Le Nazioni Unite hanno denunciato in un rapporto la morte di circa duemila persone nella regione sudorientale della Turchia da luglio 2015 a dicembre 2016 e gravi violazioni di diritti umani nel corso delle operazioni governative di sicurezza nella zona.
Nei documenti si fa riferimento anche a 500mila sfollati soprattutto di etnia curda. Dalle immagini satellitari diffuse si può poi avere un’idea del grado di distruzione della regione. Gli ispettori dell’Onu hanno documentato uccisioni, torture e sparizioni, soprattutto durante il coprifuoco.
Il governo turco non ha consentito agli investigatori di avere accesso nel paese e ha rigettato le accuse. “Le autorità turche hanno contestato la veridicità dei rilievi fatti nel rapporto”, ha dichiarato l’alto commissario delle Nazioni Unite Zeid Ra’ad al Hussein.
Secondo l’organizzazione, ancora più grave è l’assenza di un’indagine interna avviata dalla Turchia per fare chiarezza su migliaia di morti sospette. L’Onu riporta che 800 delle vittime appartenevano alle forze di sicurezza e altri 1.200 avevano compiuto azioni violente contro lo stato.
Nel rapporto, tra i tanti episodi, si fa riferimento alla detenzione di 189 persone nella città di Cizre nel 2016 senza viveri e ai resti carbonizzati di una donna consegnati alla sua famiglia dopo la morte.
A pochi giorni dalla maxi operazione Peugeot-Opel – che ha dato origine al secondo player europeo dopo Volkswagen – i concorrenti reagiscono, e in particolare si fa sentire Fca: l’ad Sergio Marchionne dal Salone dell’auto di Ginevra disegna un nuovo futuro per lo stabilimento di Pomigliano, annunciando che dal 2019-2020 perderà la Panda (sembra a favore della Polonia) ma probabilmente arriverà una Maserati o un’Alfa Romeo come rimpiazzo. Rassicurazioni che non tranquillizzano la Fiom – che chiede un confronto urgente – mentre Fim e Uilm apprezzano e sostengono la strategia del manager.IL FUTURO INDUSTRIALE di Fca – gruppo che tra gli altri controlla il marchio Fiat – è a questo punto complesso: da un lato l’esigenza di rispondere, soprattutto in Europa, al nuovo soggetto nato dalle nozze di Psa-Peugeot e Opel, dall’altro il dialogo con il presidente degli Usa Donald Trump dopo anni di rapporti proficui con il suo predecessore, Obama. Marchionne, pragmatico ad dei due mondi, non fa mai questione di collocamento politico e si prepara anzi a spostare alcune produzioni dal Messico agli Stati Uniti per venire incontro all’America first del neo inquilino della Casa Bianca.
RIGUARDO ALLA PARTITA con i concorrenti, soprattutto nel Vecchio continente, Marchionne ammette che «l’integrazione tra Psa e Opel farà pressione sul gruppo Volkswagen per quanto riguarda il suo posizionamento nel mercato europeo». «Volkswagen è leader in Europa e adesso Peugeot con Opel la incalzerà perché sarà seconda alle sue spalle. Subito dopo c’è anche Renault», ha osservato l’ad. E sulla possibilità che questo possa facilitare colloqui tra Fca e il gruppo Vw, Marchionne ha risposto: «Ovviamente sì, la casa tedesca con Fca potrebbe rafforzare il suo primato in Europa. Non ho alcun dubbio che Volkswagen a un certo momento si presenti da noi per parlare».
SUL FRONTE USA , Marchionne ha confermato di voler assecondare Trump nel suo intento di proteggere e incrementare l’occupazione negli Usa, anche a discapito di quella in Messico: «Non mi voglio addentrare in discussioni politiche su Trump – ha spiegato – cerco di essere obiettivo e di valutare in quale modo portare avanti le attività di Fca negli Stati Uniti». «Riporteremo dal Messico alcune attività, questo lo otterrà, ma è una cosa che riguarda il mercato americano e l’occupazione americana», ha aggiunto. «Da Trump si può imparare qualcosa, magari con un tono diverso. Si può avere un rapporto più diretto con l’industria, più collaborazione».
NON È MAI tramontata l’ipotesi di una alleanza con il colosso statunitense Gm, che è e resta una porta «impossibile da chiudere perché non si è mai aperta: ho bussato e non ho avuto risposta», ha spiegato Marchionne . «La mia idea sulla fusione con Gm rimane la stessa – ha precisato – anche se ora (dopo la cessione di Opel a Psa-Peugeot da parte di Gm, ndr) le sinergie sono un po’ cambiate e quindi è meno desiderabile. Abbiamo perso il 20% delle sinergie che potevano esistere con la fusione. Comunque non cambia niente».
TUTTO QUESTO SUL fronte degli scenari internazionali: ma in Italia le preoccupazioni si addensano su Pomigliano, perché non è ancora chiaro cosa potrebbe seguire all’addio della Panda, annunciato ieri. Timori espressi dalla Cgil, con Susanna Camusso, e dalla Fiom. Mentre Marco Bentivogli, segretario Fim Cisl, plaude all’«upgrade della produzione per Pomigliano, con la conferma di un’auto di fascia superiore della gamma Alfa Romeo».
E se la Uilm, ugualmente positiva verso l’ad di Fca, chiede però, a questo punto, di «chiarire quali modelli porterà nel sito campano», è la Fiom, con il responsabile auto Michele De Palma, a sollecitare «un confronto urgente con tutti i sindacati in Italia», e insieme «l’intervento del governo, che non può continuare a tacere sulle politiche industriali e occupazionali che riguardano Fca».
«LA PANDA ANDRÀ altrove, ma non ora, intorno al 2019-2020. Lo stabilimento di Pomigliano ha la capacità di fare altre auto», aveva spiegato in mattinata Marchionne (e molti hanno pensato a una produzione che sarà tutta polacca), per poi aggiungere che nel sito campano arriverà un modello Alfa Romeo o Maserati per rimpiazzare la Panda: tra i modelli previsti dal piano industriale ci sono due suv, uno sopra e uno sotto lo Stelvio, il più grande andrà a Mirafiori e il più piccolo a Pomigliano. I sindacati adesso attendono dati e conferme.
Partito Comunista Rumeno – XXI Secolo (PCR-XXI) | pcr.info.ro
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
Amici,
In Romania, sotto le vesti di una missione anti-corruzione, è stata creata una polizia politica il cui obiettivo era la neutralizzazione del sentimento nazionale rumeno.
Una situazione simile è avvenuta in Messico, paese che si stava avvicinando al fallimento ed è stata salvato dagli Stati Uniti. Ma i messicani non sapevano quale sarebbe stato il prezzo di questo aiuto.
Per molti giorni i messicani scesero nelle strade battendo con i cucchiai i piatti vuoti. Le manifestazioni non cessarono fino a quando il presidente non prese per lo Stato messicano lo sfruttamento del petrolio. Poi seguì un periodo di grande crisi economica in Messico. L’interesse bancario per i prestiti statali era salito alle stelle. Il governo fu costretto a ridurre drasticamente la spesa statale. Si pensò inoltre di stampare moneta senza copertura economica, per poter coprire le spese statali strettamente necessarie.
L’inflazione era galoppante. Il governo chiese l’aiuto del governo degli Stati Uniti. Gli USA erano interessati a chiudere la crisi, perché l’immigrazione messicana negli stati nordamericani aveva raggiunto livelli senza precedenti. Ma l’aiuto degli Stati Uniti era condizionato: il Messico doveva passare sotto il controllo del FMI e, di conseguenza, i prestiti a buon mercato sarebbero potuti riprendere. Il FMI sollecitò operazioni di privatizzazione.
L’aiuto degli Stati Uniti è stato condizionato nel seguente modo: gli organi inquirenti dello stato messicano sarebbero dovuti essere subordinati ai servizi di intelligence e questi ultimi forzati ad applicare le prescrizioni dell’FBI, che pubblicamente sarebbero state motivate come un tentativo di smantellare i cartelli della droga, ma che invece avevano il nascosto proposito di seguire lo stato d’animo della popolazione affinché non si riavviasse l’ondata nazionalista con le richieste di nazionalizzazione.
La Romania, come ex paese socialista che per 25 anni ha praticato un comunismo nazionale, è stata valutata dopo il 1989 come un paese dal forte potenziale nazionalista. Per far si che questo potenziale rimanga sospeso, inattivo, senza espressione pubblica, nel 2005 gli USA (attraverso la CIA) hanno convinto il presidente Traian Basescu ad accettare la ricetta FBI per il Messico. La messa in pratica è dovuta al Consiglio di Difesa Supremo del Paese (CSAT) con la formazione di gruppi di ricerca e decisione congiunti della Direzione Nazionale Anticorruzione (DNA) e del Servizio informazioni rumeno (SRI).
Sotto la maschera di una grande campagna contro la corruzione, in segreto, sono stati predisposti tutti gli ingredienti di una nuova polizia politica, la cui missione fondamentale è stata la neutralizzazione dei germi del sentimento nazionale. La missione è compiuta. Oggi, in Unione Europea, la Romania è la meno esposta ai movimenti euroscettici o nazionalisti. Purtroppo, questa missione è stata sfruttata anche per gli scontri politici, lasciando dietro di sé molti abusi giudiziari.
L’avvento al potere in Romania, dopo le elezioni dell’11 dicembre 2016, del Partito Social Democratico, considerato dagli avversari un partito post-comunista, ha deluso coloro che avevano creduto alla retorica elettorale dei leader socialdemocratici sulla sovranità nelle decisioni macroeconomiche, sul Fondo di sviluppo sovrano, sulla politica fiscale e altre intenzioni che definiscono l’essenza delle dottrine di sinistra.
Dopo il decreto governativo n.13 sulla modifica del codice penale per la messa in conformità con le decisioni della Corte Costituzionale, il presidente Johannis ha affermato che tale decreto sostiene alcuni personaggi politici che ricevono direttive dalla DNA.
Purtroppo il presidente Iohannis, che vuole porsi come paladino contro la corruzione e i corrotti del nostro paese, è uno dei primi politici corrotti, avendogli la magistratura imposto finora il sequestro di due case acquistate con mezzi illegali e bloccato la costruzione di altre cinque. Non ha mai pensato di dimettersi dalla carica, usando la sua immunità e incoraggiando la giustizia politica (DNA + SRI) a prendere nuovi provvedimenti contro gli avversari politici del Partito Social Democratico e ALDE, che hanno vinto le elezioni.
Per sostenere la sua posizione nei confronti del governo, Iohannis ha usato la sua protesta contro il decreto del governo per chiedere ai suoi sostenitori di scendere nelle strade in tutto il paese. Egli ha personalmente partecipato alla prima dimostrazione non autorizzata a Bucarest, per incoraggiare i manifestanti. Durante la recente visita a Malta ha riconosciuto di “aver fiducia nei suoi uomini, che sono nelle strade del paese…”.
Gli uomini di Johannis che protestano davanti al Palazzo del Governo romeno, in Piazza della Vittoria e in alcune altre città del paese sono formati da membri dei partiti di opposizione, dai soci e dipendenti delle multinazionali da queste mandati a protestare perché insoddisfatte della politica economica del governo, che riduce il loro profitto imponendo l’aumento dei salari e perché costrette a pagare alcune tasse, e dalla gente mobilitata e pagata dalla rete di organizzazioni non governative di Soros.
La posizione del presidente Johannis è una conseguenza del fatto che non ha mai rinunciato all’obiettivo di formare “il suo governo”, diverso da quello del governo del Partito Social Democratico che ha vinto le elezioni con un programma di riduzione fiscale, aumento di salari e pensioni, investimenti nell’industria e nell’agricoltura, nella sanità e nelle autostrade. Queste misure sono state inserite dal governo nel bilancio 2017 e approvate dal Parlamento all’inizio di questo mese.
Dopo l’emanazione del decreto governativo n.13, influenzata dalla posizione del presidente, la Direzione nazionale anticorruzione (DNA) ha avviato indagini su circa 40 persone del mondo televisivo che criticavano la magistratura. Allo stesso tempo ha deciso di controllare il Primo ministro e il Ministro della Giustizia per l’adozione del decreto che modifica il codice penale. Con questa misura la Romania è l’unico paese dell’Europa in cui la magistratura controlla e agisce per l’annullamento delle decisioni politiche di un governo legale.
Dopo il ritiro del decreto governativo n.13 da parte del governo, perché fosse approvato dal Parlamento, con l’obiettivo di fermare le dimostrazioni, il presidente Johannis invece di agire nel suo ruolo di mediatore ha incoraggiato i dimostranti a rovesciare il governo.
Attualmente assistiamo ad una lotta fra coloro che vogliono mantenere lo stato attuale delle cose, sostenuti direttamente dal presidente Klaus Johannis, che organizzano dimostrazioni davanti al governo rumeno e in altre città del paese, ed i sostenitori del governo socialdemocratico, eletto con oltre il 50% dei voti nelle elezioni dell’11 dicembre 2016, che protestano davanti alla Presidenza chiedendo al presidente di rispettare il voto popolare e lasciare che il governo metta in pratica il suo programma per la riduzione sostanziale delle tasse, per l’aumento dei salari e delle pensioni, e chiedono inoltre la desecretazione delle decisioni dello CSAT per presentare all’opinione pubblica come in segreto le squadre miste di DNA e SRI stiano attualmente agendo come polizia politica.
Come esempio di politica antinazionale smascherata di recente, con provvedimenti da polizia politica diretti dall’estero, può essere menzionato il divieto imposto a tutti i governi al potere negli ultimi 27 anni di completare il tratto autostradale Piteşti – Sibiu (incluso nel IV corridoio europeo) di circa 100 km o la bretella Comarnic – Brasov di circa 40 km, assolutamente e strettamente necessarie per collegare via autostrada la capitale Bucarest e la zona sud del paese, con la Transilvania e i paesi europei occidentali.
Il Partito Comunista Rumeno – XXI Secolo (PCR-XXI) ritiene che per dare corso ad un vero potere politico nel paese, l’attuale governo socialdemocratico dovrebbe fondere la Procura generale con il DNA, come in tutto il mondo civile, rimuovere la SRI dalla Magistratura e smascherare ed emarginare i magistrati che operano come agenti coperti. I rappresentanti dei mass-media dovrebbero esigere che gli agenti coperti della stampa siano presi direttamente nel quadro dei servizi, come portavoce. La giustizia, come anche la stampa, non devono più essere considerati “campo tattico” dai servizi. Un passo immediato deve essere l’abolizione dalla Romania delle Organizzazioni non governative di Soros o creare un quadro giuridico che non permetta a queste organizzazioni di essere finanziate dall’estero.
Il Partito Comunista Rumeno – XXI Secolo (PCR-XXI) chiede al governo socialdemocratico di approvare in parlamento il decreto n.13, smantellare lo stato di polizia esistente e dare corso in modo efficace al programma economico validato legalmente delle elezioni dell’11 dicembre 2016.
Il Partito Comunista Rumeno – XXI Secolo (PCR-XXI) come promotore dell’interesse nazionale a livello interno e internazionale, sostiene tutte le iniziative che hanno come obiettivo finale la realizzazione di un Programma nazionale per lo sviluppo economico e sociale, a medio-lungo termine, accettato e rispettato da tutte le forze politiche e sociali della Romania. Allo stato attuale, l’interesse nazionale del nostro popolo consiste nella crescita dei salari nel nostro paese, perché se questo governo non riuscirà quest’anno ad aumentare abbastanza gli stipendi in Romania, il nostro paese rimarrà per molto tempo un paese con una manodopera a buon mercato per i paesi dell’Europa occidentale. Per questo motivo attualmente più di 4 milioni di romeni lavorano all’estero in conseguenza della perdita di posti di lavoro e dei salari molto bassi.
Nel caso in cui il presidente Johannis, sostenuto dalla polizia politica romena, dalle multinazionali, dalle Ong di Soros e dall’establishment europeo riuscisse a rovesciare il governo socialdemocratico, legalmente eletto, la fiducia nel voto diminuirà drasticamente in Romania e anche in tutta Europa, con la prospettiva di nuove elezioni da tenersi quest’anno e nel prossimo futuro.
Per il Partito Social Democratico c’è lo stesso pericolo di perdere la fiducia popolare se non riuscirà a mettere in pratica per intero il suo programma economico e sociale premiato dal voto dell’11 dicembre 2016.
Con amicizia e solidarietà
Constantin Cretu
Presidente
PS: Si prega di notare che negli ultimi 27 anni i governi rumeni sono stati tutti sotto la dittatura dell’UE e delle multinazionali. Alle elezioni dell’11 dicembre 2016 è stata la prima volta che un partito, in quel caso il Partito Social Democratico, ha presentato un programma economico e sociale concreto, votato da oltre il 56% degli elettori.
Fino ad ora questo Governo ha aumentato le pensioni e gli stipendi e ha ridotto le tasse, attraverso il bilancio approvato dal Parlamento. Questa è la ragione per cui un gran numero di persone stanno attualmente dimostrando di fronte alla Presidenza per difendere l’aumento delle loro pensioni e stipendi.
Il PCR-XXI non ha alcun motivo, allo stato attuale, per criticare l’azione del governo con l’eccezione della questione del decreto governativo n° 13 senza averlo presentato in Parlamento (ma secondo la legge ha il diritto di fare questo tipo di decreti). Il Presidente Johannis e i suoi sostenitori non hanno riconosciuto il carattere urgente del decreto e per fermare le dimostrazioni il governo ha abrogato il decreto portandolo in Parlamento per l’approvazione.
Se in futuro non rispetteranno gli impegni presi li criticheremo.
Le dimostrazioni che vedete di fronte al palazzo del governo romeno sono organizzate da forze con esperienza nella manipolazione delle masse. Come spiegare la presenza di persone con luci di tre diversi colori rappresentanti visivamente l’esatta proporzione di voti ottenuti dal PSD, USR (Unione Salva Romania) e PNL Partito Nazionale Liberale che sono state esibite questa sera? Per chi vuole capire è chiaro che tutto è ben diretto da gente con esperienza.
NEW YORK. Il Dipartimento del Tesoro statunitense ha annunciato nuove sanzioni contro l’Iran, a seguito di un test con missili balistici che ha spinto l’amministrazione di Donald Trump ad accusare l’Iran di violare un accordo internazionale sulle armi. Le sanzioni prendono di mira 13 individui e 12 società, le prime accusate di contribuire alla proliferazione di armamenti di distruzione di massa e gli altri per presunti legami con il terrorismo.NEI GIORNI SCORSI la Casa Bianca aveva messo sotto osservazione l’Iran sui test balistici, il direttore dell’unità del Tesoro incaricato alle sanzioni, John Smith, ha detto che le sanzioni non violano l’accordo nucleare internazionale raggiunto con l’Iran nel 2015, dove si richiede all’Iran di ridimensionare il programma nucleare in cambio della revoca di alcune sanzioni economiche, ma sono parte degli sforzi degli Usa per contrastare l’ «attività iraniana maligna all’estero». Subito la risposta di Tehran con un tweet del ministro degli esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif: «L’Iran è indifferente alle minacce provenienti dall’estero, perché la sicurezza deriva dal suo stesso popolo. Non riusciremo mai a cominciare una guerra, useremo le nostre armi solo per difenderci. E quelli che si lamentano possono fare forse la stessa affermazione?».
SEMPRE IERI IL PORTAVOCE della Casa Bianca, Sean Spicer, ha informato che si stanno rivedendo – com’era prevedibile visto che il Senato non aveva mai ratificato le aperture di Obama – le politiche americane su Cuba. Ma ce una sanzione davvero sorprendenti dopo tanti annunci di «luna di miele» con Putin.
PERCHÉ ALL’ONU la nuova ambasciatrice americana Nikki Haley ha aperto le sue considerazioni al consiglio di sicurezza definendo «spiacevole» il fatto che la sua prima apparizione fosse dedicata alla «condanna delle azioni aggressive» della Russia. «Gli Stati uniti sono al fianco del popolo dell’Ucraina che ha sofferto per oltre tre anni sotto l’occupazione russa e l’intervento militare – ha detto Haley – Finché la Russia e i separatisti che sostiene non rispetteranno la sovranità e l’integrità territoriale, questa crisi continuerà. La Crimea è una parte dell’Ucraina. Le nostre sanzioni collegate alla Crimea resteranno in vigore finché la Russia non restituirà il controllo della penisola all’Ucraina».
LA SERIE DI SANZIONI arriva a ridosso della controversa nomina del numero due della Cia, Gina Haspel, nota per aver diretto un black site in Thailandia, uno dei centri di tortura, uno dei programmi più contestati, chiuso da Obama. La nuova Casa bianca sulla questione torture è spaccata: per Trump sarebbe bene reintrodurle, ma il capo della Cia, Pompeo, inizialmente favorevole, durante l’audizione di conferma del suo incarico davanti alle pressioni della senatrice Feinstein su un’eventuale decisione presidenziale di riapplicare i metodi di tortura rispose negativamente; da sempre contro la tortura invece c’è il capo del Pentagono, James Mattis.
Ora la nomina di Haspel potrebbe essere un segnale della volontà di modificare i protocolli di interrogatorio. La scorsa settimana il leak di una bozza di ordine esecutivo per rimettere in operatività i metodi di tortura era stata passata alla stampa, in una delle tante fughe di notizie che sta caratterizzando questa fase dell’amministrazione. Non fuga di notizie ma una menzogna invece quella di Kellyanne Conway, consulente del presidente, tra le promotrici del MuslimBan che vede già ben 100mila i visti cancellati secondo i dati emersi da un ricorso presentato da cittadini di origine yemenita in Virginia. E pensare che nei primi giorni Trump tranquillizzava che il provvedimento avrebbe riguardato solo 109 casi.
KELLYANNE CONWAY ha motivato il MuslimBan con una strage «compiuta» da due rifugiati iracheni in Kentucky (la Strage di Bowling Green, ha detto), sostenendo che «non si conosce l’evento perché non coperto dalla stampa». In realtà la strage non è mai avvenuta; come riportato poi ieri da tutti i media Usa, si sarebbe trattato di due cittadini iracheni che vivevano a Bowling Green, arrestati nel 2011 e condannati per aver cercato di mandare armi e denaro ad Al Qaeda in Iraq.
NON SI SA INVECE quale «strage» abbia spinto la Camera Usa a cancellare la norma dell’amministrazione Obama che garantiva controlli per l’acquisto di armi da parte di persone con disturbi mentali; o a rivedere la legge voluta da Obama per frenare abusi e speculazioni della finanza d’assalto di Wall Street.
«Cooperare per individuare soluzioni urgenti alla questione dei migranti clandestini che attraversano la Libia per recarsi in Europa via mare, attraverso la predisposizione dei campi di accoglienza temporanei in Libia, sotto l’esclusivo controllo del Ministero dell’Interno libico, in attesa del rimpatrio o del rientro volontario nei paesi di origine»: questo è l’obiettivo indicato. E a tal fine si dovrà lavorare perché «al tempo stesso i paesi di origine accettino i propri cittadini» e sottoscrivano «con questi paesi accordi in merito». Bastano queste parole del Memorandum firmato l’altro ieri dal presidente del consiglio italiano Gentiloni e dal premier libico Fayez al Serraj (che, ricordiamoci, governa su una parte sola di quel territorio) a prefigurare scenari non rassicuranti su quanto potrebbe accadere a partire dalle prossime settimane.Seppure trascuriamo per un attimo l’ovvio scetticismo circa la realizzabilità di accordi di cooperazione nel contesto libico attuale, totalmente precario e privo della benché minima prospettiva di stabilizzazione in tempi brevi, si deve comunque entrare nel merito del contenuto del Memorandum.
Il quadro che quelle parole evocano non richiede uno sforzo d’immaginazione, ma piuttosto un esercizio di memoria, dal momento che il futuro prevedibile è stato anticipato da quanto già accaduto nell’ultimo decennio. Conosciamo le condizioni dei centri temporanei in Libia dai racconti di quanti sono sopravvissuti, nonostante i trattamenti disumani e le sopraffazioni subite a Sebah, nel Sud, o a Sciuscia, al confine con la Tunisia. E conosciamo nei dettagli più dolorosi quanto accade ora in Libia, su un territorio fuori dal controllo di qualsiasi governo, alle migliaia di persone eritree, somale, nigeriane, sudanesi, gambiane e di molti altri paesi africani, prima che raggiungano i barconi diretti verso le nostre coste. Racconti crudeli, che si susseguono tutti uguali da mesi e da anni e che rappresentano, da soli, la premessa ineludibile che impone di considerare inaccettabile, oltre che inattuabile, un accordo col governo libico per il controllo e la gestione dei flussi migratori.
Valutazioni condivise da Unhcr e da Oim, nonostante il loro coinvolgimento nel piano della Commissione europea discusso ieri nel corso del vertice di Malta.
Le due organizzazioni internazionali sostengono che è prematuro e rischioso pensare a dei centri sul modello hotspot nella Libia attuale e che si devono creare, innanzitutto, corridoi umanitari sicuri e servizi ricettivi appropriati dove il governo libico possa «registrare i nuovi arrivi, sostenere il ritorno volontario, esaminare le richieste di asilo e offrire soluzioni ai rifugiati». Ed è sicuramente questo l’aspetto più delicato: una strategia tutta finalizzata a bloccare l’immigrazione cosiddetta «clandestina» non lascia spazio alla tutela dei diritti e alla protezione internazionale.
Nel Memorandum siglato l’altro ieri a Roma la parola asilo non compare: e non c’è alcun riferimento a quanti, all’interno dei flussi che partono dalle coste libiche, fuggono perché in pericolo di vita, perseguitati e bisognosi di soccorso e tutela.
La questione migratoria non può essere affrontata dall’Italia e dai paesi europei se non partendo dai principi di diritto internazionale su cui si basano le nostre democrazie. Abdicare a quei principi vuol dire rinunciare di fatto alla propria storia e mettere in discussione l’intero sistema di valori a cui si ispirano gli stati di diritto. L’orizzonte non può essere così angusto: davvero per bloccare i flussi che da qui a poche settimane riprenderanno ancora più intensi siamo pronti a rinchiudere centinaia di migliaia di persone nei campi libici? E’ davvero sufficiente impegnare dei fondi per finanziare paesi africani che sappiamo essere instabili e fragili, quando non apertamente dispotici o totalitari? Basta puntare solo sulla cooperazione in materia di sicurezza e controllo della frontiera, mettendo in secondo piano lo sviluppo economico e democratico di quei paesi?
Dieci anni fa, a contestare un accordo con la Libia non troppo dissimile, fu un piccolo pugno di parlamentari (i radicali, Savino Pezzotta, Furio Colombo, e pochi altri). Possiamo sperare che quegli anni siano bastati a veder moltiplicato quel numero allora così esiguo?
Autorevoli voci della sinistra europea si sono unite alla protesta anti-Trump «No Ban No Wall», in corso negli Stati uniti, dimenticando il muro franco-britannico di Calais in funzione anti-migranti, tacendo sul fatto che all’origine dell’esodo di rifugiati ci sono le guerre a cui hanno partecipato i paesi europei della Nato. Si ignora il fatto che negli Usa il bando blocca l’ingresso di persone provenienti da quei paesi – Iraq, Libia, Siria, Somalia, Sudan, Yemen, Iran – contro cui gli Stati uniti hanno condotto per oltre 25 anni guerre aperte e coperte: persone alle quali sono stati finora concessi i visti d’ingresso fondamentalmente non per ragioni umanitarie, ma per formare negli Stati uniti comunità di immigrati (sul modello di quella dei fuoriusciti cubani anti-castristi) funzionali alle strategie Usa di destabilizzazione nei loro paesi di origine.I primi ad essere bloccati e a intentare una class action contro il bando sono un contractor e un interprete iracheni, che hanno collaborato a lungo con gli occupanti statunitensi del proprio paese.
Mentre l’attenzione politico-mediatica europea si focalizza su ciò che avviene oltreatlantico, si perde di vista ciò che avviene in Europa. Il quadro è desolante. Il presidente Hollande, vedendo la Francia scavalcata dalla Gran Bretagna che riacquista il ruolo di più stretto alleato degli Usa, si scandalizza per l’appoggio di Trump alla Brexit chiedendo che l’Unione europea (ignorata dalla stessa Francia nella sua politica estera) faccia sentire la sua voce. Voce di fatto inesistente quella di una Unione europea di cui 22 dei 28 membri fanno parte della Nato, riconosciuta dalla Ue quale «fondamento della difesa collettiva», sotto la guida del Comandante supremo alleato in Europa nominato dal presidente degli Stati uniti (quindi ora da Donald Trump).
La cancelliera Angela Merkel, mentre esprime il suo «rincrescimento» per la politica della Casa Bianca verso i rifugiati, nel colloquio telefonico con Trump lo invita al G-20 che si tiene in luglio ad Amburgo. «Il presidente e la cancelliera – informa la Casa Bianca – concordano sulla fondamentale importanza della Nato per assicurare la pace e stabilità».
La Nato, dunque, non è «obsoleta» come aveva detto Trump. I due governanti «riconoscono che la nostra comune difesa richiede appropriati investimenti militari».
Più esplicita la premier britannica Theresa May che, ricevuta da Trump, si impegna a «incoraggiare i leader europei miei colleghi ad attuare l’impegno di spendere il 2% del Pil per la difesa, così che il carico sia più equamente ripartito». Secondo i dati ufficiali del 2016, solo cinque paesi Nato hanno un livello di spesa per la «difesa» pari o superiore al 2% del Pil: Stati uniti (3,6%), Grecia, Gran Bretagna, Estonia, Polonia.
L’Italia spende per la «difesa», secondo la Nato, l’1,1% del Pil, ma sta facendo progressi: nel 2016 ha aumentato la spesa di oltre il 10% rispetto al 2015. Secondo i dati ufficiali della Nato relativi al 2016, la spesa italiana per la «difesa» ammonta a 55 milioni di euro al giorno.
La spesa militare effettiva è in realtà molto più alta, dato che il bilancio della «difesa» non comprende il costo delle missioni militari all’estero, né quello di importanti armamenti, tipo le navi da guerra finanziate con miliardi di euro dalla Legge di stabilità e dal Ministero dello sviluppo economico. L’Italia si è comunque impegnata a portare la spesa per la «difesa» al 2% del Pil, ossia a circa 100 milioni di euro al giorno. Di questo non si occupa la sinistra istituzionale, mentre aspetta che Trump, in un momento libero, telefoni anche a Gentiloni.
In occasione del 25 gennaio, primo anniversario della sparizione di Giulio Regeni al Cairo, i parlamentari europei Barbara Spinelli, Sergio Cofferati, Eleonora Forenza, Curzio Maltese, Elly Schlein e Pier Antonio Panzeri hanno inviato alla famiglia Regeni e ad Amnesty International Italia questo messaggio:
“Nel giorno dell’anniversario della scomparsa di Giulio Regeni al Cairo, desideriamo esprimere la nostra vicinanza alla famiglia di Giulio e ai molti attivisti che si stanno mobilitando per chiedere ancora una volta, con forza, la verità sulla sua morte.
Sosteniamo la necessità che si continui a ricercare la verità, per quanto scomoda possa essere: quella che ci dica chi ha ordinato, chi ha eseguito, chi ha coperto e chi ha finora reso impunite la tortura e l’uccisione di Giulio.
Ricordiamo all’Unione europea e ai suoi Stati membri che non è possibile, date le condizioni attuali dei diritti umani all’interno del paese, normalizzare completamente i rapporti con l’Egitto. Ci troviamo infatti di fronte al rischio che, dopo mesi di depistaggi e insabbiamenti, ci si possa accontentare di una verità di comodo che chiuda la vicenda al solo fine di favorire il ripristino di normali relazioni tra Italia ed Egitto. Una verità di comodo di cui accontentarsi per stanchezza o per la constatazione che è impossibile ottenere di più. Questo non deve accadere”.
Il messaggio è stato inviato per conoscenza anche al ministro dell’Interno Marco Minniti e al ministro degli Affari esteri Angelino Alfano
Di fronte all’accusa del neoeletto presidente Trump all’amministrazione Obama, perché avrebbe ottenuto poco o niente dagli alleati in cambio della «difesa» che gli Stati uniti assicurano loro, è sceso in campo il New York Times. Ha pubblicato il 16 gennaio una documentazione, basata su dati ufficiali, per dimostrare quanto abbia fatto l’amministrazione Obama per «difendere gli interessi Usa all’estero». Sono stati stipulati con oltre 30 paesi trattati che «contribuiscono a portare stabilità nelle regioni economicamente e politicamente più importanti per gli Stati uniti». A tal fine gli Usa hanno permanentemente dislocati oltremare più di 210 mila militari, soprattutto in zone di «conflitto attivo».
In Europa mantengono circa 80 mila militari, più la Sesta Flotta di stanza in Italia, per «difendere gli alleati Nato» e quale «deterrente contro la Russia». In cambio hanno ottenuto l’impegno degli alleati Nato di «difendere gli Stati uniti» e la possibilità di mantenere proprie basi militari vicine a Russia, Medioriente e Africa, il cui costo è coperto per il 34% dagli alleati. Ciò permette agli Usa di avere la Ue quale maggiore partner commerciale. In Medioriente, gli Stati uniti mantengono 28 mila militari nelle monarchie del Golfo, più la Quinta Flotta di stanza nel Bahrain, per «difendere il libero flusso di petrolio e gas e, allo stesso tempo, gli alleati contro l’Iran».
In cambio hanno ottenuto l’accesso al 34% delle esportazioni mondiali di petrolio e al 16% di quelle di gas naturale, e la possibilità di mantenere proprie basi militari contro l’Iran, il cui costo è coperto per il 60% dalle monarchie del Golfo. In Asia orientale, gli Stati uniti mantengono oltre 28 mila militari nella Corea del Sud e 45 mila in Giappone, più la Settima Flotta di stanza a Yokosuka, per «contrastare l’influenza della Cina e sostenere gli alleati contro la Corea del Nord» In cambio hanno ottenuto la possibilità di mantenere proprie «basi militari vicino alla Cina e alla Corea del Nord», il cui costo è coperto dagli alleati nella misura del 40% in Corea del Sud e del 75% in Giappone. Ciò permette agli Usa di avere il Giappone e la Corea del Sud quali importanti partner commerciali.
In Asia sud-orientale, gli Stati uniti mantengono un numero variabile di militari, nell’ordine di diverse migliaia, per sostenere Thailandia e Filippine unitamente all’Australia nel Pacifico.
In tale quadro rientrano «le esercitazioni militari per la libertà di navigazione nel Mar Cinese Meridionale», da cui passa il 30% del commercio marittimo mondiale. In cambio gli Stati uniti hanno ottenuto la possibilità di «proteggere» un commercio marittimo del valore di oltre 5 mila miliardi di dollari annui. Allo stesso tempo hanno ottenuto «una regione più amica degli Stati uniti e più in grado di unirsi contro la Cina».
Viene dimenticato in questo elenco il fatto che il Pentagono, durante l’amministrazione Obama, ha cominciato a schierare contro la Cina, a bordo di navi da guerra, il sistema Aegis analogo a quello già schierato in Europa contro la Russia, in grado di lanciare non solo missili anti-missile, ma anche missili da crociera armabili con testate nucleari. È dunque infondata la critica di Trump a Obama, il quale ha dimostrato con i fatti ciò che afferma nel suo ultimo messaggio sullo Stato dell’Unione: «L’America è la più forte nazione sulla Terra.
Spendiamo per il militare più di quanto spendono le successive otto nazioni combinate. Le nostre truppe costituiscono la migliore forza combattente nella storia del mondo». Questa è l’eredità lasciata dal presidente «buono». Che cosa farà ora quello «cattivo»?
Con l’ascesa alla Casa Bianca del miliardario newyorkese finisce la visione dell’America garante dell’ordine mondiale. Il vecchio isolazionismo, che risale al periodo coloniale e che tra alterne vicende riemerge fino agli anni Trenta del Novecento, torna a essere un pilastro della politica estera americanaUn discorso intriso di pesante nazionalismo, di isolazionismo e protezionismo, con accenti esplicitamente xenofobici, rivolto anzitutto al suo popolo, a chi l’ha seguito durante tutta la campagna elettorale e che l’ha votato. Il discorso dell’Inaugurazione di Donald Trump non è stato una sorpresa quanto ai temi. Trump ha ribadito punto per punto i principi che hanno segnato la sua ascesa politica e la sua vittoria. “America First” è stato lo slogan rilanciato più volte nei circa quindici minuti del discorso.L’America di Trump sarà quella che protegge i suoi confini, le sue industrie e il suo commercio. L’America di Trump sarà quella che decide le proprie alleanze e strategie internazionali sulla base dell’interesse americano – in questo la politica estera diventa davvero una variabile del business. C’è stato, ma tiepido, il richiamo all’unità, alla necessità che il Paese superi le sue divisioni. Ma c’è stato, ancora più forte, un tema tradizionale della campagna elettorale di Trump: quello della polemica contro l’establishment, contro la politica “che ha protetto se stessa e non i cittadini di questo Paese”.
E’ tornato, nelle parole di Trump, il paesaggio di un’America devastata – dalle gang, dal crimine, dalla droga. “La carneficina americana”, l’ha chiamata Trump. Non c’è mai stato, nel corso del discorso, un richiamo diretto al valore della democrazia. Non c’è stata alcuna visione del ruolo degli Stati Uniti nel mondo – se non l’accenno a “sradicare il terrorismo islamico”. L’America di Trump è quella che si protegge, che persegue il proprio interesse, che compra e che vende. Le parole di Trump segnano probabilmente la fine di un’epoca – iniziata almeno con la fine della seconda guerra mondiale – e l’inizio di un’era completamente nuova per il Paese.
Ma vediamo, punto per punto, alcuni temi presenti nel discorso d’Inaugurazione del nuovo presidente.
Economia – Il nazionalismo economico di Trump è apparso nella sua forma più chiara. Trump ha denunciato la “carneficina americana”, che significa non soltanto un Paese devastato da eroina e criminalità ma anche dalla delocalizzazione dei posti di lavoro, da “industrie arruginite disperse come tombe di morti”. “America First” sarà la filosofia del nuovo presidente, che promette di riportare il lavoro, la prosperità, la sicurezza di vita persa con la globalizzazione e la deindustrializzazione. Nessun accenno, ovviamente, è stato fatto nel discorso alla squadra di governo che Trump ha assemblato e che contiene diversi miliardari e rappresentanti dell’industria petrolifera e della finanza. Nell’ultima parte del discorso, Trump è tornato sulla questione del “forgotten man”, l’americano dimenticato dalla politica e che lui promette di riportare al centro della politica. “Seguiremo due semplici regole – ha spiegato Trump – compra americano e assumi americano”.
Politica estera – E’ stato il capitolo più trascurato da Trump – e la mancanza di una vera visione internazionale è già il segno di dove può andare questa amministrazione. L’unica specifica promessa del 45° presidente degli Stati Uniti è stata quella di “sradicare il terrorismo islamico dalla faccia della Terra”. Il solo messaggio al resto del mondo è stato sostanzialmente un avvertimento: l’America avrà la precedenza su tutto, dopo un periodo in cui gli Stati Uniti “hanno difeso i confini delle altre nazioni” e sovvenzionato i loro eserciti. Quell’era è finita, ha spiegato Trump. La differenza di visione con il ruolo globale degli Stati Uniti disegnato da Barack Obama nel 2008 – quando l’allora giovane presidente rinnovò il patto di solidarietà con gli alleati ma si rivolse anche agli antichi nemici come l’Iran, promettendo di “tendere la mano nel caso gli altri siano disposti ad allargare il pugno” – non avrebbe potuto essere più forte. Si tratta con ogni probabilità del maggior ribaltamento in tema di politica estera dai tempi della seconda guerra mondiale. La visione dell’America garante dell’ordine mondiale finisce con l’ascesa alla Casa Bianca di Trump. Il vecchio isolazionismo, che risale al periodo coloniale e che, tra alterne vicende riemerge fino agli anni Trenta del Novecento, torna a essere un pilastro della politica estera americana.
Immigrazione – Legato al tema dell’ “America First”, c’è stato sicuramente quello dell’immigrazione. Immigration è stata una parola-chiave lanciata da Trump ai suoi sostenitori (insieme a trade e jobs). Trump ha fatto riferimento alla protezione dei confini per tre volte nel corso del suo discorso; un segnale dell’enfasi che il nuovo presidente intende mettere sul tema. “Noi abbiamo difeso i confini delle altre nazioni, rifiutando di difendere i nostri”, ha spiegato Trump (cosa non perfettamente vera: l’amministrazione Obama ha deportato i migranti irregolari in numero molto maggiore rispetto alle precedenti amministrazioni). In un’allusione nemmeno troppo velata al Messico, Trump ha detto: “Proteggeremo i nostri confini dalle devastazioni degli altri Paesi”. Oltre alla difesa dei confini, Trump in campagna elettorale ha promesso di sospendere i piani di accoglienza per i rifugiati siriani. Le parole pronunciate durante il discorso di Inaugurazione fanno pensare che i provvedimenti di esplusione, deportazione e sospensione dell’accoglienza saranno tra i primi presi dal nostro presidente.
Rivolta anti-Washington – Con il tema dell’ “America First”, quello della retorica contro la politica di Washington è stato sicuramente il più presente nel discorso. La retorica di Trump non si è rivolta soltanto contro il mondo, responsabile di aver impoverito gli Stati Uniti. Molta di questa retorica si è diretta proprio contro l’establishment politico. “Le loro vittorie non sono state le vostre vittorie” – ha detto Trump -. “Mentre loro celebravano nella nostra capitale, c’era poco da celebrare per le famiglie in difficoltà in tutto il territorio nazionale”. La visione distopica di un’America travolta da crimine, disoccupazione, paura, si sostanzia nella visione di Trump in una sorta di colpa originaria e ineliminabile delle élite di questo Paese. Il populismo di Trump – che peraltro si riallaccia a una tradizione antica quanto la Rivoluzione americana e che ritorna in diversi momenti della storia americana, dalla “Nonpartisan League” di Lynn Frazier all’anticomunismo feroce di Joseph McCarthy – biasima le classi dirigenti politiche e finanziarie, alleate nello sfruttamento dell’uomo comune, entità a-storica segnata da una comune appartenenza razziale, etnica, sociale. “Non accetteremo più politici che sono solo parole e nessuna azione”, ha spiegato Trump.
In generale, il discorso è stato segnato da un tono duro, rabbioso. Se l’obiettivo era quello di riunire un’America spezzata, si può certamente dire che Trump non l’ha raggiunto. E forse nemmeno cercato. Abraham Lincoln, nel 1861, parlò, per riunire gli americani, dei “migliori angeli della nostra natura”. Un secolo dopo John F. Kennedy si impegnò a “sostenere in ogni modo i nostri amici”. Nel 2008 Obama si appellò “all’America senza colori, né rossa né blu”. I propositi di Trump sono apparsi nel discorso di Inaugurazione ben più bellicosi ed esclusivi, lontani da ogni appello alla riconciliazione e alla pacificazione. “Sanguineremo dello stesso sangue rosso dei nostri patrioti”.
Gli avversari politici, Washington, il mondo, sono avvertiti.
Pubblichiamo la traduzione dell’intervista dell’editore del blog brasiliano Nocaute, il giornalista e scrittore Fernando Morais (autore molto noto di diverse biografie, in Italia sono stati tradotti “Olga. Vita di un’ebrea comunista” e “Guerriero della Luce Vita di Paulo Coelho”) a Julian Assange di WikiLeaks.
C’è voluto quasi un anno di attesa. Dall’inizio del 2016 amici europei e latinoamericani cercavano di aiutarmi a ottenere un’intervista giornalistica con il cyber attivista australiano Julian Assange, dal 2012 esiliato nella elegante e modesta ambasciata dell’Ecuador a Londra.
Avevo ottenuto un contatto indiretto e impersonale con Assange nel tentativo di organizzare un suo incontro con l’ex presidente Lula che doveva recarsi a Londra nel 2013. Lula accettò, Assange accettò, il personale diplomatico ecuadoriano in Inghilterra anch’esso appoggiò l’iniziativa, ma circostanze non previste frustarono la visita di Lula.
Quando lo scorso anno ho iniziato a montare il blog Nocaute, ho avuto una idea fissa: il principale argomento del numero di apertura doveva essere una intervista con Julian Assange. Ho bussato alle porte di intermediari in diversi paesi finché, a metà dell’anno, è arrivata la luce verde: mi avrebbe ricevuto. E la buona notizia coincideva con gli ultimi numeri “zero” (o demo o beta), le versioni sperimentali del blog, accessibili solo al pubblico interno.
E allora hanno cominciato a rinviare l’intervista. E noi di conseguenza a procrastinare il lancio di Nocaute. Almeno nella mia testa era deciso: senza Assange non c’era lancio.
La cattiva notizia giunse a settembre: il mega hacker manteneva la parola, mi avrebbe concesso l’intervista, ma non prima del giorno 8 novembre 2016, data delle elezioni presidenziali nordamericane. Abbandonammo l’idea originale, invitammo l’ex presidente Lula e con lui abbiamo fatto la copertina del numero 1 di Nocaute, lanciato la sera del 29 settembre.
Aperte le urne ed eletto Donald Trump, ho ripreso a chiedere l’intervista, che venne fissata nel pomeriggio del 27 dicembre. Un gelido e umido pomeriggio londinese. Con pantaloni blu marine e golf di lana abbottonato fino al collo, lo spilungone di un metro e novanta si è presentato sorridente, con barba e capelli lunghi, più pallido di quanto mostrano le foto.
Julian Assange è un uomo dalla parlata gentile e gesti contenuti, che non ricorda per nulla il carbonaro dipinto da qualche giornale. Ha parlato per tre ore su Trump, Hillary, Michel Temer, le manifestazioni contro Dilma, Petrobras e naturalmente spionaggio. La registrazione è stata interrotta alcune volte perché potesse bere un po’ d’acqua e sgranocchiare un croissant portato in un sacchetto di carta dalla sua assistente.
Alla fine ha posto una sola condizione: che l’intervista non fosse divulgata prima di una certa data di gennaio. Di seguito, il video con l’intervista e la trascrizione. (www.nocaute.blog.br)
p.s Le spese per questo lavoro giornalistico – biglietti aerei, albergo ecc.- sono state coperte con contributi di sostenitori di Nocaute.
Blocco 1
Fernando Morais: Dieci anni fa nasceva WikiLeaks, la più potente e inespugnabile macchina di divulgazione di segreti di Stato di cui si abbia notizia in tutti i tempi. Da quattro anni si trova in questo piccolo edificio al centro di Londra in cui funziona l’ambasciata dell’Ecuador, il creatore di questa macchina, l’australiano Julian Assange. Assange è esiliato nell’ambasciata dell’Ecuador, a pochi metri da Harrods, paradiso mondiale per i turisti che vengono a fare compere. Entriamo nell’ambasciata a fare un’intervista esclusiva a Julian Assange per Nocaute. Venite con noi!.
Fernando Morais: In primo luogo grazie per il riguardo di avermi ricevuto. È un onore di trovarmi qui con lei, nonostante le circostanze. Lei deve sapere che i nipoti dei nipoti dei suoi nipoti e dei miei nipoti, i suoi in Australia e i miei in Brasile, leggeranno nei libri di storia fra 100 anni che lei è stato il responsabile della elezione di Trump alla presidenza degli Usa. Non importa che ciò non sia vero. Come si sente in rapporto a ciò?
Assange: Penso che sia assai ingenuo credere che tutto cambia avendo questo o quel presidente al comando. Sì, Trump è stato eletto e ha nominato Rex Tillerson segretario di Stato, e Rex è il consigliere delegato della Exxon. Ma chi sono stati fra i maggiori frequentatori della Casa Bianca negli anni del governo Obama? I lobbisti della Exon.
Cosa faceva Hillary Clinton quando era segretaria di Stato? Una delle cose principali era spingere a favore degli interessi delle imprese del petrolio. Penso che su questo non si possa essere troppo ingenui.
Gli Stati Uniti continueranno a compiere ogni tipo di crimini contro il proprio popolo e anche all’estero. Commetteranno errori e crimini intenzionalmente, è sempre stato così. Perché i governi rappresentano le fazioni dominanti della società americana, cioè le grandi imprese multinazionali. …
Ci sono milionari nel gabinetto di Trump come ce n’erano in quello di Obama. Quindi non sono sicuro che le cose siano così diverse, e retoricamente la situazione è molto più facile da capire.
Inoltre Trump ha destabilizzato quell0 che era un consolidamento crescente del potere neoliberista sotto l’amministrazione di Obama fin dai tempi di Clinton. Questo consolidamento è stato disturbato. Sta emergendo un nuovo gruppo di potere in questo gabinetto di Trump ma ha un sacco di nemici. La maggior parte della stampa per esempio è sua nemica. Ha contro la struttura costruita da Obama e dovrà trovare la propria strada. Trump ha destabilizzato un potere statale che funzionava. Trump ha portato molte persone che sono miliardarie, con un carattere molto forte, nel suo governo. Perché le persone diventano dei miliardari? Parte della spiegazione è che non vogliono lavorare per nessuno. Ma hanno detto che lavoreranno per Trump. Questa è una questione molto interessante. Dal momento che dispongono di uno status di indipendenza, di quelle persone che formano il governo, nel corso del tempo alcune saranno espulse e gli altri inizieranno una carriera per solidificare una solida struttura di potere. Ma per un po’, probabilmente un anno o due, ci saranno un sacco di occasioni di cambiare la percezione di quello che il governo USA fa e di ottenere qualche reale cambiamento in qualche area. Per esempio nella politica estera USA. E’ chiaro che ci saranno cambiamenti, qualcuno in peggio, qualcuno in meglio. certo ci saranno ogni sorta di crimini commessi dal governo Trump. Saranno lo stesso tipo di crimini che sarebbero stati commessi sotto l’amministrazione di Hillary Clinton ma il processo sarà molto più visibile e la critica domestica all’interno degli Stati Uniti sarà molto più intensa. Immaginiamo che ci sia un’altra guerra per il petrolio. Chi si opporrà a livello internazionale? Se si guarda alla struttura della società europea, per la maggior parte sarà più facile criticare il governo americano che se Hillary Clinton conducesse alla guerra. Se vivete in una vittima paese di guerra, voi otterrete il sostegno internazionale più facilmente se l’amministrazione Trump minaccia di invadere il vostro paese. Analogamente in casa. Trump può avere più l’opposizione interna a questa guerra. Il New York Times si oppone all’amministrazione Trump per varie ragioni, così come la CNN e quattro dei cinque principali media conglomerati statunitensi. Può darsi che troveranno qualche accordo con amministrazione Trump ma per ora sono contro. Così è più facile sviluppare una resistenza nazionale contro questa politica. C’è un elemnto di isolamento in questo gabinetto. Probabilmente questa condizione di isolamento cambierà col tempo. Probabilmente la CIA e il complesso militare si avvicineranno. Exxon, Chevron e altre società con interessi all’estero imporranno le loro richieste. L’industria delle armi dirà: “Dobbiamo aumentare le nostre vendite di armi. La gente ha bisogno di vedere i nostri jet bombardare qualcosa o non comprano”. Nel corso del tempo ci sarà da preoccuparsi. Ma in questo momento è molto facile criticare all’interno e all’esterno degli Stati uniti qualsiasi cosa realmente pericolosa che l’amministrazione Trump fa. Quindi non è così male. Se posso riassumere è più facile quando il lupo non ha il manto della pecora.
Fernando Morais: Quali evidenze ha WikiLeaks del coinvolgimento internazionale nella deposizione della presidente Dilma Rousseff in Brasile?
Assange: Non abbiamo pubblicato nulla direttamente al riguardo, ma molte cose sulle parti coinvolte, come hanno agito storicamente, incluso Temer e altre persone del suo gabinetto. La maggior parte tratta di contatti con l’ambasciata americana. Visite all’ambasciata americana, portando dossier e cercando di fare lobby perché essa appoggiasse l’uno o l’altro partito.
Fernando Morais: Secondo lei ciò che è accaduto in Brasile è stato un processo di impeachment o un colpo di stato stile 21° secolo?
Assange: Qualche cosa fra i due, un golpe costituzionale. Un golpe politico, si potrebbe chiamare.
Fernando Morais: Vi è qualche prova concreta che la CIA …
Assange: In Australia, mio paese natale, vi è stato un golpe quasi dimenticato accaduto in modo simile a quello avvenuto con Dilma e Temer in Brasile. È stato nel 1975, una procedura simile, anche lì un partito di sinistra era al potere.
Era due anni che era al potere e mai vi era stato così a lungo prima. Così i settori degli affari e dell’intelligence, alleati ai governi americano e britannico, si unirono e usarono un trucco costituzionale per deporre il governo ed insediare l’opposizione.
Fernando Morais: Alla luce di ciò che WikiLeaks ha reso pubblico, è possibile identificare esattamente ciò che la NSA (National Security Agency) cercava facendo spionaggio e intercettazioni telefoniche in Brasile?
Assange: Sì, le pubblicazioni delle intercettazioni sul Brasile. Noi abbiamo pubblicato che non solo la NSA spiava determinate compagnie o persone, ma abbiamo versato la catena completa degli obiettivi. Quindi abbiamo la base dell’attività di raccolta di dati. Se si pensa alla NSA, essa non decide le politiche, ma fa spionaggio. Hackera satelliti, mette cimici in fibre ottiche ecc.
Questo avviene a livello operativo, non politico. A livello politico il DNI (Director Nacional Intelligency) dice quali sono le priorità generali sulle quali gli Stati Uniti vogliono raccogliere informazioni e quindi attivano la NSA, la CIA e il National Reconnaissance Office (l’agenzia di intelligence statunitense che progetta, costruisce e rende operativi i satelliti spia per il governo USA) e raccolgono le informazioni di ritorno.
Nelle nostre pubblicazioni si può vedere che il gabinetto di un determinato ministro, la Petrobras e il presidente della Repubblica sono bersaglio di spionaggio per ragioni politiche o economiche perché queste sono le ragioni elencate in accordo con le designazioni date.
Quindi la ricerca in Brasile è una mescolanza che comprende argomenti politici, cercando di capire la politica in Brasile, quale indirizzo si vorrebbe che prendesse, ciò che piace, ciò che non piace. E cercando di capire l’economia brasiliana.
Ada: Al riguardo di conversazioni del vicepresidente Temer abbiamo stampato prove di informatori.
Assange: È la pubblicazione delle intercettazioni in Brasile, con numeri dettagliati di telefono, le informazioni richieste. Questa è la politica di indirizzo degli USA: perché essi voglio queste informazioni; e quale è la necessità delle stesse? Si può spiegare riassuntivamente perché essi vogliono queste informazioni: spiando Dilma per ragioni politiche; il gabinetto della presidente, dei ministri ecc, per capire come funzionano le finanze del paese. Vi è una mescolanza.
Per ragioni militari occasionalmente spiano l’Esercito brasiliano. Tutti sanno che questo è ciò che fanno i servizi di intelligence, Quello che è nuovo è il grado di interesse politico, economico e finanziario, che non è solo una parte piccola dell’attività. In verità, se si analizza il bilancio della NSA si vede che circa il 50% di tutta la sua attività è per capire quale è l’indirizzo che un paese o il gabinetto presidenziale sta prendendo politicamente ed economicamente affinché gli USA possano reagire e indirizzarlo verso uno specifico cammino. Nella lista degli spiabili vi sono le importanti compagnie energetiche.
Fernando Morais: WikiLeaks divulga un milione di documenti all’anno. Certamente lei non può ricordarsi tutto, ma dai documenti di WikiLeaks che cosa si sa al riguardo della relazione fra l’allora vice presidente Temer e i servizi di intelligence stranieri, in particolare nordamericani?
Assange: Abbiamo pubblicato vari messaggi al riguardo. In particolare uno del gennaio 2006 (era allora deputato federale e presidente del PMDB) in cui Temer va all’ambasciata americana. Il messaggio è solo sulle informazioni fornite da Temer, le sue visioni politiche e le strategie del suo partito.
Ciò mostra un livello un po’ preoccupante di sua familiarità con l’ambasciata americana. Cosa avrà in cambio? Chiaramente sta dando informazioni interne all’ambasciata USA per qualche motivo. Probabilmente per chiedere qualche favore agli USA, forse per avere in cambio informazioni.
Temer è stato diverse volte all’ambasciata americana per parlare. … ha inviato informazioni all’ambasciata americana varie volte, anche altri lo hanno fatto. Persone del suo gabinetto e anche dentro al PT. Quindi personalmente credo che data la natura della relazione del Brasile con gli USA e considerando l’intenzione del Dipartimento di Stato americano di massimizzare gli interessi di Chevron e ExxonMobil essi stanno fornendo agli USA informazioni di politica interna su ciò che avviene politicamente in Brasile.
Con tali informazioni il Dipartimento di Stato può compiere manovre in difesa degli interessi delle grandi compagnie americane del petrolio. Ciò che non necessariamente è in linea con gli interessi del Brasile.
A seconda di come funziona una società, si può consentire che chiunque vada ad una ambasciata e comunichi informazioni interne. Ma la maggioranza delle società che sopravvivono hanno regole contro ciò. Regole che proibiscono che informazioni politiche delicate siano passate ad altri Stati.
Ada: E si ha anche la sensazione che Temer non sia soddisfatto con la politica anti-neoliberista del PT e desideri allinearsi al PSDB.
Assange: È quanto accaduto ora. Se si legge ciò che abbiamo pubblicato nel 2006, si vede che la situazione politica attuale viene costruita da tempo. È interessante notare che la posizione delle parti, le loro visioni del mondo e di quali siano i loro alleati non è molto mutata.
Blocco 2
Fernando Morais : Lei deve sapere che il Brasile ha scoperto enormi giacimenti di petrolio pré-sal nell’oceano e che ciò potrebbe dare molto denaro al Brasile anche con il barile a 8 dollari. Quale è l’interesse internazionale al riguardo? E quale in particolare il coinvolgimento di Michel Temer?
Assange: Non ho certezza. Tuttavia su Michel Temer abbiamo materiale importante. Abbiamo pubblicato un certo numero di documenti sui giacimenti del pré-sal. I depositi sono considerati circa quattro volte maggiori che i giacimenti brasiliani esistenti, qualche cosa di assai significativo. Arrivare laggiù in fondo all’oceano e perforare lo strato di sale è molto caro. Ma quando ci si arriva, il petrolio non ha bisogno di molta raffinazione e si ha un buon profitto.
Alle condizioni attuali, la Petrobras avrebbe 30% del petrolio del pré-sal. Imprese interessate in questo petrolio sono andate all’ambasciata americana per lamentarsi di tali condizioni. E alcuni partiti politici in Brasile dicevano che avrebbero preferito che Chevron e ExxonMobil avessero accesso anche senza l’esclusività del 30% della Petrobras.
Questo è un argomento molto interessante: quale è il modo migliore per il Brasile di concedere lo sfruttamento dei depositi di petrolio? Che cosa sarà più vantaggioso per i brasiliani?
Su questa linea l’argomento di base è il seguente: se uno Stato agisce in modo coerente, in competizione con altri paesi e grandi compagnie petrolifere, essi devono garantire una entrata e così il petrolio garantisce un flusso forte di entrata che può rafforzare lo Stato.
Il lato opposto usa l’argomento che se una impresa, anche se di proprietà dello Stato, ha accesso preferenziale, essa diventa inefficiente e non opererà bene nella estrazione di petrolio, perché non ci sarà competizione. …
Si dice anche che se vi è molta competizione nella estrazione del petrolio, il prezzo cade molto e lo Stato non potrà raccogliere entrate di prelievo delle licenze di estrazione.
Quindi se si guardano i messaggi pubblicati in dicembre 2009, si vedrà che già vi erano resoconti al riguardo, ma questa non è la parte più interessante. Secondo me la parte più importante è quando si ammette che la modalità più vantaggiosa per il governo sarebbe che la Petrobras avesse diritto al 30%.
Questa è una ammissione. Perché l’ambasciata allega che l’affare più vantaggioso per lo Stato Brasiliano si darebbe se la Petrobras avesse questo 30%?
Perché Chevron e altre grandi compagnie nordamericane del petrolio direbbero: se la Petobras ha questi 30% per noi non compensa. Non vale la pena per noi estrarre, noi forse potremmo coinvolgerci nel finanziamento.
Ma la russa Gazprom e altre compagnie cinesi di petrolio, come China Oil, potrebbero essere in grado ci coprire rilanci nelle licitazioni, obbligando Chevron e Exxon a investire di più, perché cinesi e russi possono operare con minor margine di profitto.
Perché? Perché i cinesi solo vogliono il petrolio, non sono tanto interessati nel margine di profitto. Possono arrivare più rapidamente e mantenere i conti in equilibrio. Oltre a versare un volume maggiore di risorse al Brasile.
Come altre imprese petrolifere statali e altri Stati con petrolio, i cinesi operano in modo da potere sempre vincere licitazioni ad esempio sulla Exxon, impresa molto grande con un bilancio annuo di US$ 269 miliardi.
Quindi nel caso della Petrobras la questione che si pone è la seguente: che tipo di Stato vuole essere il Brasile? Uno Stato forte o uno Stato debole, con grandi imprese petrolifere straniere e multinazionali che dominano le sue risorse naturali?
Forse voi potete vedere ciò che accade in Brasile sotto un’altra luce: quali sono le grandi istituzioni pubbliche brasiliane, quali le più forti? Credo che siano l’Esercito (le Forze Armate) e la Petrobras. E credo che tutte le altre istituzioni siano in proporzione deboli. Quindi credo che indebolire la Petrobras è un modo per rafforzare i militari come centro di gravità dell’organizzazione dello Stato. E questo può essere un problema.
Due motivi fanno del pré-sal un argomento prioritario nelle politiche interne: la Petrobras è considerata alleata del PT. Perché Dilma vi ha lavorato, vi è gente sua e le sue politiche hanno avvantaggiato la Petrobras. Per questo, istituzionalmente, la Petrobras sente che i suoi interessi sono meglio tutelati dal PT.
Per questo altri partiti vorrebbero ridurre il potere della Petrobras, togliendole i suoi vantaggi. Un modo per scambiare favori con gli USA è facilitando l’accesso a parte di questo petrolio alla Chevron e alla ExxonMobil. Nei messaggi scaricati da WikiLeaks emerge un desiderio costante dei petrolieri americani di avere lo stesso accesso che ha la Petrobras.
È diverso da uno Stato tradizionale, qualche cosa come un capitalismo di Stato. Perché quello che pratica la Petrobras è un capitalismo di Stato. Ha la struttura di una impresa, la cui organizzazione è controllata dallo Stato.
Ma questo funziona solo quando il sistema di regolazione e di legislazione è incorruttibile. Allora non importa chi controlla l’istituzione, dal momento che tu controlli le leggi. Ma funziona solo se riesci a forzare il rispetto delle legge e scoprire se le leggi vengono aggirate. E il settore del petrolio ha così tanto denaro che questo diventa impossibile.
Fernando Morais: Tornando al Brasile, a Michel Temer, nella sua pagina di WikiLeaks egli si rivolge a qualcuno di non identificato; si è trattato di una conversazione privata con un informatore americano? Quante volte questo è accaduto e che cosa questo suggerisce?
Assange: Sì, Michel Temer ha avuto riunioni private nell’ambasciata americana per trasmettere loro questioni di intelligence politica, alle quali non molti avevano accesso, e promuovere discussioni sulle dinamiche politiche in Brasile.
Con questo non si intende dire che egli sia una spia pagata dal governo statunitense. Non so, ma non ci sono prove che egli sia una spia pagata in denaro. Stiamo parlando di qualche cosa di più, stiamo parlando di costruire una buona relazione in modo da avere scambio di informazione da una parte all’altra. E appoggio politico.
Fernando Morais: C’è un altro passaggio del discorso di Hillary Clinton con la banca Itaú in cui la signora dice che vorrebbe avere frontiere libere. Questo potrebbe essere un avviso che era a favore dell’impeachment o del golpe in Brasile?
Assange: Sì, ad ottobre abbiamo pubblicato conferenze segrete pagate di Hillary Clinton. Le trascrizioni di alcuni pezzi rivelano che lo staff della sua campagna temeva che divenissero pubbliche. Bernie Sanders e altri ritenevano che questo argomento avrebbe dovuto essere pubblico, ma lei lo mantenne riservato. E questo era il Santo Graal del giornalismo americano, avere accesso a ciò. Per il giornalismo americano è stato come avere accesso a un tesoro, E noi abbiamo pubblicato.
È molto interessante vedere la sua (di Hillary) posizione quando parla con Goldman Sachs, quando parla con le banche brasiliane di investimento.
Quello che si vede è una liberale imperialista in rapporto all’espansione dell’impero americano, affamata di cementare accordi di avvicinamento e impiantare cambiamenti insidiosi come TTP (Trattato TransPacifico) o TTIP (Trattato Transatlantico di Commercio e Investimento). Chiede riallineamento strategico con un duplice obiettivo: dare alle multinazionali americane ciò che esse vogliono e fermare la Cina, far sì che sia più difficile che i cinesi crescano.
Tuttavia quello che non so è che cosa riflettevano le dichiarazioni. Lei parla di energia con le banche di investimento del Brasile, difendeva la libera circolazione dei prodotti energetici.
Blocco 3
Fernando Morais: Poco dopo la cosiddetta primavera araba, due movimenti di strada sono cresciuti, uno in Brasile, l’altro in Turchia. In Brasile, prima delle proteste del 2013 la popolarità della presidente Dilma era all’80%, dopo le proteste al 30%. E in Turchia è finita con il tentativo di colpo di Stato militare e la repressione del presidente Erdogan e recentemente il golpe in Brasile. Lei vede relazione fra i due fatti?
Assange: No. FraTurchia e Brasile, no. Credo che sono cose diverse. …L’uso dei social media da un lato consente il sorgere di una cultura non industrializzata in modo organico, imprevedibile e incontrollabile, che consente ai leaders politici di saltare intermediari, di parlare direttamente con le masse, come sta facendo Trump.
Cioè evitano la censura e l’influenza dei media. Questo effetto è stato indirizzato da organizzazioni specializzate in diffondere centinaia di migliaia di “verbots” messaggi in internet, spingendo un messaggio in particolare, dando l’impressione che si tratti di un fenomeno organico, ma invece è un fenomeno programmato.
Darò un esempio. Nel 2011 WikiLeaks ha pubblicato molte informazioni sul Bahrein. Era l’epoca della primavera araba, arabi bareiniti avanzavano verso il potere e Twitter era molto popolare. Nel giro di un anno il regime del Bahrein ha assunto una decina di imprese di consulenza stampa, la maggioranza occidentali. Di colpo hanno cominciato a emergere molti accessi in Twitter e Facebook, anche in pagine Internet, che pubblicavano propaganda pro regime.
Ada: In Brasile è stato un po’ diverso. In quanto la sinistra era al potere, questi messaggi populisti sono stati in un certo senso difesi dalla grande stampa, che è controllata da cinque famiglie. Quello che abbiamo visto nel 2013 è stato diverso da quanto accaduto storicamente in Brasile, una emergenza di destra che non favorisce la stessa destra e che è sinistrofobica, ciò che è un fenomeno nuovo in Brasile, è un caso diverso dagli USA.
Assange: Un populismo genuino può sempre muoversi contro l’autorità se ci sono media che lo esprimono Perché l’autorità è percepita per la sua abilità nell’arrestare le persone, imporre tasse e acquisire leadership.Equando una critica libera, di tipo più duro, si sviluppa, affronta in modo aspro, enfatizza la percezione di autorità. È quanto è successo nel caso di Dilma.
Non era puramente organico, ma aveva una componente organica e essa è stata enfatizzata dai cinque grandi gruppi mediatici. E probabilmente da robot. In verità ho trovato prove di robot, non ho certezza su chi li controllava, la cosa è stata scoperta alla fine, ma vi è stata una pressione di robot nei social media.
Siamo solo all’inizio di questo fenomeno per cui molta gente ha ora la capacità di pubblicare. Questo modifica la dinamica di potere, perché nelle nostre società molta della dinamica di potere è basata sulla censura, prevenendo in questo modo che la maggior parte della popolazione possa esprimersi. O almeno che pubblichi qualche cosa che raggiunga molta gente. Questo comincia a cambiare.
Tu sai quando stai comunicando con un robot? Sai quando stai comunicando con una persona reale? È un sistema che ha alcuni umani e questi umani controllano migliaia di robot che sono quelli con cui tu in verità interagisci. È l’invenzione dei “falsi demos”.
Perché le rivoluzioni avvengono nelle piazze spesso? … Perché in piazza puoi vedere come il popolo reagisce. Ti guardi in giro e vedi le persone. Perché si ha bisogno di una piazza per questo? Certamente se le persone non fossero in piazza e i media divulgassero fedelmente la volontà del popolo le rivoluzioni ci sarebbero in ogni caso. Ma i canali di comunicazione non divulgano quello che la popolazione vuole, e quindi non si ha la stessa percezione.
È la percezione di quale è la volontà della maggioranza che stabilisce se qualche cosa è politicamente possibile. Quindi quando c’è una rivoluzione normalmente è in una piazza, come la presa del Palazzo d’Inverno, perché le persone possono vedere che sono molte. Perché non vedono che sono tante quando non sono in piazza? Perché il sistema dei media sta sopprimendo la realtà di quello che le persone pensano, le persone non riescono a percepire i “falsi demos”.
Con la possibilità che tutti parlino in Internet di un modo o in un altro, un antidoto è creare quei tali “fake demos”. È molto semplice. Il senso di collettività è difficile da percepire. Il potere politico non si preoccupa più di censurare le persone, ciò che lo preoccupa è la sensazione di essere in maggioranza, di avere la volontà popolare dietro di sé. Per ottenere questo effetto si creano i “falsi demos”. È questo che più o meno dal 2011 fanno Stati e partiti politici. È un nuovo modo di creare consensi. Siamo abituati alla situazione antica, con gli oligarchi dei media, ma quando ci sono media sociali vi è un modo nuovo di creare consensi, che è la creazione di una apparenza di volontà popolare,
Fernando Morais: Lei ha riscontrato qualche evidenza di influenza americana nelle proteste del Brasile?
Assange: Quello che ho visto è che c’era un gran numero di robot online che lavorava per stimolare queste proteste. E pensando come sono i programmi americani, vediamo che queste cose non accadono in America Latina senza l’appoggio americano. Finanziariamente, con logistica e intelligence, sia nel momento esatto dell’accadimento o semplicemente insieme alle parti coinvolte. Se si leggono le nostre pubblicazioni si vede che ciò accade in modo repentino e il Brasile è un paese che attrae molto interesse.
In verità guardando allo spionaggio militare in diversi paesi dell’America Latina, il Brasile è il paese latinoamericano più spiato. Questo è molto interessante perché qualcuno può immaginare ingenuamente che dovrebbe essere il Venezuela o Cuba con più spionaggio perché storicamente sono stati gli avversari verso i quali gli USA sono stati più ostili. Perché il Brasile? Perché ha una economia maggiore, è più importante economicamente.
Fernando Morais: Molti hanno detto che il sistema di votazione di Brasile e Venezuela erano certificati e non vi è frode, ma persone di quel settore mi hanno detto che è possibile frodare, specialmente nel percorso fra urna e sistema. Sa qualche cosa al riguardo? E cosa significa ciò per la democrazia nell’era della cibernetica?
Assange: Io ero un hacker adolescente e sono diventato consulente di sicurezza e ingegnere cartografico e ho utilizzato questa formazione per mettere WikiLeks e le nostre fonti in salvo. WikiLeaks esiste all’interno di una comunità di persone simili. E già da molto tempo io stesso e altri di tale comunità affermiamo, da oltre vent’anni: le urne elettroniche sono pericolose.
I fabbricanti di urne elettroniche dicono che esse accrescono la precisione del conteggio dei voti perché è più difficile manipolare una macchina complessa che un’urna normale. È vero che è più difficile frodare un’urna elettronica che un’urna normale, ma se si froda un’urna normale, quanti voti si manipolano?
Forse qualche centinaio. Ora adesso se si ha accesso al codice responsabile per l’elezione al computer che fa le relazioni, si possono modificare centinaia di migliaia o anche milioni di voti. E si può farlo in modo irrilevabile! Questo è il punto principale!
Qualcuno potrà dire: ok, ma possiamo controllare, verificare le macchine per vedere se sono a posto, si può avere una connessione di riserva. In realtà ai governi piace tagliare i costi o non sono efficienti e con il passar del tempo non si verifica più tanto.
Questo è un problema filosofico interessante: mai si sa davvero che cosa fa una macchina complessa.
Quasi nessuno può determinare se una macchina complessa sta facendo quello che dovrebbe, tanto più quando si tratta di voti, di ricerca intensa del potere, con motivazioni molto forti. Una persona comune dovrebbe essere capace di capire che la macchina fa quello che dovrebbe fare, ma una persona comune non può capire nulla di questa complessità. Per questo le urne elettroniche sono pericolose.
Fernando Morais: Durante la guerra fredda il cardinale ungherese Jozsef Mindszenty ha vissuto per 15 anni nell’ambasciata americana a Budapest, perché era perseguitato dal regime pro sovietico. Per quanto tempo è pronto a vivere nell’ambasciata dell’Ecuador?
Assange : Quanto tempo io sopporterò di rimanere qui è irrilevante. Quello che importa è sapere quando gli USA cominceranno ad obbedire alle loro stesse leggi e quando sospenderanno il processo contro di me e, potenzialmente, contro altri membri di WikiLeaks. Importante è sapere quando il Dipartimento della Giustizia americano comincerà ad obbedire alle sue leggi, alle sue stesse leggi, alla Costituzione americana, al Primo Emendamento, alle sue regole interne che dicono che non si può processare un mezzo di comunicazione. Ciò che importa è sapere quando il Regno Unito e la Svezia obbediranno alle leggi: è quasi un anno che l’ONU ha stabilito che entrambi stavano agendo in modo illegittimo mantenendomi in domicilio coatto in questa ambasciata, detenendomi per sei anni in questo paese senza accusa. Recentemente l’ONU ha riaffermato tale decisione e la situazione continua ad essere la stessa. Quando obbediranno alle leggi?
Trovo ironico che accusino un mezzo come WikiLeaks di essere radicale e rivoluzionario. Che cosa raccomanda WikiLaeks? Che le persone devono obbedire alle leggi, non devono essere corrotte, devono essere oneste, aperte, trasparenti. In un certo senso è qualche cosa di così semplice che questa visione sembra cristiana, addirittura conservatrice.
Diciamo che gli Stati Uniti dovrebbero solo ubbidire alle loro stesse leggi. Non è una domanda così grande, ma le persone che si oppongono dicono: anche se la legge dice che voi potete pubblicare, voi non dovreste.
Fernando Morais: Grazie mille e spero di riceverla come uomo libero in un Brasile democratico.
Fonte: blog Nocaute
(Traduzione per rifondazione.it di Teresa Isenburg)