L’UDI verso il congresso da:ndnoidonne

Mercoledì 16 settembre inaugurazione nuova sede nazionale UDI. Intervista a Vittoria Tola, responsabile nazionale UDI sui prossimi importanti appuntamenti

Tiziana Bartolini

Il 2015 é un anno particolarmente impegnativo per l’UDI tra settantesimo anniversario dell’associazione, cambio della sede nazionale e riorganizzazione dell’archivio a Roma e, non ultimo, la preparazione del congresso. Abbiamo chiesto a Vittoria Tola, responsabile nazionale Udi, qual è filo conduttore di questi importanti passaggi. “Si tratta di un anno indubbiamente molto impegnativo perché le scadenze che richiamavi si sono aggiunte a tutte le questioni strutturali della politica che le donne dell’Udi seguono con grande determinazione come la violenza maschile o l’autodeterminazione delle donne sui temi della procreazione e della salute riproduttiva in un quadro nazionale e locale sempre più difficile. Al seminario nazionale di Napoli sul femminicidio ha fatto seguito il seminario per arrivare a una contrattazione di genere sul lavoro e precariato e su che cosa significa, oggi, guardare al lavoro con un corpo di donna in una realtà che pone ipoteche terribili soprattutto alle giovani donne (articolo pubblicato in NOIDONNE luglio/agosto 2015, ndr). Sulla violenza maschile vediamo che, al di là di tante parole di condivisione politica, questa continua a non trovare (forse non a caso?) risposte politiche adeguate mentre si è aperto un nuovo fronte con le proposte di riapertura delle ‘case chiuse’ – vedi l’ignobile referendum della Lega – o della legalizzazione della prostituzione come dimostrano diversi progetti di legge in Parlamento. Si tratta di falsificazioni storiche e politiche della legge Merlin, di strade fallimentari, confuse e di lenocinio imprenditoriale e fiscale di Stato, mentre non ci sono politiche adeguate sia sulla tratta sia sull’educazione di genere alla sessualità consapevole né nella scuola (un’altra pessima caratteristica della “buona scuola”) né tanto meno nei mass media, dove continuiamo a vedere pubblicità sessiste degradanti. In questo quadro il settantesimo della Liberazione, del ruolo che vi hanno svolto le donne e la nascita dell’Udi si legano perché sono alla base del diritto di cittadinanza delle donne italiane che se lo sono conquistato con grande forza e determinazione 70 anni fa. Questa conquista è spesso misconosciuta e messa in discussione anche da parte di tanti/e che sono convinti/e che tutto nasca negli ultimi 40 anni.
La soggettività politica delle donne dell’Udi ha segnato le iniziative del settantesimo, dove finalmente le donne sono presenti; e si è trattato di un impegno poderoso non solo in centro, ma anche in tante realtà locali che, da oltre un anno, hanno organizzato mostre, dibattiti, spettacoli, costruzione di materiale didattico per i/ le più giovani nelle scuole. Ci sono state anche le ricostruzioni dell’identità delle donne che hanno partecipato ai Gruppi di Difesa delle Donne (GDD), come ha fatto Ravenna. Le biciclettate, come hanno fatto in tante soprattutto il 25 aprile, ma anche documentari, interviste alle protagoniste di allora e di oggi. Uno sforzo storico e documentario molto particolare e fuori da ogni celebrazione, per questo l’impegno per avere una nuova sede e un luogo più adeguato per l’Archivio centrale è fondamentale. Questo conta, come abbiamo visto, con la ricerca sulla Resistenza e sugli stupri di guerra con le “marocchinate” o con quelle che già si annunciano con l’anniversario del diritto di voto alle donne in Italia da cui, non a caso, parte il calendario UDI 2016. Sempre più l’Archivio centrale e gli Archivi dell’Udi sono indispensabili per ricostruire momenti fondanti della storia delle donne in Italia come per la maternità e la sessualità, l’IVG o la violenza e il femminicidio, il lavoro delle donne o del loro ruolo nello stato sociale.
Potremmo dire, se dobbiamo sintetizzare, che ciò che unisce tutto questo è il desiderio e la necessità di fare politica e storia delle donne che accompagna, ininterrottamente, l’Udi da 70 anni e il dovere di custodire una memoria collettiva per costruire futuro”.

Quali sono, anche alla luce della tua lunga esperienza politica, le strategie e le priorità che l’Udi affronta in occasione del congresso?

Strategia è una parola grossa e nasce da analisi vere, reali e condivise e da queste nascono le priorità. Credo che ognuna di noi, andando a congresso, abbia in testa alcuni particolari problemi anche sulla base dell’esperienza fatta e da qui nasce la necessità di discutere approfonditamente con tante altre donne. A me piacerebbe discutere dell’attualità politica del femminismo in un mondo in profonda e radicale trasformazione economica, tecnologica, di potere e della potenza colonizzatrice delle menti e dei desideri che porta con sé. Ma anche del perché ci sia tanta energia femminile e tanta frammentazione in Italia. Il congresso è già una priorità tanto più che vogliamo un congresso aperto a tutte coloro che sono interessate. Non so se ci sono ancora, oltre l’Udi, associazioni di donne che fanno congressi nazionali. È sicuramente un momento e una modalità particolare del confronto politico. Dopo quattro anni dal quindicesimo sono tanti gli ambiti politici in cui il pensiero dell’Udi si è dimostrato forte e manterremo questa centralità anche nel dibattito congressuale a gennaio, passaggi in cui non possiamo non guardare a quanto succede dentro di noi e intorno a noi con la capacità di arrivare a dire parole condivise anche con tante altre femministe con cui abbiamo lotte comuni e confronti aperti e che sono consapevoli del rischio dell’inessenzialità del pensiero delle donne nel quadro politico attuale. Siamo di fronte a grandi contraddizioni, come dimostra la resistenza delle donne del Kurdistan o dei paesi arabi, le migranti che sono tra le vittime maggiori di guerre, fondamentalismi e povertà che non si arrendono e la forza delle donne occidentali che però fanno fatica a emergere con posizioni non subalterne alle loro classi dirigenti. Noi dobbiamo riflettere sui modi in cui neoliberismo e tutto quello che ne consegue punta ad assimilare ancora una volta molte esigenze e idee delle donne e non trova risposte neanche nella presenza delle donne nelle istituzioni. L’Udi ha fatto del “50E50 ovunque si decide” una bandiera, ma oggi molte si interrogano sulle nuove forme del protagonismo delle donne in politica senza alcuna soggettività differente ed efficace nel dare risposte alla condizione attuale delle e degli altri. Ma anche di quali sono davvero i luoghi dove si decide. Ci sono analisi e ricerche molto interessanti come per esempio la bioeconomia, che è anche biopolitica, ma il pensiero unico non sembra lasciare molti margini e le posizioni politiche delle donne appaiono prese nella morsa o dell’omologazione individuale o della protesta inefficace.

| 14 Settembre 2015

Donne e Resistenza: Le ragazze del ’43 – di Vittoria Tola da: ndnoidonne

Le donne protagoniste delle rievocazioni del 70mo della Liberazione. Le iniziative dell’Udi

inserito da Redazione

In questo 70esimo della Liberazione dal nazifascismo ci sono state tra le tante anche le testimonianze finalmente di donne, i mass media nazionali e localihanno pubblicato e mandando in onda una realtà da cui comincia ad emergere questo protagonismo femminile. In genere prevalgono ancora le testimonianze personali invece del grande sforzo collettivo e organizzato che le donne della resistenza hanno prodotto al di là di ogni appartenenza politica sociale e religiosa. Anche la Rai per la prima volta ha fatto uno sforzo più evidente soprattutto con Rai storia. Molti nuovi testi sono stati pubblicati comprese graphic novel per ragazzi e ragazze. Tante le mostre storiche, i convegni, le rassegne cinematografiche, le biciclettate nei luoghi segnati dalla presenza delle donne nella resistenza, a cominciare da Roma l’’8 marzo e in tante città italiane il 25 aprile.
L’Udi, oltre le iniziative in tutt’Italia, cominciate già un anno fànell’anniversario della nascita del Gruppi di Difesa della Donna , dal nord al sud della penisola, per questo 25 aprile ha curato un video documentario in cui quattro donne diverse, Marisa Rodano, Lidia Menapace, Luciana Romoli e Tina Costa, raccontano perché delle giovani e giovanissime si sono impegnate nella resistenza. Realizzato insieme all’Uisp, “Le ragazze del 43 e la bicicletta”, intende raccontare anche perché questo mezzo povero e indispensabile sia diventato un simbolo delle staffette e un strumento pericoloso per i nazisti che viene proibito da Kessering nella Roma occupata.
Proibito perché pericoloso per l’esercito più potente e feroce del mondo in quel momento storico. Un modo per riconoscere che la guerra partigiana e la guerra di liberazione riguardava un grande movimento di popolo in cui le donne e i giovani, sono stati fondamentali. Raccontata da queste donne la storia è straordinaria, ironica, antiretorica e dimostra cosa sia lo spirito civile e il senso della democrazia e della libertà che le anima. “Perché – come dice una delle protagoniste del video – la libertà è come l’aria, senza non si può vivere. Oggi come ieri”. Per uomini e donne come noi.
Queste parole ci fanno riflettere nel 70esimo della Liberazione dal nazifascismo sulle le tragiche immagini degli sbarchi nel mediterraneo e le scene di guerra in tante parti del mondo da cui fuggono uomini e donne si intrecciano e si sovrappongono alle immagini dell’Europa e dell’Italia nel giorno della fine della guerra: città distrutte, sfollati ovunque, bambini soli, famiglie distrutte. Scene simili che vediamo dalla Siria alla Palestina, dall’Iraq alla Somalia, alla Libia.
“Altre città sono mutilate e distrutte, le rovine s’alzano mostrando i loro interni devastati dai quali pendono solitari un lume o una fotografia. I ponti sui nostri fiumi, sulle nostre strade sono saltati, opere d’arte che erano nostro patrimonio e ambizione sono scomparse» così Alba de Cèspedes, una grande scrittrice del ‘900, scrive nell’inverno del 1944 ricordando da radio Bari i terribili problemi che in quei difficili mesi di guerra affliggevano l’Italia con razzie, eccidi, requisizioni di viveri e di beni, cumuli di macerie che sovrastavano le abitazioni e il patrimonio artistico. Il conflitto, con il suo carattere di guerra totale, aveva segnato l’esistenza quotidiana delle persone, si era inserito nelle loro vite sconvolgendo abitudini, sentimenti, affetti, vi aveva introdotto il dolore e il lutto, obbligando a rivisitare i progetti esistenziali intessuti nel tempo, carichi di emozioni e aspettative. Tra una popolazione addolorata da i lutti, stanca dei sacrifici, tormentata dalla miseria donne e uomini di diversi orientamenti si adoperano per ricomporre le trame di una coesistenza civile, di un interesse per la cosa pubblica che il ventennio fascista, con le sue pratiche di mobilitazione burocratica e le politiche di repressione, aveva cancellato. Ma non per tutti e non per tutte.
Infatti dopo l’8 settembre in Italia si registra in modo silente un ‘esplosione della partecipazione anche delle donne che, nell’eccezionalità della situazione, attraversano territori sconosciuti, si misurano con compiti fino ad allora loro preclusi o impediti con una scelta consapevole e coraggiosa. È un intervento nella scena politica e bellica che trova prima di tutto espressione nell’aiuto e nel salvataggio di massa degli sbandati dell’8 settembre, forse il salvataggio la più grande della storia come documenterà Anna Bravo. E il lavoro delle donne continua nella vasta opera di resistenza civile ingaggiata a favore degli antifascisti, dei partigiani, degli ebrei, poi dei soldati alleati; nelle tante sommosse contro il caro viveri che minaccia la sopravvivenza di intere famiglie. E poi con le staffette che portano ordini, armi e dinamite, informazioni e tutto quanto è possibile correndo rischi enormi. Poi le resistenti armate, le gappiste e le sapiste che nel partecipare in vario modo alla guerra Partigiana si assumono responsabilità enormi e gravi compiti.
Non è un caso che sia una donna come Ada Gobetti a scrivere in chiaro il suo Diario Partigiano per spiegare a un Benedetto Croce il senso di quella straordinaria esperienza che lui, come tanti altri, non riesce a capire. In questo quadro, tra il 1943 e il 1944, tornano alla ribalta nuove forme di organizzazione politica delle donne che il Fascismo aveva cancellato. Ma soprattutto nascono per iniziativa di alcune esponenti dei partiti del Clnai i Gruppi di difesa della donna, che sono la premessa alla costituzione dell’Udi avvenuta il 12 settembre 1944, che svolgerà il suo congresso fondativo a Firenze nell’ottobre del 1945 e non a caso alla presenza di Ferruccio Parri.
Il ruolo determinante delle donne fu riconosciuto esplicitamente dal Clnai in quei terribili mesi anche con un impegno formale per il riconoscimento del diritto di voto alle donne come base del diritto di cittadinanza della nuova Italia che chiedevano anche come a uguale lavoro dovesse corrispondere uguale salario tra uomini e donne. Il ruolo delle donne fu poi successivamente alla Liberazione sempre ridimensionato a un contributo, al punto da far parlare di una “resistenza taciuta o negata”. In questo 70esimo si sono viste molte iniziative e memorie sulle donne ma in forma ancora parziale e la domanda che molte di noi si stanno ponendo è perché, come ci si domanda perché ,oltre le parole, non si avverta lo spirito di chi aveva combattuto il fascismo e il nazismo e voluto con tutte le sue forze la fine della guerra e della dittatura e la nascita della democrazia e perché questo spirito non lo si riconosca non solo nelle donne Kurde ma in tutte e tutti coloro che si oppongono a ogni costo a un fondamentalismo totalitario e nelle fughe dalle zone di guerra e di disastri affrontando la morte nel Mediterraneo.
La scelta personale insieme istintiva e ragionata, e il valore che si assegna alla solidarietà e alla appartenenza alla propria collettività e al destino del mondo fanno di chi sceglie la guerra partigiana un momento irripetibile e positivo,nonostante tutto. Un momento che rimane indelebile anche con il passare dei decenni come realtà di libertà, di forza di conoscenza di sé e degli altri nonostante sacrifici immani, una straordinaria novità soprattutto per le donne.
È questo che lo storico G. de Luna nel bellissimo titolo del suo ultimo libro “la Resistenza Perfetta” sottolinea e come questa perfezione oggi può sembrare anacronistica, oppure la replica dolciasta di certi stereotipi. Eppure la Resistenza perfetta è proprio quella che emerge dai documenti, dalle testimonianze, dalla realtà di una ricerca d’archivio condotta senza pregiudizi e tesi precostituite, dai ricordi di un’intera comunità…e la Resistenza perfetta la si vede realizzata direttamente nelle esperienze esistenziali degli uomini e delle donne che la vissero e la costruirono” certi della drammaticità dell’ora e della necessità della coerenza civile e politica per cui a una coscienza civile doveva corrispondere un comportamento adeguato a tutti i costi fino alla presa delle armi fino al sacrificio della vita.
Si parla spesso della Resistenza come se fosse stata una realtà in cui solo le realtà più consapevoli politicamente si impegnano. In questo senso la legge votata dal parlamento per il 70esimo ammette solo le associazioni combattentistiche e militari e si dimentica tutta l’enorme parte della resistenza civile, a cominciare dalle donne, che per non essere solo forza militare non ha contato di meno nella resistenza morale, politica e militare. In particolare di quell’esercito di donne che tra Gdd, staffette e partigiane combattenti superarono di molto le 100mila unita in tutte le zone occupate e che sono rimaste fuori in questi mesi dalle celebrazioni ufficiali e dai contributi economici del governo così come non sono sostenuti i loro archivi che custodiscono in tutt’Italia la memoria di queste donne e di questa storia nazionale.
Negli ultimi decenni gli studi delle storiche in particolare hanno aperto squarci di ricostruzione corretta della realtà spontanea e organizzata delle donne nella resistenza e a questo contribuiscono non solo le memorie e i diari che finalmente molte donne, allora in prima linea, nel corso degli ultimi anni hanno e stanno pubblicando, finalmente riconoscendo pubblicamente, oltre ogni timidezza e un riserbo apparso sempre molto forte, quanto siano state protagoniste e fondamentali per la storia di questo paese. Sempre più a una frase che abbiamo sentito da tante donne “abbiamo fatto solo il nostro dovere” si aggiunge la consapevolezza che rivendicare la loro forza non è entrare in un’idea retorica o virilistica della resistenza. È come se ci fosse voluto per molte un tempo necessario a capire che se il passato aiuta a capire il presente anche la consapevolezza delle donne nel presente aiuta a capire meglio le ragioni e la complessità del passato

Donne Vita Libertà Rappresentanza Internazionale del Movimento delle Donne Curdeda

L‘8 marzo 2015, 104 anni dopo la proclamazione della Giornata Internazionale delle Donne, le donne di tutto il mondo combattono ancora contro il sistema di dominio patriarcale. In ricordo delle lavoratrici tessili a New York che hanno perso la vita nella loro resistenza, in occasione della 2a Conferenza Internazionale delle Donne nel 1910 su proposta di Clara Zetkin è stata istituita la giornata dell‘8 marzo come simbolo per la lotta e la resistenza delle donne. Questo movimento e questo grido risuonano ancora nelle strade. La rivoluzione contro disuguaglianza, sessismo e ogni forma di violenza è arrivata fino a oggi e continua a difendere tutti i valori umani.
Come risultato della grinta e capacità delle donne nel 1977 l‘8 marzo è stato proclamato dall’ONU Giornata Mondiale delle Donne, ma nonostante questo non è riconosciuto in nessuno a livello ufficiale in alcuno degli stati membri. Oggi come allora le donne sono esposte a diverse forme di discriminazione e pensieri e azioni patriarcali. Più le donne ne prendono coscienza e più si organizzano, più aumenta la forza con la quale vengono sistematicamente attaccate. Gli attacchi contro le donne che si organizzano e lottano diventano sempre più profondi e si sviluppano in un femminicidio sistematico della cui esistenza non c’è consapevolezza e che non viene riconosciuto come tale.

Questo femminicidio viene brutalmente portato avanti a livello mondiale, dall‘Europa fino all‘Africa, dal Medio Oriente fino all’America Latina. Contro le donne viene condotta una vera e propria guerra non dichiarata. Con lo sfruttamento e la violenza si mira a intimidire sistematicamente le donne come gruppo sociale. Senza dubbio le donne hanno fatto resistenza contro questi
brutali attacchi, si sono organizzate e hanno portato avanti la loro lotta con costanza. Attraverso la loro lotta che dura da secoli, le donne hanno ottenuto molti progressi che favoriscono anche l’estensione dei valori democratici e di libertà nell‘intera società. In
parallelo si sono rafforzati la violenza e i crimini di guerra contro le donne ed è aumentata sempre di più la discriminazione e la lesione o l’assenza di diritti delle donne.

Le donne sono vittime di cosiddetti “delitti d’onore”, vengono costrette a matrimoni forzati, stuprate, subiscono molestie sessuali, mutilazioni, vengono spinte al suicidio, schiavizzate e trattate come bottino di guerra. Attualmente gli attacchi contro il corpo, l’identità, il pensiero e i sentimenti delle donne in Medio Oriente vengono perpetrati in modo crudele da gruppi terroristici come IS. Colpiscono tutti i gruppi etnici e le comunità religiose che si oppongono alla loro ideologia, curde, turkmene, assire, armene, arabe, yezide curde, cristiane, sciite, kakai, alevite e molte altre.

Nel 21° secolo, il sistema patriarcale e il suo pensiero hanno ulteriormente perfezionato la loro politica di femminicidio. In Ucraina 400 donne sono state deportate come bottino di guerra, stuprate e assassinate. Nello Shengal nel Kurdistan del sud, oltre 3000
curde yezide sono state deportate e stuprate e vengono vendute nei mercati degli schiavi. Nel corso di un anno in Nigeria sono state assassinate almeno 350 donne e almeno 300 bambine e ragazze tra i dodici e i sedici anni sono state rapite dal gruppo terroristico Boko Haram. Il numero reale probabilmente è molto più elevato. Qui si tratta solo di tre esempi estremi che segnalano sviluppi a livello mondiale. Per le donne in questo mondo non esiste sicurezza. Per questo le donne devono più che mai provvedere alla propria protezione e organizzare la loro autodifesa.

È proprio questo che attualmente sta succedendo nel Rojava (espressione curda per il Kurdistan occidentale). Nei tre cantoni curdi dell’amministrazione autonoma nel nord della Siria le Unità di Difesa delle Donne YPJ combattono per la sicurezza delle donne e dell’intera società. Le YPJ da mesi sono sulla linea del fronte nella difesa di Kobane contro gli attacchi delle bande di IS.
La lotta delle YPJ ha creato voglia di libertà e spirito di resistenza non solo a livello militare, ma anche nella coscienza sociale. Le YPJ conducono una lotta contro tutti i livelli di femminicidio. Come nel 1857 le 129 donne hanno perso la vita nella lotta come lavoratrici, oggi le combattenti delle YPJ combattono senza esitazioni in modo deciso per i valori delle donne e per i valori dell’umanità intera. Non limitano la loro lotta contro il femminicidio a una sola giornata, ma con la loro lotta trasformano ogni giorno nell‘8 marzo. La loro lotta di liberazione è allo stesso tempo un abbraccio alle donne di tutto il mondo.

In occasione dell‘8 marzo 2015 prendiamo coscienza degli attacchi contro le donne a Shengal, Mossul, Kirkuk, in Nigeria, a Gaza, in Ucraina e altrove considerandoli un femminicidio e facciamo vivere lo spirito di resistenza delle YPJ come difesa di tutte le
donne in ogni luogo. Organizziamo la resistenza ovunque nel mondo le donne subiscano violenza. Diffondiamo insieme lo spirito di resistenza che ci unisce e ci rafforza contro ogni manifestazione del sistema di dominio patriarcale.

Per questo chiamiamo tutte le donne, iniziative e organizzazioni di donne a dedicare le loro manifestazioni e azioni per la Giornata Internazionale delle Donne alla rivoluzione delle donne nel Rojava e alla resistenza delle Unità di Difesa delle Donne YPJ. Viva la solidarietà internazionale delle donne! Resistenza vuol dire vita!

*Donne Vita Libertà Rappresentanza Internazionale del Movimento delle Donne Curde

La via dell’ incontro e dell’ ascolto da: ndnoidonne

 

Italiana di religione islamica e presidente di Life, Marisa Iannucci parla del femminismo islamico, delle differenze tra le donne, dell’ascolto che manca e dei pregiudizi verso chi indossa il velo

Costanza Fanelli

Marisa Iannucci è studiosa del mondo islamico, specializzata in lingua e cultura araba con una attenzione particolare al pensiero riformista dell’Islam, agli studi di genere e alla tutela dei diritti. Attivista dei diritti umani, è presidente dell’Associazione Life, una onlus indipendente che si occupa di tematiche di genere, dialogo interreligioso e interculturale e culture del mondo musulmano. Di religione islamica, vive a Ravenna e ha pubblicato numerosi saggi e materiali sulla questione del genere nella dimensione religiosa. L’abbiamo incontrata alla Casa Internazionale delle Donne di Roma, in occasione di una affollata presentazione dell’ultimo libro che ha curato insieme ad altre “Femminismi musulmani. Un incontro sul Gender Jiad”.

Da studiosa del mondo Islamico e come donna impegnata direttamente per valorizzare l’apporto originale di un femminismo musulmano, secondo te cosa dovrebbe essere, oggi, l’8 marzo e cosa non è?

La Giornata internazionale della donna è una data importante perché ricorda il protagonismo sociale e politico delle donne nella storia, cosa che forse le giovani generazioni addirittura ignorano. In questo senso e non come “festa della donna” – accezione riduttiva e fuorviante – è un’occasione di incontro, condivisione e confronto importante tra le donne, soprattutto tra le protagoniste delle lotte degli anni ’70 e le più giovani. È significativo poi che attualmente venga celebrata in tutto il mondo, soprattutto in paesi dove la vita delle donne è più difficile, e dove le attiviste femministe sono poche.

Che distanze e vicinanze caratterizzano oggi “le comunità” di donne nel mondo nelle loro diverse forme di lotte di libertà individuale e collettiva?

È importante che le donne si incontrino e si ascoltino. Donne di diverse età, di diversa provenienza geografica, culturale e religiosa. Ciascuna ha una propria storia e la porta con sé insieme ad un pezzo di mondo. Insieme si può tessere un tappeto in cui ogni individuo è un nodo, e insieme si è più resistenti. Le distanze sono evidenti, ma io sono convinta che nella società multiculturale che viviamo le donne impareranno ad incontrarsi ed ascoltarsi, se pure con fatica. In fondo anche negli altri paesi è così. Ci sono diverse comunità di donne che hanno in comune elementi che a noi in Occidente sembrano omogeneizzanti, ma che non lo sono affatto. Vorrei portare l’esempio significativo del Marocco, dove nel 2004 è stato riformato il Codice di famiglia. Le numerose associazioni femminili e femministe del Paese avevano ed hanno orientamenti molto diversi: ve ne sono di laiche e di religiose, sia riformiste che conservatrici. Hanno portato avanti istanze in parte comuni in parte diverse, ma tutte sono riuscite ad incidere nel processo di riforma, che è apparso come un primo passo, con un lungo cammino ancora da fare. In Italia le donne musulmane femministe e che si occupano di studi di genere sono poche. In questi anni – dal 2000 circa – non ho visto interesse da parte degli ambienti femministi italiani per il nostro lavoro. In qualche caso vi è stata aperta ostilità. Ora qualcosa sta cambiando per una maggiore consapevolezza delle donne attiviste musulmane – il femminismo islamico per quanto giovane, come movimento si sta rafforzando – per le numerose sollecitazioni della società in cui viviamo e degli avvenimenti mondiali che condividiamo ormai in tempo reale. Ma le distanze sono ancora molte. A Ravenna, la città dove vivo, la mia associazione (Life) non è stata coinvolta nella Casa delle donne recentemente aperta. Abbiamo diversi fronti di impegno; il patriarcato delle comunità musulmane, l’islamofobia in crescita, che colpisce soprattutto le donne (velate) e anche la solitudine, perché spesso non sentiamo la solidarietà delle donne che tanto si impegnano nella lotta femminista. Ci vuole più ascolto reciproco, e più conoscenza. Conoscenza che significa poter creare delle relazioni personali prima di tutto, tra persone reali. Condividere le storie, le pratiche di ognuna per fare emergere le vicinanze, che ci sono, perché soffriamo degli stessi mali. Il patriarcato opprime tutte le donne, e anche se le forme di lotta sono diverse, e a volte anche il fondamento – è il caso dei femminismi musulmani -, abbiamo obiettivi comuni. Cambiare una cultura patriarcale e sessista che anche in Italia è manifesta: la violenza sulle donne è un problema che riguarda tutte, un problema culturale e quindi strutturale; la politica, che è espressione di un potere totalmente maschile; il lavoro, dove non c’è ancora parità, nonostante le importanti conquiste fatte in passato grazie al femminismo.

Da donna italiana di fede islamica vivi problemi particolari nel quotidiano nel tuo paese?
Ogni scelta che si fa nella vita ha delle conseguenze e vanno messe in conto. Essere musulmani in Italia significa fare parte di una minoranza (piuttosto rilevante ormai) e per questo si è più soggetti a discriminazioni, anche multiple, essendo una donna, e anche velata. La mancanza di un riconoscimento da parte dello Stato italiano (non c’è un’intesa che regoli il rapporto con le comunità islamiche) rende la quotidianità più difficile, ma è il pregiudizio e la paura del diverso a generare le maggiori difficoltà. Il velo è ancora un problema per l’accesso al lavoro, competenze e titoli non riescono facilmente a penetrare questa preclusione. La situazione internazionale e la disinformazione su tutto ciò che riguarda il mondo musulmano non aiuta. L’islamofobia nel nostro paese è ormai istituzionale. Inoltre come italiana sicuramente suscito qualche diffidenza in più, perché è difficile comprendere una scelta che ha a che fare con valori che non sono conosciuti. Sono soprattutto le donne ad avere più difficoltà a relazionarsi con me, perché associano l’Islam all’oppressione delle donne e quindi ritengono questa scelta non solo autolesionista ma addirittura un’offesa, venendo da un’italiana, alle lotte che le femministe hanno portato avanti e che hanno permesso i cambiamenti che ci sono stati nel nostro Paese. Ovviamente non è così, ma c’è bisogno di conoscenza reciproca per capirlo e di un grande rispetto per le scelte di libertà degli altri. Ognuno ha percorsi diversi, di vita e di liberazione.

SGUARDI DA SVELARE

“I veli non sono solo quelli che coprono fisicamente, ma anche quelli che ci velano lo sguardo, i più difficili da sollevare perché non si vedono”. Le curatrici del libro “Femminismi musulmani. Un incontro sul Gender Jihad” (Fernandel Edizioni) Ada Assirelli, Marisa Iannucci, Marina Mannucci e Maria Paola Patuelli ci riportano al dibattito sulla condizione delle donne musulmane, per raccontare il senso del lavoro che hanno fatto per creare luci nuove alla comprensione di quanto si è mosso e si sta muovendo nel mondo musulmano sul piano di una visione e costruzione politica e culturale femminista. Il libro nasce da un percorso di incontri tra donne, femministe italiane e di altri paesi, musulmane, di religione cattolica e non credenti e anche di un uomo musulmano femminista, praticando un metodo di relazioni in presenza, che non ha nascosto le diversità, i conflitti, la realtà a volte di grovigli non subito dipanabili. Toccando nodi che fanno tanto discutere (rapporto tra religione e norme, tra Islam e Stato, tra uguaglianza di genere e Sharia) il volume ci aiuta a entrare nel complesso percorso di disvelamento e liberazione da interpretazioni delle stesse Scritture Coraniche, convinzioni e pratiche storiche che hanno costruito e consolidato regole, comportamenti di subalternità e oppressione delle donne. Un lavoro paziente, individuale e di gruppo, che però è in crescita e da anche i suoi frutti, se pensiamo al percorso fatto in Marocco per varare il nuovo Codice di famiglia o anche in Tunisia per quanto riguarda la nuova Costituzione. Versione integrale: http://www.noidonne.org/blog.php?ID=06129
Costanza Fanelli

Obiettivo salute. Senza tabù da: ndnoidonne

Un passo avanti per le donne asiatiche: i governi hanno riconosciuto la loro autonomia anche nella vita sessuale

Elisabetta Borzini

La conclusione del dodicesimo Summit dei Ministri della Salute degli stati dell’ASEAN, tenutosi a Settembre ad Hanoi, Vietnam, è chiara: l’Asia affronta la salute a tutto tondo. Dalle malattie sessualmente trasmissibili alla terza età alle pandemie, in Paesi diversi tra loro ma spesso accomunati da quelle che i libri di storia chiamano dittature illuminate, c’è’ forse poco spazio di espressione per la società civile, ma una grande attenzione al suo benessere. Tra i temi trattati emerge un focus sull’HIV, e all’interno del pannello tematico si discute molto di categorie chiave e di donne. A differenza di molti Stati occidentali, in cui l’opinione pubblica viene imboccata con foto di madri africane che languiscono in letti di ospedale, qui il discorso, di natura politica e aperto a diverse figure professionali, è scientifico. Quello che colpisce è che sia Stati a maggioranza islamica (come l’Indonesia) sia a maggioranza cattolica (le Filippine) affrontino temi delicati come il preservativo femminile, la prostituzione e i rapporti sessuali tra uomini – più pericolosi dal punto di vista epidemiologico e bombe pronte a esplodere trattandosi spesso di uomini non omosessuali – con naturalezza e scientificità. Personalmente mi ha fatto riflettere su come reagirebbe in Italia una sala piena di scienziati, ma anche politici e giornalisti, a temi come il sesso anale, il lubrificante vaginale come arma contro il contagio e i female condoms. Ma la cosa che forse colpisce di più è la presenza attiva e partecipativa delle donne. L’Asia non è l’Africa, l’epidemiologia dell’HIV è molto diversa, ma tuttavia circa la metà dei nuovi casi tocca sempre le donne (con l’eccezione del Vietnam, dove la sieropositività femminile è pari a circa 1/5 rispetto a quella maschile).

Qui si incontrano donne, come l’epidemiologa americana Elizabeth Pisani, ma anche come la Ministra della Sanità Indonesiana, Nafsi Mboi, che parlano di HIV/AIDS e di sessualità. Il rischio di contagio nelle donne, essendo riceventi, aumenta esponenzialmente, specialmente se in compresenza di infezioni sessualmente trasmissibili che facilitano la lacerazione delle pareti vaginali e della cervice. Le donne sono anche, benché spesso si dimentichi, soggetti volontariamente sessualmente attivi. La bassa conoscenza anatomica del proprio corpo, associata a malattie sessualmente trasmissibili pre-esistenti, e l’attività sessuale non protetta rendono le donne, senza distinzione di casta, religione, stato sociale, una delle categorie a rischio. A tutto questo va aggiunto che in Paesi in via di sviluppo il sesso viene spesso suddiviso tra “familiare” (nel contesto della coppia), “commerciale” e “transazionale” (cioè un ibrido, non propriamente associabile alla prostituzione perché vi è una relazione tra i due individui e raramente viene pagato l’atto sessuale, mentre piu’ spesso l’uomo tende a “provvedere” a parte dei bisogni della donna). Il sesso transazionale si basa solitamente su una relazione fluida e non necessariamente di lungo termine, per cui la donna in questione molto spesso ha relazioni transazionali con più uomini contemporaneamente. Uno dei segreti meglio serbati della medicina moderna è il preservativo femminile (http://www.path.org/blog/2014/09/seven-secrets-female-condom/). È un fatto. I motivi di tanto mistero sono facilmente individuabili, il più ovvio: in moltissime culture il corpo della donna è un tabù che nemmeno lei conosce, e pensare che non solo sia lei a decidere se e quando procreare ma che abbia anche la conoscenza anatomica necessaria a inserire un preservativo nella cervice uterina è impensabile.

Benché la trasmissione per via sessuale (con rapporti vaginali) sia molto rara se tali rapporti avvengono quando la persona infetta ha una bassa carica virale (aggirandosi su 1/300 i.e. 1 possibilità su 300 di contrarre il virus), l’assenza di uno screening continuativo, soprattutto tra i giovani, è una bomba a orologeria. Però in paesi come la Thailandia, l’Indonesia, la Cambogia, dove i turisti vanno e trovano tutto e tutto a un prezzo risibile, il corpo delle donne diventa arma e campo di battaglia: il mercato del sesso è vasto e diverso, tutto si può provare e tutto si può avere, e spesso a pagarne le coseguenze sono donne-ragazze-bambine che non hanno la consapevolezza e le risorse per proteggersi. I governi tailandese e malese hanno affinato, nel corso degli anni, una strategia infallibile: le case chiuse (nei loro casi karaoke e centri massaggi) con anche un solo caso di sieropositività tra le ragazze sono costrette a chiudere. In questo modo i gestori sono i primi a mettere preservativi in ogni stanza e ad allontanare le ragazze che non li usano. Con questa politica, semplice ma infallibile, il tasso di HIV in Thailandia è stato abbattuto nel corso degli anni Novanta. L’Indonesia, prima dell’insorgere di gruppi di Polizia Morale, aveva una politica molto illuminata sul coinvolgimento dei gruppi chiave, quelli il cui comportamento a rischio poteva compromettere la salute di tutta la popolazione, tra tutti le prostitute e le waria, le prostitute transessuali.

Tutti questi Paesi, che convergono in Vietnam, portano storie di successi, per quanto riguarda il ruolo delle donne nella pandemia dell’HIV/AIDS e dà da pensare come il dialogo, sebbene spesso ostacolato da forze politiche o religiose, sia alla fonte di una risposta così puntuale ed efficace a una pandemia che in altre zone del mondo e parità di ricchezza (negando, di fatto, il nesso tra HIV e povertà) non cessa di mietere vittime. Al 12mo Summit dei ministri della sanità dei Paesi ASEAN si riconosce, forse per la prima volta, che le donne rientrano sì nella categoria a rischio ma principalmente per via delle loro scelte sessuali. Questo è un punto molto importante perché spesso delle vittime si ha compassione, le si relega al ruolo di “vittime dei fatti”, mentre con questa posizione i governi asiatici riconoscono nella donna un membro attivo della società, anche dal punto di vista sessuale, che va tutelato comunque e non solo in concomitanza di violenza domestica o in quanto vittima di traffico. Riconoscendo alla donna la sua dimensione sessuale la si porta su un piano di parità, in cui non deve essere protetta da se stessa o da non meglio specificati “uomini” ma del cui corpo lei stessa deve prendere atto e prendersi cura.

Ma davvero ci fanno fuori? da : ndnoidonne

Il patriarcato offre potere alle donne ma non modifica il sistema. Il femminismo ha pensato molto, ma ha inciso poco

Giancarla Codrignani

DONNA VIOLATA CHE DANZA, di GIULIA TOGNETTI

I titoli estivi dei media non debbono impressionare: notizie come “le giovani sono antifemministe” (in inglese women against feminism) sono i soliti scoop d’agosto. Questo non vuol dire che non ci siano problemi, soprattutto per chi si credeva che il patriarcato fosse finito. Bisogna invece rifare qualche conto, perché il primo segnale poco entusiasmante in campo femminista è stata, negli Usa, la bocciatura dell’Equal Rights Amendament, che doveva inserire la parità nella Costituzione americana: milioni di donne si erano mobilitate, le due Camere avevano approvato, ma gli stati non ratificarono entro i termini fissati. La ferita del 1982 non si cicatrizzò mai e il femminismo americano ne fu profondamente segnato.
L’avanzata degli anni Settanta (del secolo scorso) aveva prodotto la paura che le donne “vincessero”. Quindi si rialimentarono i non innocui costumi delle moms americane e delle frittelle con lo sciroppo d’acero, il tetto di cristallo basso per le lavoratrici in carriera e gli impedimenti a qualunque legge permissiva sull’aborto. Se ne accorse Susan Faludi che scrisse, guadagnandosi il Pulitzer, Backlash, “Contrattacco: la guerra non dichiarata contro le donne americane“. Era il 1991 e le italiane continuavano a scalare tutte le scale possibili: legge e referendum sull’aborto, fine del delitto d’onore, Nilde Iotti presidente della Camera e proprio nel 1991 nasce Linea Rosa e viene varata la legge 125 sulle “azioni positive”.

A proposito. Le “azioni positive” come sono finite? Come le “pari opportunità”: gli Enti Locali più avveduti (su impulso delle consigliere della Commissione ad hoc) le deliberano regolarmente per “favorire” e “programmare misure di contrasto” (chi se ne occupa lo fa per volontariato). Non è quindi strano che chi ha fatto le lotte non capisca che alle più giovani conquiste così dicano poco: d’altra parte nessuna di noi “vetero” fa qualcosa perché il Presidente del Consiglio smetta di tenere per sé la delega delle P.O.
Infatti il patriarcato – che di nuovo ha solo il fatto che molti maschi non nascondono il dubbio che le donne abbiano una marcia in più – tenta una nuova carta: dare alle donne pezzi di potere, posti di qualche eccellenza, purché nulla cambi del modello. Il governo Renzi è stato esemplare: dodici i ministri, sei donne e sei uomini. Perché gli asili nido diventino una priorità? Non ci pensa nemmeno la più settaria delle femministe: se c’è una minaccia di guerra la Pinotti (giustamente) va in Parlamento a proporre la partecipazione militare.

Non è una novità nemmeno questa. Nel 1978 Betty Friedan (spero che ci leggano tante ragazze e che chiedano a madri e nonne di spiegare chi era) si diceva convinta che il movimento non era più in grado di attirare le giovani. Noi non ce lo dicevamo, ma chi ha buona memoria sa che a quel tempo in Italia la legge sull’aborto divulgava la parola “autodeterminazione” e che nel 1982 l’Udi si sciolse come organizzazione centrale e gerarchica. Non fu un ballar di carnevale: a Milano le “vecchie” cambiarono la serratura della sede per impedire alle giovani di “rottamarle”. Non era bello e assomigliava molto all’intervento di D’Alema contro il governo del suo partito. Anche noi a scuola dai maschi?

Tentare di femminizzare il potere non significa risolvere i problemi delle donne con i proclami. In questi ultimi anni sia il potere, sia i problemi, sia le donne si sono grandemente trasformati. Molti obiettivi sono stati raggiunti, ma non abbiamo inciso sulla società che – come insegniamo ancora – è fatta anche di vita privata, di emozioni, di bisogni di nuova cultura, di maggiore intimità fra gli umani assediati dalle macchine. Il lavoro non è tutto, ma ciò che viene chiamato il sistema insidia non solo il lavoro, ma anche case, famiglie, generazioni.
Il femminismo ha pensato quasi tutto di un mondo delle donne. Tuttavia non esiste solo il pensiero. D’altra parte, nemmeno quello è privo di dinamiche (bisognava pur inventare la ruota). Ma quando il pensiero avverte che è ora di cambiare costume, allora bisogna fare politica. Che, probabilmente, se la volessimo femminile, andrebbe esplicitata nei fini, mezzi e metodi. I metodi, per esempio, sono rimasti i soliti anche per noi: o rivoluzione o riformismo, con la conseguenza di divisioni tra noi per scuole di pensiero, senza capacità di unire le proposte e alzarne il contenuto.

Un esempio: la legge sull’aborto è ancora discussa in molti paesi, ma se ne parla ovunque senza (o con meno) reticenza. Le giovani sanno che c’è o ci sarà una legge; e, comunque, si aspettano prima o poi la pillola abortiva. Ma il problema non era l’autodeterminazione?
Oggi ci si divide sul mantenimento del Senato. Ma davvero nel 2014 possiamo permetterci il palleggio legislativo continuo? Si possono citare molti casi, ma trovo eclatante (e intollerabile) che la legge sulla violenza sessuale – che non costava una lira allo Stato perché trasferiva lo stupro dai reati contro la morale a quelli contro la persona ed era una norma richiesta da tutte le donne, cioè il 52 % dell’elettorato – sia stata in campo per 20 anni e 7 legislature. Il fatto è che le istituzioni non le abbiamo inventate noi e sarà difficile renderle “di genere”. Tuttavia, anche nel più bieco riformismo, tentiamo di farle avanzare mentre sono in corso necessari cambiamenti: scommettiamo che in un mondo che cambia con tanta fretta le ragazze possono interessarsi delle libertà (anche di quella dei maschi, questa volta a partire da noi per cambiare i paradigmi).

Vespa, le donne, la politica da : ND noidonne

Vespa, le donne, la politica

Il tragico spettacolo in tv su donne e politica

inserito da Monica Lanfranco

E’ la politica, bellezza: non ci vuole molto a fare il titolo della trasmissione Porta a porta della notte del 18 settembre 2014, nella quale, se è possibile, uno dei fondi più fondi del nulla televisivo nazionale ha segnato un record. Confermando la buona decisione di non vedere, da anni, la tv, e informarmi in ogni altro modo possibile, sono stata quasi costretta a soffermarmi sulla trasmissione, in tarda serata, e ne sono tristemente lieta.
Lorella Zanardo, nel video Il corpo delle donne ,sottolinea che è una responsabilità enorme usare gli stereotipi per giocarci, e che ci vuole una capacità non comune di gestire il potere (presunto) che hai nel farlo, per non uscirne massacrata: per questo la puntata è da vedere, perché è una fonte primaria per dirci il livello medio culturale di questo paese, e rivela chiaramente come profondi, radicati, cementati strutturalmente siano gli stereotipi, e quindi i pregiudizi, dentro l’informazione, dentro la cultura, dentro molte di noi.
Qui è vedibile l’intera puntata, un documento da studiare e sul quale ragionare molto, portandolo nelle scuole, nelle università e nei gruppi di condivisione, perché è un modello completo di asservimento al principio di conservazione dello status quo.
Solo alcune note a margine:
1) Da una parte le politiche (due di destra, una di Sel che ha quasi sempre taciuto).
Il conduttore nomina il Pd, (assente), dicendo di “aver chiesto delle new entry ma che evidentemente sono ‘ancora un pò intimidite”.
2) Di politica non si parla, ma in compenso ci sono collegamenti con esperti di chirurgia plastica che maneggiano pornograficamente morbide protesi per il seno, ammiccano verso i glutei della modella/manichino muta, esempio dei nuovi canoni estetici odierni. Gli esperti fanno capire che il ritocchino è non solo diffusissimo, ma salutare e benvenuto.
3) Le giornaliste che fronteggiano le politiche sono più anziane di loro: forse presa da rimorso per la partecipazione ad un circo così vacuo una di loro attacca l’uso dell’inglesismo nel linguaggio di una delle deputate, cercando di umiliarla e di dare una svolta culturale al programma. Casualmente questa deputata è l’unica che, oltre a sapere l’inglese, sa anche l’italiano. Non sono però pervenute critiche al sessismo del sistema culturale, politico e sociale Italiano dalle colleghe della stampa, mentre molto tempo dall’una e dall’altra parte è speso per ‘ragionare’ sull’opportunità di mettere o meno, (per andare in aula), la canottiera, la camicia o la gonna, e quanto corta. Laura Comi, reduce da Strasburgo, ci informa che al Parlamento Europeo sono meno fiscali che in quello nazionale: lì si entra anche senza cravatta. Evviva, l’Europa è più avanti.
Come coincidenza (significativa) segnalo che proprio in questi giorni una bancaria, che si occupava di pari opportunità nel posto di lavoro, quel lavoro ora l’ha perso perché ha segnalato, su facebook, che nella sua filiale i colloqui per nuove assunzioni erano molto influenzati dalla bella presenza delle candidate.
La storia è quiSi potrà discutere sull’opportunità di ‘mettere in piazza’ le questioni di un luogo privato (la banca non è l’amministrazione comunale) ma è legittimo chiedersi se la democrazia sia davvero ancora viva in un paese nel quale il pensiero critico verso il sessismo (ben distribuito tra donne e uomini) faccia ancora così paura da creare il vuoto intorno a chi prova a parlarne.
Come definire il sentimento che ho sentito, da giornalista, da attivista femminista, da donna nel vedere trattato così il tema della partecipazione del mio genere alla politica in Italia? Ho provato vergogna, e umiliazione, a vivere in Italia.
So bene che ci sono emergenze, (non solo problemi aperti e grandi), come il lavoro, la criminalità, la carenza educativa, sanitaria e abitativa.
So bene che la cultura non viene considerata un’emergenza, quando palesemente tocca livelli di guardia, come ormai da oltre un ventennio precipita, nell’indifferenza e nella sottovalutazione.
Ma sono consapevole che l’assenza di focalizzazione sui guasti che produce la banalizzazione degli stereotipi sessisti è un pericolo enorme per una collettività.
E che, purtroppo, le donne che ora sono nei luoghi decisionali raramente vi portano differenze tese al cambiamento: a destra come a sinistra come dei ‘movimenti’ la maggior parte di esse assevera la norma, neutra e quindi maschile. A chi, come la Bindi, insiste, (ormai sola), a indicare come l’iper sottolineatura dell’aspetto fisico femminile sia un danno per l’autorevolezza si risponde (vedi Alessandra Moretti, il nuovo femminile in rapida avanzata) che il gossip rosa avvicina la gente alla politica, e ben venga.
Se non ci sono orizzonti, (almeno quelli), divergenti rispetto alla rassicurante melassa degli stereotipi, lo sguardo si ferma molto prima di riuscire ad avere visioni di liberazione.
Ad Altradimora abbiamo ipotizzato di invitare, per un tour in alcune città italiane, la neoparlamentare della lista femminista svedese eletta con il 4%: forse c’è bisogno di un aiuto esterno per capire come salvarci da tutto questo, insopportabile, letale e offensivo scenario di banalità.

La presenza femminile nel Sistema Sanitario Nazionale da: NoiDonne

Le donne con un contratto a tempo indeterminato nel Servizio Sanitario Nazionale nel 2009 erano il 63,41%, percentuale in costante crescita ma non nelle posizioni apicali. L’avanzamento di carriera, precluso in particolare alle infermiere, richiede dispon

 

Mariam aveva sentito la notizia nel gennaio di quello stesso anno: uomini e donne sarebbero stati ricoverati in ospedali diversi, tutto il personale femminile degli ospedali di Kabul sarebbe stato licenziato o mandato a lavorare in un’unica struttura centralizzata. Nessuno ci aveva creduto e i talebani non avevano posto in atto quella loro decisione. Fino a quel momento. «E l’ospedale Ali Abad?» chiese un altro uomo. La guardia scosse la testa. «E Wozir Akbar Khan?» «Solo per uomini» disse. «E noi cosa dovremmo fare?» «Andate al Rabia Balkhi» rispose la guardia. Si fece avanti una giovane donna, dicendo che c’era già stata. Non avevano acqua pulita, né ossigeno, né elettricità, né medicinali. «In quell’ospedale non c’è niente» disse. « È là che dovete andare» insistette la guardia.
(K. Hosseini, Mille Splendidi Soli, Edizioni Piemme, Casale Monferrato (Ai), 2007, p.175)
Sebbene la condizione femminile e le discriminazioni di genere nel nostro Paese siano, fortunatamente, molto distanti da quella dell’Afghanistan, di cui al periodo della citazione letteraria, o dei paesi in via di sviluppo dove la durata media della vita delle donne è fortemente condizionata dalle uccisioni a seguito di stupri e violenze e dalla mancanza di assistenza alla maternità e alla vita sessuale in genere, occorre evidenziare come anche nel nostro paese persistano, in maniera più o meno evidente, discriminazioni nei confronti delle donne nel settore sanitario sia nella loro veste di utenti dei servizi sanitari, sia nel loro ruolo di professioniste del settore. Nel 2009 la percentuale di donne impiegate nel Servizio Sanitario Nazionale con un contratto a tempo indeterminato si è attestata al 63,41%: l’incremento della presenza femminile è in costante crescita ed è possibile rilevare come essa sia aumentata trasversalmente in quasi tutte le categorie lavorative comprese dall’ambito sanitario.

Relativamente alle posizioni apicali la presenza delle donne in tali posizioni è però aumentata negli anni di pochi punti percentuali: rispetto ai colleghi uomini, le donne debbono necessariamente avere una grande capacità di organizzazione e di ottimizzazione dei tempi dedicati ai diversi ruoli e, come si può facilmente intuire, è inoltre discriminante il supporto di aiuti esterni (familiari, collaboratrici domestiche, badanti) o di strutture educative (nidi, scuole di infanzia e scuole) o residenziali/ semiresidenziali nel caso di anziani e/o familiari affetti da disabilità. Occorre inoltre rilevare che, se per le donne medico il supporto di aiuti esterni è reso possibile da retribuzioni medio alte, per le altre figure professionali femminili della sanità (per esempio le infermiere e tutto il personale paramedico) l’accesso a tali collaborazioni è sbarrato da una situazione socio-economica completamente differente.

La carenza di servizi e le dinamiche intrafamigliari possono portare la donna a trovarsi davanti alla necessità di scegliere tra la famiglia ed il lavoro; alla base dello scollamento tra presenza femminile e posizioni apicali vi sono anche motivazioni legate alle tempistiche di carriera: per raggiungere una posizione di vertice sono necessari circa 15-20 anni di percorso, non ancora coerenti con il più recente inserimento significativo delle donne nella sanità: il processo di femminilizzazione in corso ne fa quindi prevedere un aumento. In generale il lavoro e, in particolare, l’avanzamento di carriera soprattutto, si basano su due tipologie di disponibilità pressoché totali: la disponibilità di spazio e la disponibilità di tempo, che caratterizzano il modello maschile applicato attualmente nel competitivo mondo della sanità: tali disponibilità totali sono molto spesso precluse alla donna per le motivazioni precedentemente esposte.

L’avanzamento di carriera è particolarmente precluso alle infermiere: in campo infermieristico la distribuzione di genere è sbilanciata a favore di una massiccia presenza di donne, ma le posizioni apicali sono ricoperte prevalentemente dagli uomini: le maggiori difficoltà di gestione dei tempi di cura parentale e di lavoro incidono marcatamente sul percorso professionale e sull’avanzamento di carriera proprio per la situazione socio-economica connessa al profilo professionale. Per ridurre i conflitti relativi alla gestione dei tempi di cura e lavoro oltre alla dotazione delle strutture di lavoro di asili nido potrebbe essere significativa l’elaborazione di strategie e prassi che favoriscano il ritorno della donna dopo l’allontanamento per maternità facilitando la ripresa del lavoro e dei contatti per evitare che la neo-madre si senta al margine in un ambiente di lavoro che evolve a ritmi serrati: una possibile modalità con cui si potrebbe colmare l’allontanamento dall’ambiente di lavoro potrebbe essere costituita dalla somministrazione di corsi formativi a distanza durante il periodo di assenza per maternità.

Quali sono gli apporti specifici delle donne nel mondo del lavoro e, in particolare, in ambito sanitario? Una prima rilevazione va posta sulle capacità organizzative di una donna: è ipotizzabile che la donna, anche sulla base del proprio vissuto biografico, possa contribuire in maniera significativa in sanità sul piano delle capacità di organizzazione e di gestione, con risvolti utili in termini di efficienza ed efficacia dei processi. Tale capacità organizzativa è collegabile ad una storica abitudine del genere femminile ad occuparsi parallelamente di più funzioni, e si esprime soprattutto: nella visione di insieme, nella creazione di reti di rapporti, nella sistematizzazione dell’intervento, nella rapidità di reazione e gestione dell’imprevisto, nella capacità analitica che fa essere le donne metodiche e pragmatiche.

Alle donne occorre inoltre riconoscere una grande capacità di mediazione che, anche in ambito sanitario, si traduce spesso nella capacità di armonizzare idee e posizioni differenti attraverso modalità gestionali tese a rendere i conflitti occasioni di dibattito finalizzate alla risoluzione efficace ed efficiente delle problematiche che i gruppi di lavoro debbono quotidianamente gestire ed affrontare.

La Chiesa patriarcale e il femminismo da: NoiDonne

Francesco, le riforme avviate e quelle impossibili. Le teologhe cattoliche non si accontentano delle intenzioni. E delle belle parole

Stefania Friggeri

Gli ammiratori più entusiasti, se non fanatici, di papa Francesco possono acquistare un’esile rivista intitolata “Il mio Papa” interamente dedicata alla sua persona: raccoglie frammenti biografici da parenti, amici o conoscenti, intervista coloro che hanno avuto occasione di incontrarlo per i motivi più diversi, e riveste ogni fatto o testimonianza di un calore agiografico che conferma il lettore nella sensazione che papa Francesco, come Gesù, vuole vivere intera la sua umanità, vuole camminare insieme alla gente ed ascoltarla. L’ubriacatura mediatica è così contagiosa che la frase “chi sono io per giudicare?” riferita ai gay, o quell’altra con cui ha espresso alle donne che hanno abortito la sua vicinanza umana, vengono interpretate come segnali prodromici di una rivoluzione culturale della dottrina della Chiesa cattolica. E in verità Bergoglio già procede sulla strada delle riforme (lo IOR, la Curia, la CEI), ma una rivoluzione potrà realizzarsi solo se nel mondo teologico della tradizione, monolitico maschile gerarchico, sarà accolto il seme della sapienza femminile. Che però ancora oggi non trova accoglienza, se non attraverso parole generiche di elogio. Le teologhe cattoliche invece chiedono un chiaro riconoscimento della loro creatività, né si accontentano dell’intenzione papale di “lavorare più duramente per sviluppare una profonda teologia della donna”: sia perché non vogliono essere escluse, o lasciate ai margini, da questa elaborazione, sia perché chiedono venga riconosciuto il lavoro di ricerca da cui, ispirandosi ai tratti peculiari della loro identità femminile, hanno elaborato nuovi e difformi modelli di spiritualità. Modelli che però sono rimasti oscurati o inespressi, schiacciati dalla cultura tipica di una società patriarcale da cui era influenzata la stessa interpretazione dei testi sacri; testi che le teologhe hanno preso in mano, traendo da essi, nel rifiuto di una cultura androcentrica, letture e commenti di orientamento diverso (espressione della loro molteplicità culturale), ma tutti accomunati dalla fede in un Dio che ama: non un Dio maschio, potente e signore, ma un Dio d’amore, un Dio femminile che, come la madre che dà la vita, chiede reciprocità, ama e vuole essere amato.

Dunque a cinquanta anni dal Concilio Vaticano II che ha aperto alle donne la facoltà di accedere, sia come allieve che come insegnanti, alla facoltà di teologia, le donne, impegnate nella ricerca del volto femminile di Dio, non si accontentano più degli elogi (vedi la “Mulieris Dignitatem” di Wojtyla) ma affermano con decisione che ormai è scoccata l’ora di parlare “con le donne”, non “delle donne”. Perché nel rifiuto di un modello ispirato dal turbamento che suscita la maternità, vincolo e destino di una condizione strettamente biologica, il pensiero femminile rivendica il diritto della donna a definire in prima persona la propria identità anche all’interno del percorso teologico. Una posizione, questa, rivoluzionaria per la Chiesa cattolica che infatti guarda al femminismo con sospetto, se non con riprovazione. Si legga il Documento preparatorio “Le sfide pastorali sulla famiglia” dove sono segnalate “le forme di femminismo ostile alla Chiesa”, oppure le parole di Ratzinger nella “Lettera ai vescovi”: “Per evitare ogni supremazia dell’uno o dell’altro sesso, si tende a cancellare le loro differenze, considerate come semplici effetti di un condizionamento storico-culturale.

In questo livellamento la differenza corporea, chiamata sesso, viene minimizzata, mentre la dimensione strettamente culturale, chiamata genere, è sottolineata al massimo e ritenuta primaria.” Dunque già nel 2004 papa Ratzinger individuava nella “gender theory” “la minaccia alla pienezza dell’Umano” (C. Gentile) perché il termine gender appartiene ad una filosofia dove il sesso non è visto come un dato originario della natura, ma come un ruolo sociale che l’individuo riempie liberamente di senso. “Maschio e femmina Dio li creò” sono le parole della Genesi che la teoria del gender mette in discussione perché se l’essere umano non ha una natura precostituita dalla sua corporeità, decide lui stesso di crearla per sé: eterosessuale, omosessuale, transessuale…. Ma rivendicare al soggetto la libertà di definire in autonomia la propria identità, indipendentemente dall’ordine sociale culturale e religioso, vuol dire affilare un’arma contro la famiglia tradizionale e papa Francesco su questo tema, non meno che sul rinnovamento della Curia, dovrà affrontare grandi difficoltà. Nel 2010 infatti lui stesso, dalla cattedra del magistero vescovile, ha chiamato gli argentini a combattere una “guerra di Dio” contro la legge che avrebbe legalizzato le coppie gay, definite “un atto ispirato dall’invidia del diavolo”; e sempre in Argentina, riferendosi alla candidatura della Kirchner, ebbe a dire: “Le donne sono naturalmente inadatte ai compiti politici… le Scritture ci mostrano che le donne da sempre supportano il pensare e il creare dell’uomo, ma niente più di questo”. Inadatte alla politica, ammoniva ieri il vescovo Bergoglio, inadatte al sacerdozio, puntualizza oggi papa Francesco nell’ “Evangelii Gaudium”.

Eppure, anche se molte suore non vi aspirano affatto, pare venuto il tempo di discutere del sacerdozio femminile, anche perché non esistono ragioni né scritturali né teologiche contro l’ordinazione delle donne. E infatti Martha Heizer (cofondatrice e presidente di “Wir sind Kirche”, il movimento di base presente in molti paesi che si batte da tempo per riformare la Chiesa) già nel 2011 era stata richiamata perché insieme al marito Gerd officiava messa nella loro casa. La questione, ferma da tre anni, è sfociata recentemente nella scomunica. Martha ha risposto indignata: “Siamo stupiti e amareggiati dal fatto che la nostra attività rientri nella stessa categoria dei preti che commettono abusi sui minori. Anzi è ancora più grave che, a differenza di questi, a noi è arrivata una scomunica”. Il sacerdozio femminile appare dunque un traguardo assai difficile da raggiungere anche perché la storia ci insegna che “solo i santi si spogliano spontaneamente dei loro privilegi” (L. Muraro), e papa Francesco dovrebbe rompere una tradizione secolare da cui deriva che, negando alle donne le prerogative riservate ai consacrati, non è stato mai loro permesso di accedere ai ruoli di potere.

Dalle ragazze americane che rinnegano il femminismo alle donne che in Turchia non dovrebbero più ridere, e poi il dramma della mamma in affitto tailandese, la bambina nigeriana kamikaze a 10 anni …da: Prima Prima Pagina Donne (28 luglio – 3 agosto 2014)

Dalla rete: Società e Attualità

Prima Prima Pagina Donne (28 luglio – 3 agosto 2014)

Dalle ragazze americane che rinnegano il femminismo alle donne che in Turchia non dovrebbero più ridere, e poi il dramma della mamma in affitto tailandese, la bambina nigeriana kamikaze a 10 anni …

inserito da Paola Ortensi

Prima Pagina Donne 31 (28 luglio – 3 agosto 2014)
In questa settimana che congiunge luglio e agosto – dunque il cuore dell’estate, quest’anno, in verità, simile ad un pazzo autunno – le notizie si mescolano tra idee di donne, idee per le donne e fatti ed eventi a protagonismo femminile. Da una parte fa parlare la presa di posizione di giovani ragazze americane che affermano che il femminismo delle loro madri è superato, e si apre un interessante confronto in occidente, da altra parte in Turchia il vice Primo Ministro esorta le donne a non ridere più perché atteggiamento sconveniente, ottenendo come risposta una valanga di immagini che dilagano sui media di tutto il mondo, di donne turche in primis ma di donne di gran parte del mondo che ridono affermando il loro pieno diritto a farlo. E così mentre le idee danno il segno della contraddizione dei tempi e di come anche per le donne serva ragionare tenendo conto dei problemi femminili a 360° gradi nel pianeta, fatti quotidiani fanno notizia. La mamma del grande corridore Pantani ottiene dopo circa 10 anni la soddisfazione di vedere riaprire il caso di suo figlio; lei ha sempre sostenuto che non si fosse ucciso nell’albergo dove fu trovato ma fosse stato ucciso. La riapertura del caso è un primo passo verso la ricerca della verità.
E per rimanere agli avvenimenti legati al ruolo di una mamma, amplissimo è lo spazio, giustamente dedicato dalla stampa, alla vicenda della giovane mamma tailandese che da madre in affitto per una coppia australiana ha partorito due gemelli, ma di questi la coppia australiana ha preso solo la bambina perché il maschietto è malato e non lo hanno voluto. La notizia di “problematiche “ ne ha messe molte in evidenza ma a fianco ad emozioni e moralità davvero diverse. Chi ha pagato per una madre in affitto ha scelto come fosse un oggetto commerciale quella figlia bella e sana, senza esitazione, lasciando l’altro al suo destino qualunque fosse. La giovane tailandese ventunenne, povera mamma in affitto, con altri due bambini ha sentito il gemellino malato come un bimbo suo che non poteva abbandonare. Il mondo generosamente aiuta la mamma povera e piena di sentimento ma il problema svelato rimane in tutta la sua gravità. E ancora parlando di madri, chi sarà quella della bambina di dieci anni che nella Nigeria del nord è stata fortunatamente fermata, prima che esplodesse come Kamikaze, avendo le cariche di esplosivo pronte sotto il suo ampio vestito? E’, questa, una creatura rapita da Boko Haram? O quale può essere la sua tragica storia? E il suo futuro come potrà trovare un destino degno? Mentre attorno a noi il mondo è in subbuglio su tante frontiere, in Italia il confronto politico è caldissimo in quanto la discussione per la riforma del Senato della Repubblica è in pieno svolgimento e protagonista in questo difficile dibattito troviamo in prima fila la Ministra Maria Elena Boschi,  titolare del disegno di legge insieme al Presidente del Consiglio Matteo Renzi, che contemporaneamente rispetto ai molti fronti su cui è impegnato stringe i tempi scrivendo a Jean Claud Juncker chiedendo che Federica Mogherini sia scelta quale futura Ministra degli Esteri della Comunità Europea. Un Europa che ci auguriamo sia quanto prima definitivamente a pieno regime con i suoi organismi politici per dare nel modo più efficiente il proprio contributo diplomatico su eventi drammatici come quanto avviene fra Israele e la Palestina di Hamas, in libia, Irak, Ucraina, per citare i focolai più drammatici. Rimanendo in Italia e dando informazione sul seguito di alcune notizie date in altri resoconti passati di PPD (Prima Pagina donne) c’è da compiacersi su due risultati direi positivi. E’ stato riconosciuto dalla cassazione come il Viminale debba risarcire la Sig ra Shalabayeva che non poteva essere estradata, la notte del 27/12/ 2013 ma aveva diritto d’asilo politico. Notizia di natura assai diversa ma comunque di soddisfazione per lo sviluppo avvenuto la “decisione” della Signora Angiola Armellini proprietaria di centinaia di appartamenti a Roma di pagare 50 milioni al fisco, precedentemente evasi. Sempre a Roma Giovanna Marinelli, nuova Assessora alla Cultura della Capitale sembra stia portando a una soluzione il futuro del teatro Valle con il consenso di chi oramai da due anni lo ha gestito come bene comune, garantendone la vita. Terminando, un pensiero obbligato alle donne di Gaza avvolte nel dolore e nella disperazione per chi non c’è più e per chi lotta senza più casa, senza sapere dove ripararsi, senza sapere come rifarsi un futuro per sè, i propri figli, la propria famiglia e i propri famigliari.
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