Ucraina, come si fa un golpe ‘moderno’ da: il fatto quotidiano

Nel mare magnum delle menzogne, delle imbecillità e, soprattutto, delle omissioni, viste e non viste (per la contraddition che nol consente) lette e non lette (idem come sopra), spiccano alcuni silenzi del mainstream occidentale. La signora Victoria Nuland, assistente del Segretario di Stato Usa, per esempio, ne ha fatte e dette di cotte e di crude in questi mesi. Parlando con il suo ambasciatore a Kiev, ben prima del rovesciamento del legittimo (quanto inviso) presidente Yanukovic, la signora Nuland decideva già la composizione del nuovo governo rivoluzionario che si sarebbe insediato a Kiev, dando indicazioni su chi si sarebbe dovuto includere o escludere.

Tutti i media europei s’indignarono molto per il finale di quella conversazione, elegantemente chiusa con un “fuck EU”, all’indirizzo degli alleati europei, a giudizio della Nuland non sempre completamente sdraiati a leccare i piedi di Washington. Nel grande scandalo, tuttavia, tutti dimenticarono di riferire, appunto, il resto di quella conversazione, che mostrava tutta intera la tracotanza dell’Amministrazione americana contro un paese sovrano. La Nuland già aveva venduto la pelle dell’orso: sapeva in anticipo come sarebbe finita.

Ma la signora Nuland – repetita iuvant – assistente del segretario di Stato Usa, aveva fatto di meglio nel dicembre scorso, quando – parlando al Press Center di Washington – aveva informato il colto e l’inclita che gli Stati Uniti “hanno investito cinque miliardi di dollari per dare all’Ucraina il futuro che merita. Una frase davvero storica, non solo per la cifra, ma per l’eccezionale assunzione di responsabilità: il futuro dell’Ucraina non è nelle mani degli ucraini, ma nelle mani dell’America. La quale decide qual è il futuro che l’Ucraina “merita”.

Come siano stati spesi quei denari non è difficile indovinare. In parte essi sono andati a rendere migliore il futuro di quelli che Maria Rozanova (la vedova del dissidente Andrej Siniavskij) definiva come i “figli del capitano Grant”, amabilmente giocando sul termine “grant”, che in inglese significa anche “stipendio”. Così, infatti, sono stati comprati centinaia, anzi migliaia, di docenti, ricercatori, funzionari pubblici, studenti dei paesi est-europei, di Ucraina, di Russia. Chi poteva resistere alla tentazione di moltiplicare per cento il proprio stipendio? Di visitare un ricco paese straniero? Di tornare in patria un po’ più benestante, magari con i soldi per un’auto occidentale? Certo, per poter tornare a godere di un tale privilegio si deve poi restituire qualche cosa. Questi programmi “culturali”, ben finanziati da decine di ricche fondazioni americane, hanno rappresentato il primo contingente di una grande offensiva politica. Così sono state create migliaia di “quinte colonne”, di propagandisti indefessi dell’”american way of life”. Analoghi metodi di reclutamento sono stati effettuati con i giornalisti, che potremmo definire moltiplicatori di propaganda. Lo si è visto con Otpor, in Jugoslavia, che fu artefice principale del rovesciamento “pacifico” di Slobodan Milosevic. Lo si è visto nella “rivoluzione arancione” che portò al potere in Ucraina Viktor Yushenko e la Iulia Timoshenko. Lo stesso tentativo è stato fatto ripetutamente in Russia, prima e dopo il crollo dell’Urss.

Sono cose note – per lo meno dovrebbero esserlo, sebbene troppi giornalisti le ignorino – che hanno costellato la storia degli ultimi trent’anni. Ma quello che vorrei qui ricordare è un evento storico, molto simile a quanto il ministro degli Esteri estone, Urmas Paet, ha raccontato a Catherine Ashton, capo della diplomazia europea. Paet avvertiva la Ashton che, secondo testimonianze che egli considerava attendibili, la mattanza del 20 febbraio in piazza Maidan sarebbe stata attuata non dalla polizia di Yanukovic, ma da cecchini piazzati sui tetti dall’”opposizione”. Leggendo le parole di quella telefonata assai riservata – rubata evidentemente da qualche servizio segreto che ha imparato le regole della Nsa – mi è venuta in mente la storia del dramma che avvenne a Vilnius, Lituania, il 15 gennaio 1991.

L’analogia è impressionante sotto ogni profilo. Sono andato a rivedere su Youtube come quel dramma viene descritto. Il titolo di un filmato dice così: “Le truppe sovietiche contro cittadini lituani disarmati a Vilnius”. Dunque alla storia è consegnata dal web, per sempre, la responsabilità sovietica per un massacro di civili. Quell’episodio è diventato addirittura il momento fondante della Repubblica indipendente di Lituania, ora membro della Nato e uno dei 28 paesi dell’Unione Europea. Ma adesso sappiamo che tutta quella storia fu scritta da altre mani, ben diverse da quelle del “popolo lituano”.

Raccontai questa scoperta,  il 18 febbraio 2012,  nella recensione al libro di Gene Sharp Come abbattere un regime, sottotitolo “Manuale di liberazione non violenta”. La scoperta mi fu squadernata dall’ex ministro della Difesa della Lituania, Audrius Butkevicius, l’organizzatore di una sparatoria che si trasformò in un massacro di civili.  Situazione quasi identica a quella della piazza Maidan di Kiev del 20 febbraio 2014. Qui cito il me stesso di quella recensione: “Fu una operazione da servizi segreti, predisposta, a sangue freddo, con l’obiettivo di sollevare la popolazione contro gli occupanti. Chiedo al lettore di sopportare la lunga citazione dell’intervista che venne pubblicata nel maggio-giugno 2000 dalla rivista Obzor e che è stata recentemente ripubblicata sul giornale lituano Pensioner. Sarà una fatica non inutile, perché coronata da una preziosa scoperta, che ci aiuterà a capire diverse cose del libro di cui stiamo parlando.

 

<Non posso giustificare il mio operato di fronte ai familiari delle vittime – dice Butkevicius, che allora aveva 31 anni – ma davanti alla storia io posso. Perché quei morti inflissero un doppio colpo violento contro due cruciali bastioni del potere sovietico, l’esercito e il KGB. Fu così che li screditammo. Lo dico chiaramente: sì, sono stato io a progettare tutto ciò che avvenne. Avevo lavorato a lungo all’Istituto Einstein, insieme al professor Gene Sharp, che allora si occupava di quella che veniva definita la difesa civile. In altri termini ci si occupava di guerra psicologica. Sì, io progettai il modo con cui porre in situazione difficile l’esercito russo, in una situazione così scomoda da costringere ogni ufficiale russo a vergognarsi. Fu guerra psicologica. In quel conflitto noi non avremmo potuto vincere con l’uso della forza. Questo lo avevamo molto chiaro. Per questo io feci in modo di trasferire la battaglia su un altro piano, quello del confronto psicologico. E vinsi”.

Spararono dai tetti vicini, con fucili da caccia, sulla folla inerme. Come hanno fatto in Libia, come hanno fatto in Egitto, come stanno facendo in Siria.

Adesso avete capito. Gene Sharp era là, in spirito. Fu lui che insegnò a Butkevicius come vincere, “trasferendo la lotta sul piano psicologico”. Peccato che, lungo la strada, morirono 22 persone innocenti. Ma, “di fronte alla storia”, cosa pretenderanno i nostri difensori dei diritti umani?

Il libro di Sharp va dunque letto sotto un’altra luce. Ed è, sotto questa luce, un’opera geniale. E’ stato scritto proprio per le giovani generazioni, che sono ormai totalmente prive di ogni memoria storica, già omologate dalle televisioni, ora intrappolate nei social network, che non hanno mai fatto politica, che sono digiune di ogni forma di organizzazione. Per questo è scritto con sconcertante semplicità, per essere compreso da un ragazzo o una ragazza della scuola media: per introdurli nella lotta politica e psicologica rese possibili dai tempi moderni, ma in modo tale che siano strumenti non in grado di capire ciò che fanno e per chi lavoreranno. E’ un manuale per organizzare la “sovversione dall’interno”, di tutti i paesi “altri” rispetto all’America e all’Europa; per armare, con la “non violenza” le quinte colonne che devono far cadere tutti i regimi che sono esterni al “consenso washingtoniano”>

 

Questi metodi sono stati dunque accuratamente preparati, e ripetutamente già sperimentati. Bisogna dire che, purtroppo, funzionano. E funzionano perché il grande pubblico non può neppure immaginare tanta astuzia e crudeltà. Funzionano perché i giornalisti sono troppo stupidi, o troppo corrotti per poter raccontare verità che non capiscono o che non vogliono capire e vedere. La signora Ashton non reagisce alla rivelazione di Urmas Paet. Non dice nulla.  Si presenterà ai giornalisti ripetendo che la responsabilità è tutta di Yanukovic. Il presidente Obama chiederà a Yanukovic di smetterla con la repressione. Fino a che Yanukovic cadrà. Come fece con Gheddafi, come si appresta a fare con Bashar Assad. Dove sta la differenza? Sta nel fatto che, fino al febbraio 2014, si erano abbattuti, con il manuale di Gene Sharp, i “dittatori violenti e sanguinari”, i regimi dei “paesi canaglia”. Adesso si fa di più e di meglio. Con gli stessi metodi si abbatte un governo e un presidente legittimamente eletti da un popolo. Quello ucraino temo sarà soltanto il primo di una serie. E milioni di cittadini dell’Occidente intero leggono – e credono – che l’aggressore è stato Vladimir Putin, il dittatore di turno da abbattere.

Sono i tempi in cui le rivoluzioni le fa il Potere.

Solidarietà al governatore della Sicilia Rosario Crocetta

 

anpi

 

L’ANPI PROVINCIALE CATANIA

Esprime Solidarietà al governatore della Sicilia Rosario Crocetta per l’atto d’intimidazione ,questo dimostra che ancora lunga è la strada per liberarci dalla mafia e dei suoi galoppini,siamo sicuri che il governatore continuerà nell’opera di rinnovamento.

Santina Sconza Presidente ANPI  Catania

ARTICOLO PUBBLICATO SU “LA SICILIA” DEL 9 MARZO 2014 SU MANIFESTAZIONE PER 8 MARZO

Cattura

Minacce al Governatore della Sicilia: una busta con dentro un proiettile indirizzata a Rosario Crocetta da: essepress

proiettile crocetta

Una busta contenente  un proiettile di grosso calibro per fucile indirizzata al presidente della Regione siciliana, Rosario Crocetta, è stata intercettata dal sistema di sicurezza di Palazzo d’Orleans sede della Presidenza della Regione.

La busta era fra la normale posta che giunge a Palazzo e viene, sistematicamente controllata dal posto di polizia che si trova dentro palazzo. Il sistema di controllo ha subito identificato la stranezza del contenuto della busta. Il governatore parla di assedio politico-mafioso nei suoi confronti.

La missiva, che non è giunta al piano nobile di Palazzo, è stata consegnata immediatamente consegnata agli investigatori per le verifiche tecnico scientifiche del caso.Crocetta attualmente non si trova nel palazzo di governo  ma è in viaggio per Catania e poi per Messina per partecipare a un incontro sulle zone franche urbane.

Si tratta, secondo quanto si apprende, di una tradizionale busta gialla formato “mezzo protocollo” recante al suo interno, il proiettile, un calibro 7,62 per fucile militare, visibilmente usurato.

“Subito un comitato anti-italicum, la riforma è incostituzionale”. Appello della Rete per la Costituzione da: micromega

 

 

 

La Rete per la Costituzione lancia un appello per chiedere al Parlamento “una nuova proposta di riforma elettorale rispettosa della Costituzione”. Se la legge voluta da Renzi e Berlusconi dovesse entrare in vigore si propone l’immediata costituzione di un Comitato Nazionale per valutare tutte le iniziative legali per impedire la sua applicazione.

di Rete per la Costituzione

L’urgenza con cui il nuovo Presidente del Consiglio, in omaggio a un accordo raggiunto in modo irrituale con il capo (interdetto dai pubblici uffici) di un partito di opposizione, intende imporre l’approvazione di una ‘riforma’ elettorale dichiarata da quasi tutti i giuristi radicalmente sbagliata e probabilmente inapplicabile, non può che provocare allarme e indignazione in quanti hanno sperato che la sentenza della Corte Costituzionale n.1 del 2014, cancellando gli aspetti incostituzionali della precedente legge Calderoli, avrebbe finalmente contribuito a restituire dignità e credibilità al futuro Parlamento.

Invece il sistema elettorale che risulterebbe dalla approvazione del testo in esame alla Camera, manterrebbe gli aspetti di incostituzionalità della legge Calderoli (liste bloccate e assenza della preferenza, premio di maggioranza, deformazione della rappresentanza), in alcuni casi aggravandoli (per esempio con il raddoppio della ‘soglia’ di accesso al Parlamento, che rischia di escludere milioni di elettori) e prevedendo un secondo turno impropriamente definito di ‘ballottaggio’, che attribuirebbe la maggioranza assoluta a una formazione che potrebbe aver ottenuto al primo turno consensi assolutamente minoritari.

In questo senso costituirebbe un mancato rispetto della sentenza della Consulta là dove richiama la doverosa prevalenza del principio della rappresentanza, su cui si fonda il sistema parlamentare, sulla pretesa di ‘stabilità’.

Stabilità che peraltro il nuovo sistema non garantirebbe, come affermato dalla generalità dei costituzionalisti, per l’alto rischio di maggioranze diversificate fra Camera e Senato, accentuato ulteriormente dalla scelta di applicare il nuovo procedimento solo alla Camera, con l’unico scopo di impedire le elezioni fino alla cancellazione del Senato, che richiede una riforma costituzionale.

La ‘riforma’ appare lontana dalla esigenza di trasparenza ed efficacia invocata dallo stesso PD nell’ultima campagna elettorale, piegata alla pretesa di imporre per legge un bipartitismo che non corrisponde alla realtà della nostra società e punta a cancellare il pluralismo delle culture e la vasta area del dissenso e della responsabilità etica e civile.

Da questo punto di vista appare inevitabile considerare questa riforma elettorale potenzialmente coerente al progetto della destra di ridimensionare il ruolo del Parlamento per una concentrazione del potere nel solo esecutivo, cui sembrano tendere anche le annunciate ‘riforme’ del Senato e della Giustizia.

Nel primo caso infatti non ci si limita al superamento del bicameralismo perfetto e alla riduzione dei costi, ma è esplicita la volontà di cancellare del tutto la seconda Camera elettiva per sostituirla con un non meglio precisato comitato di rappresentanti degli enti locali, mentre per quanto riguarda la Giustizia è inevitabile il sospetto di un nuovo tentativo di ridurre l’indipendenza e delegittimare la Magistratura, che ha costituito in questi anni la principale garanzia del rispetto della legalità costituzionale contro ogni forma di abuso.

E’ pertanto indispensabile fornire alla opinione pubblica una informazione completa sulle reali caratteristiche del nuovo sistema proposto e sollecitare una ampia espressione della volontà popolare che impedisca lo stravolgimento forse irreversibile del nostro sistema costituzionale.

Per questo, considerando insufficiente intervenire con emendamenti formali inevitabilmente limitati, formuliamo un appello al mondo della cultura giuridica e non solo, alle organizzazioni politiche e sindacali, all’associazionismo democratico affinché in tempi brevissimi venga unitariamente richiesta al Parlamento la formulazione di una nuova proposta di riforma rispettosa della Costituzione, che garantisca il potere degli elettori di scegliere i propri rappresentanti e non stravolga la volontà popolare.

Ci rivolgiamo infine ai Parlamentari affinché non si assumano di fronte ai propri elettori la responsabilità di approvare un testo che entrerebbe nella peggiore storia del nostro Paese a fianco della legge Acerbo, voluta da Mussolini per privare gli elettori del loro potere di decidere la politica nazionale.

A fronte della ossessiva pressione mediatica che tenta di presentare questa stagione di ‘riforme’ come una razionalizzazione indispensabile per garantire la ‘governabilità’, auspichiamo un impegno unitario e urgente di tutti coloro che intendono difendere la nostra democrazia e rifiutano di attribuire agli obiettivi di solidarietà, giustizia e uguaglianza su cui si fonda la nostra Costituzione la responsabilità di una crisi economica e sociale che trova origine invece nello strapotere di ambienti finanziari internazionali non sottoposti ad alcun vincolo democratico e di legalità.

A tutti chiediamo di impegnarsi, se il testo in discussione dovesse entrare in vigore, alla immediata costituzione di un Comitato Nazionale con l’obiettivo di esperire tutte le possibili iniziative legali per impedire la sua applicazione, sia ricorrendo alla autorità giudiziaria per rimettere alla Consulta la questione di legittimità costituzionale, che promuovendo un referendum abrogativo.

(6 marzo 2014)

I sondaggi premiano la lista Tsipras: “5 eurodeputati” Fonte: Il Fatto Quotidiano | Autore: Alessio Pisanò

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Gli ultimi sondaggi internazionali sull’esito delle elezioni europee di maggio premiano in Italia la lista new entry ‘L’altra Europa con Tsipras’: PollWatch2014, il sito internet lanciato dall’associazione indipendente Vote Watch, prevede addirittura cinque deputati per la lista civica di Barbara Spinelli, Marco Revelli e altri intellettuali italiani che appoggia alla presidenza della Commissione europea il greco 39enne Aléxis Tsípras. Salgono ancora, rispetto a due settimane fa, le quotazioni del Partito democratico (da 22 a 25 deputati) e del M5S (dal 18 a 19). Si registra anche l’impennata di Forza Italia (da 15 a 19) e la scomparsa definitiva di e Ncd. La Lega nord resta sull’orlo del baratro con quattro deputati (il minimo in caso di superamento della soglia nazionale del 4 per cento). Non pervenuti Fratelli d’Italia, Lista civica e Udc ben al di sotto di tale soglia.

La novità più di rilievo sempre essere proprio la lista degli intellettuali italiani che il 5 marzo a Roma ha presentato nome, simbolo e candidati. Tra loro i nomi di Barbara Spinelli, Curzio Maltese, Giuliana Sgrena, Moni Ovadia e Adriano Prosperi, anche se, come detto dalla stessa Spinelli, in alcuni casi si tratta di candidature simboliche. È scomparso in extremis il nome di Andrea Camilleri, uno dei primi a sottoscrivere l’appello della lista. All’ultimo congresso il partito di Nichi Vendola, Sinistra ecologia e libertà, ha deciso di appoggiare la lista Tsipras. Tre le priorità politiche: porre fine all’austerity e alla crisi, avviare la trasformazione ecologica della produzione e riformare le politiche europee sull’immigrazione.

Guida della lista degli intellettuali è il 39enne greco Aléxis Tsípras, leader del partito della sinistra greca Syriza e candidato simbolicamente dal partito europeo della Sinistra unita alla presidenza della Commissione europea. Una candidatura che fa del concetto “no austerity” e “no Troika” le proprie parole d’ordine. Ma se la possibilità che Tsípras vada alla guida dell’esecutivo comunitario è praticamente impossibile, è molto probabile la sua elezione a premier in Grecia alle prossime elezioni visto che Syriza è abbondantemente sopra il 20 per cento a fronte di un tracollo dei socialisti del Pasok.

A questo punto rimane da chiedersi dove andranno a sedersi nel Parlamento europeo i deputati italiani eletti nelle file della lista Tsipras. Secondo fonti del gruppo politico della Sinistra unita all’Europarlamento (Gue), il leader greco avrebbe chiesto alle liste non greche che appoggiano la sua candidatura di confluire, non obbligatoriamente però, nella Gue stessa. Tant’è che agli ipotetici cinque deputati eletti secondo PollWatch potrebbe essere lasciata carta bianca.

In ogni caso lo schieramento della Gue al Parlamento europeo è dato in aumento: ben 67 deputati rispetto agli attuali 35, quasi il doppio. Questo spingerebbe notevolmente a sinistra gli equilibri di un Parlamento oggi a maggioranza di centrodestra, se non fosse per l’aumento della componente euroscettica composta da formazioni politiche di estrema destra. Resta forte, infatti, la quotazione del futuro gruppo euroscettico guidato da Marine Le Pen (francese) e Geert Wilders (olandese) che contrariamente all’estrema sinistra, si pone come obiettivo quello di eliminare l’Unione europea e la sua moneta unica.

E proprio sulla visione dell’Euro si gioca il futuro della seconda formazione politica italiana data in aumento (19 deputati): il Movimento 5 Stelle. Il referendum sulla moneta unica, chiesto a gran voce da Beppe Grillo e da parte della base del M5S, guiderà come un filo conduttore le alleanze in Europa, sulle quali oggi vige il più totale mistero. Non sapendo dove andare a parare, PollWatch attribuisce i 19 pentastellati al gruppo dei Non iscritti, un’accozzaglia di estremisti di destra, espulsi e fuoriusciti vari che passerebbe da 32 rappresentanti a 92 al lordo dei 20 deputati francesi del Front National, dei 5 dell’olandese Partij voor de Vrijheid e degli altri che formeranno il gruppone euroscettico uscendo così dal limbo dei non iscritti.

Il Laboratorio Messina: restituire i beni comuni, riformare le democrazie locali Autore: gianfranco ferraro da: controlaCRISI.ORG

 

Riaprire la città ai suoi cittadini, rimettere davvero in comune il suo patrimonio materiale e immateriale, ridefinire le regole della partecipazione democratica alle scelte amministrative. Sono questi gli obiettivi con cui la Giunta del sindaco Accorinti ha istituito il 30 gennaio scorso il “Laboratorio Messina per i beni comuni e le istituzioni partecipate”, quella che potremmo definire la via “messinese” ai beni comuni. 

A concretizzarsi è in questo modo, e proprio il giorno prima della sentenza con cui il TAR di Catania ha rigettato il ricorso presentato contro Accorinti, determinando in questo modo l’insediamento definitivo della Giunta, uno dei punti caratterizzanti del programma elettorale che ha portato la lista civica “Cambiamo Messina dal Basso” al governo della città dello Stretto.

Non si trattava, nei lunghi mesi della campagna elettorale, così come al momento della insperata vittoria, e non si tratta neppure adesso, di sostituire semplicemente un ceto politico “cattivo”, come quello che ha letteralmente depredato la città portandola sull’orlo del collasso idrogeologico e finanziario, con un ceto politico “pulito”. La diagnosi sullo stato della democrazia locale, diagnosi comune, pur con le diverse sensibilità, a tutto il movimento No-Ponte, che è stato poi il vero terreno di coltura della lista civica messinese, era già un anno fa molto precisa. Alla presentazione messinese di un importante numero monografico della rivista “Il Ponte” dedicato ai “beni comuni” (febbraio-marzo 2013), curato da Mario Pezzella, Guido Signorino, oggi assessore al Bilancio e al Patrimonio, Gino Sturniolo, allora portavoce della Rete No-Ponte e oggi consigliere comunale, e Luciano Marabello, oggi tra i coordinatori del movimento, concordavano su un elemento critico che attraversava tutti i contributi, e in particolare quelli di Ugo Mattei, di Paolo Maddalena, di Lanfranco Caminiti e dello stesso Pezzella: non è possibile parlare di beni comuni se questo tema non viene legato a quello dello svuotamento di senso della democrazia rappresentativa.

Recuperare, restituire a chi la vive e la traversa pezzi di città sottratti alla collettività da una gestione privatistica del pubblico e da una gestione della proprietà dimèntica del proprio carattere sociale indicato perentoriamente dalla Costituzione, come più volte ha chiarito in questi mesi da Paolo Maddalena e da Salvatore Settis, significa anche e innanzitutto riprendere in mano la nozione di gestione democratica del patrimonio comune. In questo senso, l’estensione delle forme di uso civico attraverso regolamenti concordati con le assemblee di cittadini che gestiscono spazi, orti e luoghi comuni, e la verifica dei dispositivi di azione popolare degli statuti comunali, secondo quando indicato del resto dal Trattato di Lisbona, non sono cose separate.

L’azione popolare, come atto di controcondotta e di resistenza al saccheggio del territorio e all’abuso dell’esercizio della proprietà, costituisce un atto più che legittimo, costituzionalmente garantito. Non è un caso, d’altra parte, che la crisi delle forme di rappresentanza democratica abbia camminato di pari passo, in questi anni, con il ribaltamento sostanziale del rapporto tra difesa dei beni collettivi e difesa di una proprietà svincolata da qualunque correlazione con la società in cui essa è collocata. Abbiamo così da una parte fabbriche, teatri abbandonati – sono i casi del “Municipio dei beni comuni” così come del “Rossi” di Pisa e del “Pinelli” di Messina, o ancora del “Valle” di Roma, del “Marinoni” di Venezia, dell’ex-asilo “Filangeri” di Napoli, del “Coppola” di Catania e proprio nelle scorse settimane del “Nuovo Teatro di Teramo” – e spazi che gli enti locali non possono più curare, finendo quindi nell’elenco dei beni da dismettere per poi rimanere chiusi a marcire per chissà quanti anni, o in mani di proprietari pronti a costruirci sopra castelli speculativi. E dall’altra Enti locali nella morsa di un patto di stabilità e di spirali debitorie il cui costo è puntualmente scaricato sulla collettività.

Una collettività il cui masochismo dovrebbe arrivare al punto da subire senza fiatare, senza rispondere. Senza reagire. Sarebbe interessante condurre a questo proposito uno studio antropologico – e gli storici del futuro se ne incaricheranno senz’altro – sull’immagine amorfa e piegata della società posseduta da pezzi non indifferenti delle oligarchie contemporanee. Si tratta, ovviamente, di una immagine che cozza contro lo spirito stesso della Repubblica nata con la Resistenza: e non è un caso neanche questo che sia stato addirittura uno degli organismi per principio più “conservatori” dello Stato, la Corte Costituzionale, ad aver svolto in realtà, con cruciali sentenze del quadriennio 2007-2011 un ruolo di argine, per non dire di vera e propria supplenza politica, nei confronti dello svuotamento dei dispositivi di tutela democratica del territorio e dei beni collettivi.

Così come dicevano i vecchi comandanti partigiani, non si possono lasciare impunite delle forme di sopruso, a meno di non considerare con indifferenza, per lo meno in potenza, la possibilità di consegnarsi in un prossimo futuro a nuove forme di dittature. Le forme di occupazione, o piuttosto – chiamiamole per quello che effettivamente sono – di restituzione alla collettività di case, cinema, teatri, caserme, orti e spazi da parte di assemblee di cittadini, così come la fiumana che ha accompagnato Accorinti a insediarsi al Municipio di Messina sono delle forme di azione uguale e contraria ai soprusi commessi in questi anni contro le libere espressioni della sovranità popolare: «è davanti a questa borghesia imprenditoriale generalmente incapace – scrive Salvatore Settis in Azione popolare – che lo Stato arretra in questi anni, mentre un coro di voci bianche, a destra e a sinistra, va ripetendo che per salvare i pubblici servizi bisogna privatizzarli: cioè affidarli a chi ha mostrato di non saper gestire nemmeno se stesso». E allora, di fronte alla pervicace idiozia di una teologia economica del particulare non rimane altro che indignarsi. Meglio ancora: «non solo di dare voce all’indignazione, ma di darle spazio». È esattamente a questo punto che ci viene in aiuto la nozione giuridica di “bene comune”, nozione che uno storico del diritto romano come Paolo Maddalena rintraccia nella storia lunga delle strutture giuridiche occidentali, mostrando come sia proprio alla luce di essa che il Codice Civile oggi nelle nostre mani debba essere riscritto, ed adeguato al dettame costituzionale «”Bene comune” – è ancora Settis che scrive – vuol dire coltivare una visione lungimirante, vuol dire investire sul futuro, vuol dire preoccuparsi della comunità di cittadini, vuol dire anteporre l’interesse a lungo termine di tutti all’immediato profitto dei pochi…». Vuol dire forse ripensare, ancora una volta, al senso di una responsabilità condivisa, al cuore stesso, in fondo della politica. Al principio speranza. E torniamo, con questo, a Messina.

Al centro della delibera che istituisce il “Laboratorio” vi è infatti, innanzitutto, la definizione di un metodo costituente: un dispositivo democratico attraverso il quale tutti gli abitanti – quindi non solo i cittadini italiani e i migranti residenti – potranno ripensare e riscrivere insieme alla Giunta l’ampliamento dei metodi e degli stessi istituti, previsti dallo Statuto comunale in vigore, con cui si esprime la partecipazione democratica dei cittadini alle scelte dell’amministrazione, oltre che le forme attraverso cui la città potrà riappropriarsi del proprio patrimonio. Costituito da tre organi – un forum della cittadinanza, suo vero organo sovrano, un tavolo tecnico di esperti, il primo dei quali è proprio Paolo Maddalena, e un nucleo di coordinamento affidato all’Assessorato all’autogestione dei beni comuni – il Laboratorio sarà inoltre il motore di quelle iniziative pubbliche che l’amministrazione intende avviare insieme ad esperienze amministrative vicine a queste tematiche (la Rete delle città solidali innanzitutto, e quindi le amministrazioni di Ragusa, di Palermo, di Napoli e di Milano, etc.), per riscrivere a livello nazionale, e non più solo locale, un effettivo federalismo costituzionale, poggiato sull’autonomia democratica dei Comuni e delle istituzioni di prossimità.

Obiettivo del Laboratorio è dunque innanzitutto quello di dare effettiva espressione al grande bisogno di partecipazione democratica che è risultato evidente il 24 giugno 2013, quando una folla di messinesi ha gioiosamente ripreso possesso di un palazzo comunale per troppi decenni avvertito come sede di un potere lontano dalle urgenze quotidiane della popolazione.

Ed è dunque la città, la forma di vita urbana che l’esperienza messinese intende mettere al centro del discorso pubblico. Non si tratta, naturalmente di pensare a una nuova “stagione dei sindaci”, ma ad una ripresa sostanziale di una idea federale della sovranità, in cui a contare siano le democrazie locali e le reti di relazioni che esse costruiscono dentro i confini dello Stato, ma anche in rapporto diretto con realtà estere che hanno simili problemi e simili potenzialità di sviluppo economico. Un federalismo dunque aperto, libero dall’attivazione di un nemico di turno, e pronto ad accogliere forme di cittadinanza attiva costruite a partire dalle pratiche di “uso” condiviso dei luoghi e non a partire dalle carte d’identità. In quanto organo consultivo della Giunta, il Laboratorio messinese costituisce in realtà un esperimento politico che, seppur nato sul modello napoletano ideato da Carlo Lucarelli, intende proporsi come motore propulsivo di nuovi “patti” giuridicamente consolidati. Le proposte del Laboratorio sono infatti indirizzate ad essere implementate, previa approvazione del Consiglio comunale, all’interno dello Statuto del Comune.

Se è infatti alle istituzioni comunali che i cittadini chiedono di farsi garanti della propria sovranità costituzionale e del proprio diritto ad una esistenza dignitosa, una condivisione democratica delle scelte amministrative non è più un’opzione tra le altre, ma un preciso obiettivo legittimato dalla Costituzione italiana. Questo è oggi il nodo di ogni amministrazione locale: accompagnare o meno, fornendo strumenti adeguati, il bisogno sociale di riappropriazione degli spazi di espressione politica. Si può decidere di fare diversamente, limitandosi a rispettare lo status quo, che ha finora coinciso con la deriva del diritto costituzionale, oppure si possono sperimentare, con coraggio, nuovi percorsi. E le maglie della Costituzione non sono così strette come si immagina. Al contrario.

A fronte dunque di una progressiva espropriazione delle democrazie locali, la strada che la Giunta messinese vuole imboccare con l’istituzione del Laboratorio è esattamente uguale e contraria: è quella di aprire alla città addirittura la discussione intorno alle proprie stesse forme istituzionali. Per quanto nella forma di un organo consultivo della stessa Giunta – una sorta, diciamo così, di “esperto collettivo” del Sindaco – il Laboratorio entra in realtà, con l’obbligo degli assessori ai Beni Comuni e al Patrimonio di recepire le sue proposte, nel cuore stesso dell’esecutivo locale. Senza estromettere della loro funzione i luoghi della rappresentanza istituzionale – è il Consiglio Comunale che ha l’ultima parola sulle varie istanze – tuttavia il dispositivo giuridico messo in atto a Messina permette di legare direttamente all’azione esecutiva l’azione popolare e la sua espressione. In più, l’azione popolare ha la possibilità di strutturarsi oggi in forma di proposta costituente.

È un inizio, certamente. L’allargamento delle forme istituzionali di espressione democratica, così come la definizione delle linee per l’attuazione dell’autogestione, limitata o meno nel tempo, di parti del patrimonio pubblico o privato abbandonato, passa dalla grande porta della Costituzione, ma passa anche, in Sicilia, e sarà un dato da tenere sempre in considerazione, per quella forma di autonomia mai completamente realizzata, se escludiamo le forme di conservazione dei rapporti clientelari col territorio da parte di uno dei più incapaci ceti dirigenti che abbiamo mai governato l’Isola. È dunque in questo doppio fronte, siciliano e italiano, regionale e nazionale, che l’esperimento messinese supera il suo senso solo locale. Sia che esso riesca, sia che esso sia destinato a soccombere, le eventuali conseguenze non riguarderanno solo i messinesi. Per questo Messina non vuole chiudersi, rimanere confinata nella falce del proprio porto, ma aprirsi invece alle “repubbliche dei beni comuni” che con fatica immensa vengono ogni giorno liberate e difese in tutto il Paese.

Ricordo quel passaggio della lunga lettera di solidarietà scritta da Accorinti al sindaco di Pisa Filippeschi in occasione del recente sgombero dell’ex-Colorificio, in cui veniva sottolineata l’importanza di inaugurare «una “terza via” tra privato e pubblico, così necessaria oggi alla società italiana e alle nostre città. Da Pisa a Messina, da Roma a Napoli, a Venezia, – proseguiva Accorinti – interi spazi abbandonati da Enti Pubblici o da privati senza scrupoli sono stati recuperati e aperti nuovamente alle nostre comunità urbane dalla libera iniziativa e da settori di cittadinanza attiva: creando centri di aggregazione e di socialità laddove vigeva la sporcizia e l’indifferenza, i cittadini hanno riscoperto modi nuovi di stare insieme e di riscoprire il gusto di una democrazia non semplicemente formale, ma davvero concreta, partecipata».

Facciamo ancora un passo indietro, l’ultimo. Il Laboratorio costituisce l’avvio di un nuovo percorso per Messina, un percorso in cui la città ripenserà se stessa. Un percorso che essa vuole intraprendere, a partire dalla primavera, coinvolgendo tutte le amministrazioni locali e le realtà del Paese – le “repubbliche dei beni comuni” appunto – che intendono dialogare nello stesso orizzonte. Ma è un percorso che, costruito con la pazienza dovuta alla buona politica, non sarebbe stato pensabile senza i continui gesti di rottura – un vero e proprio masso nello stagno simbolico dell’indifferenza e del quieto vivere di una città – operati dal “Teatro Pinelli”. Era ancora la metà di dicembre 2012 e poco o nulla, se escludiamo il risultato deflagrante del movimento 5 Stelle alle elezioni regionali, faceva presagire di quanto sarebbe accaduto dopo, quando un teatro storico della città veniva riaperto al pubblico dopo anni di silenzio.

Ora, a Messina come a Pisa, come nel resto di un Paese contratto sulle proprie paure, si può scegliere se lasciare le città al loro silenzio, e, di fatto, alla loro morte lenta. Oppure se fare diversamente, sollevando i veli che troppe ipocrisie hanno coperto, presso tutte le parti politiche. Si può scegliere sempre: se fare politica, e dare voce a quello che accade nella società, oppure se essere a propria volta scudieri del nulla che avanza.

Movimenti e istituzioni rappresentative hanno evidentemente ruoli diversi, ma è nell’espressione dei bisogni sociali, nel loro ascolto, che essi possono incontrarsi. Tra pubblico e privato c’è oggi la possibilità di una terza via: quella dell’uso in comune. Praticare o no questa via è però un aut-aut che, qualunque sia il ruolo occupato nella società e nelle istituzioni repubblicane, non permette terze posizioni.

Obiettivi del Laboratorio

1) definizione di specifiche proposte rivolte alla Giunta e al Consiglio Comunale in materia di realizzazione e di riforma di istituzioni partecipative del Comune di Messina per la configurazione di un percorso di democrazia partecipativa e diretta relativo alla determinazione e all’attuazione delle politiche di indirizzo a livello locale;

2) mappatura e pubblicizzazione del patrimonio immobiliare, agricolo, etc. del Comune di Messina, ivi compresi i diritti d’uso civico, etc., in accordo con gli indirizzi espressi dalla Commissione consiliare competente sul Patrimonio del Comune;

3) proposte per una ridefinizione della regolamentazione degli “usi civici” del Comune di Messina, con particolare riguardo all’implementazione di parti del patrimonio comunale in disuso, al fine di restituire alla città parti del proprio patrimonio abbandonate o attualmente in cattivo stato di conservazione;

4) definizione di una proposta di Giunta riguardante la progettualità del Comune di Messina relativa a parti del patrimonio immobiliare di Enti e Privati, con la possibilità di sperimentazione d’uso attraverso progetti di riuso e riprogettazione a titolo non oneroso e a tempo determinato;

*Gianfranco Ferraro fa parte del Laboratorio Messina per i beni comuni e le istituzioni partecipate

Crisi, Renzi-Padoan vagano nel buio ma non si deve sapere. Intervento di Roberto Romano Fonte: il manifesto | Autore: roberto romano

l governo Renzi sta lavo­rando per costruire i primi prov­ve­di­menti a favore di lavoro, scuola e buon fun­zio­na­mento della mac­china pub­blica. Sul tap­peto ci sono pro­blemi enormi e di strut­tura. Se guar­diamo la situa­zione del paese pos­siamo dire solo una cosa: è pro­vato. La più lunga e pro­fonda crisi del capi­ta­li­smo non è finita.Non dob­biamo mai dimen­ti­care che l’Italia ha perso 150 mld di Pil tra il 2004 e il 2013, il 20% di pro­du­zione indu­striale, cioè 1/5 del pro­prio tes­suto pro­dut­tivo, alzando il tasso di disoc­cu­pa­zione reale al 22% (6 mln di per­sone che in modo o nell’altro lavorerebbero).

Nono­stante l’inefficacia di alcune ricette, che hanno pau­pe­riz­zato troppi gio­vani e fami­glie, le «cure» sono sem­pre le stesse. Per­sino le timide idee di poli­tica indu­striale della prima bozza del Jobs act , sono scom­parse. Molto più comodo rifu­giarsi nel ben oleato retag­gio di tasse, buro­cra­zia e riforme isti­tu­zio­nali. Alla fine il piano shock del governo Renzi non è altro che la ripro­po­si­zione delle solite poli­ti­che eco­no­mi­che dal lato dell’offerta.
Sono tre le pro­po­ste in campo: la ridu­zione del cuneo fiscale per un ammon­tare di 10 mld di euro da desti­nare al lavoro o alle imprese; 2 mld per l’edilizia sco­la­stica; aumento delle risorse finan­ziare per retro­ce­dere i debiti pre­gressi della pub­blica ammi­ni­stra­zione ai privati.

 

Per il lavoro siamo alle solite: affian­care agli attuali con­tratti il nuovo con­tratto di inse­ri­mento a tutele cre­scenti, che per la prima fase con­gela l’articolo 18, sosti­tuendo la rein­te­gra, in caso di licen­zia­mento ingiu­sti­fi­cato, con il paga­mento di un inden­nizzo. Rimane il sospetto che i tec­nici della pre­si­denza del con­si­glio non abbiano ancora preso pos­sesso della mac­china pub­blica. Fac­ciamo una comu­ni­ca­zione di ser­vi­zio: l’articolo 18 è stato pro­fon­da­mente svuo­tato dalla legge For­nero. Sugli ammor­tiz­za­tori sociali, lo schema che sarà pro­po­sto mer­co­ledì dovrebbe avere le seguenti carat­te­ri­sti­che: con­ferma della cassa inte­gra­zione ordi­na­ria e straor­di­na­ria, uti­lizzo «vir­tuoso» della cassa in deroga, intro­du­zione di una inden­nità di disoc­cu­pa­zione «uni­ver­sale» di due anni. Dif­fi­date quando viene uti­liz­zato il ter­mine uni­ver­sa­li­stico — esteso alla pla­tea dei cosid­detti para­su­bor­di­nati e legato alle poli­ti­che attive — per la sem­plice e banale con­sta­ta­zione che lo stato sociale ita­liano è lavo­ri­stico per il lavoro e uni­ver­sa­li­stico per i ser­vizi pub­blici (scuola e sanità). Anche chi uti­lizza la cassa in deroga bene­fi­cerà dello stru­mento. Infatti, la cassa in deroga è desti­nata a scom­pa­rire prima della sua sca­denza natu­rale pre­vi­sta dalla riforma For­nero nel 2015. Il nuovo ammor­tiz­za­tore ammon­te­rebbe a circa 10 mld, la somma di Aspi e mini Aspi (7,5 mld) e cassa in deroga (2,5 mld).

 

Se guar­diamo i prov­ve­di­menti con atten­zione è dif­fi­cile tro­vare qual­cosa di inno­va­tivo e che possa mini­mante con­di­zio­nare il per­corso di cre­scita del paese. Non sarà la ridu­zione delle tasse, Irap o Irpef, a rilan­ciare la domanda di lavoro. Come direbbe Key­nes, non potete aspet­tarvi dei piani di rilan­cio degli inve­sti­menti da parte delle imprese se le aspet­ta­tive sono nega­tive. Alla fine gli inve­sti­menti sono diret­ta­mente pro­por­zio­nali alle aspet­ta­tive di cre­scita del sistema eco­no­mico, non all’aspettativa di una ridu­zione delle tasse. Inol­tre, la minore com­pe­ti­ti­vità delle imprese ita­liane non è attri­bui­bile al costo del lavoro, tra i più bassi a livello di paesi Ocse, piut­to­sto alla bassa pro­dut­ti­vità degli inve­sti­menti delle imprese pri­vate. Pochi lo sanno, ma il rap­porto investimenti/Pil dell’Italia è uguale alla media dei paesi euro­pei (19,4%), ma l’output è pari a 1/5. Forse abbiamo ben altri problemi.

 

Solo per inciso, ricordo che i dipen­denti pub­blici non hanno il rin­novo del con­tratto da tre anni, con una per­dita secca del 10%. Se pro­prio vogliamo rilan­ciare i con­sumi pri­vati, il datore di lavoro Pub­blica Ammi­ni­stra­zione potrebbe almeno aggior­nare le retri­bu­zioni del pub­blico impiego che sono appunto fermi da almeno tre anni.

 

For­tu­na­ta­mente la Com­mis­sione Euro­pea ha respinto l’ipotesi di uti­liz­zare una parte dei fondi strut­tu­rali (32 mld di euro) per ridurre il cuneo fiscale. In realtà la pro­po­sta del governo è di uti­liz­zare tran­si­to­ria­mente le risorse pre­gresse dei fondi strut­tu­rali del 2007–13 non uti­liz­zate, e suc­ces­si­va­mente inte­grate dal ban­co­mat spen­ding review. In que­sto caso è neces­sa­ria una domanda al Governo: ma la spen­ding review quante ini­zia­tive dovrebbe sostenere?

 

La Com­mis­sione ha rispo­sto che i fondi euro­pei ser­vono a creare nuovo lavoro, non a ridurre le tasse. Dif­fi­cile cre­derlo, ma la Com­mis­sione è più socia­li­sta del governo Renzi. Non solo, la Com­mis­sione ha ricor­dato che i fondi euro­pei ser­vono a raf­for­zare l’innovazione tec­no­lo­gica e la com­pe­ti­ti­vità di strut­tura delle imprese.
Non ho la più pal­lida idea di cosa il governo sug­ge­rirà mer­co­ledì. Le indi­scre­zioni sono quello che sono: indi­scre­zioni. Il ven­ta­glio delle pro­po­ste è troppo ampio per essere cre­di­bili, effi­cace e qua­li­fi­cato. Molto più utile sarebbe stato quello di uti­liz­zare le risorse dei fondi strut­tu­rali euro­pei per indu­stria­liz­zare la ricerca e svi­luppo pub­blica, legan­dola all’assunzione di gio­vani lau­reati. Que­sta misura la Com­mis­sione l’avrebbe accet­tata. In ambito euro­peo si poteva chie­dere e otte­nere di più. Per esem­pio, il seme­stre euro­peo ita­liano potrebbe pro­porre uno sfo­ra­mento una tan­tum del vin­colo del 3% di bilan­cio di un punto per­cen­tuale per tutti i paesi in ragione della pro­fon­dità della crisi, finan­ziato con euro­bond acqui­stati dalla Bce, che sareb­bero stati nel tempo ste­ri­liz­zati. Il vin­colo è quello di Europa 2020 e quello del pac­chetto (green eco­nomy) 20–20-20. Una sfida con ben altro spessore.