Nino Di Matteo non riesce a trattenere la commozione. Il tritolo per lui è già a Palermo da: journalsicilia

di Katya Maugeri

Taormina – “Io dissi che lo faccio finire peggio del giudice Falcone, perché questo Di Matteo non se ne va, ci hanno chiesto di rinforzare, gli hanno rinforzato la scorta. E allora se fosse possibile a ucciderlo, un’esecuzione come eravamo a quel tempo a Palermo”. Terribili, agghiaccianti, sono le dichiarazioni che il boss corleonese Totò Riina nel cortile del carcere milanese di Opera, rivolte al suo compagno d’ora d’aria Alberto Lorusso, mentre le telecamere della Dia di Palermo intercettavano ogni parola. Lo vuole morto, senza giri di parole.

A dare conferma di quanto visto e sentito, sono le dichiarazioni dell’ex boss di Borgo Vecchio, Francesco Chiarello: “Il tritolo si trova già a Palermo, è stato trasferito in un nascondiglio sicuro”, dichiara il collaboratore di giustizia. Ma la conferma non arriva soltanto da Chiarello. Sempre l’anno scorso, infatti, anche il collaboratore di Barcellona Pozzo di Gotto, Carmelo D’Amico, parlò di centocinquanta chili di esplosivo, senza indicarne la sistemazione, perché forse, l’unico a sapere dove sia nascosto, è soltanto Vincenzo Graziano, colui che lo acquistò. Lo stesso che, al momento del suo arresto, burlandosi delle forze fece una rivelazione piuttosto inquietante: dimatteo1“L’esplosivo per Di Matteo dovete cercarlo nei piani alti” I piani alti, probabilmente, rappresentano i dirigenti statali.

“Ho pudore a parlarne” lo dichiara commosso Nino Di Matteo, ieri a Taormina, durante l’incontro all’interno della kermesse letteraria Taobuk, la giornalista Evira Terranova – moderatrice dell’incontro – informa il pubblico di questa dichiarazione da parte del pentito Chiarello, rilegge quest’ultima notizia, “Il tritolo già a Palermo per Di Matteo”, lui con molta umiltà afferma che ultimamente la frase di Falcone fa eco nella sua mente “Il coraggio non è non avere paura”, piuttosto non farsi piegare, andare avanti. “Ho pudore a parlarne, purtroppo ho una brutta sensazione, ma amo il mio lavoro e lo vivo con enorme passione” lo ripete più volte commosso, visivamente consapevole di chi sono i suoi nemici. Perché lui stesso, durante l’incontro dichiara che è necessario parlare di mafia, di corruzione, che servono dibattiti costruttivi per abbattere i muri del silenzio, dell’indifferenza e dell’omertà, l’arma che ha ucciso più della mafia, poiché siamo di fronte a un’organizzazione che ha ucciso come nessun’altra prima, ha agito e compiuto in maniera atroce, eliminando ogni ostacolo. “Si parla poco, si riflette poco sul concetto di metodo mafioso”, parla di “obbligo morale della memoria e della conoscenza” perché Cosa nostra non è stata sconfitta, ha solo cambiato faccia e adesso siede nei salotti buoni.

Presente all’incontro il giornalista Salvo Palazzolo, coautore del libro “Collusi – perché politici, uomini delle istituzioni e manager continuano a trattare con la mafia”, un libro lucido, diretto che dà la possibilità di raccontare ciò che non si racconta. “Abbiamo bisogno dell’Antimafia dei fatti” dichiara Palazzolo, “Il mafioso è chi imbastisce un progetto, un’idea, un programma dettagliato, da seguire”, “librodimatteoLo Stato ci dovrebbe mettere in condizioni adeguate per lottare la mafia, il salto di qualità che occorre fare sarebbe un aiuto da parte dei politici, ma nei fatti non vedo nessuna volontà, non avvertiamo il sostegno della politica”, lo dichiara un Di Matteo deluso. “Molti politici definiscono noi magistrati come dei politicizzati, dei protagonisti egocentrici, sono gli stessi politici che adesso parlano bene di Falcone e Borsellino, quando ai tempi lo dicevano di loro”.

Alla fine dell’incontro sono stati ricordati Pippo Fava, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e tutte le vittime che hanno creduto nella loro missione, non martiri, ma uomini lasciati da soli, ai qual hanno rubato le ultime parole, “l’agenda rossa, gli archivi, ci hanno tolto le loro ultime parole, le parole della speranza”, e adesso abbiamo bisogno di fatti concreti affinché quel tritolo non distrugga altre parole, la missione di chi non molla e cammina a testa alta con dignità, nutrendo la speranza di debellare questa piaga sociale.

K.M.

Tritolo per Di Matteo, silenzio di morte da:antimafia duemila

Giorgio Bongiovanni

di matteo nino scorta effdi Giorgio Bongiovanni
“I centocinquanta chili di tritolo per uccidere Nino Di Matteo? Non si trovano, le ricerche non hanno dato esito. Sicuri che esistono?”. Nessuno lo ha detto direttamente ma non sono mancati i “perbenisti” e “benpensanti” che hanno parlato di “psicosi dilagante” fatta di continui allarmi “il cui protrarsi da alcuni anni può indurre al dubbio” sul rischio che il magistrato che indaga sulla trattativa Stato-mafia corre da quando il Capo dei capi, Totò Riina, ha lanciato i suoi strali di morte dal carcere “Opera” di Milano.
Cosa diranno oggi che un nuovo pentito, l’ex boss di Borgo Vecchio Francesco Chiarello, conferma in qualche modo quanto riferito dai collaboratori di giustizia Vito Galatolo, Antonino Zarcone e Carmelo D’Amico? Forse che Nino Di Matteo “si è fatto il pentito da solo”. Ce lo aspettiamo da un momento all’altro che qualcuno, qualche “mente raffinatissima”, qualche oscuro potente, “giovane rampante” o “vecchio saggio”, dica che “il pm della trattativa si crea pentiti a suo uso e consumo”.
Chiarello dice chiaramente che il tritolo si trova in qualche luogo di questa disgraziata città, nascosto chissà dove. E la sua fonte altri non è che il figlio del boss dell’Acquasanta Vincenzo Graziano. Proprio quest’ultimo, arrestato nel dicembre 2014, secondo quanto riportato da Vito Galatolo, era l’uomo incaricato di custodire i centocinquanta chili di esplosivo. In un primo momento erano stati nascosti dentro dei barili. Oggi ancora non è dato saperlo.
La notizia delle nuove rivelazioni di Chiarello viene riportata dal quotidiano La Repubblica, quasi sottotraccia, mentre una delegazione del Csm è giunta a Palermo per vederci chiaro dopo l’avvio di un’inchiesta, aperta dalla Procura di Caltanissetta, sull’assegnazione degli incarichi degli amministratori giudiziari dei beni confiscati alla mafia da parte della sezione misure di prevenzione del Tribunale. Un’inchiesta che coinvolge quattro magistrati palermitani, tra cui l’ex presidente della sezione Silvana Saguto e due amministratori giudiziari. Chissà se stavolta, diversamente a quanto accadde nel 2013 con la delegazione guidata dall’allora vicepresidente Michele Vietti, qualcuno si recherà nell’ufficio del giudice Di Matteo per esprimere la propria solidarietà.

Il silenzio di questi anni da parte dei più alti vertici delle istituzioni, dal Presidente della Repubblica Sergio Matterella (di cui aspettiamo ancora un segnale) al Premier Matteo Renzi, è scandaloso quanto la bocciatura alla Procura nazionale antimafia.
E’ uno strano destino quello del magistrato Di Matteo. Strano ed ingiusto. Un magistrato che da oltre vent’anni indaga su Cosa nostra, stragi, pezzi deviati delle istituzioni e che oggi, non essendo più in Dda, si trova escluso da quasi tutte le indagini sulla mafia e veste i panni del condannato a morte.
Perché ancora Cosa nostra, tramite Riina, abbia emesso questa sentenza lo possiamo solo intuire. Vito Galatolo ci fornisce ulteriori elementi spiegando che l’attentato si doveva fare perché il magistrato “è andato troppo oltre” non solo nel processo, ma soprattutto nell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. E’ quindi immaginabile che Di Matteo disturbi gli alti vertici del potere, quelli che hanno trattato e che stanno trattando con la criminalità organizzata.
Le parole di Riina, la lettera del capomafia trapanese Matteo Messina Denaro ai vertici di Cosa nostra palermitana possono essere pezzi di un puzzle che prefigura uno scenario ancora più inquietante? Possono essere il contenuto di una condanna a morte preventiva volta ad impedire che il giudice possa andare fino in fondo, magari arrivare in posti chiave per stanare quei personaggi che si annidano al centro del potere italiano e che ancora sostengono e mantengono in vita le organizzazioni criminali? Non lo possiamo dire con certezza. La speranza è che l’indagine della Procura di Caltanissetta possa battere sul tempo Cosa nostra e quei mandanti, indicati da Galatolo come “gli stessi di Borsellino”, impedendo un nuovo assassinio.

Presentazione del libro “Collusi” di Nino Di Matteo – 10 Luglio da: antimafia duemila

20150710-pres-collusiIl 10 luglio 2015 alle 18.30, nella Libreria Iocisto a Piazzetta Fuga a Napoli, verrà presentato il libro Collusi – Perché politici, uomini delle istituzioni e manager continuano a trattare con la mafia di Salvo Palazzolo, Nino Di Matteo edizioni BUR-RIZZOLI.

Da oltre vent’anni Nino Di Matteo è in prima linea nella lotta a Cosa nostra. Titolare di un’inchiesta che fa paura a tanti – quella sulla trattativa Stato-mafia, che si sviluppa nel solco del lavoro di Chinnici, Falcone e Borsellino – è lui il magistrato più a rischio del nostro Paese. Le indagini che ha diretto e continua a dirigere, ritenute scomode persino da alcuni uomini delle istituzioni, lo hanno reso il bersaglio numero uno dei boss più influenti: Totò Riina e Matteo Messina Denaro. Le parole del pm, raccolte dal giornalista Salvo Palazzolo, offrono una testimonianza diretta e autorevole sulle strade più efficaci per contrastare lo strapotere dei clan. E lanciano un grido d’allarme: Cosa nostra non è sconfitta, ha solo cambiato faccia. È passata dal tritolo alle frequentazioni nei salotti buoni, facendosi più insidiosa che mai; anche se le bombe tacciono, il dialogo continua: tra politica, lobby, imprenditoria e logge massoniche si moltiplicano i luoghi franchi in cui lo Stato è assente. Con una semplicità unica, Di Matteo condivide con il lettore la propria profonda comprensione del fenomeno mafioso di oggi. Così, tra denunce e proposte, questo libro permette di gettare uno sguardo ai meccanismi con cui Cosa nostra si è insinuata nelle logiche economiche, sociali e politiche del nostro Paese. Un’opera che si rivolge a tutti, perché è dalle azioni di ciascuno che deve partire il contrasto alla criminalità. Per non arrenderci a un futuro in cui mafia e sistema-Paese siano una cosa sola.

Partecipano:
Nino Di Matteo
Luigi de Magistris

modera:
Federica Flocco

Tratto da: associazionedema.it

Bomb jammer a Palermo per Di Matteo: ma la burocrazia lo ferma da: antimafia duemila

auto-bomb-jammerdi Miriam Cuccu – 8 maggio 2015
Da due settimane l’auto col dispositivo è parcheggiata in caserma
Sono state fatte manifestazioni, cortei, sit-in e persino una raccolta firme. Alla fine il ministero dell’Interno ha deciso di assegnare alla scorta del pm Nino Di Matteo il “bomb jammer”, il dispositivo che scongiurerebbe l’esplosione di una bomba azionata da un telecomando. Eppure, la macchina blindata con due antenne e il dispositivo anti-attentato al suo interno è ferma da due settimane, in una caserma dei carabinieri. Il motivo? La solita burocrazia all’italiana. Nonostante, infatti, gli uomini della scorta abbiano già frequentato il corso di specializzazione (la scorta è stata affidata ai carabinieri del nucleo scorte del comando provinciale e al gruppo di intervento speciale) non è stato ancora sciolto un nodo burocratico per consentire ai militari di utilizzare il dispositivo. Basterebbe solo una firma, per innalzare il livello di protezione nei confronti del pm più volte condannato a morte (ieri il pentito Galatolo, testimone al processo trattativa, ha ripercorso i vari passaggi della pianificazione dell’attentato). Eppure, ancora una volta, siamo di fronte ad un incomprensibile stop.

Le promesse del ministero dell’Interno, purtroppo, non sono state finora affidabili. Già ad aprile dello scorso anno, quando Scorta civica e le Agende Rosse avevano organizzato una manifestazione a Roma, una piccola delegazione, capeggiata da Salvatore Borsellino, si era presentata al Viminale per consegnare le circa seimila firme di chi, non potendo essere presente per l’occasione, si era ugualmente unito per richiedere l’applicazione del bomb jammer per Di Matteo. Il ministro dell’Interno Alfano, tuttavia, non si trovava lì nonostante avesse in precedenza concordato con il fratello del giudice Paolo un incontro in occasione di questa giornata. A distanza di un anno, il mese scorso, dopo che da parte del ministro non era pervenuta alcuna risposta, Scorta Civica si era data nuovamente appuntamento insieme ad altre associazioni per un corteo al quale si erano uniti un migliaio di persone, tra cui molti studenti delle scuole di Palermo.
di-matteo-palermoMa anche precedentemente il ministro Alfano non aveva mai preso una netta posizione in merito: nel dicembre 2013, alla domanda di Antimafia Duemila sulla mancata risposta all’interrogazione parlamentare dell’on. Luigi Di Maio, il ministro dell’Interno aveva risposto che “è stato reso disponibile il bomb-jammer”, trascurando però di aggiungere dei particolari importanti relativi ai test sui rischi per la salute umana che, secondo le informazioni in suo possesso, avrebbero impedito l’immediata installazione del suddetto dispositivo nelle auto di scorta del pm Di Matteo. Alcune settimane dopo, rispondendo alle domande di Giulia Sarti, deputata M5S e componente della Commissione parlamentare antimafia, aveva precisato: “Noi l’abbiamo già reso disponibile, salvo un’accurata verifica tecnica. Essendo dotato di una forte potenza elettromagnetica, può produrre effetti collaterali molto significativi alla salute e, quindi, è assolutamente da studiare. Secondo le informazioni in mio possesso in un ristrettissimo lasso di tempo saremo in grado di fornire una risposta”, addirittura nei “prossimi giorni”. Dei risultati di quei test non si è più saputo nulla (è certo che il jammer coprirà davvero tutte le frequenze radio?). Ad ogni modo, ora il dispositivo è finalmente a Palermo. La speranza è che a breve venga anche utilizzato.

Il verdetto del Csm: bocciato Di Matteo, non andrà alla Pna da: antimafia duemila

di-matteo-c-ansadi AMDuemila – 8 aprile 2015
Il Consiglio superiore della magistratura ha bocciato la candidatura del pm Nino Di Matteo, che insieme ai colleghi Teresi, Del Bene e Tartaglia si occupa del processo sulla trattativa Stato-mafia. La bocciatura riguarda il concorso per la copertura di tre posti alla procura nazionale antimafia. Il plenum ha nominato al suo posto tre colleghi meno noti, tra cui Eugenia Pontassuglia, pm del processo di Bari sulle escort che frequentavano le residenze di Silvio Berlusconi.
Una decisione che è stata presa a maggioranza. A Di Matteo, infatti, sono andati 5 voti, contro i 16 attribuiti agli tre magistrati scelti. Oltre a Pontassuglia, gli altri nuovi sostituti della Procura diretta da Franco Roberti sono il sostituto procuratore napoletano Marco Del Gaudio, pm del processo all’ex presidente di Finmeccanica Pierfrancesco Guarguaglini e il sostituto Pg di Catanzaro Salvatore Dolce, titolare di diverse inchieste sulle cosche calabresi.

Il nome del pm palermitano, inizialmente bocciato, era poi tornato in gioco a seguito della proposta del togato Aldo Morgigni (Autonomia e Indipendenza) che durante l’ultimo plenum del 17 marzo aveva evidenziato come la Terza Commissione, proponendo la propria terna di nomi, non avesse valutato nel giusto modo la candidatura di Di Matteo. Nella nuova graduatoria stilata da Morgigni Di Matteo era al primo posto secondo il meccanismo dei punteggi assegnati per ogni titolo. Il verdetto del Csm, però, ha confermato la bocciatura iniziale.

Foto © Ansa

Il CSM, l’asino che cascò due volte da: antimafia duemila

lodato-saverio-c-paolo-bassani-2di Saverio Lodato – 18 marzo 2015
Il CSM: ovvero, l’asino che cascò due volte.
Sarebbe una grande occasione per un “mea culpa” collettivo del Consiglio Superiore della Magistratura – ormai presieduto dal nuovo capo dello Stato, Sergio Mattarella – sulla spinosa vicenda che riguarda il P. M. palermitano, Nino Di Matteo. Sarebbe un’imperdibile occasione di “glasnost”, di trasparenza, cioè, per dirla alla russa, per ricominciare a mettere ordine in quella torre di Babele che è diventata la lotta alla mafia per responsabilità primaria – cerchiamo di non dimenticarlo mai – dell’ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Quando l’assemblea plenaria del CSM inizierà la discussione sui nomi dei magistrati chiamati a occupare i tre posti che si sono liberati nella Direzione Nazionale Antimafia, potremmo assistere all’alba di un nuovo giorno.
Un nuovo giorno: quello in cui si rispettano le regole. Un nuovo giorno: quello in cui si premia il curriculum migliore. Un nuovo giorno: quello in cui si dice pane al pane e vino al vino, ché il processo di Palermo sulla Trattativa Stato-Mafia e Mafia-Stato è il processo più delicato, più insidioso, più imponente (quanto ai capi d’accusa contestati) che si sia mai svolto dal dopoguerra a oggi. L’affermazione non sembri eccessiva: è la prima volta, infatti, che si ipotizza, giudiziariamente, che dietro le coppole e le lupare ci stavano i colletti bianchi delle istituzioni, dello Stato, di quel Potere che – a rigor di logica – coppole e lupare avrebbe dovuto fronteggiare immancabilmente, implacabilmente, insomma: irriducibilmente. Quanto alla sentenza che chiuderà tale processo, si vedrà.

Ma dicevamo. Un nuovo giorno: quello in cui il CSM, con uno scatto d’orgoglio, torni a essere organo di autogoverno della magistratura, affrancandosi dalle pastoie di una politica politicante che troppo spesso, in questi ultimi anni, lo ha fatto assomigliare a un manichino etero-diretto.
Qual è la prima condizione che dovrebbe verificarsi perché ciò accada?
Dicevamo all’inizio: un collettivo “mea culpa”. Meglio rettificare: un profondo “esame di coscienza”.
Entriamo nel merito. Com’è noto, Nino Di Matteo, che è il P.M. di riferimento dell’accusa nel processo sulla Trattativa, ha presentato domanda per andare a ricoprire uno dei tre incarichi resi vacanti alla DNA. Come è altrettanto noto, la terza commissione del CSM, che assegna gli incarichi, nello stilare la sua graduatoria di quanti hanno fatto richiesta, ha assegnato a Di Matteo la casella numero undici. E ha conseguentemente indicato altri tre magistrati che reputa idonei, molto più in alto in classifica, dunque, rispetto a Di Matteo. Adesso il plenum sarà chiamato a dire la sua. Nel frattempo, e anche questo è noto agli addetti ai lavori, si sono manifestate le iniziative di due consiglieri che chiedono di rivedere i criteri adottati dalla commissione: quella di Aldo Morgigni, corrente “Autonomia e Indipendenza”, che piazza Di Matteo al primo posto di una sua personale graduatoria; quella di Piergiorgio Morosini, gruppo “Area”, che saggiamente suggeriva che la pratica tornasse in commissione ma, messa ai voti dal plenum, la sua richiesta è stata respinta con 16 voti contrari e 8 a favore.
Per il momento, fermiamoci qui. Questi pronunciamenti si spiegano in un solo modo: Di Matteo non ha i titoli; Di Matteo non può pretendere, in forza del fatto che rappresenta l’accusa nel processo per eccellenza allo Stato e alla Mafia, di andare a occupare il posto in DNA; in altre parole Di Matteo può benissimo starsene dove sta, a Palermo; e – se proprio vogliamo dirla tutta – Di Matteo non rischia la vita in modo particolare.
Bastava dirlo. E la vicenda avrebbe assunto contorni limpidi, discutibili certo, ma palesi, comprensibili anche al gran pubblico.
Ma il fatto è che tutte queste motivazioni, che noi ricaviamo induttivamente, per logica che ha sempre presieduto questa materia, né la commissione incarichi direttivi, né il CSM in quanto tale, le hai mai verbalizzate. E qui l’asino è cascato una prima volta. Poiché le persone in buona fede sanno benissimo che i tre prescelti dalla commissione hanno un curriculum, quanto a anzianità e esperienza di inchieste antimafia, incommensurabilmente inferiore a quello di  Nino Di Matteo, se ne è ricavata la sgradevole sensazione che Cause Di Forza Maggiore sbarrano il passo al pubblico ministero palermitano. Altre spiegazioni, infatti, non possono essercene.
Ma incredibilmente, ieri, lo stesso asino è cascato per terra un’altra volta.
Di Matteo infatti è stato convocato urgentissimamente a Roma dal CSM che gli ha proposto di assegnarlo a qualsiasi Procura sia di suo gradimento in considerazione del fatto che “rischia la vita”. Considerazione per altro ovvia, essendo Di Matteo l’unico magistrato italiano al quale l’Ufficio Centrale Interforze per la sicurezza personale (UCIS), ha riconosciuto il primo livello di protezione.
Ma qui viene il bello: quegli stessi argomenti passati sotto silenzio quando non viene riconosciuta a Di Matteo la sua legittima aspirazione a uno di quei tre posti, vengono ora – ed era ora! – verbalizzati per rivolgere all’interessato un discorsetto che, se fatto alla romana, suonerebbe più o meno così: “A Nino… che te serve? Indicaci una città italiana e te ce mannamo subito. E se non ce stà un posto libero te lo famo su misura…”. Meraviglioso CSM!
Di Matteo che ha fatto? Ha ringraziato e preso atto, informando però il CSM di volere attendere l’esito di quella domanda presentata. Vuole capire, vuole sapere le cose come stanno, vuole che tutto sia, appunto, limpido e trasparente. E come non bastasse – ed è notizia di questa mattina – ha anche ritirato una domanda presentata tempo addietro per la Procura di Enna proprio per non dare adito a “giochetti” dell’ultima ora.
Per tutto quanto detto sin qui, per il CSM, potrebbe essere l’alba di un nuovo giorno.
Ma che forza, che autonomia, che spina dorsale dovrebbe dimostrare questo CSM!
Non dimenticate, però, che un Capo dello Stato può decidere di presiedere personalmente le assemblee del CSM. Come, d’altra parte, può deciderne di farne a meno. E noi, che d’abitudine non siamo abituati a tirare le giacchette altrui, ci limiteremo, in un caso o nell’altro, al ruolo di semplice “spettatore”.
Sarà infatti interessantissimo vedere come si concluderà il “caso Di Matteo”. Su questo non ci piove.

saverio.lodato@virgilio.it Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.

Foto © Paolo Bassani

Di Matteo alla Procura nazionale antimafia? Darebbe manforte per verità stragi da: antimafia duemila

maggiani-chelli-c-pressphotodi Giovanna Maggiani Chelli – 6 marzo 2015
Abbiamo capito bene? Ci sarebbero tre posti da sostituto Pna liberi e il Magistrato Nino Di Matteo non ne avrebbe i requisiti?
Nominarlo Pna oggi, sarebbe come dare manforte alla ricerca della verità sulle stragi del 1993, infatti aiuterebbe a coordinare tutte le indagini e sicuramente le indirizzerebbe, nell’aiuto al coordinamento, là dove sta la verità sulla morte dei nostri figli. E non ne avrebbe i requisiti?
Nominandolo, forse arriveremmo a capire finalmente fino in fondo del perché i nostri figli hanno dovuto morire in via dei Georgofili all’ombra della Torre del Pulci, e il magistrato che indaga e processa sulla famigerata trattativa Stato mafia, mafiosi e uomini impegnati in passato nelle istituzioni, giusto all’epoca della strage di Firenze, non ne avrebbe i requisiti?

Secondo il nostro modesto, ma più che motivato giudizio, il Magistrato Antonino Di Matteo sostituirebbe egregiamente alla Pna il Magistrato Gabriele Chelazzi, il quale lì lo abbiamo lasciato, alla Pna quale Vice Procuratore Nazionale Antimafia sostituto di Piero Vigna, proprio mentre indagava su quelle stesse cose oggi materia del Magistrato Antonino Di Matteo.
Quindi chiediamo, perché non avrebbe i requisiti Antonino Di Matteo per un posto da sostituto alla Pna, se a noi che siamo quelli che hanno subito il torto per antonomasia dalla mafia “cosa nostra” ci pare che sia invece il Magistrato giusto come lo fu Gabriele Chelazzi?

Giovanna Maggiani Chelli
Presidente
Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili

Foto © Pressphoto

Attentato contro Di Matteo, il pentito D’Amico: “In carcere i boss ne parlavano” da: antimafia duemila

di-matteo-toga-processo-2L’allerta sale anche per un altro episodio, dei bambini dicono di aver visto uomini con un fucile nei pressi del circolo tennis “Tc2”.
di Aaron Pettinari – 26 febbraio 2015
Non è solo l’ex boss dell’Acquasanta Vito Galatolo a parlare del piano di morte nei confronti del pm Nino Di Matteo. A darne notizia in un verbale è anche il collaboratore di giustizia Carmelo D’Amico, pentito di mafia di Barcellona Pozzo di Gotto ritenuto abbastanza attendibile per le sue dichiarazioni su mafia e massoneria nel messinese. Ai pm di Messina Vito Di Giorgio e Angelo Cavallo ha raccontato che nell’aprile dello scorso anno alcuni boss siciliani rinchiusi nel carcere milanese di Opera si aspettavano “da un momento all’altro” la notizia del nuovo attentato.
“Me lo disse il capomafia Nino Rotolo – ha detto ai pm – Era con lui che facevo socialità”. Non solo. D’Amico ha anche aggiunto un altro particolare: “Avevo sentito Rotolo che parlava di qualcosa di grave con Vincenzo Galatolo facevano riferimento a una persona che citavano con un nomignolo. Un giorno gli chiesi di saperne di più. E mi disse che Di Matteo doveva morire a tutti i costi”. Rotolo e Galatolo non sono certo gli ultimi arrivati all’interno dell’organizzazione criminale, ntrambi ai vertici dei mandamenti di Pagliarelli e Resuttana. Il verbale dell’ex boss messinese è stato immediatamente trasmesso alla Procura di Caltanissetta che da tempo indaga sul progetto di attentato. Anche se non è chiaro quando D’Amico abbia reso le dichiarazioni è ovvio che queste siano una conferma su quanto dichiarato da Vito Galatolo, il figlio di Vincenzo, lo scorso novembre. “Quando fui arrestato, nel giugno 2014 l’ordine arrivato due anni fa da Matteo Messina Denaro tramite Girolamo Biondino era del tutto operativo. Nella lettera Messina Denaro disse che bisognava fare un attentato al dottor Di Matteo perché, stava andando oltre e ciò non era possibile anche per rispetto ai vecchi capi che erano detenuti. L’esplosivo lo conservava Vincenzo Graziano”. Galatolo parlò di oltre centocinquanta chili di tritolo fatti arrivare dalla Calabria. Lo aveva persino visto, conservato “dentro un contenitore di metallo”. Tuttavia, nonostante le indicazioni sui possibili luoghi in cui poteva essere nascosto, ad oggi non è stato ancora trovato e le ricerche condotte dai finanzieri del nucleo speciale di polizia valutaria e dagli investigatori del centro operativo Dia di Palermo, proseguono senza sosta.

Ad aumentare il clima di tensione al palazzo di giustizia ci sono però anche altri episodi, a cominciare dall’anonimo arrivato nei giorni scorsi in cui si parla chiaramente di armi conservate nei pressi di alcuni luoghi frequentati dai magistrati. E se in questo caso non si fa menzione specifica al pm Di Matteo resta comunque l’allarme attorno al magistrato per un episodio che lo ha riguardato da vicino. Lo ha riportato oggi La Repubblica. Alcuni bambini che frequentano il “Tc2” hanno raccontato di aver visto due uomini con un fucile appostati di fronte all’ingresso secondario del circolo del tennis di via San Lorenzo. “Erano dentro una villetta in ristrutturazione”, hanno spiegato ai genitori. E’ così che è partito l’allarme anche perché, proprio in quel momento, al circolo c’era Nino Di Matteo. Sembra che qualcuno dei bambini abbia anche segnato il numero di targa di un’auto. Immediatamente sono intervenuti i carabinieri ed è stata aperta un’inchiesta, coordinata dal procuratore capo Francesco Lo Voi e dal sostituto Enrico Bologna, su cui vige il massimo silenzio. Anche di questo si è parlato al comitato provinciale per l’ordine a la sicurezza pubblica dei giorni scorsi e ieri si è tenuto un vertice fra i magistrati a cui ha partecipato anche Di Matteo. Una serie di fatti che spiega forse anche il motivo per cui il procuratore nazionale Franco Roberti ha inserito nella relazione della Dna un riferimento all’inchiesta sul cosiddetto “Protocollo fantasma”, “Esposto anonimo nel quale oltre a varie vicende, in gran parte di competenza della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, riguardanti processi anche risalenti nel tempo ed appartenenti alla storia del contrasto giudiziario a Cosa Nostra, emergono notizie di reato a carico di ignoti, asseritamente appartenenti alle forze dell’ordine, che avrebbero per conto di una non meglio specificata entità, spiato alcuni magistrati, impegnati in delicate attività di indagine”. Anche in quel caso al centro dell’anonimo c’erano Di Matteo ed i magistrati del pool trattativa.

Attentato a Di Matteo: il tritolo non si trova, in Procura una nuova lettera anonima da: antimafia duemila

di-matteo-c-giorgio-barbagallo-ct-2012di AMDuemila – 22 gennaio 2015

Prosegue l’”odissea” della ricerca del tritolo, il carico di esplosivo fatto arrivare da Cosa nostra a Palermo – aveva rivelato il neo pentito Vito Galatolo – per un attentato al pm Nino Di Matteo deciso già a dicembre 2012. Una ricerca che finora non ha dato i suoi frutti e che non ha fatto altro che aumentare lo stato d’allerta al Palazzo di giustizia. Come l’arrivo di una nuova lettera anonima, l’ultima di una serie di missive pervenute nei mesi scorsi, contenente indicazioni e dettagliati riferimenti sui movimenti interni alle famiglie mafiose di Palermo, in particolare del centro, sui quali si sta indagando. Nello specifico, sulla parte relativa alla progettazione dell’attentato contro Di Matteo. I nuovi spunti stanno facendo proseguire le ricerche, dopo le dichiarazioni di Galatolo che nei mesi precedenti hanno fatto scattare l’allarme a Palermo e nei dintorni. L’ex boss della famiglia dell’Acquasanta aveva parlato di “un bidone carico di tritolo”, fornendo anche i luoghi dove potrebbe trovarsi e i nomi dei personaggi coinvolti. E nei giorni successivi le ricerche si erano concentrate prevalentemente nella zona di Monreale oltre che a Tavagnaccio, nell’Udinese, dove ha risieduto in passato un soggetto molto vicino alla famiglia del neopentito. Il boss Vincenzo Graziano, costruttore accusato di essere uno degli organizzatori dell’attentato al pubblico ministero di Palermo, aveva aggiunto: “Dovete cercarlo nei piani alti”, parlando del tritolo finora mai trovato. Parole sibilline poi approfondite, nel corso dell’interrogatorio svolto davanti al gip Luigi Petrucci. “Sono cose da alto livello – aveva aggiunto il boss – stiamo montando una situazione, perché c’è Graziano, ma Graziano è nessuno, nessuno”. Il costruttore è difeso dagli avvocati Nico Riccobene e Salvatore Petronio ed ha finora sempre contestato l’accusa di essere nel gruppo organizzativo da Galatolo (ugualmente con un ruolo di spicco nella pianificazione dell’attentato).

Chi, allora, dagli “alti livelli” ha ordinato la morte del magistrato che, insieme ai colleghi Teresi, Del Bene e Tartaglia si occupa del contestatissimo processo trattativa Stato-mafia? “Gli stessi di Borsellino” aveva anticipato Galatolo, prima ancora che Graziano fosse arrestato, raccontando poi dell’ordine di morte arrivato da Castelvetrano. “Mi hanno detto che (Di Matteo, ndr) si è spinto troppo oltre” aveva scritto il boss latitante Matteo Messina Denaro nella lettera recapitata alle famiglie mafiose di Palermo. Poi i boss, aveva detto ancora il collaboratore, avrebbero fatto arrivare 150 chili di esplosivo dalla Calabria. Ma durante la fase di acquisto – avvenuta nel più completo riserbo – una parte del tritolo calabrese risultava essere danneggiato da infiltrazioni d’acqua. L’esplosivo rovinato venne rispedito indietro, e poco dopo sostituito da un nuovo carico in buono stato senza che fosse sollevato alcun problema.

Di Matteo: “Recidere i rapporti ‘alti’ della mafia” da: antimafia duemila

di-matteo-musumecidi Lorenzo Baldo – 21 gennaio 2015

La tempistica del rinvio a giudizio di Saverio Masi &c.? “Un fatto del tutto inusuale”
Palermo. L’incontro con il pm condannato a morte dal capo di Cosa Nostra era stato richiesto da alcuni mesi dai componenti della Commissione Antimafia Regionale, Giorgio Ciaccio e Stefano Zito (M5S) “per capire se è possibile fare qualcosa per migliorare la sicurezza del magistrato, alla luce delle ripetute minacce arrivate nei suoi confronti e per esprimergli di persona la piena solidarietà della commissione”. Anche la stessa capogruppo del M5S, Valentina Zafarana, si era fatta promotrice di una simile richiesta attraverso una lettera indirizzata al presidente della Commissione Nello Musumeci e al Presidente dell’Assemblea Regionale Giovanni Ardizzone. Più che della sua sicurezza il pm Nino Di Matteo ha affrontato invece il tema spinoso di mafia e politica, nonché della corruzione quale grimaldello della criminalità organizzata per infiltrarsi nei gangli vitali della pubblica amministrazione.

Sulla questione della cosiddetta guerra tra magistratura e politica il sostituto procuratore ha spiegato l’assurdità di voler accusare la magistratura di avere invaso il campo. Il tema della responsabilità morale è stato successivamente affrontato da Di Matteo che ha evidenziato la volontà di Cosa Nostra di continuare a condizionare l’attività politica in quanto fondamentale per la sua stessa esistenza. Le parole profetiche dell’ex boss di Porta Nuova (deceduto nel 2011), Salvatore Cancemi, sono state ricordate dal magistrato palermitano nel salone austero del Palazzo dei Normanni. Diversi anni fa Cancemi aveva raccontato a Di Matteo una confidenza di Totò Riina: Cosa Nostra era diventata così potente grazie alle collusioni, ai favori e alle amicizia con la politica e con pezzi rilevanti delle istituzioni. Dichiarazioni del tutto esplicite. Che rispecchiano fedelmente la vibrazione di un palazzo governato fino a pochi anni fa da un politico di nome Salvatore Cuffaro attualmente in galera per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra. Di fronte ai componenti della Commissione il pm ha evidenziato che lo Stato non sempre ha dimostrato di aver capito che recidere questo rapporto tra mafia politica e istituzioni sia indispensabile per sconfiggere la criminalità organizzata. Per Di Matteo il salto di qualità avverrà solamente se verranno recisi i rapporti “alti” dell’organizzazione mafiosa. Parlando del cambio di strategia mafiosa per inquinare la politica sono state citate le intercettazioni ambientali capate nel 2001 nel salotto del medico mafioso Giuseppe Guttadauro. Ma anche la sentenza di assoluzione per il senatore Andreotti, gravida di implicita colpevolezza, è stata richiamata all’attenzione dal magistrato palermitano. Addentrandosi nei meandri del voto di scambio politico mafioso Di Matteo ha evidenziato l’occasione mancata della riforma dell’articolo 416ter. Secondo il pm c’è un problema iniziale tuttora da risolvere: la lotta alla mafia e la lotta alla corruzione vengono separate come se fossero due strade parallele che non si incontrano. Per Di Matteo è del tutto evidente che sempre di più ci si imbatte invece in un intreccio di questo tipo. Di fatto attraverso la corruzione le famiglie mafiose entrano nella pubblica amministrazione e la inquinano. Il sostituto procuratore di Palermo ha quindi sottolineato che il fenomeno della corruzione non è adeguatamente punito. Ad avallo delle sue affermazione ha citato alcune statistiche del Ministero della giustizia: fino all’anno scorso i detenuti per corruzione erano 8 o 9, come se l’Italia fosse un Paese immune dalla corruzione. Tutto ciò, a detta del pm palermitano, è possibile perché le pene sono talmente basse che, anche se individuato il reato, scatta poi la prescrizione. Ed è per questo motivo che lo stesso Di Matteo ha auspicato una legislazione più efficace che preveda, come in altri stati, la possibilità di utilizzare i cosiddetti “agenti provocatori”: professionisti che, operando sotto il controllo della magistratura, si fingono pubblici ufficiali disponibili ad accettare mazzette capaci di provocare un momento in cui si verifica la corruzione per poi intervenire così da arrestare il corruttore o il corrotto. Il passaggio dalla magistratura alla politica è stato uno degli ultimi interventi di Di Matteo che ha sottolineato l’importanza che questo transito sia regolamentato con paletti ben più alti rispetto a quelli che sono oggi previsti.

Il rinvio a giudizio di Masi &c. “giustificato” da “evenienze processuali?”
“La politica non stia più nelle retrovie nel contrasto alla criminalità organizzata e non deleghi questo compito solo alla magistratura”, ha dichiarato Nino Di Matteo, durante la conferenza stampa tenutasi al termine dell’audizione. In merito alle difficoltà che incontra nel proprio lavoro il pm ha evidenziato che “sono sotto gli occhi di tutti, senza entrare nel merito delle questioni”. “Chi ha seguito le nostre indagini e i nostri processi – ha specificato – sa che sono state oggetto di critiche, anche violente, da parte di varie fazioni politiche. Nel corso delle indagini sono emerse anche alcune reticenze ed omertà istituzionali che hanno portato all’incriminazione di esponenti delle istituzioni. Sapete che la Procura di Palermo è stata destinataria di un conflitto di attribuzione sollevato dalla Presidenza della Repubblica, un’iniziativa molto forte e il presupposto era identico a quello che si era verificato in altre circostanze di indagini, eppure rispetto a situazioni identiche, mai era stato sollevato un conflitto di attribuzione.di-matteo-comm-antimafia-reg Non entro nel merito, sono dati di fatto che credo fanno capire a quali difficoltà facessimo riferimento”. In merito alla domanda sul rinvio a giudizio del caposcorta di Di Matteo, Saverio Masi (destinatario del provvedimento insieme al suo collega Salvatore Fiducia, al suo avvocato Giorgio Carta e ad 8 giornalisti, ndr), lo stesso Di Matteo ha ribadito di non conoscere gli atti, ma di ritenere del tutto “inusuale” il fatto che “si concludono le indagini sulla diffamazione prima delle indagini che sono in corso invece a Palermo sul contenuto delle denunce” (fatte da Masi e Fiducia, ndr). “E’ altrettanto inusuale – ha proseguito il pm – che siano incriminati per concorso in diffamazione anche i giornalisti che avevano diffuso la notizia della conferenza stampa (in cui venivano illustrate le denunce di Masi e Fiducia, ndr) e perfino l’avvocato che assisteva uno dei soggetti indicati”. “Ripeto: questi sono fatti inusuali, non so se sono giustificati da qualche evenienza processuale che non conosco. E comunque queste vicende dovrebbero anche essere di interesse per la tutela della libertà del lavoro dei giornalisti”. Alla domanda sulle “intimidazioni” subite in questi mesi Di Matteo ha ribadito l’erroneità di quel termine. Di fatto più che di “intimidazioni” qui si tratta di una vera e propria condanna a morte nei suoi confronti decretata dal capo della mafia Totò Riina con tanto di progetto di attentato svelato dal neo collaboratore di giustizia Vito Galatolo. Ma forse nei palazzi dorati della Regione siciliana è preferibile usare il “politically correct”.