorta di Spectre inventata e gestita durante la presidenza di George Bush jr., cioé l’ex agente dei servizi segreti Edward Snowden – non l’avevamo capito – non è solo un giovanotto coraggioso che, a 29 anni, ha socializzato materiale top secret, come le telefonate private di Merkel e Berlusconi, in nome di “ alti valori morali”, in spregio della sua bandiera e ha messo a repentaglio la sua vita in nome della libertà di tutti. E’ stato anche il documentarista di se stesso. La novità  fuorilegge  di  Citizenfour  rispetto non alla polizia (che altri dovrebbe arrestare e far condannare) ma alla tradizione di controinformazione nord americana per immagini, è infatti quella di aver saputo ben manovrare i media, di aver allertato preventivamente, nel gennaio 2013, attraverso email criptate, la telecamera e i microfoni di Laura Poitras e di averla convocata all’appuntamento con la storia. L’ha accolta infatti proprio nel segretissimo luogo (una stanza di albergo) dove un fatto politico straordinario stava per accadere. Hong Kong, Mira Hotel, giugno 2013. In quella stanza di Kowloon n. 1014, due autorevoli giornalisti investigativi, Glenn Greenwald, del  Guardian  di Londra, e Ewen MacAskil del  Washington Post , faranno la celebre intervista che sconvolgerà il mondo e sarà filmata da Poitras, complice, insomma, di quel contro-complotto libera tutti. Il cinema di documentazione approfondita (non si può più dire “diretto” o “verità”) anticipa l’avvenimento e ne segue l’evoluzione con una complicità e un’iniziativa soggettiva (che identifica il protagonista della storia all’occhio che la racconta) che trasforma chi è ripreso in protagonista di un  giallo spionistico  non simulato. E tutti i protagonisti in personaggi di una fiction tratta da un romanzo di John le Carré. Con tanto di location alla James Bond (Londra, Berlino, Bruxelles, Rio dee Janeiro…), di  gola profonda , di  Washington Post , di presidente imbarazzato (ma non aveva promesso di mandare alla sbarra Rush jr. e forse anche Blair?), di avvocati governativi ammutoliti, di musica combattiva (Nine Inch Nails e Selena Gomez), di astuti avvocati cinesi dei diritti umani, di intervento divino da parte di Julian Assange dall’Equador, di fuga a Mosca, con la fidanzata di Snowden, di un giornalista scrupoloso e onesto come Greenwald (oltretutto omosessuale e gliela faranno pagare anche per questo) che restituisce alla categoria un bel po’ di dignità perduta.  A un certo punto ci si chiede se svelare o meno l’identità di Snowden. Tanto prima o poi si scoprirà. Ma va detto subito, “non sono importante io, ma i valori democratici da riaffermare!” E così involontariamente, l’ex spia cita quasi Che Guevara: “non importa morire, so che potrei essere ucciso, l’importante è  che sei o sette persone proseguano la mia lotta, finché l’America tornerà quel paese democratico che i padri fondatori hanno sognato”.
Non si tratta più dunque di ricostruire un fatto che i media hanno deformato. Fu la missione della generazione di documentaristi precedente, quella degli anni 80-90, utilizzando o la forma comica, alla Michael Moore, o più spesso quella tragedica e impopolare di Barbara Trent ( Panama Deception , costretta a raccontare la verità dopo le bugie di Reagan e Bush sr. sui Sandinisti, sulla globalizzazione e deterritorializzazione delle industrie, sulla miseria dell’impresa di Grenada, sulla gang Iran-Contras, sui massacri della Cia in Salvador. Qui si spara alla storia ufficiale, “shooting the history” del dopo 11 settembre. E alla magistratura che sta seppellendo con anni di carcere, i complici scoperti di Snowden. Certo forse si saprà tra 40 anni che le cose andarono ancora diversamente ( gola profonda  del Watergate – si dice oggi – è stata creata da E.J. Hoover perché Nixon voleva decurtare i finanziamenti all’Fbi…). Ma anche fino al giorno in cui Snowden parlò, sapevamo che le cose stavano andando molto diversamente. E poi ci sarà sempre il film di Oliver Stone, in uscita nel dicembre 2015, a proseguire, con altre risposte, nell’analisi dell’affascinante figura di Edward Snowden.  Nel film, nascosto in una casa moscovita, Snowden, raggiunto dalla sua ragazza dopo una separazione di anni, viene inquadrati fuori dalla finestra, in attività domestica, attraverso un’inquietante campo medio. E il punto di vista è quello di un occhio metallico. Di un drone.

La prossima guerra informativa biologica: gli Usa propongono un database del DNA da: www.resistenze.org – osservatorio – della guerra – 03-02-15 – n. 529


Tony Cartalucci | Global Research
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

01/02/2015

Gli Usa propongono un database del DNA supportato dal governo composto del materiale genetico di oltre un milione di volontari. RT avrebbe riferito nel suo articolo “Got genes: Obama proposes genetic biobank of 1mn Americans’ DNA to fight disease[“Abbiamo i geni: Obama propone una biobanca genetica di 1 milione di americani”] che:

Una nuova proposta del governo Usa da 215 milioni dollari cercherà oltre 1 milione di volontari americani per l’analisi delle loro informazioni genetiche nell’ambito di una iniziativa per combattere la malattia e al tempo stesso sviluppare assistenza sanitaria mirata basata sul proprio DNA.

I funzionari sperano che il progetto di biobanca, ha annunciato venerdì dal presidente Barack Obama, possa fondere studi genetici esistenti con una vasta gamma di nuovi volontari per raggiungere 1 milione di partecipanti.

Mentre questo database iniziale è composto da volontari, campioni di sangue non su base volontaria sono già raccolti dalle forze dell’ordine Usa in tutto il paese e accumulati in una rete esistente e in continua espansione. Inoltre, la nuova proposta intende istituire una “medicina di precisione” come standard nella cura medica, il che implica che alla fine, per fornire un’assistenza sanitaria sempre più statale, sarà richiesto dai medici il DNA di ciascuno.

Tale informazione prelude indubbiamente ad un’estesa iterazione a livello nazionale di questa nuova rete proposta.

Il nuovo giocattolo dei violentatori seriali

Mentre la medicina di precisione è invero un potente strumento nella lotta contro la malattia e la riparazione di lesioni – in realtà, davvero il futuro della medicina – coloro che si sono nominati arbitri negli Usa hanno già dimostrato che non ci si può fidare di una tale responsabilità.

RT nota inoltre nel suo reportage che:

Il modo in cui il governo degli Stati Uniti garantirà che le informazioni genetiche individuali saranno tenute riservate diventerà certamente causa di preoccupazione per molti. Un database gestito dal governo che accumula dati genetici probabilmente affronterà resistenza in questa epoca di regime di spionaggio globale gestito dalla National Security Agency (NSA) e un sistema di brevetti genetici utilizzato da soggetti come la Monsanto per consolidare la proprietà legale del mondo naturale.

In effetti, una banca dati del DNA potrebbe essere per i nostri corpi, quello che Internet è per i nostri computer – con un’entità come la NSA che invade, abusa, sfrutta e manipola non solo i nostri dati personali, ma addirittura il codice genetico che ci rende quello che siamo. I pericoli sono immensi, e l’abuso di informazioni genetiche è già stato avidamente esplorato dai particolarissimi interessi che spingono questa nuova iniziativa.

La prospettiva di utilizzare i geni di qualcuno contro di lui sotto forma di armi genospecifiche è stato menzionato nel rapporto 2000 del neoconservatore Project for a New American Century (PNAC) intitolato: “Rebuilding America’s Defenses” (.pdf), che affermava:

La proliferazione di missili balistici e da crociera e velivoli senza pilota a lungo raggio (UAV) renderà molto più facile proiettare potenza militare in tutto il mondo. Le stesse munizioni diventeranno sempre più precise, mentre nuovi metodi di attacco – elettronici, “non letali”, biologici – saranno più ampiamente disponibili. (pag.71 del pdf)

Anche se possono essere richiesti diversi decenni perché il processo di trasformazione si compia, col tempo l’arte della guerra in cielo, terra e mare sarà molto diverso da quello attuale e il “combattimento” probabilmente avrà luogo in nuove dimensioni: nello spazio, nel “cyberspazio” e forse nel mondo dei microbi. (pag.72 del pdf)

E forme avanzate di guerra biologica che possono “puntare” genotipi specifici possono trasformare la guerra biologica dal regno del terrore in uno strumento politicamente utile. (pag.72 del pdf)

L’attacco a tali obbiettivi richiederà un database di informazioni genetiche – che accoppiato con la già onnipresente sorveglianza della NSA – consentirà al crescente stato di polizia di individuare e puntare le persone con le armi genospecifiche con una precisione inimmaginabile – un vero e proprio “tocco della morte” simile a quello delle divinità mitologiche in grado di abbattere i loro nemici a volontà.

Come avere il meglio dei due mondi

La corsa ad istituire un sistema sanitario top-down basato sulla medicina di precisione guidata geneticamente è fatta con la consapevolezza che la democratizzazione della tecnologia, compresa quella connessa con la biologia e la genetica, sta accelerando verso laboratori locali in grado di riprodurre o anche sopraffare gli sviluppi fatti dai grandi colossi farmaceutici. In questo si segue lo stesso schema seguito dall’IT [Information Technology, ndt], in cui la tecnologia dirompente, le istituzioni, e paradigmi hanno consentito un rapido decentramento e un ridimensionamento [downsizing].

Piccoli gruppi di persone o singoli individui hanno ora online una piattaforma con cui competere contro studi multimilionari. Allo stesso modo, la stampa 3D è alla guida di un’analoga rivoluzione nella produzione.

La “Do-it-Yourself biology” (DIYbio) [“biologia fai da te”] è ora sul punto di distruggere i campi delle biotecnologie, della salute umana, e della medicina.

Con la DIYbio, gli individui e le comunità possono gestire le proprie informazioni genetiche, condividerle come e quando decidono, e lavorare direttamente su applicazioni per modificare, migliorare, o ripararle. Il decentramento di questa potente tecnologia definirà anche un equilibrio di poteri. Quelli con intenzioni malevole rimarranno sotto controllo per il fatto che così tante persone hanno interesse a prevenire l’abuso di questa tecnologia.

Come nel mondo dell’IT di oggi, i backup, i firewall e una conoscenza generale delle “buone pratiche” contribuirà a proteggere la grande maggioranza dall’abuso dell’emergente medicina di precisione guidata geneticamente.

Già c’è un’ampia gamma di informazioni online riguardanti la DIYbio – che come la sua controparte nell’IT – mantiene un ethos open source e collaborativo. Le persone, consapevoli che impedire l’uso di questa tecnologia è impossibile, possono iniziare ad impadronirsene al fine di garantire un equilibrio di poteri e per prevenire gli abusi su vasta scala.

Al tempo stesso, il proposto decentramento di Internet mediante reti a maglia locali servirebbe anche a costruire difese per le informazioni genetiche memorizzate dai singoli su tali reti. Stabilire e promuovere l’idea di allontanarsi da ogni forma di sistemi altamente centralizzati gestiti da violatori seriali della nostra privacy e dei diritti umani, democratizzando proprio la tecnologia che cercano di monopolizzare e utilizzare contro di noi, è il primo passo per vincere questa nuova battaglia prima che inizi.

 

Usa, il riarmo nucleare del Premio Nobel per la pace Fonte: il manifesto | Autore: Manlio Dinucci

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Cin­que anni fa, nell’ottobre 2009, il pre­si­dente Barack Obama fu insi­gnito del Pre­mio Nobel per la Pace in base alla «sua visione di un mondo libero dalle armi nucleari, e al lavoro da lui svolto in tal senso, che ha poten­te­mente sti­mo­lato il disarmo». Moti­va­zione che appare ancora più grot­te­sca alla luce di quanto docu­menta oggi un ampio ser­vi­zio del New York Times : «L’amministrazione Obama sta inve­stendo decine di miliardi di dol­lari nella moder­niz­za­zione e rico­stru­zione dell’arsenale nucleare e degli impianti nucleari statunitensi».

A tale scopo è stato appena rea­liz­zato a Kan­sas City un nuovo enorme impianto, più grande del Pen­ta­gono, dove migliaia di addetti, dotati di futu­ri­sti­che tec­no­lo­gie, «moder­niz­zano» le armi nucleari, testan­dole con avan­zati sistemi che non richie­dono esplo­sioni sot­ter­ra­nee. L’impianto di Kan­sas City fa parte di un «com­plesso nazio­nale in espan­sione per la fab­bri­ca­zione di testate nucleari», com­po­sto da otto mag­giori impianti e labo­ra­tori con un per­so­nale di oltre 40mila spe­cia­li­sti. A Los Ala­mos (New Mexico) è ini­ziata la costru­zione di un nuovo grande impianto per la pro­du­zione di plu­to­nio per le testate nucleari, a Oak Ridge (Ten­nes­see) se ne sta rea­liz­zando un altro per pro­durre ura­nio arric­chito ad uso mili­tare. I lavori sono stati però ral­len­tati dal fatto che il costo del pro­getto di Los Ala­mos è lie­vi­tato in dieci anni da 660 milioni a 5,8 miliardi di dol­lari, quello di Oak Ridge da 6,5 a 19 miliardi.
L’amministrazione Obama ha pre­sen­tato com­ples­si­va­mente 57 pro­getti di upgrade di impianti nucleari mili­tari, 21 dei quali sono stati appro­vati dall’Ufficio gover­na­tivo di con­ta­bi­lità, men­tre 36 sono in attesa di appro­va­zione. Il costo sti­mato è allo stato attuale di 355 miliardi di dol­lari in dieci anni. Ma è solo la punta dell’iceberg. Al costo degli impianti si aggiunge quello dei nuovi vet­tori nucleari.

Il piano pre­sen­tato dall’amministrazione Obama al Pen­ta­gono pre­vede la costru­zione di 12 nuovi sot­to­ma­rini da attacco nucleare (cia­scuno in grado di lan­ciare, con 24 mis­sili bali­stici, fino a 200 testate nucleari su altret­tanti obiet­tivi), altri 100 bom­bar­dieri stra­te­gici (cia­scuno armato di circa 20 mis­sili o bombe nucleari) e 400 mis­sili bali­stici inter­con­ti­nen­tali con base a terra (cia­scuno con una testata nucleare di grande potenza, ma sem­pre arma­bile di testate mul­ti­ple indipendenti).

Viene così avviato dall’amministrazione Obama un nuovo pro­gramma di arma­mento nucleare che, secondo un recente stu­dio del Mon­te­rey Insti­tute, verrà a costare (al valore attuale del dol­laro) circa 1000 miliardi di dol­lari, cul­mi­nando come spesa nel periodo 2024–2029. Essa si inse­ri­sce nella spesa mili­tare gene­rale degli Stati uniti, com­po­sta dal bilan­cio del Pen­ta­gono (640 miliardi di dol­lari nel 2013), cui si aggiun­gono altre voci di carat­tere mili­tare (la spesa per le armi nucleari, ad esem­pio, è iscritta nel bilan­cio del Dipar­ti­mento dell’Energia), por­tando il totale a quasi 1000 miliardi di dol­lari annui, cor­ri­spon­denti nel bilan­cio fede­rale a circa un dol­laro su quat­tro speso a scopo militare.

L’accelerazione della corsa agli arma­menti nucleari, impressa dall’amministrazione Obama, vani­fica di fatto i limi­tati passi sulla via del disarmo sta­bi­liti col nuovo trat­tato Start, fir­mato a Praga da Stati uniti e Rus­sia nel 2010 (v. il mani­fe­sto del 1° aprile 2010). Sia la Rus­sia che la Cina acce­le­re­ranno il poten­zia­mento delle loro forze nucleari, attuando con­tro­mi­sure per neu­tra­liz­zare lo «scudo anti-missili» che gli Usa stanno rea­liz­zando per acqui­sire la capa­cità di lan­ciare un first strike nucleare e non essere col­piti dalla rappresaglia.

Viene coin­volta diret­ta­mente nel pro­cesso di «ammo­der­na­mento» delle forze nucleari Usa anche l’Italia: le 70–90 bombe nucleari sta­tu­ni­tensi B-61, stoc­cate ad Aviano e Ghedi-Torre, ven­gono tra­sfor­mate da bombe a caduta libera in bombe «intel­li­genti» a guida di pre­ci­sione, cia­scuna con una potenza di 50 kilo­ton (circa il qua­dru­plo della bomba di Hiro­shima), par­ti­co­lar­mente adatte ai nuovi cac­cia Usa F-35 che l’Italia si è impe­gnata ad acqui­stare. Ma di tutto que­sto, nei talk show, non si parla.

Ucraina, nonostante l’accordo Mosca-Kiev, la Nato fa partire le esercitazioni Autore: fabio sebastiani da: controlacrisi.org

La Nato ottiene l’obiettivo di piazzare le proprie truppe a due passi dalla Russia. Proprio nel giorno in cui sembra aprirsi un piccolo spiraglio per la soluzione diplomatica con i “sette punti” dell’accordo raggiunto da Putin e Poroshenko, i nazisti al potere a Kiev annunciano di aver aperto le porte a un’esercitazione militare congiunta nella regione occidentale ucraina di Lvov a metà settembre. A ‘Rapid Trident’, oltre agli Stati Uniti, parteciperanno altri Paesi tra cui l’Italia. L’esercitazione, spiegano le fonti ufficiali ucraine su Twitter, si terrà all’interno del programma Nato ‘Partnership for Peace’ e coinvolgerà 1.200 militari di 11 Paesi. L’esercitazione ‘Rapid Trident’ si tiene in Ucraina dal 2006 per promuovere la stabilità nella regione e rafforzare la comunicazione tra la Nato e i membri della Partnership for Peace.

La vicenda Ucraina, dovesse sfuggire di mano, potrebbe incendiare tutta la regione. Un segnale preciso in questa direzione è arrivato da Dalia Grybauskaite, presidente della Lituania che, a nome dei paesi baltici, ha rivolto una a Barack Obama in cui dice di considerare l’Ucraina una sorta di fronte. Obama ha fatto una tappa in Estonia per un significativo summit con i leader delle repubbliche ex sovietiche che si sentono direttamente “minacciate dalle mire espansionistiche russe”.

Il Pentagono ha precisato che il suo contingente sarà preso dalla 173/ma Brigata aerotrasportata di base a Vicenza. Tutto questo, ovviamente, al netto delle decisioni che verranno prese oggi al vertice Nato in Galles (a cui parteciperà Obama), che dovrà decidere con molta probabilità di una forza di intervento rapida. La “de-escalation” così tanto cara all’Italia viene quindi messa da parte. Patetica la dichiarazione del ministro della Difesa, Roberta Pinotti, che di fronte alle commissioni Esteri e Difesa riunite di Camera e Senato, ha detto che le esercitazioni non devono essere intese come un elemento di pressione verso la Russia.

Intanto, il premier ucraino, il ‘filo-occidentale’ Arseni Iatseniuk, che ha stigmatizzato i “sette punti” raggiunti tra Mosca e Kiev, intende costruire un nuovo muro nel cuore dell’Europa, “una vera frontiera con la Russia”. L’idea, dal forte sapore di propaganda elettorale, non e’ nuova in Ucraina. Il primo a proporla, lo scorso giugno, e’ stato il controverso oligarca ucraino Igor Kolomoiski, nominato pochi mesi prima governatore della regione di Dnipropetrovsk dalla nuova leadership europeista di Kiev. Il magnate, considerato il quarto uomo piu’ ricco del Paese con una fortuna stimata in 1,8 mld di dollari, aveva presentato alla presidenza ucraina un progetto per realizzare una recinzione metallica con filo spinato lunga 1920 km e alta 2, lungo la frontiera tra la Russia e le regioni ucraine di Donetsk, Lugansk e Kharkiv. La ‘Grande muraglia’ ucraina, nelle sue intenzioni, doveva essere dotata in alcune zone anche di alta tensione, campi minati e trincee. Un’opera “da 100 milioni di dollari”, “realizzabile in sei mesi”, “efficace contro l’ingresso di uomini e mezzi militari dalla Russia”.

L’Onu all’unanimità chiede il cessate il fuoco a Gaza | Autore: fabrizio salvatori da: controlacrisi.org

Il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha adottato all’unanimità una dichiarazione in cui si chiede “un cessate il fuoco immediato e senza condizioni” tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza. E’ stato il presidente americano Barack Obama ad intervenire personalmente ieri per chiedere all’alleato israeliano di accettare un cessate il fuoco “immediato e senza condizioni” con Hamas dopo che da parte di Tel Aviv c’era stato un rifiuto.
Dall’inizio delle ostilità, l’8 luglio scorso, sono rimasti uccisi oltre 1.032 palestinesi e 51 israeliani, di cui 47 soldati.
I 15 paesi del Consiglio dell’Onu, riuniti d’urgenza a New York, hanno espresso “forte sostegno” per “un cessate il fuoco umanitario immediato e senza condizioni”, invitando le parti ad accettare e ad applicare appieno la tregua. Nella dichiarazione, il Consiglio ha quindi invitato a rispettare “il diritto umanitario internazionale, in particolare quello riguardante la protezione dei civili”, e ha sottolineato “la necessità di fornire immediatamente assistenza umanitaria alla popolazione palestinese nella Striscia di Gaza”.
A pochi giorni dal bombardamento di una scuola dell’Onu a Gaza, il Consiglio ha ricordato che “i siti civili e umanitari, tra cui quelli dell’Onu, devono essere rispettati e protetti”.
Deluso il rappresentante palestinese al Palazzo di vetro, Riyad Mansour, secondo cui il Consiglio avrebbe dovuto approvare una risoluzione formale con la richiesta del ritiro delle truppe israeliane dalla Striscia di Gaza: “Avrebbero dovuto adottare una risoluzione tanto tempo fa per condannare e chiedere di fermare subito questa aggressione”.
In un comunicato, la Casa bianca ha fatto sapere che Obama ha espresso con chiarezza “l’imperativo strategico di applicare un cessate il fuoco umanitario immediato e senza condizioni che metta fine subito alle ostilità e porti poi a una cessazione permanente delle ostilità sulla base dell’accordo del novembre 2012”.
Obama “ha riaffermato il diritto di Israele di difendersi” e ha sottolineato la necessità di “garantire il disarmo di gruppi terroristici e la demilitarizzazione di Gaza”, ribadendo “la grave e crescente preoccupazione per il crescente numero di vittime civili palestinesi e per la perdita di vite israeliane”.

Sito Stormfront, la denuncia degli antirazzisti Usa:”Da lì input per almeno 100 omicidi” | Autore: fabrizio salvatori da: controlacrisi.org

Almeno cento persone sono state uccise, solo negli ultimi cinque anni, dai frequentatori di un sito web amato dai suprematisti bianchi, www.Stormfront.org, una sorta di covo nazista definito dall’Huffington Post ”la capitale degli omicidi su internet”.
E’ la denuncia choc del Southern Poverty Law Center, una celebre organizzazione anti-razzista americana.

I forum di questo sito che promuovono ”la lotta per la sopravvivenza della minoranza bianca” nel corso degli anni sono stati animati da tantissimi filo-nazisti. Ma hanno avuto un boom, +600% di click, a partire dal 2009, l’anno in cui s’e’ insediato Barack Obama,
primo presidente afro-americano nella storia degli Stati Uniti. Tra chi ha partecipato ai suoi forum c’era anche Anders Behring Breivik, che nel 2011 prima fece saltare in aria un edificio pubblico e poi uccise a sangue freddo 69 ragazzi socialdemocratici nell’isola norvegese di Utoia.

Il sito in Italia da anni e’ al centro di molte iniziative giudiziarie. Oltre a essere stato oscurato nel 2012, alcuni frequentatori del forum in italiano hanno subito una condanna penale, confermata in appello, per aver diffuso scritti di incitamento all’odio razziale. Alcuni di loro avevano perfino minacciato apertamente non solo genericamente le minoranze, gli ebrei, i neri e i rom, ma anche i componenti di ‘lista nera’ che conteneva i nomi di esponenti delle forze dell’Ordine, politici di sinistra, magistrati e giornalisti tra cui Maurizio Costanzo, Gad Lerner e Roberto Saviano.

Ma negli States il primo emendamento difende la liberta’ d’espressione di tutti, anche di queste formazioni neo-naziste. Cosi’ il sito e’ aperto: sul banner c’e’ una croce celtica bianca su sfondo nero, circondata dalla scritta: ”White Pride World Wide”. E piu’ avanti il titolo: ”Siamo sotto attacco per aver detto la verita’: diamo solo la voce alla nuova minoranza bianca, ora in pericolo”.

Ma secondo lo studio dell’organizzazione anti-razzista, ovviamente Stormfront non si limita a dare voce a libere opinioni. Altro frequentatore di Stormfront era Wade Michael Page, autore della strage nel 2012 al tempio Sikh nel Wisconsin, quando massacro’ sei fedeli. “E’ abbastanza chiaro – spiega l’autrice del rapporto, Heidi Beirich – che siti come Stormfront sono terreno fertile per soggetti che provano gia’ dell’odio e della rabbia per la loro situazione. E’ li’ che questa gente trova le ragioni per spiegare come mai le loro vite non stanno andando come avrebbero sperato. Stormfront aiuta loro a individuare un nemico, un responsabile che ai loro occhi infrange i loro sogni di felicita’, che si tratti di ebrei, afroamericani, immigrati e cosi’ via”. “Purtroppo – aggiunge Beirich – non sorprende che persone che vivono in questo contesto intriso di razzismo violento, alla fine prendano una pistola e agiscano secondo le loro convinzioni”.

La Nato ci costa 70 milioni di euro al giorno | Fonte: Il Manifesto | Autore: Manlio Dinucci

Rapporto Sipri. Ogni ora si spendono tre milioni di euro per difesa, armi e Alleanza atlantica. Ecco quanto paga l’Italia. Senza contare F35 e missioni militari all’estero

«La situa­zione in Ucraina ci ricorda che la nostra libertà non è gra­tuita e dob­biamo essere dispo­sti a pagare»: lo ha riba­dito il pre­si­dente Obama, a Roma come a Bru­xel­les, dicen­dosi pre­oc­cu­pato che alcuni paesi Nato vogliano dimi­nuire la pro­pria spesa mili­tare.

La pros­sima set­ti­mana, ha annun­ciato, si riu­ni­ranno a Bru­xel­les i mini­stri degli esteri per raf­for­zare la pre­senza Nato nell’Europa orien­tale e aiu­tare l’Ucraina a moder­niz­zare le sue forze mili­tari. Ciò richie­derà stan­zia­menti aggiun­tivi. Siamo dun­que avver­titi: altro che tagli alla spesa militare!
A quanto ammonta quella ita­liana? Secondo i dati del Sipri, l’autorevole isti­tuto inter­na­zio­nale con sede a Stoc­colma, l’Italia è salita nel 2012 al decimo posto tra i paesi con le più alte spese mili­tari del mondo, con circa 34 miliardi di dol­lari, pari a 26 miliardi di euro annui.
Il che equi­vale a 70 milioni di euro al giorno, spesi con denaro pub­blico in forze armate, armi e mis­sioni mili­tari all’estero.
Secondo i dati rela­tivi allo stesso anno, pub­bli­cati dalla Nato un mese fa, la spesa ita­liana per la difesa ammonta a 20,6 miliardi di euro, equi­va­lenti a oltre 56 milioni di euro al giorno. Tale cifra, si pre­cisa nel bud­get, non com­prende però la spesa per altre forze non per­ma­nen­te­mente sotto comando Nato, ma asse­gna­bili a seconda delle cir­co­stanze. Né com­prende le spese per le mis­sioni mili­tari all’estero, che non gra­vano sul bilan­cio del mini­stero della difesa. Ci sono inol­tre altri stan­zia­menti extra-budget per il finan­zia­mento di pro­grammi mili­tari a lungo ter­mine, tipo quello per il cac­cia F-35.

Il bud­get uffi­ciale con­ferma che la spesa mili­tare Nato ammonta a oltre 1000 miliardi di dol­lari annui, equi­va­lenti al 57% del totale mon­diale. In realtà è più alta, in quanto alla spesa sta­tu­ni­tense, quan­ti­fi­cata dalla Nato in 735 miliardi di dol­lari annui, vanno aggiunte altre voci di carat­tere mili­tare non com­prese nel bud­get del Pen­ta­gono – tra cui 140 miliardi annui per i mili­tari a riposo, 53 per il «pro­gramma nazio­nale di intel­li­gence», 60 per la «sicu­rezza della patria» – che por­tano la spesa reale Usa a oltre 900 miliardi, ossia a più della metà di quella mondiale.

Scopo degli Stati uniti è che gli alleati euro­pei assu­mano una quota mag­giore nella spesa mili­tare della Nato, desti­nata ad aumen­tare con l’allargamento e il poten­zia­mento del fronte orientale.

Oggi, sot­to­li­nea Obama, «aerei dell’Alleanza atlan­tica pat­tu­gliano i cieli del Bal­tico, abbiamo raf­for­zato la nostra pre­senza in Polo­nia e siamo pronti a fare di più». Andando avanti in que­sta dire­zione, avverte, «ogni stato mem­bro della Nato deve accre­scere il pro­prio impe­gno e assu­mersi il pro­prio carico, mostrando la volontà poli­tica di inve­stire nella nostra difesa col­let­tiva». Tale volontà è stata sicu­ra­mente con­fer­mata al pre­si­dente sta­tu­ni­tense Barack Obama dal pre­si­dente delle repub­blica Napo­li­tano e dal capo del governo Renzi. Il carico, come al solito, se lo addos­se­ranno i lavo­ra­tori italiani.

Ucraina-Crimea, Obama e Putin si parlano ma la tensione sale. Rischia di saltare il G8 a Sochi Autore: fabio sebastiani da: controlacrisi.org

Secondo alcuni esperti la crisi ucraina fa regredire i rapporti tra Washington e Mosca allo stesso clima da guerra fredda del 1968 con l’invasione dell’allora Cecoslvacchia.
Da un lato Barack Obama condanna senza mezzi termini l’intervento armato in Crimea e parla di violazione del diritto internazionale. La minaccia è quella di far saltare i prossimi lavori del G8 a Sochi costringendo la Russia a una fase di “isolamento economico e politico”. Sul fronte opposto, Vladimir Putin sottolinea di avere il diritto di proteggere i propri interessi in Ucraina (video di Giulietto Chiesa sull’abolizione del bilinguismo da parte di Kiev in questi giorni). I due si sono anche parlati, per 90 lunghi minuti stanotte, ma la tensione resta alle stelle. E l’escalation registra episodi di ora in ora. Ieri sera miliziani armati hanno impedito l’accesso a diversi giornalisti stranieri al check-point nei pressi di Armiank, nel nord della Crimea. Tra le troupe respinte quelle di Bbc, della tv pubblica olandese Nos e di Mtv Finlandia. Ai reporter sono anche stati requisiti i giubbotti antiproiettile.
L’attività militare preparatoria va avanti senza soste. Oltre all’invio dei blindati russi, lungo la “linea di frontiera” tra Crimea ed Ucraina i miliziani scavano buche per posizionare armamenti difensivi e cecchini. Intanto vengono segnalati militari russi in una base radar e in un’accademia della Marina militare ucraina che hanno sequestrato tutte le armi leggere disponibili. Dalla base radar di Sudak sono stati portati via fucili, pistole e munizioni, caricati su un’auto. Armi sono state prelevate anche dalla struttura per l’addestramento della Marina a Sebastopoli, la citta’ sul Mar Nero che ospita una base della Flotta russa.Sul fronte internazionale vanno avanti le consultazioni. Obama nella serata di ieri serata ha sentito il presidente francese Francois Hollande e il premier canadese Stephen Harper, trovando il loro sostegno, come riferisce la Casa Bianca. In campo anche l’Unione Europea e l’Onu, che ha riunito d’urgenza il Consiglio di Sicurezza. Il segretario generale Ban ki-Moon ha chiamato lui stesso Putin, chiedendo un “dialogo” con Kiev. Il nodo, secondo Mosca, e’ quindi la tutela della minoranza di etnia russa nel Paese. Una preoccupazione a cui Obama replica spazientito: nessuno nega i legami culturali di Mosca con questa area dell’Ucraina. Tuttavia – incalza il presidente Usa – se Putin ha il timore per la sorte di questa minoranza ha il dovere di agire pacificamente e in modo appropriato chiedendo l’impegno diretto del governo ucraino e l’invio di osservatori internazionale sotto l’egida del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite o dell’Osce. Non manca però di sottolineare il suo appoggio al nuovo esecutivo ucraino: il popolo ucraino – ribadisce – ha il diritto di determinare il proprio futuro. La sua amministrazione, assicura, continuera’ a lavorare con urgenza, assieme ai suoi partner internazionali, per fornire supporto al governo ucraino, tra cui assistenza tecnica e finanziaria.

La memoria corta Fonte: Il Manifesto | Autore: Tommaso Di Francesco

 

Nel­son Man­dela è «un gigante del XX secolo», che «mi ha reso un uomo migliore», anche se «la ten­ta­zione è di ricor­darlo come una icona, ma Madiba ha resi­stito a que­sto qua­dro privo di vita»: l’atteso discorso elogio-funebre del pre­si­dente ame­ri­cano Barack Obama non è stato infe­riore alle aspet­ta­tive. L’approvazione grande, pio­ve­vano gli applausi dei suda­fri­cani riu­niti a Soweto, presi dalle parole dell’altro pre­si­dente nero della sto­ria. Soprat­tutto quando ha par­lato dell’uomo «in carne ed ossa», che ammet­teva le sue imper­fe­zioni, una ragione in più per «amarlo così tanto» per­ché «con­di­vi­deva con noi i suoi dubbi, le sue paure, i suoi cal­coli sba­gliati, insieme alle sue vit­to­rie. Diceva: non sono un santo». E poi, l’accusa: «Troppi lea­der che cele­brano oggi Man­dela, in realtà non tol­le­rano il dis­senso dei loro popoli». E, subito dopo, il gesto sto­rico: la stretta di mano con il pre­si­dente cubano Raul Castro, tra gli inter­lo­cu­tori dell’invettiva appena pro­nun­ciata.
L’autorevole discorso di Obama a Johan­ne­sburg, a largo spet­tro rivolto ad alcuni lea­der inter­na­zio­nali del cosid­detto Terzo Mondo, quasi come por­ta­voce dell’Occidente, rischia però di sep­pel­lire la verità e di essere alla fine l’ennesima sua imbal­sa­ma­zione, soprat­tutto per­ché appare lar­ga­mente sme­mo­rato.
Il pre­si­dente ame­ri­cano dimen­tica di ricor­dare, in primo luogo a se stesso, che gli Stati uniti fino al 1988, hanno soste­nuto e difeso per lun­ghi decenni il régime dell’apar­theid. Con la moti­va­zione — degli Stati uniti, della Gran Bre­ta­gna, della Fran­cia (fino all’81) e d’Israele — che biso­gnava fer­mare il peri­colo comu­ni­sta. E se si ricorda che era l’epoca della Guerra fredda, que­sta non può essere pre­sen­tata da Washing­ton certo come giu­sti­fi­ca­zione dei cri­mini che ha per­pe­trato e ha con­tri­buito a per­pe­trare in nome della demo­cra­zia.
Nello scon­tro tra la mag­gio­ranza nera e la mino­ranza bianca, Washing­ton aveva soste­nuto Pre­to­ria in Angola (e poi in Mozam­bico) nel 1975, dove l’esercito suda­fri­cano ten­tava di instau­rare il pro­prio pre­do­mi­nio mili­tare e la sua ege­mo­nia raz­ziale. E non esitò ad aggi­rare l’embargo sulle armi e a col­la­bo­rare stret­ta­mente con l’intel­li­gence bianca suda­fri­cana, rifiu­tando ogni misura coer­ci­tiva o san­zio­na­to­ria con­tro il régime dell’apar­theid, men­tre per la Casa bianca la mag­gio­ranza nera doveva «dare prova di mode­ra­zione». Ha ricor­dato Alain Gresh su Le Monde Diplo­ma­ti­que che Che­ster Croc­ker, l’uomo chiave della poli­tica dell’“impegno costrut­tivo” del pre­si­dente Ronald Rea­gan in Africa australe negli anni Ottanta, scri­veva su Foreign Affairs nell’inverno 1980–81: «Per la sua natura e la sua sto­ria, l’Africa del Sud fa parte dell’esperienza occi­den­tale ed è parte inte­grante dell’economia occi­den­tale». Il 22 giu­gno del 1988 — siamo a soli diciotto mesi dalla libe­ra­zione di Man­dela e dalla lega­liz­za­zione dell’Anc — John C. Whi­te­head, sot­to­se­gre­ta­rio al Dipar­ti­mento di Stato, spie­gava ad una com­mis­sione del Senato Usa: «Dob­biamo rico­no­scere che la tran­si­zione verso una demo­cra­zia non raz­zi­sta in Africa del Sud richie­derà ine­vi­ta­bil­mente più tempo di quanto spe­riamo», insi­stendo sul fatto che le san­zioni, richie­ste in sede Onu dai lea­der suda­fri­cani della lotta anti–apar­theid e dall’allora “campo socia­li­sta” rischia­vano un «effetto demo­ra­liz­zante sulle élite bian­che» pena­liz­zando invece in primo luogo la popo­la­zione nera.
Ronald Rea­gan con­clu­dendo il suo man­dato, tentò con ogni mezzo, ma per for­tuna senza suc­cesso, di impe­dire che il Con­gresso punisse il régime dell’apar­theid. Ancora dura­vano i tempi in cui alla Casa bianca si cele­bra­vano i Con­tras nica­ra­guesi, i com­bat­tenti per la libertà afghana, e si sten­deva il tap­peto rosso per le mili­zie della con­tro­ri­vo­lu­zione armata ango­lana e mozam­bi­cana, men­tre si denun­ciava il “ter­ro­ri­smo” dell’Anc e dell’Olp pale­sti­nese.
Quanto alla Gran Bre­ta­gna, il governo That­cher rifiutò ogni incon­tro con l’Anc fino al feb­braio 1990, quando Man­dela fu libe­rato, e si oppose in ogni occa­sione – famoso il ver­tice del Com­mo­n­welt di Van­cou­ver del 1987 – all’adozione di san­zioni anti–apar­theid. Era l’epoca in cui il primo mini­stro Came­ron — solo tre anni fa ha chie­sto scusa — andò in visita nel 1989 in Suda­frica invi­tato da una lobby filo–apar­theid.
Ad esser schie­rati con l’Anc erano i paesi “socia­li­sti”, l’Urss, il Viet­nam – dove si adde­stra­rono molti qua­dri. E Cuba. L’intervento mili­tare dell’esercito cubano nel 1975, a fianco del fra­gile eser­cito della da poco libe­rata colo­nia por­to­ghese dell’Angola, fu deci­sivo con la bat­ta­glia di Quito Cana­vale del 1988. Fu «una svolta nella libe­ra­zione del nostro Con­ti­nente e del mio popolo», ha sem­pre soste­nuto lo stesso Man­dela. Il quale, non sme­mo­rato, invitò Fidel Castro alla sua pro­cla­ma­zione a pre­si­dente della repub­blica suda­fri­cana nel 1994. Di che dovreb­bero ver­go­gnarsi dun­que, su que­sto, i fra­telli Castro?
Il fatto è che quando si nomina Man­dela non si parla solo di Guerra fredda e del fatto che, caduto il Muro di Ber­lino, non poteva più restare in piedi il Muro dell’apar­theid. Par­lano, anzi gri­dano ancora tutti i nodi rima­sti aperti nel “secolo breve”. Certo, l’apar­theid raz­ziale è stato risolto gra­zie alla sag­gezza e, insieme, radi­ca­lità di Madiba, ma resta il grande apar­theid eco­no­mico e sociale, quello suda­fri­cano (paese Brics) e quello mon­diale. E sarà un caso se, men­tre Obama par­lava a Soweto, veniva con­fer­mato da Washing­ton che il campo di con­cen­tra­mento di Guan­ta­namo non chiu­derà, come promesso?