Nella mattinata di ieri due forti esplosioni hanno devastano Xerbî, quartiere di Qamişlo nel nord est della Siria. Due bombe – la prima su un camion e la seconda, pare su un auto – sono esplose vicino alla sede delle forze di sicurezza interna kurda Asayish sventrando decine di palazzi e causando almeno 70 morti e più di 150 feriti. La deflagrazione è stata così forte che feriti e danni ad abitazioni sono stati riportati anche a Nusaybin, città confinante nello stato turco. L’Isis ha subito rivendicato l’attentato con un comunicato postato su Telegram da Amaq, agenzia stampa ufficiale del califfato.
La strage trova poco spazio sui media europei in ossequio al fatto che il sangue versato a certe latitudini non valga l’attenzione, il compianto e il cordoglio riservato ai morti nostrani. E a niente vale il fatto che bersaglio dell’attacco terroristico sia un popolo che ogni giorno combatte contro il fascismo e l’oscurantismo di Daesh.
Qamişlo è la capitale del Cantone di Cizîrê, una delle prime zone liberate dalle Unità di difesa del popolo kurde (YPG e YPJ), capitale della Siria del Nord dopo la proclamazione del nuovo Stato Federale da parte del PYD (Partito dell’Unione Democratica) e la città più grande dell’intero Rojava. A ridosso della frontiera turca, è una delle principali basi delle forze kurdo-siriane e più volte è stata oggetto di attacchi terroristici. Ad aprile un kamikaze si è fatto esplodere uccidendo sei membri delle forze di sicurezza interna curda, Asayish. In luglio, almeno 16 persone sono morte a Hasaka sempre in un attentato suicida. Quello di ieri è però sicuramente l’attentato più grave per proporzioni e numero di vittime, compiuto nonostante i numerosi check point nella città e i frequenti sequestri di notevoli quantità di esplosivo alle porte della città. Attentato che giunge fra l’altro in un momento decisivo per la liberazione della città di Manbij a ovest del cantone di Kobane dove in questo momento sono concentrati i maggiori sforzi da parte dello YPG e dello YPJ e delle Siryan Democratic Forces.
Manbij è da tempo utilizzata come principale via di rifornimento da parte islamista, sia di armi che di uomini che facilmente raggiungono il nord della Siria dal poroso confine turco. La sua liberazione permetterebbe alle forze kurde di raggiungere il cantone isolato di Efrin e al contempo di isolare Raqqa, bastione Isis, sua “capitale” de facto. Il settanta per cento della città è sotto controllo delle unità di difesa kurde ma ci sono ancora migliaia di civili da salvare.Isis attacca la resistenza kurda in un momento quindi in cui dei passi importanti si stanno compiendo per la liberazione e mentre il confine turco-siriano sta per passare totalmente in mano ai kurdi. Questo vile attentato non fermerà la lotta per la liberazione ma in questo momento il pensiero più grande va ai feriti e alle vittime per cui il Rojava ha dichiarato tre giorni di lutto.
Una tragedia usata per paragonare Stalin ad Hitler.
Nel recente viaggio in Armenia, nel discorso e in un’intervista, Papa Bergoglio ha rievocato, usando il termine genocidio, le tragiche vicende del popolo armeno sotto l’Impero ottomano nel 1915 durante la prima Guerra mondiale. Richiesto del perché avesse sollevato la questione, ha aggiunto: “ho sempre parlato dei tre grandi genocidi del secolo scorso, quello armeno e poi quelli compiuti da Hitler e da Stalin” (Corriere della Sera, 27 giugno 2016).
Ci si può in effetti domandare sul perché di quell’esternazione, per la quale ha ricordato anche parole simili di suoi predecessori, e che ha fra l’altro suscitato ancora una volta una prevedibile reazione diplomatica della Turchia in questo momento cosi cruciale per quel paese. Non si sfugge al pensiero che la complessiva affermazione, di portata grave ma di errato fondamento, costituisca una meditata costruzione aderente ai dettami del pensiero unico del sistema occidentale. Solo in apparenza abile: incontrando la generale e coltivata ignoranza e l’incrostazione di pregiudizi stabilita dal pensiero unico, la costruzione propone una terna di reali o asseriti genocidi come il canone dell’esemplarità negativa.
Si parte dall’episodio armeno relativamente minore ma per così dire estraneo ai grandi conflitti del novecento, quasi a garantire un punto di avvio ‘neutrale’, si pongono al centro i genocidi hitleriani, gli unici generalmente indiscussi, e si culmina –forse anche suggerendosi un andamento di crescendo degli orrori- con quelli attribuiti a Stalin, che fino a qualche decennio fa nemmeno i più accaniti anticomunisti, pur nella condanna degli episodi relativi, avrebbero qualificato come genocidi. E in tal modo, fra l’altro, consacrandosi l’improponibile equiparazione di Stalin a Hitler, cara appunto al pensiero unico.
La selezione delle tre vicende ha anzitutto carattere del tutto arbitrario. Voler individuare i tre grandi genocidi del secolo XX° cancella il fatto che tutta la storia moderna, dalla scoperta delle Americhe, è costellata di enormi e indiscutibili genocidi, sui quali fra l’altro si fondano gli attuali Stati delle due Americhe, a partire dagli USA. L’intera storia coloniale, poi, è costituita da genocidi, che si sono protratti fino al secolo XX°, anche dopo il superamento almeno formale del colonialismo: si pensi solo al genocidio nel Ruanda. Il ritaglio effettuato dalle parole papali non ha senso se non nella strumentalità dell’operazione.
Questa converge con una recente tendenza, probabilmente anch’essa coltivata strumentalmente, consistente nel ‘riconoscimento’ di certi genocidi ad opera di determinati Stati, soprattutto occidentali. Un riconoscimento effettuato con atti legislativi, che spesso arrivano a sanzionare penalmente chi si ponga in contrasto con siffatte qualificazioni. Anche qui non è forse un caso che, a parte la Shoa, sia venuta in gioco, quale aggancio emotivamente utile, la vicenda armena, suscitandosi così conflitti diplomatici con la Turchia, che non nega la tragica sorte subita dal popolo armeno, ma ne contesta il carattere genocidario.
Come escludere che voglia arrivarsi a un risultato analogo con gli episodi attribuiti a Stalin? Ma si tratta, con siffatti riconoscimenti, di una tendenza insana e non in linea con la vigente disciplina internazionale del genocidio, che risale alla Convenzione basata sul testo approvato dall’Assemblea generale delle NU con ris. 260 (III) del 9 dicembre 1948. Tale disciplina, a parte la responsabilità internazionale degli Stati, impegna questi a punire il crimine di diritto internazionale di genocidio, negli atti specificamente individuati dalla Convenzione, quali crimini degli individui attori, anche se organi statali, da perseguirsi attraverso le istanze giudiziarie dello Stato individuato come competente o eventuali tribunali internazionali costituiti a tal fine. Particolarmente significativo è che viene stabilita la giurisdizione della Corte internazionale di giustizia dell’Aja per l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione: quindi anche, deve ritenersi, qualora vi fosse contrasto fra Stati circa la qualificazione di determinate vicende come genocidio.
È pertanto da escludersi che tale qualificazione possa essere compiuta in sede politica o legislativa dagli Stati o da qualunque autorità, Papa compreso: solo la libera indagine storica e giuridica potrà farlo in sede scientifica, giuridicamente solo le diverse autorità giudiziarie richiamate. L’atteggiamento attualmente seguito, lungi dal favorire le pacifiche relazioni fra gli Stati, può portare solo a gravi contrasti e il caso della Turchia ne è un esempio. Questo Stato ha emanato per reazione una legge per cui si condanna, come lesivo dell’onore nazionale, chi affermi il ‘genocidio’ armeno. Con esiti paradossali: chi nega il ‘genocidio’ armeno (e dunque le stesse autorità turche o gli ossequenti alle leggi turche) potrebbe venire condannato nei Paesi del riconoscimento; chi lo afferma (comprese le autorità dei Paesi riconoscenti) potrebbe subire la stessa sorte in Turchia. Bel contributo alle pacifiche relazioni!
Ma il ricorso alla Convenzione del 1948 permette di stabilire il punto essenziale che smonta la costruzione della terna papale. Per l’art. 2, perché si possa parlare di genocidio rispetto a una serie di atti che vengono definiti, occorre che questi siano ‘commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale‘ (corsivo nostro). Un elemento soggettivo, dunque, e cioè l’intento o addirittura un progetto volto all’indicato fine distruttivo (ed è soprattutto questo il punto contestato dalla Turchia), e un elemento oggettivo, che riguarda la vittima del progetto, una popolazione individuata sotto un profilo per così dire biologico.
Nelle vicende anche tragiche dell’Unione Sovietica, alle quali non restano estranee responsabilità degli Stati occidentali, sono in realtà assenti ambedue i presupposti, dato che le situazioni lamentate o non furono provocate intenzionalmente e su piani deliberati (secondo quanto invece si favoleggia per la carestia ucraina degli anni ’30) o comunque non miravano a distruggere un’entità nazionale: nel caso dell’Ucraina, la carestia provocò un’enorme quantità di vittime, non certo peraltro superiore a quelle causate negli anni venti dalla guerra civile e dall’intervento dei Paesi occidentali, ma basti riflettere al grande numero di Ucraini anche dirigenti impegnati nel partito bolscevico, e dunque dall’altra parte della barricata, per confutare l’ipotesi.
Non si obietti che il richiamo della Convezione del 1948 costituisca un argomento formalistico. Il discrimine è essenziale, perché è quello tra misure contro individui e popolazioni per quel che si è (dato biologico) o invece per quel che si fa (o si è accusati di fare). E’ un discrimine assoluto nella definizione del genocidio, che non è riconoscibile dove le misure abbiano fondamento essenzialmente politico. Il discorso non pregiudica di per sé il giudizio sulle misure dell’epoca di Stalin, e cioè se condannabili o meno, ma le fa rientrare comunque in un quadro estraneo alla problematica del genocidio.
In proposito non può dimenticarsi che l’Unione sovietica è stata parte attiva nella preparazione della Convenzione del ’48, e la ha ratificata. Sarebbe ben singolare che avesse predisposto un atto internazionale vincolante che avrebbe potuto comportare la messa sotto accusa e la condanna di suoi dirigenti.
Ma, ancor più, a conclusione: i popoli sovietici sotto Stalin sono stati le vittime del più grande genocidio hitleriano, quello della guerra di aggressione del 1941, che è stata condotta con propositi e modalità genocidari ai danni dei ‘sottouomini’ slavi e in primo luogo russi per la conquista dello spazio vitale da parte del nazifascismo: ai sei milioni di vittime ebree (e a tutti gli altri) vanno fatti precedere i più di venticinque milioni di Sovietici morti nella guerra genocida. E questa, sì, condotta secondo i due criteri riconosciuti dalla Convenzione del 1948. Ed è principalmente alla lotta dei Sovietici che si deve lo schiacciamento del nazifascismo, mentre non va dimenticato l’atteggiamento compiacente degli Stati capitalisti e della stessa Santa Sede davanti alla crescita del nazifascismo.
Il gioco di prestigio perpetrato attraverso la terna di Papa Bergoglio si svela come adesione e promozione del sistema del pensiero unico occidentale, strumento certo non di verità né di pace. La criminalizzazione di Stalin è esercizio quotidiano di un sistema in profonda crisi, che deve distruggere financo la memoria dell’unica alternativa realizzata di contrasto a lungo vittorioso contro il sistema capitalistico, imperniata sul nome di Stalin. È un fatto molto triste e doloroso che l’esternazione papalina si iscriva in tale ambito.
* Aldo Bernardini, già Rettore dell’Università di Chieti e membro della Direzione Centrale del Partito Comunista.
Attualmente, mentre il sistema capitalista nella fase imperialistica si trova nella crisi più acuta e prolungata della sua storia, mentre in varie parti del mondo l’insurrezione operaia avanza verso lo scontro più diretto tra capitale e lavoro, è pertinente dibattere la questione della presa del potere attraverso l’uso della violenza rivoluzionaria. Oggi mentre il sistema capitalista evidenza la sua incapacità storica a risolvere i problemi ad esso connaturati come la fame, la disoccupazione, il diritto all’abitare, la conservazione dell’ambiente e la pace, è necessario discutere se il capitalismo possa esser riformato o debba esser rovesciato. Riformato con misure neokeynesiane, attraverso nuove gestioni socialdemocratiche di governi progressisti e di “sinistra”, mediante l’avallo e il consenso dei monopoli che simulano processi elettorali democratici? O rovesciato mediante processi di rottura, di creazione di nuove forme di potere operaio e popolare, fuori dal quadro della legalità borghese, mediante l’uso della violenza rivoluzionaria? Il dilemma non è o lotta armata violenta o via elettorale pacifica, ma quali devono essere i criteri dei rivoluzionari per poter utilizzare ognuna di queste forme di lotta?
Un principio dei comunisti e dei rivoluzionari è quello della combinazione di tutte le forme di lotta, sapendo in ogni momento qual è il fattore principale nei differenti periodi della lotta di classe. Ossia, noi comunisti non escludiamo l’uso del parlamento, la via elettorale, la lotta pacifica e politica aperta, come nemmeno denigriamo, per principio, la lotta armata. Pertanto si può dire che la lotta armata non solo è una forma difensiva imposta dal nemico mediante la sua violenza contro gli sfruttati, ma è un principio reale e oggettivo per esercitare la volontà degli oppressi per la loro emancipazione. Questo non è un dogma come i riformisti e i detrattori del marxismo leninismo affermano, ma un principio di lotta di classe nella risoluzione delle contraddizioni politiche e sociali tra classi antagoniste. La lotta di classe non solo è politica e ideologica, ma è intrinsecamente una lotta militare dove ognuna delle parti utilizza i propri strumenti per disarmare il nemico e imporre la propria volontà. Questo non è solo dimostrato dai pensatori del socialismo scientifico come Marx, Engels e Lenin, ma soprattutto dalle centinaia di teorici militari delle classi dominanti nella storia dell’umanità. Per questo noi comunisti dobbiamo esser molto chiari in questo senso: la violenza che esercitano gli sfruttati per la loro liberazione non può esser perseguita dai concetti morali di una cultura e di una società borghese nella quale le basi economiche, politiche, ideologiche e giuridiche trovano il loro sostegno nella spoliazione dei lavoratori e nella loro dominazione mediante una violenza strutturale.
Per i comunisti è chiaro che la violenza rivoluzionaria non solo “è la levatrice della nuova società”, ma è soprattutto un atto di legittimità che hanno gli oppressi una volta giunto il momento storico per togliere il potere politico ed economico ai loro oppressori. La sparizione della proprietà privata sui mezzi di produzione che origina la divisione tra classi sociali e i loro antagonismi e pertanto la violenza, finora non è avvenuta attraverso conciliazione e accordi duraturi. Le leggi sociali e politiche dentro il regime borghese contengono patti momentanei tra le classi per mantenere periodi relativi di pace sociale, che sono in realtà momenti di preparazione alla guerra. Tuttavia, questo non vuol dire che lo Stato sia un garante del concretizzarsi di questa legalità e conciliazione tra classi. Al contrario, noi comunisti abbiamo ben chiaro che lo Stato è un apparato di dominazione di una classe su un’altra e oggi a dominare sono l’oligarchia e i monopoli. Pertanto non sorprende che la corruzione e l’impunità mostrino da che parte sta la giustizia. Nei cicli del capitalismo, dove le crisi di sovrapproduzione e sovraccumulazione sono congenite, è sempre più frequente e duratura la tendenza dello Stato borghese alla repressione, l’incarceramento, l’assassinio e la sparizione forzata, con metodi legali e illegali, nei confronti delle classi sfruttate che lottano per un mondo migliore. Per questo noi comunisti non possiamo accettare che la violenza sia unicamente l’aggressione fisica dei corpi di polizia, militari e paramilitari dello Stato, ma anche e soprattutto la disoccupazione, la mancanza di potere d’acquisto, la miseria, la mancanza di accesso ai servizi sanitari ed educativi; una situazione quasi naturalizzata e impercettibile che fa parte della violenza strutturale del capitalismo.
In questo senso, la violenza rivoluzionaria non è un invenzione, un dogma o un unico metodo con il quale noi comunisti affermiamo il nostro lavoro politico. Nella storia dell’umanità, nei fatti e nella realtà contemporanea, le classi oppresse, con i comunisti o senza, hanno preso il monopolio della violenza a chi per un certo periodo di tempo lo ha esercitato per mantenere i propri privilegi di classe e il suo dominio. Il marxismo-leninismo ha sintetizzato queste esperienze storiche e in modo chiaro e franco indica che questa violenza degli sfruttati deve esser organizzata e diretta con l’obiettivo di metter fine alla violenza stessa, non come un effetto, ma come causa: il sistema capitalista, la proprietà privata dei mezzi di produzione e la divisione in classi sociali. Ossia noi comunisti non siamo apologeti della violenza, come reazione alla violenza; siamo al contrario organizzatori politici delle forme e metodi di lotta che gli stessi sfruttati hanno sviluppato in maniera quasi intuitiva, ma creativa, per riuscire a rompere le laceranti catene della miseria, dello sfruttamento e della repressione che esercitano oggi i monopoli. Questo non significa dire al nostro popolo che per ottenere cambiamenti veri alla radice è possibile solo mediante una schiacciante massa di seguaci di un progetto politico, ma che è un dovere e una necessità contare su uno strumento militare organizzato e subordinato a questo progetto politico che supporta non solo la volontà degli oppressi, ma che sconfigge anche la volontà degli sfruttatori. Conquistare le coscienze della classe operaia e degli strati sfruttati con un progetto politico senza uno strumento che sostiene questa volontà, è portare la nostra classe a una sconfitta e a una tragedia, perché finora l’esperienza storica ci dimostra che le classi dominanti non esitano ad utilizzare mezzi violenti per conservare i propri privilegi.
Noi marxisti-leninisti analizziamo in modo dialettico la realtà e le sue contraddizioni, per questo dichiariamo che le forme di lotta politica e pacifica non devono escludere le forme di lotta violenta e armata. Rinunciare a una di queste forme categoricamente senza conoscere la loro essenza e il loro ruolo nella lotta di classe, è essere dogmatici. Queste forme di lotta non sono escludenti, ma non possiamo rinunciare a nessuna di loro, come nemmeno possiamo esercitarle allo stesso tempo, come fa il revisionismo armato o condannando la violenza rivoluzionaria, come fa l’opportunismo elettorale e il pacifismo piccolo borghese. Finora i rappresentanti dell’opportunismo fanno del parlamentarismo e delle elezioni un dogma. I rappresentanti del riformismo propongono di limare le unghie della ferocia del capitale con misure keynesiane e con il ritorno dei diritti sociali e lavorativi oggi eliminati. I rappresentanti del revisionismo armato o civile rinnegano il ruolo della violenza organizzata per la presa del potere da parte della classe operaia. Mentre l’ultra-sinistrismo e l’anarchismo fanno dell’azione diretta la loro forma di lotta principale slegata dalle masse e senza una strategia più o meno coordinata. Ciononostante, tutti questi condividono qualcosa in comune: escludono forme di lotta storiche della classe operaia senza sapere qual è la forma di lotta principale, secondo l’analisi concreta della realtà concreta.
Tuttavia, in tempi di crisi economica e politica del capitalismo, esso si rende più violento e le sue forme principali di accumulazione di capitale avvengono mediante la svalorizzazione della forza lavoro e l’estrazione di plusvalore da milioni di operai, così come tramite la spoliazione di territori attraverso l’occupazione violenta, distruggendoli e ricostruendoli secondo gli interessi del capitale. Nel mondo capitalista, lo Stato democratico borghese al servizio dei monopoli e delle oligarchie esercita all’interno dei distinti paesi la repressione maggiore verso la classe operaia e gli strati sfruttati che resistono alle misure antioperaie e antipopolari. All’estero gli stati capitalisti più sviluppati economicamente esercitano l’occupazione di altri stati nazione, mentre altri stati meno sviluppati collaborano finanziariamente e militarmente con le potenze economiche in funzione della loro posizione nella piramide imperialista.
Di fronte a questo panorama, ricordiamo che la controrivoluzione in URSS non solo è stata una sconfitta momentanea per i comunisti e i rivoluzionari, ma per tutta la classe operaia mondiale. L’aggressività dell’imperialismo verso i popoli è stata devastante in Europa, Asia e Africa. Tuttavia, in America Latina viviamo negli ultimi 20 anni una resistenza all’introduzione di politiche economiche di cui, col sangue e col fuoco, beneficiano solo i monopoli. Per un piccolo lasso di tempo le misure antimperialiste dei cosiddetti processi progressisti e bolivariani hanno resistito all’assalto del capitale. Tuttavia, oggi questi processi si vedono minacciati per non aver radicalizzato la loro politica a favore della classe operaia e compiuto una rottura con le leggi di mercato ed economiche del capitalismo, conquistato la maggioranza dei lavoratori, isolato i settori reazionari ed esercitato la violenza rivoluzionaria contro gli sfruttatori mediante la creazione di uno Stato operaio e contadino dal vero carattere socialista. I processi caratterizzati da questo tipo di gestione del capitalismo si stanno rilevando disastrosi in Venezuela, Brasile, Ecuador, Argentina, Bolivia, El Salvador e Nicaragua.
Fino a questo momento, in America Latina, Cuba socialista e le Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia – Esercito del Popolo (FARC-EP), erano le forze fondamentali che mantenevano alta la bandiera del socialismo nonostante tutta la macchina militare, economica e ideologica dell’imperialismo e non solo degli USA. Come sappiamo, l’insorgenza colombiana è nata dalla necessità dell’impotenza di un popolo di fronte alla repressione e alla violenza esercitata da uno Stato colombiano che fino ad oggi serve le oligarchie per imporre i loro interessi col sangue e col fuoco. Per oltre 50 anni le FARC-EP hanno resistito eroicamente insieme al loro popolo alla guerra diseguale in termini militari, economici e ideologici che l’imperialismo ha imposto sul nostro continente. Tuttavia, dopo quattro anni di processo di pace all’Avana, Cuba, le FARC-EP hanno accordato una serie di misure preoccupanti per molti rivoluzionari nel mondo. Gli accordi tra lo Stato colombiano e le FARC-EP aprono un dibattito intorno alla vigenza della violenza rivoluzionaria per la presa del potere, ma anche una preoccupazione per coloro che in modo pubblico e fraterno hanno appoggiato le FARC-EP nei momenti più difficili, senza dare importanza ai rischi. Le domande e le preoccupazioni vanno intese nel senso più fraterno e solidale tra i rivoluzionari e non come fa l’opportunismo vile che oggi dice di rispettare le FARC-EP mentre mesi indietro condannava questa organizzazione e accettava anche gli appellativi dettati dall’imperialismo, come quello di “narco-terrorista”. In questo senso, è necessario aprire un dibattito intorno al ruolo della violenza rivoluzionaria come mezzo per la presa del potere e il socialismo. Un dibattito necessario e urgente nei termini più rispettosi della critica e dell’autocritica che caratterizza i comunisti.
In questo contesto, lo Stato Maggiore Centrale delle FARC-EP parla di “consegna delle armi”, un accordo preoccupante poiché la memoria storica ci ricorda lo sterminio che esercitò lo Stato colombiano contro migliaia di dirigenti e militanti dell’Unione Patriottica negli anni ’80 del secolo passato. Un processo nobile, civile e pacifico su cui le FARC-EP e l’insorgenza colombiana hanno puntato con le migliori intenzioni per realizzare la loro politica senza l’uso delle armi. Questo senza contare l’esperienza storica contemporanea di altri processi latinoamericani dove le forze rivoluzionarie hanno realizzato processi di pace senza che nel lungo periodo avessero ottenuto cambiamenti sostanziali in senso socialista. Al contrario, l’esperienza storica ci dice che una parte di questi processi pacificatori, come in El Salvador, Nicaragua o Venezuela, lo sviluppo della lotta politica e pacifica, hanno portato i popoli latinoamericani e le classi oppresse a legittimare e rafforzare, in un modo o nell’altro, il regime della democrazia rappresentativa e i rapporti mercantili del capitalismo. Dall’altro lato, di fronte alla sconfitta elettorale delle forze progressiste, la costante è stata la formazione di governi più reazionari nei vari paesi dell’America Latina. E’ certo che in certi periodi della lotta di classe, i processi progressisti o bolivariani hanno migliorato la qualità della vita delle classi espropriate, tuttavia oggi la tendenza è contraria. L’imperialismo avanza a passi da gigante in America Latina in modo aperto o velato, facendo ripiegare le forze rivoluzionarie, nonostante si possa colpire l’imperialismo con maggiore forza in virtù della crisi più acuta e prolungata del sistema capitalista mondiale.
D’altro lato, quali sono le garanzie che gli apparati militari e la mafia internazionale delle bande di narcotrafficanti siano smobilitate in Colombia e non esercitino più la loro violenza contro il popolo colombiano? E’ troppo rischioso avere fiducia che, nella maggior parte dei casi, le bande paramilitari al servizio dei monopoli, finanziate e create da politici della reazione colombiana, non faranno fuoco contro chi ha un progetto politico che attenta al business delle armi, dei privilegi e dei loro padrini. Come credere che le mafie dei narcotrafficanti non guadagneranno forza nelle zone smobilitate dall’insorgenza, portando i contadini poveri alla produzione di coca non vedendo essi risolte nell’immediato le proprie necessità di lavoro e di risorse? Come confidare in organismi per nulla neutrali e filo-imperialisti come l’ONU, che dalla controrivoluzione in URSS è stato un organo internazionale a favore dei monopoli, che ha violato anche i suoi stessi protocolli sui diritti umani, come dimostrano i recenti casi di Haiti e di altri paesi in Africa e Medio Oriente? Come confidare nelle leggi e negli accordi di uno Stato colombiano che continua ad attentare a iniziative politiche e pacifiche come quella della Marcia Patriottica, i cui dirigenti e militanti sono stati assassinati, incarcerati nell’impunità dello Stato Colombiano, senza che nessuno di questi casi sia stato chiarito e portato davanti alla giustizia?
Oggi come ieri le voci e le penne dell’opportunismo e del riformismo raffigurano come un dogma l’esercizio della violenza rivoluzionaria per la presa del potere da parte delle classi sfruttate. Tuttavia, finora, la pratica storica dimostra che solo coloro che hanno esercitato in modo cosciente e organizzato la violenza rivoluzionaria hanno realizzato cambiamenti radicali rovesciando le basi del sistema capitalista a favore degli operai e dei contadini. Gli esempi e i riferimenti storici sono evidenti nonostante i loro detrattori: la Rivoluzione Socialista d’Ottobre e al suo momento la Rivoluzione Cubana, solo per menzionarne alcuni. E in questo senso, la stessa esperienza storica dimostra che nella costruzione del socialismo, se non si ha chiaro il ruolo del Partito comunista come dirigente della rivoluzione, nella sua composizione operaia, nei principi del marxismo-leninismo come quello della dittatura del proletariato e dello stesso esercizio della violenza da parte dello Stato rivoluzionario, la reazione contrattacca e può prendere il potere politico e economico. Noi comunisti non possiamo continuare a commettere gli stessi errori nel nostro cammino storico. E’ dovere dei rivoluzionari non perdere i principi delle nostre concezioni politiche e ideologiche che la stessa realtà ci dimostra nella lotta dei nostri popoli per la loro emancipazione. Oggi che le contraddizioni del sistema capitalista sono più evidenti, mentre la classe operaia comincia a rafforzare la sua capacità organizzativa e politica, la violenza rivoluzionaria si rende necessaria come un mezzo per strappare il potere ai monopoli e conquistare una pace duratura, solo nel socialismo.
* Direttore di El Comunista, organo del Comitato Centrale del Partito Comunista del Messico.
di AMDuemila
Commissario della squadra mobile di Palermo (il suo primo incarico dopo essere entrato in polizia) Beppe Montana si dedicava alle indagini anche durante il tempo libero utilizzando la propria auto. Aveva 34 anni quando è stato ucciso, il 28 luglio di trentuno anni fa, dopo soli tre anni da quando era diventato commissario, appena quattro giorni dopo l’ultimo blitz (nel quale era convinto di aver interrotto una riunione della cupola mafiosa, con personaggi non ancora conosciuti). Montana viene ucciso a colpi di pistola da due sicari che gli piombano alle spalle, mentre si trovava al mare con gli amici e la fidanzata. A soli dieci giorni di distanza vennero assassinati anche gli amici Ninni Cassarà e Roberto Antiochia. Cassarà dirigeva la sezione investigativa della squadra mobile, mentre Antiochia era tra i suoi migliori investigatori, tornato a Palermo in ferie proprio per i funerali di Montana. “A Palermo siamo poco più d’una decina a costituire un reale pericolo per la mafia. E i loro killer ci conoscono tutti. Siamo bersagli facili, purtroppo. E se i mafiosi decidono di ammazzarci possono farlo senza difficoltà”, queste erano state le sue parole, purtroppo profetiche, dopo l’uccisione del giudice Rocco Chinnici.
Montana era amico e stretto collaboratore del vice questore Cassarà e aveva diretto le operazioni che avevano portato agli arresti di molti boss mafiosi. Nell’ultima irruzione, avvenuta il 24 luglio a Bonfornello, nel palermitano, Montana aveva arrestato un boss latitante e altri due importanti mafiosi, insieme ad altri sette affiliati.
Durante la loro ricerca (aveva catturato, tra gli altri, gli assassini di Dalla Chiesa e Chinnici, e condotto numerose indagini con Borsellino e Falcone) il poliziotto scopre raffinerie di droga, depositi di armi, indaga nelle vicende del Palermo calcio e della compravendita degli esami nelle scuole pubbliche.
Insieme a Ninni Cassarà e Calogero Zucchetto, Montana aveva contribuito alla redazione del famoso “rapporto dei 162”, che rappresentò il primo serio tentativo di costruire una mappa aggiornata dell’organigramma degli aggregati mafiosi e dei nuovi equilibri in via di definizione dopo l´inizio dell´ultima guerra di mafia. Gli indiziati erano il boss Michele Greco insieme ad altri 161 affiliati, legati tra loro e sparsi in diverse famiglie della città e della provincia, facenti riferimento ai capimandamento e ai capi della Commissione.
Per l’omicidio sono stati condannati all’ergastolo Totò Riina, Michele Greco, Francesco ed Antonio Madonia, Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca, Raffaele e Domenico Ganci, Salvatore Buscemi, Giuseppe e Vincenzo Galatolo.
Pochi giorni prima della strage perpetrata dall’ennesimo terrorista islamista a Nizza, un videogioco chiamato Pokemon Go è stato lanciato sul mercato mass mediatico dalla Nintendo ed è diventato un fenomeno internazionale. In Italia è uscito il 15 luglio 2016, il giorno dopo la strage di Nizza ..e scusate se sottolineo questa macabra coincidenza, ma per me non è casuale: ricordate il famoso detto degli antichi romani “Panem et circenses”, espressione con la quale Giovenale (Satire X, 81), ironicamente polemizzava sui metodi usati dagli Imperatori per domare le masse, ovvero “date i giochi alla plebe e sottometterete i loro cervelli ai diktat dell’impero, così i popolani vengono inebetiti dai giochetti e non si rendono conto dei veri mostri che li dominano”….Guarda caso, Pokemon Go consiste in una “caccia al mostro virtuale”…che poi tanto virtuale non è, come vedremo in seguito.
Pokemon Go è il primo videogioco di massa che fonde il mondo reale con il mondo digitale. Mischiando realtà virtuale e realtà “analogica”, il giocatore – la cui posizione sarà tracciata tramite il GPS del dispositivo Android o iOS – dovrà stare attento a scovare i pokemon (demoni) nelle sue immediate vicinanze. Si possono trovare in casa, nel parco giochi del quartiere, in piscina, ovunque. Il mondo è stato inondato di pokemon e il giocatore dovrà girare fisicamente per il mondo alla scoperta di tutte le specie possibili. Il valore economico delle azioni di Nintendo sta impazzendo, ma anche la gente ne diventa ossessionata e DIPENDENTE: come il neozelandese di 24 anni che è praticamente diventato “una star”, perchè le ore libere alla ricerca dei Pokemon non gli bastavano più. Così ha deciso di licenziarsi e di continuare a girare la Nuova Zelanda alla ricerca dei mostriciattoli. Ed il padre è pure fiero della totale irresponsabilità del figlio e neanche lo corregge.
IL PARERE DI PSICOLOGI:
li psicologi sconsigliano questo gioco che dissolve la realtà quotidiana con il mondo virtuale e irreale del gioco, trasportando i bambini in un mondo simulato.
Il gioco viene definito non violento, ma è una menzogna, perché in realtà la violenza ha un ruolo centrale. Il giocatore deve allenare il suo Pokemon, il suo mostro, e combatte con lui contro gli altri.
Pokemon non è un gioco che favorisce qualità come cameratismo e sobrietà: al contrario, si viene incitati alla cupidigia e alla gelosia, perché ogni giocatore vuole possedere al più presto tutti i mostri, con la conseguenza che i ragazzi diventano aggressivi e ricorrono all’inganno.
Dato che il gioco ha provocato nei bambini estrema distrazione e aggressività, è stato già proibito in molte scuole americane, inglesi, belghe e francesi.
Ciò che spesso sembra innocente è tutt’altro che innocuo!! C’è veramente il rischio di stati di ansia e di ossessione, che questo “gioco” può provocare, dato che sono moltissimi i casi di dipendenza ossessiva in molti bambini ed adolescenti, istigata dalle dinamiche del “gioco” Pokemon, (come la spasmodica corsa a possedere le “carte di energia dei Pokemon”: perchè viene inculcato il principio per cui “più Pokemon hai, più potere possiedi”), che spesso creano un vero LAVAGGIO DEL CERVELLO. Se i figli scappano in queste false compensazioni, è solo per colmare un vuoto terribile… In famiglia non si parla più, si sta incollati allo smarthpone o al pc: le Elite che comandano il business mediatico, stanno programmando la disgregazione delle famiglie e delle vere relazioni umane.
Nel 1997, la diffusione massiccia in Giappone del “gioco dei Pokemon” ha provocato non pochi ricoveri ospedalieri di bambini per crisi epilettiche e non sono mancati tra adolescenti casi di incubi legati direttamente a questi mostri. Il creatore dei Pokemon, il giapponese Satoshi Tajiri, in un’intervista rilasciata a Time Magazine nel 1999, ha ammesso che nei Pokemon ha “dato vita ai suoi demoni interiori”. Una frase molto ambigua, dato che quei demoni Pokemon hanno nomi ben precisi e riscontrabili nel satanismo. Questi esseri favolosi ovvero i mostri (né uomini né animali) sono inoltre immortali e continuano ad evolversi. In tal modo viene comunicata l’idea della reincarnazione, ovvero metempsicosi, assolutamente contraria alle dottrine bibliche.
Il gioco è pervaso da bizzarri rituali: le forze sovrannaturali e le metamorfosi giocano un ruolo importante. Del grazioso Ponita 40 ad esempio si dice: “I suoi zoccoli sono dieci volte più duri del diamante. Può calpestare qualsiasi cosa in brevissimo tempo”.
Il Pokemon Kadabra 64 emette onde alfa che provocano emicranie a chi si trova nelle vicinanze, e quando i grandi occhi di Pummeluff 39 luccicano, esso canta una misteriosa melodia calmante che fa venire sonno ai nemici.
Il confine tra realtà e fantasia viene cancellato.
In questo modo, si preparano i giocatori a compiere esperimenti o pratiche occulte, cosa che la Sacra Scrittura vieta espressamente (leggi Deuteronomio 18, soprattutto il verso 12). Molte persone respingono l’evidenza della dannosità di questo falso gioco, con la solita frase” ma sono solo assurdità!” e siccome lo fanno tutti, il branco va dietro ai caproni. A differenza di molti videogiochi , Pokemon Go è fin troppo reale: ha bisogno di persone che escano di casa, che vadano a scovare il mostro, è una “realtà aumentata”, e la scusa simpatica del gioco è quella che si possono anche conoscere ed incontrare persone nuove, in modi inconsueti… il Washington Post riporta che un sacco di persone sono addirittura finite in chiesa, nell’inseguimento delle creature Pokemon… ma entrare in una chiesa per seguire un video gioco che ti manipola la mente, oltre ad essere dissacrante, è veramente squallido.
NON E’ UN GIOCO. Durante la scorsa settimana, abbiamo visto persone commettere rapine nei luoghi segnalati dalle mappe del Pokemon Go, e ci sono gravi problemi di sicurezza. Sono già diversi i casi segnalati di furti a persone finite in zone isolate, o di cacce all’uomo portate a termine seguendo la localizzazione sull’app Pokemon Go della propria vittima. Di seguito riportiamo i dati inquietanti raccolti dal giornalista americano Ricky Scaparo …
Ma molto più allarmante è il contenuto del gioco stesso. “Pokemon” in realtà deriva da due parole giapponesi che significano “Pocket Monster” …
Significato della parola Pokémon: una contrazione di due parole giapponesi, “Poketto” e “Monsut”, che significa “mostro tascabile“.
Si tratta di angeli caduti, quindi demoni che usano poteri malefici. Uno di questi mostri si chiama Pikachu, che significa «cento volte più potente di Dio». Ogni mostro possiede la propria tecnica di combattimento: Pikachu sfinisce i suoi avversari tramite elettroshock fulminei, Kadabra emana onde di energia mentale alfa che provocano violenti dolori di testa al nemico, Drowzee divora i sogni del suo avversario, Tentacolo ferisce col suo acido pungente e Psyduck combatte con i poteri della psicocinesi. Alcuni dei Pokemon hanno nomi di demoni come ad esempio Bellsprout, Trctrebell, Weepinbell; possiedono tutti la parola bell, contrazione di Baal o Beel, antica divinità canaanea (Beelzebul). Tra le 151 carte dei Pokemon che i bambini comprano in edicola e si scambiano tra di loro, alcune hanno nomi di parole rovesciate come Ekans e Arbok che stanno per Snake (serpente) e Kobra. Ora, tutti sanno che il linguaggio rovesciato è tipico delle pratiche magiche.
Anche il Washington Post ammette che nel gioco ci sono creature come “un demone di fuoco” in Pokemon Go. Mentre i giocatori progrediscono attraverso il gioco, nel raccogliere questi mostri e demoni, nella loro formazione, e nel farli combattere contro i Pokémon di proprietà di altri, in realtà vengono indottrinati al mondo dell’occultismo. Qui leggiamo ancora da un sito cristiano, a cura di Ricky Scaparo …
IMMAGINI SUBLIMINALI NEI POKEMON: PENTACOLO SATANISTA
I Pokemon si suppone siano “mostri” che hanno poteri speciali e condividono il mondo con gli esseri umani. L’idea del gioco è quella che i giocatori imparino a raccogliere il maggior numero di Pokemon possibile , imparino la loro formazione , per usarli contro i Pokémon di altre persone invocando le diverse abilità di ogni creatura Pokemon. I Pokémon possono evolversi e passare attraverso i vari livelli, 100 è il più alto. Il gioco dei Pokemon è pericoloso? Potenzialmente, sì lo è. Condiziona il bambino, che si immerge nel gioco, ad accettare i princìpi dell’occultismo, ad accettare ed avere contatti coi demoni, facendoli apparire “attraenti ed accattivanti”. I Pokemon più forti sono dotati di “grandi poteri occulti”. Così si insegna ai bambini ed ai giovanissimi (nonchè agli adulti sprovveduti) che si possono utilizzare queste “entità” per eseguire il nostro volere, EVOCANDOLI tramite carte colorate cariche di energia e comandi. Questo falso gioco si basa su pratiche di occultismo anche orientale.
Le organizzazioni occulte ammettono che uno dei loro migliori strumenti di reclutamento sono i videogiochi e film e serie tv, ad esempio la serie di film del maghetto Harry Potter. Dopo la lettura dei libri o la visione dei film, molti bambini ed adolescenti hanno acquisito curiosità verso il mondo dell’occultismo e vi si sono addentrati.
LO AFFERMANO EX OCCULTISTI ED EX SATANISTI. Secondo l’esperto di occultismo Bill Schnoebelen, ex wiccano ed ex sacerdote satanista, convertito al Cristianesimo, i giocatori di Pokemon vengono indotti ad impegnarsi in ogni sorta di attività occulta, perchè con Pokemon Go tutto è molto reale ed intriso di ritualità occultiste…Bill Schnoebelen ha concesso la sua testimonianza di conversione dal satanismo al Cristianesimo in molti scritti, ma anche in VIDEO testimonianze di ex satanisti americani , esponendosi in prima persona.
Come molti videogiochi, Pokémon è pieno di concetti occulti. Concetti come “pietre magiche”, teletrasporto, fantasmi, l’occhio che tutto vede, potere psichico e l’utilizzo di spiriti per ottenere risultati nel mondo reale sono tutti “doni occulti”. Tutto questo è contrario alla Parola di Dio. I giochi e fumetti Pokémon, ecc insegnano una visione del mondo magico, che è completamente anticristiana, opposta alla Bibbia.
La visione del mondo della magia nei Pokemon è l’idea, comune a tutti i sistemi di credenze occulte, che in realtà non c’è alcuna divinità sovrana sulla creazione. Al contrario, la creazione è governata da una serie di leggi occulte. In un certo senso, l’universo è come un distributore automatico di “energia cosmica”. Si insegna che, finchè si inserisce la giusta moneta (cioè il rituale occultista, la “formula”) si può raggiungere automaticamente il risultato desiderato.
Particolarmente deviante è il concetto diffuso da Pokemon, secondo il quale i bambini vengono addestrati a “catturare” le entità demoniache per imparare a controllarle e ad usarle contro gli altri. Molti ritengono che questo rispecchia molto da vicino quello che molti occultisti di alto livello tentano di fare con i demoni reali. Afferma Bill Schnoebelen …
Il mago lavora all’interno di un cerchio magico appositamente preparato che presumibilmente lo protegge dal demone fintanto che rimane al suo interno. Egli usa le armi magiche speciali come una bacchetta, o la spada per minacciare il demone e fargli fare la sua offerta. Una volta che il rituale è avvenuto, presumibilmente il demone appartiene al mago che deve fargli la sua offerta – le clausole del loro contratto vengono gestite attraverso i rituali di uno stregone. Spesso il demone concederà al mago poteri occulti e gli conferirà talismani speciali per controllare gli altri. Tutto ciò fa parte dei gradi più alti dei rituali di magia.
Lo stesso viene rappresentato nel gioco Pokemon, che alla fine non è “finzione”!
Proprio come è avvenuto con i libri ed i film di Harry Potter, l’indottrinamento all’occultismo tra i giovani avviene in “modo ludico”.. quanti bambini dopo aver visto Harry Potter, hanno cominciato a praticare magia e spiritismo, con le conseguenze devastanti che sappiamo, a livello psicofisico e spirituale.
Basti ricordare cosa è accaduto con il “gioco Charlie Challenge” cominciato l’anno scorso e diventato virale in tutto il mondo. Anche quello NON E’ UN GIOCO, MA UNA SEDUTA SPIRITICA (evocazione di demoni), SIMILE ALLA TAVOLA OUIJA: ADOLESCENTI E BAMBINI RICOVERATI IN OSPEDALE PER ISTERIA COLLETTIVA, dopo aver giocato a scuola con il Charlie Challenge. Chiamato un sacerdote esorcista in ospedale, dato che l’intervento medico e psichiatrico non era servito a nulla, come riferisce il quotidiano Colombia Reports. Uno studente non identificato ha detto al giornale: “Una settimana fa era già accaduto: un compagno di classe, dopo aver giocato con la tavola Ouija, ha cominciato a parlare in lingue antiche che mai poteva aver studiato, colpiva se stesso, poi ha afferrato un bastone per colpire suo fratello.”
ANCHE IN ITALIA il “gioco Charlie Challenge” ha avuto effetti tremendi sulla psiche dei giovani ed in molte scuole italiane i dirigenti ne hanno vietato l’uso e la diffusione.
Tutti noi abbiamo la responsabilità di valutare ciò che stiamo alimentando nelle nostre menti, e questo è particolarmente vero se sei un genitore con bambini piccoli. Ecco il baratro in cui la nostra società, stregata dai media, sta precipitando. Milioni di persone vaganti come zombie alla ricerca di mostriciattoli: persone a caccia di demoni Pokemon nei cimiteri monumentali, nelle stazioni di polizia e nei siti dedicati alla memoria delle vittime di guerra fino ai ragazzi che rifiutano le cure mediche pur di poter continuare a giocare a Pokémon Go.
Una vera manipolazione mentale, altro che “gioco”, a corredo di un carosello di idiozie dove già non manca chi è andato a sbattere con la propria auto ed ha creato incidenti, perchè troppo intento a smanettare con lo smartphone a caccia di Pokemon…
Alla fine, ognuno farà quello che ritiene sia meglio per se stessi, ma per quanto riguarda me, la mia casa ed i miei cari, diciamo NO a Pokemon Go & inganni occultisti analoghi.
di Miriam Cuccu La sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta al processo “bis”
Il presidente della Corte d’Assise di Caltanissetta Antonio Balsamo ha pronunciato la condanna all’ergastolo per Salvo Madonia, Lorenzo Tinnirello, Cosimo Lo Nigro e Giorgio Pizzo, imputati al processo Capaci bis. E’ stato invece assolto Vittorio Tutino per non aver commesso il fatto.
Era il 23 maggio di due anni fa quando ebbe inizio il secondo processo sulla strage di Capaci, la bomba che fece saltare in aria l’autostrada all’altezza dello svincolo uccidendo il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
A dare il via a un nuovo capitolo sull’“attentatuni”quegli otto arresti scattati l’anno precedente, nell’aprile 2013. Chiave di volta delle indagini le dichiarazioni del pentito di Brancaccio Gaspare Spatuzza, insieme a quelle di Fabio Tranchina, che hanno consentito di fare emergere il ruolo della famiglia mafiosa di Brancaccio nella preparazione ed esecuzione dell’attentato. È grazie ai due collaboratori che è stata ricostruita la fase di recupero e la lavorazione dell’esplosivo poi immesso nel cunicolo autostradale. Per questo sul banco degli imputati erano finiti Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo, Vittorio Tutino e Lorenzo Tinnirello, tutti appartenenti al mandamento amministrato dal pugno di ferro dei due boss Graviano oggi al 41 bis, Giuseppe e Filippo. Unica presenza “esterna” al feudo di Brancaccio, quella del boss Salvino Madonia, imputato per aver preso parte alla riunione nella quale si decise di eliminare Falcone.
Spatuzza ha raccontato di aver recuperato l’esplosivo a Porticello grazie ad un’altra figura chiave, nonché ultima a collaborare con la giustizia: il pescatore Cosimo D’Amato, che al processo racconta di come fu istruito dallo zio, Pietro Lo Nigro, affinché quest’ultimo fosse informato dell’acquisto di “cassette di pesce”, la frase in codice per avvertire dell’esplosivo da recuperare.
Così è stato definitivamente accertato il ruolo di Brancaccio nell’eccidio del 23 maggio ’92. “Abbiamo un diluvio di prove che ci portano a concludere che l’esplosivo usato per la strage di Capaci era nella totale disponibilità del mandamento di Brancaccio”, e che l’esplosivo “arrivava da residuati bellici inesplosi rimasti in fondo al mare, poi sconfezionati”, aveva dichiarato il pm Onelio Doderodurante la requisitoria.“E la scelta di collaborare con la giustizia di Cosimo D’Amato – aveva aggiunto – scrive la parola ‘fine’ essendo il principale riscontro al narrato di Spatuzza e alle intuizioni dei consulenti tecnici” dalle quali “restava da individuare chi avesse procurato gli ordigni”. Insomma, sulla fase esecutiva sembra non esserci più dubbi. Eppure quanto alle “possibili cointeressenze di ambienti esterni a Cosa nostra, riferibili ai servizi segreti, alla massoneria o a forze politiche più o meno strutturate” ciò che viene restituito, aveva evidenziato il pm Luciani, è un quadro “né esaustivo, né sufficiente” sul contesto in cui maturò la decisione di far saltare in aria l’autostrada di Capaci. Davvero fu solo Cosa nostra a volere e a voler attuare l’eccidio contro il tanto odiato Giovanni Falcone? Secondo Lia Sava, procuratore di Caltanissetta facente funzioni, la ricerca della verità non può finire qui: “Gli spazi sulle cointeressenze di chi poteva avere interessi coincidenti con Cosa nostra possono ancora essere sviluppati” aveva detto al termine della requisitoria. Per questi aspetti ancora tutti da esaurire, aveva quindi annunciato, “potrebbe esserci un Capaci ter”. Precisando però che la pista ancora tutta da chiarire sui mandanti esterni “nulla toglie e nulla aggiunge a questo processo e alle posizioni degli odierni imputati”.
Bernie Sanders ha raccolto un valanga di no e anche fischi quando ha proposto ai suoi sostenitori di votare Hillary Clinton pur di battere Donald Trump. Non credo che sia perché tra di loro ci siano simpatie per il miliardario reazionario. Ma perché la candidata ufficiale del partito democratico rappresenta la pura continuità dell’establishment contro cui i seguaci del senatore del Vermont si sono mobilitati.
Clinton è per la Nato, per il TTIP, per la globalizzazione e le delocalizzazioni che hanno devastato l’industria americana. Trump promette di tassare i prodotti che le grandi imprese americane, tutte, costruiscono all’estero per risparmiare sul costo del lavoro e vuole mettere in discussione il WTO. Clinton promette nuovi interventi americani, nuove guerre per esportare democrazia, mentre Trump vuole che gli Stati uniti siano più isolazionisti e si occupino dei problemi di casa loro. Certo poi Trump sparge veleni e minacce xenofobe e sessiste ed in ogni caso è poco credibile come NoGlobal, ma come si fa a sostenere la candidata di Wall Street , delle multinazionali, della grande finanza? Come si fa a votare assieme Bloomberg?
La situazione politica degli Stati Uniti somiglia sempre di più a quella della vecchia Europa. Che per altro da decenni fa il possibile per copiare il modello politico degli USA. Il risultato è che la sinistra ufficiale è diventata la paladina di un sistema sempre più ingiusto e in mano ai ricchi, mentre la destra reazionaria finisce per occupare lo spazio vuoto in mezzo alle popolazioni impoverite.
Bernie Sanders aveva rotto questo gioco e portato di nuovo in campo la ragione sociale dimenticata della sinistra: l’anticapitalismo. Sanders sarebbe stato l’avversario più difficile per Trump, quello capace di smascherarne il finto interesse per le condizioni del popolo. Ma il partito democratico preferisce perdere con Clinton che vincere con un senatore che parla di socialismo. E ha fatto letteralmente, come ha svelato WikiLeaks, carte false per farlo perdere di fronte alla candidata del Palazzo.
Alla fine le elezioni presidenziali USA sono diventate l’alternativa tra la peste ed il colera, come dice in Francia chi ha lottato contro la Loi Travail e non voterà mai più per Hollande senza per questo scegliere Le Pen. Con queste altrenative la politica democratica non esiste più, questo dicono le elezioni negli Stati Uniti come molte di quelle che si annunciano in Europa. E infatti sempre meno persone vanno a votare su entrambe le sponde dell’Atlantico.
Toccata e fuga. Finalmente, a un anno dalla formalizzazione della proposta dell’integruppo per la legalizzazione della cannabis, la Camera ne ha iniziato la discussione. Non è poco, ma potrebbe anche essere tutto: tutto ciò che questa legislatura e questo Parlamento si consentiranno di dire su questa annosa e vitale battaglia di libertà. Non è difficile prevederlo, considerato il clima politico che si respira nella discesa verso le prossime elezioni politiche e considerato il fuoco di fila armato dalle destre e dai settori più conservatori del mondo cattolico.La sola calendarizzazione della proposta di legalizzazione all’ordine del giorno dell’assemblea di Montecitorio ha riattivato l’abituale armamentario proibizionista, condito – come usa – da qualche scienziato pronto a testimoniare i danni irreparabili che la cannabis produce nei cervelli dei più giovani, le morti che essa causa quando sia stata assunta alla guida, ecc. ecc.. Perché, «signora mia che l’ha fumata in gioventù, le canne di oggi non sono più quelle di una volta», e giù a sparare percentuali di principio attivo doppie, triple o quadruple di quelle normalmente sequestrate dalle forze dell’ordine, le quali – evidentemente – continuano a sequestrate quelle degli anni settanta, quando la signora e il tossicologo erano giovani.
O come se la legalizzazione della cannabis possa comportare un trattamento di favore rispetto all’alcool, e dunque rendere lecita la guida sotto effetto di sostanze stupefacenti. Tutte sciocchezze, ovviamente.
Legalizzare la cannabis non vuol dire consentire comportamenti a rischio per l’incolumità altrui, ma – al contrario – dismettere la parte più odiosa della guerra alla droga, quella che colpisce i ragazzi delle scuole e che costringe malati e anziani signori a rifornirsi sul mercato illegale per le proprie necessità terapeutiche o di benessere individuale.
1.107.051 persone sono state segnalate ai prefetti dall’entrata in vigore della legge Iervolino-Vassalli per possesso di sostanze stupefacenti a fini di consumo personale. Più di un milione di persone costrette a ramanzine e piccole o grandi vessazioni solo perché trovate in possesso di sostanze palesemente non destinate allo spaccio. Ottocentomila di queste, più del 70% del totale, erano in possesso di cannabinoidi. Che senso ha questo spreco di risorse pubbliche per dissuadere o stigmatizzare un comportamento diffusamente accettato nella popolazione?
Che senso ha l’impiego delle ancor più costose risorse della giustizia penale, dall’uso delle forze di polizia a quello del delicato marchingegno processuale, per la repressione di un mercato che può essere regolato per legge?
Giustamente la Direzione Nazionale Antimafia invoca una disciplina che possa limitare il potere di mercato delle organizzazioni criminali e liberare risorse investigative e processuali per perseguire comportamenti ben più gravi.
A settembre, dunque, se ne tornerà a discutere in Parlamento. E si vedrà cosa ne sarà. Certo è che le associazioni, i consumatori, le persone ragionevoli e di buona volontà non possono restare fino ad allora con le mani in mano, per poi lasciare alla cabala delle relazioni nella maggioranza o tra la maggioranza e le opposizioni la chiusura della partita. Ecco allora che a settembre sarà utile far arrivare in Parlamento la proposta di legge di iniziativa popolare promossa dai radicali, dall’associazione Luca Coscioni e da numerose associazioni, corredata da centinaia di migliaia di firme, per dar forza all’impegno dell’intergruppo antiproibizionista e lasciare la porta aperta alla speranza di un cambio di politiche sulle droghe nel segno delle libertà e dei diritti civili.