Nino Di Matteo non riesce a trattenere la commozione. Il tritolo per lui è già a Palermo da: journalsicilia

di Katya Maugeri

Taormina – “Io dissi che lo faccio finire peggio del giudice Falcone, perché questo Di Matteo non se ne va, ci hanno chiesto di rinforzare, gli hanno rinforzato la scorta. E allora se fosse possibile a ucciderlo, un’esecuzione come eravamo a quel tempo a Palermo”. Terribili, agghiaccianti, sono le dichiarazioni che il boss corleonese Totò Riina nel cortile del carcere milanese di Opera, rivolte al suo compagno d’ora d’aria Alberto Lorusso, mentre le telecamere della Dia di Palermo intercettavano ogni parola. Lo vuole morto, senza giri di parole.

A dare conferma di quanto visto e sentito, sono le dichiarazioni dell’ex boss di Borgo Vecchio, Francesco Chiarello: “Il tritolo si trova già a Palermo, è stato trasferito in un nascondiglio sicuro”, dichiara il collaboratore di giustizia. Ma la conferma non arriva soltanto da Chiarello. Sempre l’anno scorso, infatti, anche il collaboratore di Barcellona Pozzo di Gotto, Carmelo D’Amico, parlò di centocinquanta chili di esplosivo, senza indicarne la sistemazione, perché forse, l’unico a sapere dove sia nascosto, è soltanto Vincenzo Graziano, colui che lo acquistò. Lo stesso che, al momento del suo arresto, burlandosi delle forze fece una rivelazione piuttosto inquietante: dimatteo1“L’esplosivo per Di Matteo dovete cercarlo nei piani alti” I piani alti, probabilmente, rappresentano i dirigenti statali.

“Ho pudore a parlarne” lo dichiara commosso Nino Di Matteo, ieri a Taormina, durante l’incontro all’interno della kermesse letteraria Taobuk, la giornalista Evira Terranova – moderatrice dell’incontro – informa il pubblico di questa dichiarazione da parte del pentito Chiarello, rilegge quest’ultima notizia, “Il tritolo già a Palermo per Di Matteo”, lui con molta umiltà afferma che ultimamente la frase di Falcone fa eco nella sua mente “Il coraggio non è non avere paura”, piuttosto non farsi piegare, andare avanti. “Ho pudore a parlarne, purtroppo ho una brutta sensazione, ma amo il mio lavoro e lo vivo con enorme passione” lo ripete più volte commosso, visivamente consapevole di chi sono i suoi nemici. Perché lui stesso, durante l’incontro dichiara che è necessario parlare di mafia, di corruzione, che servono dibattiti costruttivi per abbattere i muri del silenzio, dell’indifferenza e dell’omertà, l’arma che ha ucciso più della mafia, poiché siamo di fronte a un’organizzazione che ha ucciso come nessun’altra prima, ha agito e compiuto in maniera atroce, eliminando ogni ostacolo. “Si parla poco, si riflette poco sul concetto di metodo mafioso”, parla di “obbligo morale della memoria e della conoscenza” perché Cosa nostra non è stata sconfitta, ha solo cambiato faccia e adesso siede nei salotti buoni.

Presente all’incontro il giornalista Salvo Palazzolo, coautore del libro “Collusi – perché politici, uomini delle istituzioni e manager continuano a trattare con la mafia”, un libro lucido, diretto che dà la possibilità di raccontare ciò che non si racconta. “Abbiamo bisogno dell’Antimafia dei fatti” dichiara Palazzolo, “Il mafioso è chi imbastisce un progetto, un’idea, un programma dettagliato, da seguire”, “librodimatteoLo Stato ci dovrebbe mettere in condizioni adeguate per lottare la mafia, il salto di qualità che occorre fare sarebbe un aiuto da parte dei politici, ma nei fatti non vedo nessuna volontà, non avvertiamo il sostegno della politica”, lo dichiara un Di Matteo deluso. “Molti politici definiscono noi magistrati come dei politicizzati, dei protagonisti egocentrici, sono gli stessi politici che adesso parlano bene di Falcone e Borsellino, quando ai tempi lo dicevano di loro”.

Alla fine dell’incontro sono stati ricordati Pippo Fava, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e tutte le vittime che hanno creduto nella loro missione, non martiri, ma uomini lasciati da soli, ai qual hanno rubato le ultime parole, “l’agenda rossa, gli archivi, ci hanno tolto le loro ultime parole, le parole della speranza”, e adesso abbiamo bisogno di fatti concreti affinché quel tritolo non distrugga altre parole, la missione di chi non molla e cammina a testa alta con dignità, nutrendo la speranza di debellare questa piaga sociale.

K.M.

“Questa è casa mia”. Fiandaca sfratta Di Matteo dall’ateneo da: il fattoquotidiano.it

di-matteo-20150718-barbagalloda Il Fatto Quotidiano – 29 aprile 2015
“Dogmatici e poco critici”. E il tradizionale convegno di ANTIMAFIADuemila su Falcone salta
I relatori? “Dogmatici e poco critici, tranne Morosini”’. Il tema del convegno Ibridi connubi tra mafia e pezzi dello Stato? “È un concetto indefinito, quand’è che Falcone pronunciò quella frase?”. E alla fine la richiesta di scuse per le frasi, ritenute ingiuriose, del pm Nino Di Matteo, che alla scorsa edizione del convegno, in quella stessa aula magna, lo aveva bollato come “negazionista e poi giustificazionista” della trattativa stato mafia: “Questa (la facoltà, ndr) è casa  mia – ha urlato Giovanni Fiandaca, il penalista  del Pd trombato alle europee, in faccia ad un allibito redattore diAntimafia Duemila – e dopo 15 anni non avrete più carta bianca”. Risultato? Una vera e propria censura preventiva di una commemorazione di Giovanni Falcone: per la prima volta dopo 15 anni il tradizionale convegno organizzato dalla rivista antimafia non verrà ospitato dalla facoltà di Giurisprudenza di Palermo, la stessa in cui Falcone si laureò.

“Un’entrata a gamba tesa del professor Giovanni Fiandaca”, delegato del rettore Roberto Lagalla “per le attività a sostegno dello sviluppo delle politiche a sostegno della legalità e della trasparenza” scrive il direttore Giorgio Bongiovanni nell’editoriale in cui spiega il gran rifiuto, chiarendo che il titolo del convegno è tratto proprio dall’intervento di Falcone al convegno dal titolo “La legislazione premiale” svolto nell’aprile del 1986 a Courmayeur. Al professor Fiandaca non è piaciuto il tema ma neanche i relatori, i magistrati Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita e la scrittrice Stefania Limiti moderati dal nostro collega Giuseppe Lo Bianco, tutti “dogmatici e poco critici”.

C’è il sospetto che sul tema della trattativa al professore non piaccia neanche il contraddittorio: un anno fa le Agende Rosse gli proposero un dibattito a due voci con il direttore di questo giornale, Marco Travaglio, ma il penalista rifiutò sostenendo che “un uomo di legge non si confrontava con un giornalista”.
A dicembre gli proposero come avversario dialettico l’avvocato Fabio Repici, ad un dibattito alla presentazione del film di Sabina Guzzanti “la trattativa”. Ma Fiandaca rispose: “Non mi interessa”. “E oggi – conclude il direttore Bongiovanni – resta la profonda  amarezza nel  constatare l’arroganza di chi è abituato a gestire il potere a suo uso e consumo, a discapito degli studenti che in quella scuola studiano”.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano del 29 aprile 2015

Foto di copertina: il pm Nino Di Matteo relatore alla conferenza “Trattative e depistaggi” organizzata presso l’Università di Giurisprudenza di Palermo il 18 luglio 2012 (© Giorgio Barbagallo)

Senza parole da:antimafia duemila

csm-effectBocciata dal Csm la domanda di Nino Di Matteo alla Dna
di Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo – 3 marzo 2015
Probabilmente abbiamo già scritto tutto. E forse potrebbe sembrare estenuante seguitare a rivolgersi ai “massimi rappresentanti” delle istituzioni per continuare ad appellarsi su questioni ovvie. Ma, si sa, nell’essere umano la rassegnazione rappresenta l’ultima spiaggia. E forse è a questa che non si vuole arrivare. La nuova bocciatura del Csm nei confronti della candidatura del pm Nino Di Matteo alla Direzione Nazionale Antimafia si commenta da sola. Rabbia, amarezza e disillusione sono solo alcuni dei sentimenti che albergano nei cittadini onesti che vedevano nella nomina di Di Matteo una risposta chiara dello Stato nei confronti del magistrato più esposto d’Italia. Più volte abbiamo definito la stragrande maggioranza dei componenti del Csm “sepolcri imbiancati” veicolati da logiche politiche lontane anni luce dai principi di giustizia. Recentemente ci siamo rivolti al neo Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per chiedere di vigilare sull’Organo di autogoverno delle toghe, presieduto da lui stesso, auspicando un segnale di vicinanza verso chi è stato condannato a morte da Cosa Nostra. Che altro dovremmo aggiungere? Che con questa decisione si dimostra plasticamente che lo Stato non vuole essere vicino a Nino Di Matteo? Che in questo modo lo si espone ulteriormente al rischio di un attentato?

“Si muore quando si è lasciati soli”, diceva Giovanni Falcone, e quella solitudine non veniva dalla società civile, ma dalle istituzioni. E tra provvedimenti disciplinari aperti, l’emissione di circolari particolari e mancate nomine in questi anni il Consiglio superiore della magistratura si è dato un gran da fare, così come accadeva ai tempi di Falcone e Borsellino. Poco importa se appena l’anno scorso, in poco più di venti giorni, sono state raccolte oltre 91.000 firme per chiedere al Csm di nominare Procuratore Aggiunto di Palermo lo stesso Di Matteo. Nel frattempo l’allarme attorno al magistrato si è fatto sempre più alto e alla presenza a Palermo di oltre centocinquanta chili di tritolo, così come raccontato dal pentito Vito Galatolo, si aggiunge il rischio di un attentato per mezzo di un fucile di precisione. Un elemento che non può essere affatto trascurato. E se con quella petizione, promossa da Salvatore Borsellino e dalla nostra redazione, si chiedeva di dare un segnale a sostegno delle indagini condotte dal magistrato e dal pool che indaga sulla trattativa Stato-mafia, stavolta il segnale sarebbe stato ancora più forte. Una manifestazione concreta di vicinanza da parte dello Stato nei confronti di chi ha subìto una condanna a morte da Totò Riina e da quei “sistemi criminali” che attendono solo il momento migliore per realizzare quella sentenza. Non smetteremo mai di chiedere l’intervento dei vertici istituzionali per salvare la vita del magistrato. Di fronte al silenzio più assordante che giunge dalle “massime autorità” ognuno di noi ha l’obbligo morale di opporvisi testimoniando lo scempio che sta avvenendo con la complicità di buona parte della “casta” della magistratura, della politica e dell’informazione. A futura memoria.

Biografia non autorizzata di Luciano Violante da: micromega


Dalla prima condanna, inflitta a un ragazzo che aveva detto piciu (fesso) a un vigile, alle sfortunate indagini sul ‘golpe bianco’ di Edgardo Sogno, il discepolato al seguito di Ugo Pecchioli, la guerra a Giovanni Falcone, la Bicamerale e il caso Previti. Carriera e mutazioni dell’ex presidente della Camera attualmente in corsa per la Corte Costituzionale.

di Marco Palombi e Marco Travaglio, da MicroMega 7/2013

Ora che le assemblee del Pd gli riservano i gavettoni, le contestazioni, gli insulti per il «lodo» con cui vorrebbe salvare Silvio Berlusconi. Ora che i giornali vicini al Cavaliere tratteggiano, con lo stupito rossore che si deve alle belle notizie inaspettate, l’evoluzione umana e filosofica che l’ha fatto approdare sulle pensose plaghe del garantismo all’italiana. Ora che lui stesso è finalmente liberato dallo spigoloso ruolo inquisitorio che la vita e la carriera gli avevano cucito addosso, proprio sotto le belle giacche dei favoriti, e costosi, stilisti giapponesi («ma compro solo alle svendite»). Ora, si diceva, bisogna sciogliere un equivoco: non ci sono due Luciano Violante, non esiste oggi il morbido legalitario – termine che il nostro preferisce a garantista – come non esisteva prima il manettaro senza cuore. Luciano Violante è sempre uno, politico in ogni tempo e luogo, pure quand’era magistrato, un animale a sangue freddo che ha avuto sempre ben chiare davanti a sé le superiori ragioni del suo partito e della sua carriera.

Non che l’ex presidente della Camera non abbia piegato il suo animo, in questi anni, al fluire del tempo e delle cose: Violante – lasciatisi dietro i furori novecenteschi del dover essere – pare adesso abbandonarsi con piacere alla pericolosa levità del desiderio. Volendo esemplificare, è come se il processo storico di disgregazione della sinistra italiana abbia finalmente concesso all’uomo che doveva essere l’Ugo Pecchioli del Duemila di trasformarsi, non senza resipiscenze e conflitti, nell’uomo che vorrebbe essere, un Giuliano Amato all’ingrosso: s’intende, con questo, il passaggio, anche antropologico, dalle durezze politiche e personali, dai silenzi e dai segreti che furono il pane del «ministro dell’Interno del Pci», al minuetto dell’eterno potere romano, al ruolo senza tempo di genio compreso. E riverito. E pluripoltronato.

Certo, ad essere precisi, Amato ha tre pensioni e Violante solo due (e pure meno ricche: 16.600 euro contro trentamila e dispari), ma comunque pure lui s’è incistato senza problemi in quel mondo – rispettabilità, responsabilità, buone cose di ottimissimo gusto – che è il brodo primordiale, per così dire, dell’amatismo. Al nostro non manca nemmeno l’apposita associazione, «Italia decide», pensatoio ovviamente bipartisan, che lo vede alla presidenza insieme a Carlo Azeglio Ciampi, lo stesso Amato, Gianni Letta e potenti sparsi. Per il duro lavoro di concetto nella capitale, peraltro, l’ex magistrato ha pure a disposizione una casa comprata con supersconto durante la dismissione del patrimonio dell’Ina. Trattasi di una settantina di metri quadrati – più due terrazze – tra i Fori imperiali e piazza Venezia: secondo l’Espresso, fu pagata nel 2003 appena 327 mila euro, mentre il suo prezzo di mercato per il Cerved oscillava tra 663mila e 1,2 milioni di euro. Sarà stata la vista mozzafiato, forse, ad attirarlo nei delicati labirinti lessicali della poesia o magari l’ultradecennale contemplazione degli amati panorami montani che pazientemente esplora partendo dalla sua casa di Cogne: «Devo parlarvi/ della lotta che insieme/ con Dio/ è necessario/ combattere/ contro il male», mise a verbale nel suo Viaggio verso la fine del tempo. «Se questo/ che vedete/ qui/ in queste/ righe/ è/ fare poesia/ allora/ io/ sono/ Rimbaud», lo prese in giro il critico Sergio Claudio Perroni. In definitiva, il «nuovo» Violante – in periglioso viaggio verso la nomina parlamentare alla Consulta nel giugno 2014 – può sorprendere solo chi non ne conosce la storia. Per questo abbiamo deciso di metterne in fila le gesta: a futura memoria, certo, ma soprattutto per impedire sprechi di stupore, reazione rara quanto preziosa negli adulti.

The early days

«Sono nato a Dire Daua. In Etiopia. In un campo di concentramento inglese. Mio padre l’ho conosciuto quando avevo 5 anni, me lo presentarono il giorno di Pasqua del 1946. Alla stazione. Ho vissuto a Rutigliano, in provincia di Bari, infanzia e giovinezza: l’Ugi, l’Unione goliardica italiana, la carriera universitaria tra i libri di diritto penale scritti in tedesco con carattere gotico». Così s’è raccontato lui al «magazine» del Corriere della Sera. Il padre era un giornalista comunista e fu spedito in Africa dal fascismo, la madre ebrea milanese riportò il piccolo Luciano dalla famiglia del marito in attesa della sua scarcerazione e del suo ritorno. Poi gli studi all’Università di Bari, dove «fui assistente di Aldo Moro», e l’entrata in magistratura, e in Magistratura democratica, corrente di sinistra dell’Anm. Infine il trasferimento a Torino («con mia moglie, nel 1968 eravamo la prima coppia di magistrati sposati») e la prima condanna inflitta: «Un ragazzo che aveva detto piciu (fesso) a un vigile».

È nata una stella

Il nostro, comunque, non si guadagna la celebrità nazionale per gli insulti ai vigili, ma con un’inchiesta per così dire sfortunata: quella sul cosiddetto «golpe bianco» di Edgardo Sogno. Nel 1974 Violante, giudice istruttore impegnato a Torino in fumose inchieste sulle trame nere nelle valli piemontesi, fa arrestare l’ambasciatore, già partigiano monarchico e fervente anticomunista: l’accusa è di preparare un colpo di Stato assieme a Randolfo Pacciardi e altri nomi dello sbrindellato conservatorismo antifascista italiano. Risultato: proscioglimento in istruttoria. Nel 2000, comunque, lo stesso Sogno ha dato una mano a Violante – che peraltro cordialmente detestava – dichiarando che il complotto l’aveva pensato eccome, ma sarebbe scattato solo se i comunisti avessero preso il potere. Un sogno, appunto. Come che sia, il futuro presidente della Camera diventa una toga famosa e, in quegli anni, comincia a frequentare i convegni del Pci torinese: la cosa lo mette nel mirino del terrorismo rosso, ma si salva nonostante – racconteranno i pentiti – due tentativi di attentato a opera delle Br e di Prima Linea. Nel 1979 prende la tessera del Partito comunista e subito viene eletto deputato: a Montecitorio resterà quasi trent’anni.

La vasta ombra di Ugo Pecchioli

Il neodeputato, toga d’assalto con ottimi agganci in Magistratura democratica, viene preso sotto l’ala di uno dei padri del Pci torinese, Ugo Pecchioli, «il ministro ombra» dell’Interno di Berlinguer: silenzioso, sempre diffidente, funzionario di partito in purezza. All’ombra di Pecchioli, Violante lavora alla sezione Problemi dello Stato del Pci, che poi vuol dire terrorismo prima e mafia poi: lo fa, com’è suo costume, con dedizione e completa adesione alle posizioni del partito, stringendo di volta in volta utili legami per la causa. Come quello con Gianni De Gennaro, che ancora dura ed è costellato di parecchi, reciproci favori. In questa veste, sul finire degli anni Ottanta, partecipa alla guerriglia che i partiti di sinistra sferrano al pool antimafia di Palermo, Giovanni Falcone in testa. Andò così. Nel dicembre 1987 era finito, con la sostanziale conferma delle tesi accusatorie, il primo maxiprocesso a Cosa Nostra. Nel marzo 1988 Antonino Caponnetto lascia l’incarico di giudice istruttore convinto che sarà proprio il suo allievo Falcone a succedergli. Niente da fare. Il Csm gli preferisce Antonino Meli, con maggiore anzianità ma esterno al pool. Determinante il niet delle correnti di sinistra. Spiegò Elena Paciotti di Magistratura democratica (poi presidente dell’Anm ed eurodeputata per i Ds): «Si addebita al dottor Meli di non aver mai svolto attività di giudice istruttore, ma neanche il dottor Caponnetto credo che avesse mai svolto simili attività…».

La guerra a Falcone

La mancata nomina a giudice istruttore è il primo colpo, poi segue la guerra che vedrà (anche) il Pci-Pds dichiaratamente in campo. Il partito di Achille Occhetto vede, in quel momento, la possibilità di mettere in crisi la Democrazia cristiana – e Andreotti in particolare – proprio per i suoi rapporti con la mafia: non si accontenta di pesci relativamente piccoli come Vito Ciancimino o i cugini Salvo, vuole la Balena. Il balletto comincia sui cosiddetti «omicidi eccellenti», in particolare quello di Piersanti Mattarella: un pentito, tal Giuseppe Pellegriti, comincia a sostenere col pm di Bologna Libero Mancuso che dietro l’assassinio ci sono Giulio Andreotti e Salvo Lima. Luciano Violante scrive sull’Unità (agosto 1989): «Siamo vicini a una verità pericolosa che può squarciare il sipario che sinora ha nascosto gli assassini di Palermo». A quel punto Falcone va a interrogare Pellegriti, scopre che il tizio mente o parla per sentito dire, e lo incrimina seduta stante per calunnia. Violante, che all’epoca parla poco, alla Pecchioli, sostiene che Falcone è stato «precipitoso». Leoluca Orlando, meno prudente, accusa in sostanza il magistrato di aver nascosto le prove contro Andreotti e altri politici mafiosi. La delusione per il colpo mancato sul divo Giulio diventa rabbia nel febbraio 1991, quando Falcone chiude le indagini sui delitti eccellenti: Mattarella, Michele Reina e Pio La Torre. Ci sono accuse alle collusioni democristiane certo, ma pesanti sono pure i rilievi per il Pci. Il Corriere della Sera titola: «L’antimafia accusa i comunisti». Coro di proteste sdegnate del neonato Pds. È sostanzialmente l’ultimo atto di Giovanni Falcone in procura: nel 1991 il magistrato decide di accettare la proposta del guardasigilli Claudio Martelli e va a dirigere gli Affari penali al ministero (governo Andreotti), mentre il Csm lo processa sulla base di un esposto di Orlando e altri esponenti di La Rete, e il Pds lo definisce «andreottian-martelliano». Qui arriva l’apoteosi. Tra le altre cose, da via Arenula il magistrato palermitano propone la creazione della procura nazionale antimafia, poi chiamata Direzione (Dna). Ma il primo progetto ne fa una figura troppo dipendente dal governo e viene bocciato da decine di colleghi, Borsellino in testa. La legge viene cambiata. A questo punto il fronte del no si muove compatto per impedire a Falcone di diventarne il direttore. Mette a verbale l’Unità: «Non può, troppo legato al ministro Martelli: non è più indipendente». Pds, La Rete, Rifondazione comunista sono schierate come un sol uomo contro il «governativo» Falcone e pure contro Borsellino, anche se lui non è andato a lavorare al ministero. Luciano Violante sostiene che lui caldeggiò la nomina di Falcone, ma poi fece come diceva il partito, che aveva le sue ragioni: «Era direttore al ministero», spiegò nel 1995, «e quindi il passaggio alla superprocura sembrava un’anomalia, mentre quello da un’ufficio giudiziario all’altro, come per il concorrente [Agostino Cordova], era più semplice». La guerra finisce per morte del reo, poi santificato.

Presidente dell’Antimafia e padre del ‘terzo livello’

Nel 1992 Luciano Violante ha finalmente la poltrona di prima fila che sognava: presidente della commissione d’Inchiesta sulla mafia. È da quella poltrona che Tommaso Buscetta rivela per la prima volta, dopo essersi rifiutato di farlo negli anni Ottanta con Falcone perché «non ci sono le condizioni politiche», notizie sui rapporti tra mafia e politica, il cosiddetto «terzo livello» (soprattutto Andreotti). Dal caso Moro all’omicidio Calvi, da dalla Chiesa a Mattarella, don Masino racconta dettagli assai imbarazzanti per il potere italiano. Ne scaturisce, tra l’altro, una relazione finale della commissione assai dura con il divo Giulio: «Risultano certi i collegamenti di Salvo Lima con uomini di Cosa Nostra. Egli era il massimo esponente in Sicilia della corrente democristiana che fa capo ad Andreotti. Sull’eventuale responsabilità politica del senatore, dovrà pronunciarsi il parlamento». Andreotti commenterà quel testo – negativamente – solo molti anni dopo, ma per la Dc ormai Luciano Violante è «il piccolo, gnomico Višinskij» (l’accusatore nelle purghe staliniane), come l’ha ribattezzato Francesco Cossiga nel 1991. «Il mio giudizio su Andreotti ha sempre riguardato la responsabilità politica, non quella penale», dirà il nostro alla morte del Divo: «E sulle sue responsabilità politiche nei rapporti fra mafia siciliana e Dc, confermo quello che ho sempre sostenuto». Qualche tempo prima, dopo la sentenza di Palermo (prescrizione per il «reato commesso» di associazione per delinquere con la mafia fino alla primavera del 1980, assoluzione con formula dubitativa per il periodo successivo) aveva detto addirittura di avere sconsigliato a Caselli di procedere penalmente contro di lui. Parole in curiosa consonanza con quelle lasciate trapelare sulla Repubblica da De Gennaro che, da vicecapo della Polizia, andò personalmente a dire all’imputato senatore a vita: le prove non ci sono, lei verrà assolto (previsione sbagliata). Il che spiega il raffreddamento dei rapporti fra il duo Violante-De Gennaro e Gian Carlo Caselli.

1992-2009: la strana memoria di Violante

Presbite di memoria, Violante impiega 17 anni per ricordare un fatterello del 1992. Nell’estate del 2009, in curiosa coincidenza con le rivelazioni del Corriere della Sera sugli interrogatori di Massimo Ciancimino, gli torna improvvisamente in mente che, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, il colonnello Mario Mori, allora vicecapo del Ros, gli propose più volte di incontrare privatamente l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino, intermediario della trattativa fra i carabinieri e il duo Riina-Provenzano. Secondo il figlio Massimo, don Vito cercava una «copertura politica totale» alla trattativa: da Mancino per il governo e da Violante per la sinistra. Violante, dopo 17 anni, si precipita dai magistrati di Palermo a spiegare di aver rifiutato il faccia a faccia, di aver proposto un’audizione in commissione Antimafia (peraltro mai fissata, nonostante le pubbliche insistenze di don Vito) e di aver chiesto a Mori se avesse informato la procura. Il carabiniere gli rispose che no, non l’aveva fatto perché «è cosa politica». E lui pace, niente, ci mette una pietra sopra e si dimentica di avvisarla lui, la procura. Eppure nel gennaio 1993 andò a dirigerla il suo (allora) «amico» Caselli, che interrogò pure Vito Ciancimino proprio sui suoi rapporti coi carabinieri. Niente. Poi, nel 2009, una pacca sulla fronte e via a Palermo a raccontare tutto. È appena il caso di ricordare che la legge sui pentiti che impedisce le rivelazioni «a rate» (sei mesi per parlare e poi basta) fu approvata nel 2001, proprio mentre Luciano Violante e Nicola Mancino presiedevano le Camere. I politici possono ricordare a rate, i mafiosi no.

La guerra al mafioso Berlusconi

La «discesa in campo» del Cavaliere vede un Violante scatenato contro «il mafioso di Arcore» (copyright: Umberto Bossi). Il debutto, va detto, non è dei migliori. Nel pieno della campagna elettorale per le politiche del 1994, sulla Stampa esce un pezzo di Augusto Minzolini intitolato «Quel che so di Dell’Utri»: sono frasi carpite all’allora presidente dell’Antimafia in cui si anticipa un avviso di garanzia dalla Sicilia per il sodale di Silvio Berlusconi. Il giorno dopo si scatena il putiferio, Violante smentisce, querela, ma ormai è bruciato: deve dimettersi dall’Antimafia («me lo chiese Occhetto»), mentre i popolari lo scherniscono («lavora nello staff elettorale di Berlusconi»). Il colpo d’immagine è tale che Violante rischia la trombatura nel suo collegio rosso di Torino: ma provvidenzialmente un paio di amici del cuore si affrettano a informare i giornali che una voce dal carcere ha preannunciato un’autobomba mafiosa contro di lui. La notizia, vera ma vecchiotta, esce sulle prime pagine il 26 marzo. L’indomani Violante è rieletto.

Lui comunque quella storia se la lega al dito e definisce Forza Italia, vincitrice delle elezioni, «un manipolo di piduisti e del peggio del vecchio regime». Quanto a Berlusconi, «con la chiamata alle armi contro il comunismo ripete la parola d’ordine del fascismo e del nazismo quando morivano nei lager i comunisti, i socialisti e gli ebrei. E con questa parola d’ordine la mafia uccideva i sindacalisti. È una chiamata alla mafia quella che Berlusconi ha fatto a Roma». Parole che oggi paiono pronunciate da un altro. Ma che Violante ripeterà con qualche variazione sul tema ancora nel 2006: «D’altro canto Vittorio Mangano era lo stalliere mafioso del premier», scandì da un palco a Genova, «c’è un giro di mafia vicino a Berlusconi». Peccato che lui stesso non sia sempre stato così intransigente con le sue frequentazioni: nella campagna elettorale del 1996, quand’era candidato in Sicilia, si fece accompagnare e organizzare i comizi nelle Madonie dai fratelli Potestio, imprenditori vicini al Pci-Pds finiti sotto inchiesta per concorso esterno (Piero Grasso definì uno di loro, Stefano, «mafio-imprenditore»).

Come che sia, in quel 1994 l’ex magistrato passava per il capo del «partito dei giudici». Lo pensava pure Totò Riina: «C’è uno strumento politico, ed è il Partito comunista: ci sono i Caselli, i Violante, poi questo Arlacchi che scrive i libri…», ringhiò dalla gabbia di uno dei suoi processi.

Mani Pulite: come si cambia

Anche se nel 1993 aveva messo le mani avanti («nessuna società tollera a lungo un governo dei giudici»), Violante per anni rimase comunque un difensore dell’inchiesta di Milano sulla corruzione. Ancora durante il governo Dini difese la procura dalla voglia del governo di inviare gli ispettori e corteggiava Antonio Di Pietro per farlo candidare col Pds. Il centro-destra lo accusò – sulla scorta di alcune calunnie raccolte dalla procura di Brescia – di aver contrattato al telefono coi magistrati di Milano la consegna del famoso «invito a comparire» per Berlusconi del 1994. Nel 1995, di fronte a un documento di protesta dei magistrati per la «riforma della custodia cautelare» (che in realtà riformava il codice in lungo e in largo), fu l’unico nel Pds a definire «legittimo che dei magistrati esprimano un parere tecnico». Per poi aggiungere: «Il partito dei giudici non esiste, esiste invece quello degli imputati eccellenti, capeggiato da Craxi e composto da un pezzo di classe politica abituata all’impunità». Poi, però, di fronte alla cosiddetta Tangentopoli 2 di La Spezia, quella di Lorenzo Necci e Pacini Battaglia, che smaschera le lobby e le logge retrostanti il primo inciucio della Seconda Repubblica (il governissimo Maccanico del gennaio ‘96, concordato da D’Alema e Berlusconi e fatto naufragare da Prodi e Fini), cambia registro. Siamo nell’ottobre 1996 e Violante è appena diventato presidente della Camera: «Ci sono magistrati pericolosi, che hanno costruito la loro carriera sul consenso popolare».

Con la Bicamerale finisce il Novecento

Il clima è cambiato. Nell’aprile 1996 l’Ulivo ha vinto le elezioni, Romano Prodi va a palazzo Chigi e Luciano Violante a presiedere Montecitorio: nel suo discorso inaugurale chiede comprensione per le ragioni dei «ragazzi di Salò», quasi un gesto di omaggio al suo maestro Pecchioli, che aveva simbolicamente guidato la delegazione del Pds al congresso di scioglimento dell’Msi a Fiuggi. Le durezze d’acciaio del Novecento sono alle spalle. E d’altronde anche il «gran partito» di Gramsci e Togliatti non esiste più: quel che resta è un ceto politico il cui scopo è perpetuarsi. La soluzione è semplice. Berlusconi da una parte, gli ex Pci dall’altra: ci si può combattere, insultare, ma simul stabunt simul cadent, direbbe Previti. La cultura dell’appeasement trova anche un suo spazio istituzionale: è la Bicamerale di Massimo D’Alema, dove Silvio Berlusconi viene acclamato statista e padre costituente, insomma resuscitato. Il Cavaliere, però, ha i suoi problemi giudiziari e vanno risolti. «Nel 1999, al termine delle riforme istituzionali, si porrà la questione dell’amnistia», dice conciliante Luciano Violante al Foglio nel dicembre 1997. Il 22 febbraio 1998, poi, Gherardo Colombo fa esplodere una bomba mediatica: «La Bicamerale è figlia del ricatto», dice al Corriere della Sera. Con Tangentopoli, sostiene il magistrato, «s’è scoperta soltanto la punta dell’iceberg della corruzione, mentre il resto è rimasto sommerso e su questo sommerso si sono costruiti ricatti incrociati così inquietanti da indurre la politica tutta, senza distinzioni di colori, a bloccare la magistratura prima che vi affondi ancora le mani». Cori sdegnati dal parlamento. Luciano Violante e il suo omologo in Senato Mancino insorgono in un inedito e drammatico comunicato congiunto: «Non è ammissibile travolgere l’intero lavoro della Bicamerale con la delegittimazione in blocco del parlamento, accusandolo senza appello di connivenze e di oscuri compromessi». Ci penserà poi Berlusconi, ottenuta la riabilitazione, a travolgere il lavoro della Bicamerale.

Il caso Previti e la presa della Camera

Durante la presidenza Violante scoppia anche il caso di Cesare Previti. Il gip di Milano, Alessandro Rossato, nel settembre 1997 ne chiede l’arresto per il caso Imi-Sir. Montecitorio ci pensa qualche mese, poi boccia la richiesta con la motivazione che le prove sono troppe, non possono più essere inquinate. Quando inizia il processo, siamo nel 1999, il deputato assenteista Previti si trasforma in una sorta di stakanovista dell’Aula. Il gup chiede a Violante: sicuro che tutti questi impegni parlamentari siano giustificati? Risposta: certo. D’altronde il nostro ha altro a cui pensare. Da tempo cerca di cacciare l’allora segretario generale di Montecitorio, Mauro Zampini, ma quello resiste: una guerra lunga che si risolve – siamo nell’ottobre 1999 – quando anche il capogruppo di Forza Italia Elio Vito appoggia la richiesta di Violante. Zampini se ne va e al vertice della Camera arriva Ugo Zampetti che ancora, felicemente, vi regna. Sistemata la grana amministrativa, torna in auge la questione Previti: il processo Imi-Sir è entrato nel vivo e Cesarone chiede alla presidenza della Camera di ricorrere alla Consulta contro il tribunale di Milano per garantire che il lavoro parlamentare, di qualunque tipo, è «legittimo impedimento» ad essere presente in udienza. Il 10 maggio 2000 Violante accoglie la richiesta di Previti e ricorre alla Consulta, ma solo per le udienze che si sono tenute nei giorni di votazione. Con un corollario, però: il ricorso di Montecitorio chiede addirittura di annullare «tutti gli atti consequenziali» alle ordinanze contestate, compresi i rinvii a giudizio. Il processo, in sostanza, doveva ricominciare da capo. La Corte costituzionale, però, lascerà al tribunale il compito di decidere come sanare quelle udienze nulle, e il processo andrà avanti senza contraccolpi fino a condanna definitiva. Il buon Cesare, in ogni caso, resterà sempre grato a Violante dell’impegno e in seguito pure della sua assenza nel voto decisivo del 2005 sulla legge ex Cirielli «Salva-Previti» (che passerà il vaglio di costituzionalità solo grazie a una quarantina di desaparecidos nel centro-sinistra, lui compreso).

È il terzo millennio: liberi tutti

Luciano Violante, il duro, quello che difficilmente cambia idea, durante la campagna elettorale per le politiche 2001, in un convegno alla Camera, invoca la «pacificazione» con Tangentopoli e rilancia l’idea cara a Craxi e a Forza Italia della commissione d’Inchiesta su Mani Pulite «per favorire il rilancio del confronto civile». Alla fine la figlia Stefania gli consegna «le carte dell’archivio privato di Craxi», dove – scherzi del destino – c’è anche un dossier su di lui. Nel 2007 infine, in un libro, il nostro rompe definitivamente gli indugi definendo il fu Bettino «capro espiatorio». Sono anni di passaggio, in cui il personaggio del vecchio Violante inquisitore ogni tanto rispunta in scena, ma siamo ai residui di una personalità in smobilitazione: subito dopo la sconfitta elettorale del 2001, ormai soltanto capogruppo diessino alla Camera, il nostro si stupiva che «con le elezioni del 13 maggio ci ritroviamo un parlamento con il più alto numero di imputati eletti. Questa indifferenza della politica all’etica pubblica è il massimo di delegittimazione dell’intervento giudiziario». A settembre, però, già se la riprendeva coi giudici e sulla Stampa denunciava «gli eccessi giustizialisti» di Mani Pulite: «Qualche magistrato si è sentito troppo protagonista, qualche grande processo forse non andava fatto. C’è stata una fase in cui c’è stato un di più di giustizialismo»; nel 2002 la definì senz’altro «campagna giacobina». Tanto lavoro però, almeno inizialmente, non serve a niente.

L’ingratitudine, il patto svelato
e le pieghe del dialetto piemontese

Un pezzo dell’inner circle di Berlusconi ancora non si fida del «piccolo Višinskij»: è tanto vero che il povero Violante finisce nella lista segreta dei «nemici» del governo stilata da Pio Pompa, bizzarro analista dei servizi in quota Niccolò Pollari. Quanta ingratitudine, deve essersi detto l’ex magistrato. Forse lo stesso pensiero che s’è affacciato alla sua mente nella sua performance più famosa: la rivelazione del patto col Cavaliere durante un discorso alla Camera nel febbraio 2002. Dopo un intervento del deputato di An, Gianfranco Anedda, che accusava il centro-sinistra di voler distruggere Mediaset, Violante sbotta: «La invito a consultare Berlusconi, perché lui sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – non adesso, ma nel 1994, quando c’è stato il cambio di governo – che non gli sarebbero state toccate le televisioni. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Gianni Letta». Niente da fare. Quei cattivi del centro-destra sono talmente malfidati che nel 2005 – sebbene Previti tenti di convincere il Cavaliere («ti puoi fidare») – gli impediscono pure di sedere sulla poltrona che ancor oggi vagheggia, quella di giudice costituzionale.

Molto meglio, allora, spendersi per gli amici. Quando, per dire, Piero Fassino viene beccato a congratularsi con il presidente di Unipol Giovanni Consorte per l’acquisto di Bnl («allora, abbiamo una banca?»), Violante la butta sulla dialettologia: «Quando mia figlia si è sposata, poco tempo fa, ha detto: “Abbiamo un bel marito?”. Ecco, si tratta di un modo di dire di noi piemontesi». Siamo nel 2005, lo stesso anno in cui il nostro, allora capogruppo dei Ds, incontra il capo della Popolare di Lodi Gianpiero Fiorani: «Abbiamo parlato della legge sul risparmio», dice a Radio radicale. «Stava facendo campagna a favore di Antonio Fazio», spiega Bruno Tabacci, grande nemico dell’allora governatore di Bankitalia. Anche per i non piemontesi, però, Violante trova il modo di darsi da fare. Quando, nel 2006, un giudice chiede di utilizzare le intercettazioni di Vincenzo De Luca (sindaco Ds di Salerno e deputato) indagato per una vicenda di appalti, la Camera dice no. L’unico diessino a votare a favore in Giunta è l’ex magistrato Giovanni Kessler e il nostro lo prende subito di petto: «Tu oggi hai votato contro un compagno! Come ti sei permesso?». Il tapino sostiene di aver semplicemente votato secondo coscienza. Non sarà ricandidato, al contrario di Vladimiro Crisafulli, beccato a conversare amabilmente con un mafioso. Qualcuno protesta, ma Violante – garantista, anzi legalitario – chiarisce che è giusto così, perché l’inchiesta penale è stata archiviata. Con tanti saluti alla responsabilità politica e morale.

L’Unione: gli ultimi fuochi in parlamento

Dopo le elezioni del 2006 Violante trova una nuova poltrona di prestigio: presidente della commissione Affari costituzionali. È da quello scranno che fa in modo di cambiare nome: diventa Bozza Violante, quando sforna un progetto di riforme istituzionali che prevedono tra l’altro il premierato, la sfiducia individuale, il Senato federale e altre cose su cui tutte le forze politiche si dicono d’accordo senza mai votarle. Già che c’è, peraltro, Violante propone pure di sottrarre al Csm la funzione disciplinare sui magistrati: meglio un organo esterno nominato in maggioranza dai partiti, un plotone d’esecuzione politico. Nel 2007 trova pure il modo di dare una nuova testimonianza di quanto gli stia a cuore il destino di Mediaset. Il Cavaliere pare interessato all’acquisto di Telecom e, invece di interrogarsi sul conflitto di interessi o la creazione di un cartello dominante nel mercato delle telecomunicazioni, Violante e i Ds danno il via libera: «C’è un Berlusconi imprenditore e un Berlusconi uomo politico: se, come imprenditore, investe le sue risorse in un settore di importanza strategica per il nostro paese, non ci trovo niente di male». Confalonieri se la ride: «Ora pure il centro-sinistra fa il tifo per noi». È lo stesso periodo in cui scoppia il caso Clementina Forleo: il gip che chiede al parlamento di utilizzare le telefonate di alcuni politici, tra cui D’Alema e Fassino, a Giovanni Consorte. Il nostro perde il lume della ragione: «Prima di votare sull’autorizzazione», scandisce Violante, «la Giunta e poi l’Aula dovrebbero mettere nero su bianco la mancanza di lealtà da parte dei giudici di Milano e sottolineare l’abuso commesso dalla Forleo: un abuso che il parlamento ha il dovere di segnalare». Con tanti saluti alla separazione dei poteri fra politica e magistratura.

Gli ultimi anni: riserva della Repubblica

Dal 2008 Violante è fuori dal parlamento e allora gira, scrive, organizza convegni e fa il saggio. È il capo del dipartimento Riforme del Pd, a cui ha generosamente messo a disposizione la sua Bozza. Nel 2009 pubblica Magistrati, un pensoso tomo con cui abbraccia definitivamente senza pentimenti o rigurgiti del passato il personaggio del Violante garantista, anzi legalitario. Un pamphlet contro le toghe troppo e male politicizzate: «I giudici devono essere leoni, ma leoni sotto il trono», spiega Francis Bacon nella citazione iniziale. Da allora è un florilegio di amenità rubricate sotto la categoria della pacificazione nazionale, o della saggezza, o del garantismo anzi meglio legalitarismo. Al Giornale: «La vera separazione delle carriere deve essere quella tra magistrati e giornalisti, tra i quali a volte ci sono rapporti incestuosi». Le intercettazioni del caso Ruby? Al Corriere della Sera: «Cose del genere avvengono solo in Italia e in alcuni paesi del Centro e Sudamerica». È il 2011 e Violante prova di nuovo a farsi eleggere alla Consulta dal parlamento. Stavolta in accoppiata con Gaetano Pecorella, già avvocato di Berlusconi. Si spende Ignazio La Russa: «Posso testimoniare che Violante, da presidente della Camera, ha dato dimostrazione di una grande capacità di rinunciare alle sue idee sforzandosi di capire quelle degli altri». Si spende il guardasigilli Angelino Alfano: «Non spetta a me promuovere la nomina, certo lui ha recentemente espresso posizioni non distanti dalle nostre». Pure stavolta, però, non se ne fa niente.

Da Bozza a Lodo Violante

Ora Luciano Violante, per via del suo secondo nome, Bozza Violante, è anche entrato a far parte dei saggi scelti da Giorgio Napolitano per dettare al parlamento le riforme costituzionali e d’altro genere di cui pare che l’Italia necessiti. Il Quirinale si sdebita così delle appassionate difese regalate da Violante all’uomo del Colle nelle settimane infuocate delle polemiche per le sue telefonate con Nicola Mancino e per il suo incredibile conflitto di attribuzioni contro la procura di Palermo, rea di averle ascoltate e di non averle distrutte all’insaputa degli avvocati (cioè di non aver violato il codice di procedura penale e la Costituzione). In quei giorni, oltre a dare ragione ai colpi di mano del presidente, il nostro attacca a testa bassa i pm siciliani e addirittura i presunti mandanti di un immaginario complotto anti-Napolitano: «Di Pietro, Grillo, Travaglio e parte del suo giornale sono un blocco politico-mediatico che gioca sul disagio popolare», «aggredisce il Quirinale» ai «fini della conquista del potere» e «usa una parte del mondo giudiziario come una clava per realizzare un progetto distruttivo» e «abbattere i pilastri istituzionali»: «un serio problema democratico» che minaccia «la tenuta economica dell’Italia». Addirittura.

Concluso il bel lavoro con gli altri nove saggi presidenziali – che non dimenticano di chiedere il bavaglio sulle intercettazioni e altre cosette che tanto piacciono al Cavaliere in tema di giustizia – il nostro entra pure nel sinedrio dei 35 saggi nominati dal governo Letta per riscrivere la seconda parte della Costituzione. Poi assume anche un terzo nome: Lodo Violante. Si tratta della scappatoia offerta a Berlusconi per non decadere da senatore sulla base della legge Severino. Il nostro interviene al salvamento da par suo: «Ho detto soltanto che il Pd deve garantire anche a lui il diritto di difendersi davanti alla Giunta», minimizza lui dopo che parecchi elettori e iscritti del suo partito gli hanno fatto notare, per così dire, la loro contrarietà. A parte il fatto che Berlusconi s’è difeso nella Giunta per le elezioni in tutte le forme regolamentari, in realtà il Lodo Violante dice una cosa in più: chiediamo alla Corte costituzionale se la legge Severino sia applicabile o meno. No? Va bene pure la Corte europea. «Il Pd stava correndo il rischio del giacobinismo. Per questo ho parlato», offre il petto al fuoco sulla Repubblica. Non si tratta solo di applicare una legge? Macché: «L’idea di annientare l’avversario è tipica della politica debole, quella che non ha la forza di confrontarsi con gli oppositori. Abbiamo rischiato di farci prendere dallo sbrigativismo: è condannato, espelliamolo». Il fatto è, se è concesso essere un po’ maligni, che a giugno prossimo si liberano due posti alla Consulta e quello attualmente occupato dal neopresidente Gaetano Silvestri spetterebbe al centro-sinistra: per essere eletti, però, serve la maggioranza qualificata delle Camere e dunque, con questo parlamento, pure del Pdl. Arrivati alla Corte, poi, con quella maggioranza, nulla vieta di sognare un altro voto simile, un’altra poltrona, più prestigiosa, sull’altro lato di via del Quirinale. Solo che se questo è lo schema, Giuliano Amato al solito è già piazzato meglio: alla Consulta c’è già e, a giugno prossimo, ne sarà pure presidente. Mai sottovalutare l’importanza di essere Amato.

(18 settembre 2014)

Abbassato il livello protezione ad Antonio Ingroia da: antimafia duemila

ingroia-antonio-big7E intanto Riina parla anche di lui a Lorusso

di Aaron Pettinari – 2 settembre 2014
“Cosa nostra non dimentica. La mafia è una pantera. Agile, feroce, dalla memoria di elefante”. A dire queste parole altri non era che Giovanni Falcone, nel maggio 1992, nella sua ultima intervista per l’ inserto napoletano di cultura di Repubblica. “Corleone non dimentica” lo ha ricordato poco meno di un anno fa anche anche Totò Riina, parlando al suo compagno di passeggiate Alberto Lorusso. Allora si riferiva al sostituto procuratore di Palermo Antonino Di Matteo ma nella lista dei “nemici” di Cosa nostra figurano anche altri nomi di magistrati che hanno condotto o conducono ancora oggi importanti inchieste in prima linea. In questo elenco figura anche l’ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, oggi avvocato e leader del movimento Azione civile. Cosa nostra non dimentica ma forse lo Stato sì tanto che ad Ingroia è stato abbassato il livello di protezione passando dal secondo al terzo livello. Ciò significa che diminuirà il numero di agenti che avranno il compito di scortarlo durante i suoi spostamenti.

E dell’ex pm ha anche parlato recentemente il Capo dei capi, Totò Riina che, sempre dal carcere Opera di Milano in merito alle inchieste e riferendosi ad Ingroia diceva: “Loro lo sanno che Berlusconi non è colluso con la mafia”.
Non è ancora stata resa nota la motivazione per cui si è deciso di adottare questo nuovo livello ma se si considerano le minacce ricevute in passato ecco che la decisione può apparire quantomeno discutibile. Nel febbraio 2013 una lettera minatoria anonima era stata spedita presso la sede del partito dei Comunisti italiani. “Ingroia comunista di merda ritirati (si era sotto elezioni, ndr) o ti facciamo fare la fine di Falcone e Borsellino. 1000 kg di Tnt-T4 sono pronti…”.
Oggi Ingroia non è più magistrato ma la sua battaglia affinché venga scoperta la verità sulle stragi non si è esaurita anche se si è spostata in altri campi.
“Se non avremo condizioni diverse rispetto al modo di essere del nostro Stato avremo sempre silenzi ed omertà – aveva ribadito quest’estate al convegno organizzato dalla nostra testata a 22 anni dalla strage di via D’Amelio – Verità e democrazia camminano assieme e se è vero, come è vero, che siamo un Paese senza verità, ciò vuol dire che siamo un Paese senza democrazia. E il cambiamento parte dalla società civile dobbiamo sostenere questi magistrati ma non basta il tifo e il sostegno. In quell’aula bunker in cui si celebra il processo trattativa le gabbie sono vuote perché molti dei veri colpevoli di quelle strati non ci sono in quell’aula. E se non ci sono è perché sono all’esterno dell’aula bunker a circondare quel luogo, quei magistrati quei pm e quei giudici. Sono i membri di quella parte di Stato colpevole che non vuole il processo. Perché se è vero che non abbiamo uno Stato complice ma assassino è ovvio che questo pretende la propria impunità e la propria improcessabilità. E quel processo non si potrà mai ottenere veramente finché non cambia lo Stato”.

La mafia e i suoi complici raccontati a mia figlia da: antimafia duemila

borsellino-manfredi-c-castolo-giannini-2Tuo nonno Paolo e il suo amico Giovanni volevano per voi un mondo migliore
Lettera di Manfredi Borsellino

Cara Merope,
oltre venti anni fa accadeva qui a Palermo, a poche centinaia di metri dal quartiere dove noi abitiamo e che abitualmente frequentiamo, qualcosa che avrebbe cambiato radicalmente la nostra società, avrebbe scosso tante coscienze e probabilmente segnato un punto di non ritorno; niente (o quasi) dopo quegli eventi sarebbe stato come prima. Due palermitani come noi, due uomini onesti e leali, uno dei quali tu hai iniziato a conoscere un po’ meglio perché si tratta di tuo nonno, dopo avere combattuto una lotta intensa e ininterrotta contro un male feroce chiamato mafia o Cosa nostra, si sono sacrificati. Il loro sacrificio è consistito nell’immolarsi affinché i più giovani, ma anche voi che ancora non eravate nati, acquisissero la consapevolezza di quanto terribilmente serio fosse quel male cui ti ho accennato prima, per troppo tempo sottovalutato, ignorato e purtroppo non combattuto da tutti coloro che avrebbero dovuto contrastarlo.

E così quel male nel tempo è diventato sempre più potente, i suoi tentacoli si erano intrufolati tra le stesse istituzioni che governavano il nostro paese, tra le forze di polizia e in quella stessa magistratura di cui questi due grandi cittadini
palermitani facevano parte.
Soli, senza lo Stato che avrebbe dovuto proteggerli come i suoi figli migliori, hanno con consapevolezza affrontato il martirio, altrettanto consapevoli però che la loro morte (apparente) non sarebbe stata vana.
Già dopo l’attentato in cui perse la vita Giovanni Falcone, il più grande amico e collega di tuo nonno Paolo, Palermo si svegliò, tanti giovani e bambini della tua età si riversarono sulle strade mentre dai balconi sventolavano grandi lenzuoli bianchi, segno di purezza e di pace.
Quando purtroppo venne il momento del tuo caro nonno Paolo, non solo Palermo ma tutta l’Italia si è (ri) svegliata gridando il suo sdegno.
Di mafia, ma anche del tuo nonno Paolo e del suo amico Giovanni, del loro sacrificio/martirio, di legalità, dell’importanza delle regole e del rispetto delle leggi, dell’omertà mafiosa, di pizzo ed estorsioni, di istituzioni, o meglio ancora di uomini delle istituzioni collusi o contigui con la criminalità organizzata, di complicità di pezzi dello Stato nell’ideazione e (forse) realizzazione di quelle stragi avvenute quando tu non eri ancora nata, si è finalmente iniziato a parlare nelle famiglie, a scuola e negli stessi luoghi di ritrovo di tanti tuoi coetanei, formando delle coscienze nuove.
Oggi, cara Merope, voi bambini siete “allenati” a combattere quel male subdolo, la mafia, che ti ha tolto il tuo caro nonno prima che venissi alla luce, siete allenati da papà e mamma che soddisfano per quanto loro possibile la vostra sete di verità e giustizia, ma siete allenati anche dalle vostre maestre, grazie alle quali la vostra attenzione su ciò che è accaduto tanti anni fa non si attenua mai.
Del tuo caro e grande nonno Paolo avrei tante cose da dirti e raccontarti ma con calma e senza fretta le conoscerai strada facendo.
E’ in questo momento sufficiente che tu sappia che egli ha “consapevolmente” sacrificato la sua vita privandosi di una delle cose che desiderava di più al mondo, ovverosia veder nascere e crescere i suoi nipotini come te, per farvi vivere in un mondo migliore dove chi svolge (e bene) il proprio dovere, sia esso di magistrato, poliziotto, maestro o sacerdote, non debba mai più temere per la sua vita e quella dei suoi familiari.
La lettera è tratta dal libro “Io ti racconto – Le stragi del 1992 e la ribellione di Palermo: i genitori spiegano ai figli la mafia” edito dalla Direzione didattica Alcide De Gasperi di Palermo.

Tratto da: La Repubblica – Palermo del 19 luglio 2014

 

Gratteri a Catania: “Basta sconti ai politici che favoriscono la mafia” da: livesiciliacatania

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Le nuove frontiere della lotta alla mafia raccontate da Nino Di Matteo, sostituto procuratore di Palermo, Sebastiano Ardita, procuratore aggiunto di Messina, Saverio Lodato, giornalista e Nicola Gratteri procuratore aggiunto di Reggio Calabri

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CATANIA – Il cortile di Palazzo Platamone ha ospitato un confronto appassionato sulla lotta alla mafia. Un dibattitto vivace, organizzato da Addiopizzo Catania, che ha visto sul palco dei relatori Nino Di Matteo, sostituto procuratore di Palermo, Sebastiano Ardita, procuratore aggiunto di Messina, Saverio Lodato, giornalista e Nicola Gratteri, procuratore aggiunto di Reggio Calabria.

“Questo non è un salotto, è un dibattito – ha esordito Chiara Barone di Addiopizzo- come associazione siamo convinti che prima di parlare bisogna agire. Noi utilizziamo in questo convegno la parola antimafia perché qui ci sono i veri esponenti della lotta alla mafia. Non è facile parlare né definire la mafia, usiamo la definizione di Giovanni Falcone, è un fenomeno umano, fatto di uomini e donne”.

Barone si concentra sull’Agenzia nazionale dei beni confiscati e sul caso Riela, poi passa la parola a Sebastiano Ardita, procuratore aggiunto di Messina.

“Catania -esordisce Ardita- non ha bisogno di antimafia gridata. Il fenomeno mafioso si è riorganizzato, a Catania in passato c’è stato un rapporto stretto tra mafia, politica e magistratura”. “Questa città grazie alla gente, a Cittainsieme, tutti coloro che si ritrovavano attorno al mitico presidente Scidà, si è ribellata alla mafia. Quando morì Pippo Fava chi poteva orientare le opinioni della gente si inventò la pista personale. E invece era l’unico che parlava dei Santapaola, stesso discorso vale per l’ispettore Lizzio, lottava per un risultato, faceva la guerra ogni giorno. Una brutta sera di settembre ricevetti la telefonata: avevano ucciso l’ispettore Lizzio, aveva portato i testimoni contro un capo decina di Cosa Nostra”.

La relazione di Ardita è stata accolta da lunghi applausi del pubblico, poco dopo è iniziato l’intervento di Nicola Gratteri.

“Sono stato consulente gratuito della commissione Letta -spiega il procuratore aggiunto di Reggio Calabria- per studiare quali fossero le riforme da realizzare in Italia, penso che è il momento di tirare una linea, non abbiamo bisogno di stabilire la temperatura, ma dobbiamo trasformare le relazione negli articolati di legge”. Il magistrato ha illustrato alla platea, densa di esponenti della società civile, magistrati di primo piano come Pasquale Pacifico e Alessandro La Rosa ed esponenti delle forze dell’ordine: Alessandro Casarsa, comandante provinciale dei Carabinieri e Ferdinando Mazzacuva, capitano della Guardia di Finanza.

“Noi -ha aggiunto Gratteri- dobbiamo fare tante modifiche fino a quando renderemo non conveniente delinquere. Solo due cose fanno paura ai delinquenti: l’omicidio o l’associazione a delinquere di stampo mafioso. Per tutti gli altri reati l’arrestato resterà in carcere al massimo 5 anni. Dobbiamo creare un sistema di non convenienza.

I dibattimenti sono intasati di reati bagatellari. Dobbiamo preoccuparci dell’ordinario. Siamo indietro almeno di 30 anni, andiamo ancora in udienza con i fascicoli, i carabinieri vanno in giro per l’Italia a fare notifiche. Perché devo perdere 3 mesi a fare notifiche e non posso utilizzare la posta certificata nelle notifiche alle avvocati. La posta certificata dovrebbe essere obbligatoria per tutti i cittadini, a sostegno di chi non ha soldi interviene lo Stato. Per stampare un’ordinanza di custodia cautelare ci vogliono 30 mila euro. Ho proposto di comprare 20 mila tablet, da consegnare ai detenuti per le notifiche e la lettura degli atti”.

E ancora, insiste Gratteri: “Dobbiamo eliminare i reati bagatellari, se una casa è abusiva deve essere demolita subito, dal punto di vista amministrativo. Intervenire sulla prescrizione sarà molto difficile”.

Il procuratore aggiunto di Palermo punta l’attenzione sul rapporto mafia – politica, e chiede: “Perché è conveniente delinquere? Perché la politica è assente, la mafia interviene dove non c’è l’istituzione. La mafia fa lavorare i capi di famiglia per 20 giorni anche con piccoli lavori.
Ho proposto come pena minima per i mafiosi 20 anni”.

Lo scambio politico mafioso. “La pena del 416 ter -dice Gratteri- è più bassa dell’associazione mafiosa, il messaggio è che è meno grave e facciamo sconti al candidato politico che ha rapporti con la mafia.

Beni confiscati. “L’agenzia dei eni confiscati è un carrozzone, il Prefetto Caruso non sapeva quanti fossero gli appartamenti sequestrati. Io ho proposto di assegnare subito i beni sequestrati alle forze dell’ordine. È sbagliato mettere un prefetto all’Agenzia dei beni confiscati, ci vuole un manager, un imprenditore che capisca di bilanci, le imprese dopo il sequestro muoiono perché sono fuori mercato, le casse sono spesso scontrinifici per giustificare le fatture false fatte a monte, è la forma più rozza per riciclare i fondi provenienti dalla cocaina.

La sede dei beni confiscati deve essere a Palazzo Chigi, quando c’è una crisi deve intervenire il ministro del lavoro o quello dell’economia”.

Il giornalista Saverio Lodato ha puntato l’attenzione sul contesto politico italiano: “L’attuale governo è stato battuto in arteria di giustizia, ho la netta sensazione che stiamo regolando a un gigantesco regolamento dei conti della politica con la magistratura. Giovanni Falcone parlava di menti raffinatissime di una mafia che è riuscita a farsi Stato. Vent’anni fa si trattava tra politici e mafiosi, oggi non esiste più un mafioso duro e pure che fa solo il mafioso, oggi è un ingegnere, un architetto il cui nome non risulta alle indagini. L’antimafia vera c’è da circa 30 anni è molto più giovane”.

Appassionato anche l’intervento di Nino Di Matteo, che si commuove quando ricorda la prima volta in cui ha indossato la toga, durante i funerali di Giovanni Falcone e parla del ruolo militare della mafia e dei rapporti con le istituzioni.

Poi un lungo dibattito ha acceso Palazzo Platamone. Appassionato l’intervento di Elena Fava, figlia di Pippo, il giornalista ucciso perché parlava male dei potenti della città. Elena Fava ha puntato il dito contro il mondo dell’informazione, ricordando il ruolo del padre e l’impegno della Fondazione Fava per la formazione culturale dei giovani.

“Io, scampato a Capaci, ora vivo col senso di colpa” Tratto da: Il Fatto Quotidiano dell’8 giugno 2014

corbo-angelodi Nando dalla Chiesa – 8 giugno 2014

L’uomo parla e spinge indietro la memoria di tutti. Che è un macigno, ma scivola veloce. Facoltà di Psicologia dell’Università di Padova. L’aula magna dedicata a Cesare Musatti resta sospesa tra le parole di questo relatore anomalo e le immagini di un passato che non passa mai. Angelo Corbo (in foto) non è un nome noto, eppure bastano due parole per associarlo a momenti indimenticabili e terribili della storia della Repubblica.
È uno degli agenti di scorta di Giovanni Falcone usciti vivi dall’inferno di Capaci. 23 maggio del 1992. Ore 18.58, un cratere immenso che si apre d’improvviso sull’autostrada che porta dall’aeroporto di Punta Raisi a Palermo. Un boato di guerra e le tre auto in fila. Quella di Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo davanti. Quella del giudice e di sua moglie Francesca Morvillo, in mezzo, con l’autista giudiziario Giuseppe Costanza seduto dietro. E poi la sua: lui con Paolo Capuzza e Gaspare Cervello. Che, con Costanza, si salveranno. È praticamente impossibile guardare Angelo e non immaginare, dietro di lui, quei momenti sullo schermo dell’aula magna. Parla a fatica, in certi momenti la voce si incrina, soprattutto quando a distanza di 22 anni vuole ricordare i nomi dei colleghi.

È ancora un uomo giovane, Angelo Corbo. Vestito di chiaro, ha il fare educato e gentile e un’espressione solare. In apparenza. Perché il fondo dello sguardo ti consegna una malinconia acuta, incredibilmente simile (chissà per quale misterioso motivo) a quella che in certe foto si vede nei neri assiepati intorno a Martin Luther King. Ricorda, ai giovani e agli adulti riuniti dalla professoressa Ines Testoni a parlare di mafia e corruzione, il servizio prestato con slancio accanto al magistrato più a rischio d’Italia. Una squadra di amici, affiatata. Racconta a chi non la sappia o se la fosse dimenticata la storia di un uomo lasciato solo in Sicilia e costretto ad andare a Roma; e di loro, poliziotti semplici, che lo capivano e cercavano di farlo capire ai loro superiori. E che pativano per l’ingiusta solitudine. “Era ‘un morto che cammina’, gli dicevano continuamente, e noi lo eravamo con lui, non ci voleva molto a rendersene conto”. “Poi gli altri sono morti davvero e io invece sono qui. E mi sento in colpa”. Il silenzio in platea si fa più fitto. Incredulo. Commosso. Puoi anche avere già letto di lui su un quotidiano, puoi averlo ascoltato in un’intervista in tivù, ma sentirglielo dire mentre lo hai accanto e ne puoi quasi distillare il fiato, mette i brividi. “Ci hanno anche rimproverato, lo ha fatto un ex collega, perché non ci siamo accorti che su una strada parallela si muoveva un’auto dei mafiosi, con Gioacchino La Barbera. Così almeno si è saputo poi. E io, trasformato in colpevole, ho dovuto spiegare che il compito della scorta non è quello di perlustrare le strade vicine ma di proteggere davanti e dietro la persona che può essere colpita, di non fare avvicinare nessuno”. Spiega le tecniche di protezione, descrive le manovre “a fisarmonica”, racconta che ora si viene formati a fare le scorte, i più fortunati anche a sparare, ma che a lui non l’aveva insegnato nessuno, che Angelo Corbo aveva dovuto imparare presto e da solo, con qualche insegnamento pratico dei più “anziani”, come difendere il giudice più odiato da Cosa Nostra. “Non è a noi che devono chiedere perché fu possibile uccidere Falcone”, dice. Uno scatto del pensiero lo porta oltre i risultati delle indagini. “Lo devono chiedere a chi avvisò Cosa nostra che lui stava arrivando a Palermo a quell’ora. Perché neanche noi lo sapevamo. Non avevamo alcuna notizia certa sull’orario. Certe informazioni non si davano in anticipo. Bisognerebbe sapere chi c’era a Ciampino (e qui la voce si fa dura), non dimentichiamo che il giudice partì da lì, non aveva preso un volo di linea ma per sicurezza aveva preso un volo di Stato. E invece loro si fecero trovare all’ora giusta, con precisione. Chi li aveva avvertiti?”. Torna lacerante l’interrogativo che non ha fatto dormire tanti italiani. Una soffiata complice e impunita perché si compisse la grande tragedia collettiva. Il “chi?” che rimane senza risposta. Con lui, Cervello e Capuzza che non riescono ad aprire la portiera della Croma di Falcone e allora restano armi in pugno, sanguinanti, a difenderlo dal possibile colpo di grazia dei killer mafiosi.
Angelo Corbo, medaglia d’oro al valor civile, è ancora in servizio. Ispettore presso la sezione di polizia giudiziaria al tribunale di Firenze. Non è dunque solo un pezzo di memoria. Anche se la memoria, questo è certo, lo ha inchiodato al boato; e gli ha regalato un compagno di vita che non lo molla mai, il rovello di aver visto un giorno i suoi amici saltare in aria e poterlo raccontare. Nel paese in cui masse di corrotti impuniti, anche a pochi chilometri da qui, pretendono applausi, tappeti rossi e onorificenze, tetragoni a ogni vergogna, un uomo onesto e dallo sguardo malinconico, un uomo dello Stato, sente la colpa di essere uscito vivo dalla guerra mafiosa che ha fatto a pezzi i suoi colleghi. Che abisso di umanità, amici…

Tratto da: Il Fatto Quotidiano dell’8 giugno 2014

Incredibile, Riina sbugiarda se stesso: “L’aereo su Capaci? Fesserie” da: antimafia duemila

riina-salvatore-big425 maggio 2014

Totò Riina sbugiarda se stesso. Venti anni fa aveva suggerito ai giudici nel corso del processo per la strage di Capaci, che quell’aereo che volava mentre Giovanni Falcone tornava a casa, avrebbe potuto spiegare tante cose. Al carcere di Opera, durante una delle tante conversazioni con il suo compagno d’aria, il pugliese della quarta mafia, rivendicando la regia dell’attentato, ha smentito tutto. “Hanno detto un sacco di fesserie”, riferisce al suo interlocutore, cui spiega che era lui a dare gli ordini. Se l’avessero ascoltato fino in fondo, avrebbero dovuto aumentare di 150 chilogrammi la carica di tritolo per fare saltare il magistrato siciliano e la sua scorta. Per essere sicuro del risultato.

Il fantomatico aereo, che ha riempito le cronache per anni, scompare per volontà del boss. Durante i colloqui in carcere, dal mese di luglio a novembre dello scorso anno, giudica spazzatura le storie che sono circolate, a cominciare dall’aereo dei servizi. Riina si attribuisce per intero il “merito” del successo, senza ombra di dubbio.

Perché mai il capo dei capi cambia totalmente versione sulla strage? Non solo la rottura del silenzio, ma la scelta di sbugiardare se stesso. Nel 1994 si difese e lasciò che si sospettassero anche i servizi segreti, cui sarebbe appartenuto l’aereo sul cielo di Punta Raisi, ed ora, invece, manda all’aria tutto quanto, allontanando il sospetto dai servizi.

Perché lo fa? Venti anni di carcere l’hanno provato al punto da fargli perdere la memoria e smentirsi? Ha scelto di accreditarsi come l’uomo più risoluto e potente, pagando il prezzo dell’autoaccusa? Oppure c’è dell’altro? Cambia versione perché ha una strategia che affida al compagno dell’ora d’aria e, soprattutto, a coloro che l’ascoltano. Perché è possibile che sapesse di essere ascoltato ed intercettato. Sono tanti ad escluderlo, tuttavia, facendo notare che Riina osserva il più rigoroso silenzio in cella, per timore di essere ascoltato, mentre nel cortiletto dell’Opera parla senza freni. Segno che confida nella privacy.

Comunque sia, l’autoaccusa del boss e la cancellazione dell’aereo misterioso dal cielo di Punta Raisi costituisce una novità importante, della quale la Procura di Caltanissetta ed il collegio giudicante dovranno tenere conto. Le conversazioni del carcere di Opera sono state consegnate ai magistrati della Corte di Assise di Caltanissetta, che giudicano gli imputati della strage di Capaci (la prima udienza si è svolta il 24 maggio). Furono depositate anche al processo per la presunta trattativa Stato-Mafia che si svolge a Palermo.

I contenuti dei colloqui di Riina sono stati anticipati dai media, insieme alle registrazioni e ai video. Sulle bugiarderie di Riina non era uscita una sola parola. Men che mai sul fantomatico aereo dei servizi, in volo durante il trasferimento in auto di Giovanni Falcone da Punta Raisi a Palermo.

siciliainformazioni.com

Quando Falcone incontrò la mafia Tratto da: linformazione.eu

quando-falcone-incontro-la-mafiadi Luciano Mirone – 22 maggio 2014

Aveva ventisette anni Giovanni Falcone quando conobbe la mafia. Era il 1967, era reduce da Lentini, dove aveva fatto il Pretore. Quell’anno fu nominato sostituto procuratore a Trapani. E a Trapani si occupò subito di mafia, istruendo il primo processo importante, quello alla banda del boss di Marsala, Mariano Licari. C’era un armadio pieno di carte, gli fu detto: ‘Leggile tutte, farai il Pubblico ministero in questo processo’. Al cospetto di Licari confidò ai colleghi: ‘Oggi ho guardato in faccia il primo boss della mia vita’. Il primo di una lunga serie. Poi ci sarebbero stati i Minore di Trapani, gli Agate di Mazara del Vallo, i Rimi di Alcamo (che lui stesso contribuì a mandare al soggiorno obbligato), gli Zizzo, i Gullo, i Palmeri, i Capo, i Messina Denaro”.

Anni straordinari. Che vanno dal 1967 al 1978. Anni in cui il magistrato inizia una carriera straordinaria e si fa le ossa per combattere il crimine organizzato. Anni belli, anche dal punto di vista privato, spensierati, allegri. Partecipa a feste e ad incontri culturali, frequenta l’intellighenzia della città, imprenditori illuminati, avvocati, colleghi, psicologi, letterati. Diventa amico di un altro magistrato che alcuni anni dopo sarebbe morto, come lui, per mano mafiosa: Giangiacomo Ciaccio Montalto. Si reca a Palazzo di giustizia senza scorta. Insomma vive una vita felice.

A ricostruire l’inizio della carriera di Giovanni Falcone – che coincidono con il periodo trapanese – è lo scrittore Salvatore Mugno (decine di libri all’attivo), 52 anni, che per l’editore Di Girolamo pubblica “Quando Falcone incontrò la mafia” (prefazione di Dino Petralia, ex collega di Falcone, ed attualmente magistrato a Palermo).

“Undici anni molto intensi – dice Mugno –, nei quali emerge una figura inedita. Intanto si supera certa vulgata secondo la quale, a Trapani, Falcone facesse soltanto il giudice civilista. Non è così. Approfondire questo periodo è essenziale per capire la sua storia di magistrato. D’altra parte, lui stesso in più occasioni ha dichiarato che in quegli undici anni si era formato per combattere il crimine organizzato”.

E dal punto di vista privato, com’è il Falcone “trapanese”?
“Diverso da quello che avremmo conosciuto successivamente. Anni dopo, a Palermo, avremmo visto un Giovanni Falcone blindato, senza una vita privata e sociale. A Trapani è tutto l’opposto: ha una vita sociale brillante, spumeggiante, ricca, nella quale partecipa ad attività culturali, va in discoteca, gli piace il cinema, si reca alle feste di carnevale. La sua ex moglie era una grande trascinatrice, lo coinvolse molto. Il primo capitolo del libro infatti si intitola ‘Gli anni della dolce vita”.

Da dove hai tratto tutte queste notizie?
“Da processi, da interviste, da ritagli di giornale, ma anche da testimonianze dirette. Ho intervistato i magistrati Pino Alcamo, Mario D’Angelo, Francesco Garofalo, Silvio Sciuto, Dino Petralia, e poi diversi giornalisti come Giacomo Di Girolamo (figlio di un magistrato)”.

Nel libro parli dell’amicizia fra Falcone e Ciaccio Montalto.
“Ci sono molte foto inedite dove i due vengono ritratti. Foto di feste, di cene, di momenti spensierati ed anche professionali. Quando Falcone andò via da Trapani, Ciaccio Montalto e molti altri colleghi si rammaricarono molto”.

Ci sono episodi di quel periodo che ti hanno colpito?
“Un episodio che risale all’alluvione che colpì la città nel 1976. Quel giorno il magistrato, mentre tornava a casa (un appartamento ubicato in via Fardella), rischiò di annegare; si salvò per miracolo, facendo un bel po’ di strada a nuoto. Sbatté contro una panchina e si infortunò”.

Cosa ti ha incuriosito di più di quegli anni?
“La grande tenerezza di Falcone verso i bambini. Nel libro emerge in diverse parti”.

E della vita professionale?
“La riservatezza. Lavorava moltissimo anche d’estate e fino a tarda sera, era velocissimo nell’espletare i processi, studiava tanto anche a casa”.

Era consapevole della sua straordinaria caratura di magistrato?
“Assolutamente no. I suoi amici sono concordi nel dire che non fosse ancora consapevole di essere Giovanni Falcone”.

A Trapani si era fatto dei nemici?
“Quando andò via non tutti si comportarono da amici. Bisogna considerare che all’epoca istruì diversi processi contro i politici locali: quello per lo scandalo dell’Istituto autonomo case popolari, e quello per le ‘tombe d’oro’. Vennero coinvolti sindaci, assessori e consiglieri comunali. Logico che avesse dei nemici”.

Tratto da: linformazione.eu