riunioni associazioni e partiti
per continuare la preparazione del 25 aprile
un caro saluto
santina sconza presidente anpi provinciale catania
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per continuare la preparazione del 25 aprile
un caro saluto
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Intervista a Noam Chomsky. Il professore del Massachusetts Institute of Technology sui nuovi venti di guerra oriente-occidente, accusa i giornalisti di asservimento al pensiero comune e gli Usa di doppiopesismo
Di «passaggio» a Tokyo per una serie di affollatissime conferenze, abbiamo chiesto a Noam Chomsky, professore emerito di linguistica al Massachusetts Institute of Technology, il suo parere sui nuovi «venti di guerra» tra Occidente e Oriente, che agitano il pianeta. E non solo per quel che riguarda la crisi ucraina e ora la Crimea.
L’Occidente sembra essere preoccupato da quello che qualcuno ha definito il «fascismo» di Putin. E mentre tornano i toni da guerra fredda, la situazione, in Crimea, rischia di precipitare…
Non solo in Crimea, direi che anche qui, in Asia orientale, la tensione è altissima, tira una bruttissima aria. Il recente riferimento del premier Shinzo Abe — per il quale non nutro particolare stima — alla situazione dell’Europa prima del primo conflitto mondiale è più che giustificato. Perché le guerre possono anche scoppiare per caso, o a seguito di un incidente, più o meno provocato. Quanto alla Crimea, faccio davvero fatica ad associarmi all’indignazione dell’occidente. Leggo in questi giorni editoriali assurdi, a livello di guerra fredda, che accusano i russi di essere tornati sovietici, parlano di Cecoslovacchia, Afghanistan. Ma dico, scherziamo? Per un giornalista, un commentatore politico, scrivere una cosa del genere, oggi, significa avere sviluppato una capacità di asservimento e subordinazione al «pensiero comune» che nemmeno Orwell avrebbe potuto immaginare. Ma come si fa? Mi sembra di essere tornato ai tempi della Georgia, quando i russi, entrando in Ossezia e occupando temporaneamente parte della Georgia, fermarono quel pazzo di Shakaashvili, a sua volta (mal) «consigliato» dagli Usa. I russi, all’epoca, evitarono l’estensione del conflitto, altro che «feroce invasione».
Per carità, tutto sono tranne che un filo russo o un fan di Putin: ma come si permettono gli Stati uniti, dopo quello che hanno fatto in Iraq – dove dopo aver mentito spudoratamente al mondo intero sulla storia delle presunte armi di distruzioone di massa, sono intervenuti senza un mandato Onu a migliaia di chilometri di distanza per sovvertire un regime – a protestare, oggi, contro la Russia? Voglio dire, non mi sembra che ci siano state stragi, pulizie etniche, violenze diffuse. Io mi chiedo: ma perché continuamo a considerare il mondo intero come nostro territorio, che abbiamo il diritto, quasi il dovere di «controllare» e, nel caso, modificare a seconda dei nostri interessi? Non è cambiato nulla, alla Casa Bianca e al Pentagono, sono ancora convinti che l’America sia e debba essere la guida – e il gendarme – del mondo.
A proposito di minacce, oltre alla Russia, anche la Cina e il Giappone fanno paura? Chi dobbiamo temere di più?
Dobbiamo temere di più gli Stati uniti. Non ho alcun dubbio, e del resto è quanto ritengono il 70% degli intervistati di un recente sondaggio internazionale svolto in Europa e citato anche dalla Bbc. Subito dopo ci sono Pakistan e India, la Cina è solo quarta. E il Giappone non c’è proprio. Questo non significa che quello che stanno facendo, anzi per ora, per fortuna, solo dicendo i nuovi leader giapponesi non siano pericolose e inaccettabili provocazioni. Il Giappone ha un passato recente che non è ancora riuscito a superare e di cui i paesi vicini, soprattutto Corea e Cina non considerano chiuso, in assenza di serie scuse e soprattutto atti di concreto ravvedimento dal parte del Giappone.
Proprio in questi giorni leggo sui giornali che il governo, su proposta di alcuni parlamentari, ha intenzione di rivedere la cosiddetta «dichiarazione Kono», una delle poche dichiarazioni che ammetteva, esprimendo contrizione e ravvedimento, il ruolo dell’esercito e dello stato nel rastrellare decine di migliaia di donne coreane, cinesi e di altre nazionalità e costrigendole a prostutirsi per «ristorare» le truppe al fronte.
Già, le famose «donne di ristoro», tuttavia ogni paese ha i suoi scheletri. In Italia pochi sanno che siamo stati i primi a gasare i «nemici» e anche inglesi e americani non scherzano, quanto a crimini di guerra nascosti e/o ignorati
Assolutamente d’accordo. Solo che un conto è l’ignoranza, l’omissione sui testi scolastici, un conto è il negazionismo: insomma, in Germania se neghi l’olocausto rischi la galera, in Giappone se neghi il massacro di Nanchino rischi di diventare premier.
PIO D’EMILIA
da il manifesto
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La notizia è insolita e clamorosa. L’Arci, il gigante dell’associazionismo italiano, l’organizzazione ricreativa e culturale nata nel ’57, con 116 comitati provinciali e un milione e centomila soci, dopo quattro giorni di confronto non è riuscita a concludere i lavori del suo sedicesimo congresso. Al momento di comporre le diversità, tra un’anima legata alle case del popolo e ai circoli emiliani e toscani e una sensibilità più movimentista cresciuta nelle lotte sociali, molto al sud contro la criminalità, si è preferito alzare bandiera bianca e rinviare tutto a un congresso bis. Nel frattempo l’associazione sarà governata da un comitato di reggenza diretto dal presidente uscente, Paolo Beni.
Nonostante ci fossero tutti le avvisaglie di un conflitto, testimoniato dalla sfida di due candidati alla successione, tuttavia l’esito di una rottura ha colto di sorpresa chi fino all’ultimo aveva sperato in una possibile convivenza delle differenze. Perché così dovrebbe essere in una associazione ricca di storia, di esperienze sociali, di battaglie civili. Perché l’Arci non è un partito dove questioni di potere spesso fanno premio sui contenuti. Perché siamo in un momento di sbandamento forte della sinistra, e la presa del potere di Renzi è lì a ricordarcelo.
Non essere riusciti nell’impresa di valorizzare i diversi orientamenti per farne la forza dell’associazione, per renderla più capace di coniugare la tradizione, la solidità con i militanti più vicini alle mobilitazioni e ai momenti di lotta di questi anni di crisi (appunto l’obiettivo difficile ma ambizioso del congresso), è un brutto segnale. Purtroppo non l’unico a colpire l’arcipelago della sinistra in questo momento.
Abbiamo appena visto un esordio difficile della Lista per Tsipras, alla quale proprio dall’Arci viene un sostegno forte e capillare già nella raccolta delle firme e nelle candidature. E le cronache di questo fine settimana raccontano di scontri (anche fisici) per i pacchetti di voti nelle urne delle primarie degli organismi periferici del Pd (e in prospettiva per le candidature alle prossime elezioni europee).
Nascondere o addolcire la pillola non serve. Meglio guardare in faccia i nostri limiti e cercare di trarne qualche insegnamento. Come fa, egregiamente, uno spot che pubblicizza la Lista per Tsipras. Un gruppo di ragazzi attorno al tavolo di un bar che iniziano baldanzosi a riferire sulla buona raccolta di firme ma che poi si ritrovano a litigare perché ciascuno pensa che il suo particulare sia il solo, il vero, l’unico degno di essere rappresentato.
La crisi evidentemente lavora a dividere, socialmente innanzitutto e quindi politicamente. Ma un pensiero di sinistra dovrebbe esserne così consapevole da essere in grado di mettere in campo tutti gli anticorpi per neutralizzare divisioni ideologiche che hanno perso da gran tempo la loro forza, per accogliere invece le mille sfumature culturali, politiche e sociali che fanno della sinistra l’unica voce critica contro la deriva di un modello fallimentare che ormai si affida al marketing politico come l’ultima ancora di consenso. La crisi dovrebbe essere un’occasione di rinnovamento, lo specchio in cui leggere gli errori, non l’alibi per raschiare il barile.
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Libri & Conflitti. Il “miracolo” economico italiano è stato in realtà un disastro. Dietro la favola della crescita e del progresso si è nascosto un sistema industriale che ha avvelenato un Paese intero. La maggior parte della superficie nazionale, insieme alle persone che la abitano, è stata svenduta al profitto, con la complicità della politica. Oggi, che l’Italia non può più ignorare il prezzo troppo caro in termini di vite umane che ha versato e continua a versare, anche le bonifiche si rivelano un grande business. Da Taranto a Napoli, da Rosignano a Brescia, passando per il Lazio e la Sicilia, il libro ripercorre la genesi del fenomeno biocidio che sta uccidendo il Belpaese. E delle comunità che hanno scelto di ribellarsi.
Il paese dei veleni. Il paese reale che muore, sotto i colpi di speculazione e profitto. Un’intervista ad Antonio Musella, uno dei curatori dell’inchiesta sui disastri ambientali degli ultimi anni.
Che cosa significa in questo periodo storico caratterizzato da una crisi che aggredisce corpi, coscienze, benessere e dignità, scrivere un’inchiesta sul biocidio?
Significa provare a mostrare come in conflitto tra capitale e lavoro interessi anche l’ambiente e come conseguenza incida anche sul bios di ciascuno di noi. Il lavoro che abbiamo fatto non indugia sul dolore delle vittime del biocidio, esercizio spesso caro ai preti, ma prova a svelare attraverso il metodo dell’inchiesta giornalistica come lo scempio del territorio sia parte integrante del sistema economico in cui viviamo e dentro la crisi l’aggressione si fa ancora piu’ acuta.
Di fronte ad un’opinione pubblica silenziosa, complice dei vari governi dell’austerità che si sono susseguiti in questi anni, si è opposta la tenacia dei comitati politici che hanno costruito campagne di critica e sensibilizzazione, come quella dello “Stop Biocidio”. Credete che la spinta dal basso tramite l’autorganizzazione, coadiuvato dall’apporto tecnico di medici, sia una strada efficace da percorrere per la denuncia e il cambiamento di condizioni critiche in cui verte, tra i tanti, la Terra dei Fuochi in Campania?
Crediamo che sia la sola possibile. I comitati in questi anni sono stati punti di riferimento impareggiabili. Senza di loro oggi non si saprebbe nulla del biocidio. Nel nostro paese c’e’ un gruppo di giornalisti che ha deciso di fare rete e dare voce alle ragioni dei comitati. Questo libro vuole essere uno strumento nelle mani di queste esperienze.
L’invasione degli impianti industriali (che siano fabbriche di armi o acciaierie), delle discariche e degli inceneritori (e perché no, della TAV) modificano la geografia ambientale e umana dei luoghi. Dai dati offerti dall’inchiesta risulta essere abbastanza sfumata la speranza di una sana convivenza – anche a livello economico – di queste “grandi opere” con l’uomo. Quali le prospettive per una gestione sana per il problema del corrotto industrialismo all’italiana?
La questione è molto complessa ed è al centro di una articolata discussione. In molti credono che la strada della riconversione ecologica sia lo strumento per alzare la soglia di sostenibilità. Noi ci sforziamo di indagare le diverse proposte e proviamo a stare nel recito del nostro mestiere. Di certo appare assai difficile immaginare la riconversione di una mostruosità come l’Ilva ad esempio.
E’ recentissima la notizia del rinvio a giudizio sul caso Ilva del governatore di Puglia Nichi Vendola, accusato ora di Concussione aggravata. Insieme a lui, una lista di nomi tutti legati da un filo rosso che come un cappio ha circondato la città di Taranto, diventata ormai un tutt’uno con l’Italsider, un essere chimerico da immaginario post apocalittico. In questo scenario non si può tralasciare la responsabilità di Vendola, complice insieme ai fratelli Riva e ad un sistema più vasto in cui sono partecipi media, DIGOS e aziende private, che ha permesso la sopravvivenza di un’architettura tutta retta dalla logica del profitto, a costo della vita stessa dei cittadini. La sinistra parlamentare, dunque, pare aver perso pure questo ultimo baluardo. Che considerazioni politiche puoi estrapolare da questi ultimi eventi?
Non spetta a me fare questo tipo di considerazioni. Dalle vicende che abbiamo indagato, compreso quella tarantina, è evidente che le amministrazioni di tutti i livelli da quello comunale fino al governo nazionale hanno avuto dei ruoli talvolta di complicità, talvolta di connivenza, talvolta di ambigua attenzione nei confronti degli autori dei peggiori scempi ambientali. Non credo che si possa fare una distinzione di tipo ideologico, gli amministratori locali devono rispondere innanzitutto ai cittadini del proprio territorio e troppo spesso destra e sinistra hanno avuto comportamenti analoghi. Credo pero’ che senza quel profilo culturale che i movimenti sociali che traggono le loro radici dalla sinistra extraparlamentare hanno saputo dare a diverse battaglie ambientali oggi saremo in un paese che, piuttosto che trarre ricchezza dalle esperienza di lotta sui territori come prefigurazione di una società altra, saremmo nel paese dei Nimby o degli interessi particolari. La sinistra come universo mondo ha dato un contributo importante a queste lotte. In tanti a sinistra anche in parlamento hanno sostenuto e sostengono queste battaglie. Pertanto credo che sia ingeneroso un giudizio frettoloso su questi temi sulla sinistra parlamentare, credo piuttosto che contino le responsabilità dei singoli.
Andreina Baccaro, 32 anni di Taranto. Giornalista professionista, lavora per il settimanale Wemag. Ha lavorato a L’Unità di Bologna. Nel 2007 ha vinto il premio “Ilaria Alpi Maria Grazia Cutuli” della Camera dei Deputati con la tesi di laurea “Il diritto all’informazione in tempo di guerra”.
Antonio Musella, 32 anni, giornalista ed attivista, reporter del giornale online Fanpage.it e collaboratore del settimanale Left. Ha pubblicato Mi rifiuto (Sensibili alle foglie, 2008, è coautore di Chi comanda Napoli (Castelvecchi, 2012).
Il paese dei veleni (Biocidio, viaggio nell’Italia contaminata)
di Andreina Baccaro e Antonio Musella
robin round edizioni
collana: Fuori rotta
pagine: 120
isbn: 9788895731964
prezzo: € 13
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