“Violenti hanno sporcato una manifestazione dal forte contenuto politico”
Intorno alla vicenda Salvini alla fine a Napoli è stata guerriglia urbana. “Vorrei riproporre – dice a Enzo Quaratinno dell’ Ansa il sindaco Luigi de Magistris – le immagini del corteo: un fiume di diecimila persone che partecipavano ad una manifestazione pacifica, dove prevalevano unicamente l’orgoglio dei napoletani, l’ironia e il forte contenuto politico dell’iniziativa. Le immagini finali feriscono la potenza politica di quella manifestazione, dagli alti contenuti democratici. Prendo le distanze dai violenti che non incarnano lo spirito autentico, pacifico, della città che io rappresento”.
Di chi le responsabilità?
“Di chi ostinatamente non ha voluto ascoltare il messaggio di buon senso del sindaco e dell’amministrazione. Noi non abbiamo mai detto ‘no Salvini a Napoli’. Il sindaco ha semplicemente espresso la contrarietà ad un’iniziativa assolutamente inopportuna: la presenza alla Mostra d’Oltremare, in un luogo dell’amministrazione o comunque riconducibile all’amministrazione, di un esponente politico, Salvini appunto, che si è distinto per apologia del fascismo, atteggiamenti xenofobi e razzisti. E che, all’insegna dello slogan ‘Napoli colera’, ha fatto della sua vita politica un atto di fede contro Napoli e il sud. Ma qualcuno non ha voluto sentire ed ha alzato a dismisura il livello dello scontro. Salvini avrebbe potuto benissimo essere a Napoli e fare la sua propaganda politica xenofoba e razzista in un altro luogo privato, non riconducibile all’amministrazione. Non ci sarebbe stata l’imposizione nei miei confronti, che ho solo difeso la città”.
E’ scontro ora tra Lei e lo Stato?
“A Napoli io sono il sindaco, dunque sono lo Stato. Approvo le scelte opportune, critico quelle sbagliate, come quella del ministro Minniti, che ha voluto imporre Salvini alla Mostra d’Oltremare. Per me parlano i miei trascorsi di non violento, di magistrato, di napoletano orgoglioso di esserlo e al servizio della gente. Proprio per questo anche oggi, come sempre, prendo le distanze da ogni forma di violenza. Napoli ha mille problemi e non aveva proprio bisogno di queste tensioni”.
Perché non ha partecipato al corteo?
“Non era il corteo del sindaco. Era stato indetto da pezzi della città vera, ed è stato un corteo molto bello. Fino a quando episodi violenti hanno sporcato la forza politica di quell’iniziativa. E’ assolutamente necessario distinguere tra i veri napoletani e i violenti che nulla a che fare con Napoli e la sua storia”.
Sindaco, si sente un pò
responsabile?
“Assolutamente no. Io fin dal primo momento ho avuto parole chiare e nette, e la mia storia non può essere messa in discussione. La responsabilità per quello che è accaduto va cercata in chi, forse non senza motivo, ha voluto alzare il livello dello scontro”.
Malgrado il provincialismo della politica italiana che tende a parlare poco di alcune aree del mondo, in particolare l’America latina tanto per fare un esempio, al’interno del nostro Parlamento c’è chi si spende con conferenze e viaggi per fare informazione sul processo di pace in Colombia. A Bogotà e dintorni lo scorso 24 novembre il presidente Juan Manuel Santos e la principale formazione guerrigliera del Paese, le Farc (Forze armate rivoluzionarie colombiane) hanno firmato un accordo di pace sostenuto e ospitato nelle varie tappe da Cuba e supportato anche dal Venezuela e dalla Santa Sede, che dovrebbe mettere fine ad un conflitto durato mezzo secolo. Obiettivo che ha visto premiare poche settimane prima, il 7 ottobre, il Capo dello Stato della patria di Gabriel Garcia Marquez con il Premio Nobel per la Pace.
Degli sviluppi di questo nuovo scenario e delle tante difficoltà che ancora insidiano il processo di pace si è parlato i giorni scorsi alla Camera dei deputati dove Giovanna Martelli, deputata di Sinistra Italiana, ha appunto organizzato una conferenza stampa sul tema alla presenza del senatore Argentino Zin che presiede il gruppo interparlamentare Italia-Colombia, della giornalista Geraldina Colotti de “il manifesto” e di Marco Consolo, responsabile America latina di Rifondazione comunista.
Dal dibattito, al quale ha partecipato con un video messaggio anche il senatore colombiano Ivan Cepeda – filosofo, difensore dei diritti umani e rappresentante del Polo democratico alternativo – sono emerse con forza tutte le difficoltà insite nel raggiungimento di una pace duratura. “Per le caratteristiche che possiede – ha detto Giovanna Martelli – l’accordo colombiano rappresenta un laboratorio politico e sociale inedito con una valenza di livello mondiale. C’è nel Paese una domanda sociale legata al processo di pace. Sarà pace vera e duratura – ha detto l’esponente di Si che ha annunciato un suo imminente viaggio in Colombia – se insieme alla deposizione delle armi ci sarà davvero la costruzione di un processo di emancipazione delle donne e degli uomini colombiani da una condizione di povertà e di profonda disuguaglianza che sono all’origine della situazione attuale”.
Cepeda ha voluto ricordare nel video messaggio che “ci troviamo nella fase iniziale dell’applicazione dell’accordo e dunque più delicata. Abbiamo assistito nelle ultime settimane a fatti molto positivi come l’ingresso delle colonne guerrigliere nella cosiddetta zona di transizione per la reincorporazione nella vita civile. Un atto reso possibile dall’impegno e dalla disciplina da parte delle Farc, tanto che possiamo affermare che tutte le strutture della guerriglia sono già collocate nei siti predisposti ad accoglierle. In molte regioni sono in atto processi di riconciliazione tra esercito e guerriglia, con una conseguente riattivazione economica importante. Dall’altra parte abbiamo però il problema serio dell’ingresso dei paramilitari ed altri gruppi armati nelle zone liberate dalle Farc con alcuni leader contadini assassinati. Questo mentre a livello istituzionale i passi in avanti nell’applicazione dell’accordo stanno procedendo molto lentamente”.
La stessa preoccupazione è stata espressa dalla promotrice della conferenza come da Marco Consolo. Quest’ultimo ha voluto ricordare il terribile massacro degli esponenti della Union Patriotica, la formazione legata alle Farc che sull’onda degli accordi del 1985 aveva scelto la strada dell’attività alla luce del sole pagando per questa decisione un prezzo altissimo. “A riguardo – ha detto Consolo – questo stillicidio di omicidi che continuano preoccupa molto anche considerando la copertura che i paramilitari continuano ad avere all’interno dell’establishment colombiano, a partire dall’ex presidente Uribe, che ha giocato un ruolo importante nel referendum perso recentemente, per finire a quei settori di capitale interno che vedono la pace come il fumo negli occhi”. I rischi insomma che questo tentativo tutt’altro che portato a compimento possa fallire e produrre un nuovo bagno di sangue sono tutt’altro che cancellati. Aggiungiamo, proprio in occasione dell’8 marzo, che le donne, sia in termini purtroppo di vittime come di protagoniste di questa importante battaglia politica e sociale, sono state un po’ come succede in tutto il continente latino-americano, soggetti importanti di questo difficile percorso. Sarà ora compito della comunità internazionale vigilare sull’applicazione dell’accordo.
L’arrivo di Trump alla Casa Bianca e la mancata assegnazione del Nobel anche alle Farc lo scorso autunno, ci indicano che “gli anni della violenza” potrebbero avere ancora uno strascico doloroso e colpevole. Ci auguriamo ovviamente di sbagliarci.
Democrack. È scontro sui social fra i due, l’ex segretario Pd: mai livelli così bassi. Ma il comico sul caso Consip-Lotti attacca i media: «Titolismo puro». L’ex premier racconta del padre poi attacca: «Sciacallo, violata la mia famiglia». Sulla sfiducia al ministro lo «scudo» di Forza Italia Ma per l’ex leader la corsa di ora in ora più in salita
È uno scontro fra titani quello che occupa la scena mediatica del pomeriggio di ieri. Beppe Grillo, che il giorno prima aveva incitato il parlamento a votare la sfiducia al ministro Luca Lotti indagato nell’ambito dell’inchiesta Consip, posta sul suo blog un nuovo commento. Dall’intervista di Renzi su La7, la sera prima, ha avuto l’impressione – non solo lui, va detto – che l’ex premier in qualche modo “scaricasse” il «babbo». «L’unica notizia vera è la frase più infelice e stupida della storia, quella del rottamatore che riuscì a rottamare il solo il padre», scrive Grillo. Fra un insulto e l’altro (Renzi viene definito «il menomato morale») Grillo se la prende con la «doppia condanna» che con retorica a ampie manate l’ex premier ha chiesto in caso di condanna.Poi però cambia di colpo registro parte lancia in resta contro la stampa. «Titolismo puro», «allusioni», «ricostruzioni fantasiose di gruppetti senza alcun senso». Ma non è il solito attacco. Stavolta c’è un passaggio in più: è sempre la «finanza creativa» a pagare «i giornali» (tutti, a Grillo non interessano i dettagli) e questi trasformano «i fastidi dei poteri forti in gialli di quart’ordine immersi in intricate, quanto inverosimili, “vicende giudiziarie”». Insomma si intravede quantomeno un tono nuovo, per il comico genovese, un inedito scetticismo sulla vicenda giudiziaria della Consip almeno per come viene raccontata dai media. A leggere bene la chiusura, Grillo si mette persino un po’ nel mazzo insieme a Renzi quando conclude che «l’informazione fagocita il dialogo sociale e qualunque possibile tentativo di fare (bene o male che sia) ci viene strappato di mano, ogni volta che apriamo un giornale».
È un tono quantomeno sorprendete per una forza politica che fin qui prendeva per oro colato l’inchiesta e attaccava alzo zero il ministro Lotti. Per il quale propone una mozione di sfiducia. Sembra accorgersene il senatore dem Stefano Esposito, che rilancia una notizia pubblicata sul Fatto: nell’inchiesta Consip è saltato fuori un nome vicino ai 5 stelle, quello dell’assessore romano Andrea Mazzillo. Sarà per questo che Grillo ora scrive che l’inchiesta è raccontata come un giallazzo?
Ma Matteo Renzi, ieri in una pausa della campagna delle primarie, lascia questo terreno ai suoi. E dalla sua casa di Pontassieve replica a Grillo con un lungo post in difesa del «babbo». Toni offesi, un di più di enfasi retorica che finisce per virare nell’effetto Libro cuore. Stavolta niente politica, risponde ex premier, stavolta «ti scrivo da padre. Ti scrivo da figlio. Ti scrivo da uomo». Un fiume di sdegno, in piena: «Hai fatto una cosa squallida: hai detto che io rottamo mio padre. Sei entrato nella dinamica più profonda e più intima – la figlio – senza alcun rispetto. In modo violento», «hai cercato di violare la dimensione umana della famiglia». Difende il padre, «un uomo di 65 anni», («tre anni meno di te», aggiunge con qualche malizia), indagato già scagionato da tutto una volta. Difende il nonno amatissimo da «nove nipoti», racconta storie intime – la nascita di un figlio, gli abbracci con la moglie- rivela alla rete tutto quello dovrebbe essere rispettato. «Buttati come sciacallo sulle indagini. Mostrati per quello che sei», conclude, ma giù le mani dalla «relazione umana tra me e mio padre», «spero che un giorno ti possa vergognare – anche solo un po’ – per aver toccato un livello così basso».
Al Renzi umano, un tantino troppo umano, Grillo controreplica raggiante: «Si derottamano padri solo se la rottamazione è una gaffe comprovata». Ai social l’ardua sentenza. Per il momento un sondaggio di Ilvo Diamanti per Repubblica segnala il calo del Pd di due punti rispetto al mese scorso, 27,2%, scavalcato dai 5 Stelle al 28,8%.
Nella contesa delle primarie invece il problema non si pone, per ora: l’ex segretario è ancora favoritissimo. Ma la corsa si fa un po’ più in salita. Il gruppo dirigente è in fibrillazione dopo la (ri)esplosione dell’inchiesta che tocca «babbo» Renzi e l’amico ministro Lotti.
Su quest’ultimo presto una camera dovrà votare la fiducia. A Montecitorio i numeri della maggioranza sono a prova di bomba, al senato la tradizionale non partecipazione a voti di questa natura da parte di Forza italia farà da scudo impenetrabile a difesa del ministro e al governo. Ma il dibattito, quando avverrà, sarà l’occasione di nuove polemiche, veleni, attacchi. Né tutta la solidarietà fa bene alla salute. Ieri, per esempio, è arrivata quella di Mirello Crisafulli, il maggiorente dei voti Pd a Enna, già vicino a D’Alema: uno che i renziani della Leopolda considerano un simbolo di politica non bella, da cui tenersi alla larga.
Non solo Alessandro alle Poste. Ecco la saga di Giuseppe e Antonio Sciumè. E poi c’è il renziano…
I parenti di Angelino Alfano non finiscono mai, dopo il fratello alle Poste, i cugini alle Ferrovie. E davvero non c’è niente di male ad avere familiari sparsi un po’ ovunque, nei posti che contano e che danno diritto a sfolgoranti carriere con relativi stipendi. Si tratta, evidentemente, di fortunate coincidenze che nulla hanno a che vedere col ruolo pubblico del potente ministro. Non solo Alessandro, dunque, ecco gli altri.
Dopo il fratello, i cugini Della famiglia di Alfano, torna oggi a occuparsi il ‘Fatto Quotidiano’ con una pagina di Daniele Martini. “E poi dicono che i partiti non contano più nulla – si legge -. Alle Fs quando c’è da mettere il turbo alla carriera di qualcuno fidato, i partiti contano eccome. Ecco due storie esemplari: la sagra siciliana dei fratelli Sciumè, cugini del ministro degli Esteri Angelino Alfano, e il volo del renziano Carmine Zappacosta”. Tralasciando per un attimo Zappacosta, chi sono gli ‘illustri’ cugini?
Una saga di famiglia “Nelle Fs siciliane – scrive il ‘Fatto’ – la saga degli Sciumè è la dimostrazione che la famiglia Alfano le aziende di Stato le ha nel sangue. Non solo le Poste dove il fratello del ministro, Alessandro, fu assunto nel 2013 dopo un frettoloso esame del curriculum su Linkedin e dove ora riceve uno stipendio di duecentomila euro (…). Alle Fs l’influenza di Alfano si manifesta anche attraverso un signore legatissmo alla Cisl locale, Carmelo Rogolino, considerato da quelle parti più che fedele agli Alfano, quasi uno di famiglia. Rogolino affianca i due Sciumè. A Messina c’è Giuseppe Sciumè, ingegnere, che alle Fs era stato assunto come assistente di Dario Lo Bosco, presidente di Rfi-Rete ferroviaria italiana fino all’autunno del 2015, quando dovette dimettersi dopo che lo avevano arrestato per una storia di appalti ferroviari e corruzione. Sciumè ora è amministratore di Bluferries, la società navale delle Fs per i traghetti tra Reggio Calabria e Messina, mentre Rogolino dirige invece la navigazione targata Rfi: in pratica tutto il movimento di passeggeri auto e camion sullo Stretto, in concorrenza con i privati di Caronte & Tourist, è in mano alla famiglia Alfano”.
“A Palermo, Rogolino è direttore territoriale delle Fs, mentre Antonio Sciumè, dopo una raffica di promozioni, è diventato capo del settore armamento e quindi deve occuparsi della manutenzione e degli investimenti sui binari”, scrive ‘Il Fatto’.
Con Matteo nel cuore.…
L’articolo descrive, dunque, anche “il volo del renziano Carmine Zappacosta, compiuto in scioltezza, con la bandiera del Pd in mano e Renzi nel cuore. La storia di quest’ultimo sembra una favola, quattro anni fa era un precario, ora è l’amministratore delegato di Italcertifer, azienda Fs di piccole dimensioni, ma di notevole importanza (…). Fino alla nomina, Zappacosta era anche un politico responsabile dei trasporti del Pd toscano in quota Renzi ed esponente della segreteria regionale (…). Parlando con Il Fatto, Zappacosta esclude tassativamente che tra la sua fulminante carriera e la politica possa esserci una qualche relazione, rimanda al suo curriculum di ingegnere e dice di essere stato scelto in una rosa di 72. Tutti sanno, però, che nelle nomine Fs i partiti di destra, sinistra e centro hanno sempre messo becco, sia quando amministratore era Mauro Moretti, sia ora che c’è un suo emulo, il renzianissimo Renato Mazzoncini”.
Era mio padre di Saverio Lodato
Che il PD sarebbe finito in malora l’avevamo capito esattamente un anno fa, quando scrivemmo su questo sito – 6 aprile 2016 – un articolo intitolato: “Cari Cuperlo e D’Alema, meravigliarsi di Renzi non serve più a niente”. Chiunque ne abbia la voglia può rileggerlo ora.
E non ci voleva molto, infatti, a capire che Matteo Renzi era tale, era cioé quello che era, non a dispetto del renzismo, ma proprio in forza di quel “giglio magico” di maledetti toscani – avrebbe detto Curzio Malaparte – che del renzismo erano stati il seme avvelenato e pernicioso.
Si capiva dal linguaggio che volevano essere un’altra cosa. Si capiva dagli slogans adoperati. Si capiva dalla scelta dei nemici interni, dagli idoli polemici preferiti: la Cgil di Susanna Camusso, l’Anpi, il mondo della scuola, l’articolo 18, i magistrati, eccetera, eccetera.
Ora che il sipario crolla, saltano fuori, accecati dai riflettori, i Verdini e i Lotti e l’infinita corte delle figurine toscane, con l’aggiunta, pure, di un altro Renzi, Tiziano, il papà di Matteo. E vale anche per lui il monito biblico che le colpe dei padri – se mai dovessero essere dimostrate – non devono ricadere sui figli. Ma neanche sugli italiani, ci permettiamo di aggiungere noi. Così come, se questa vicenda dovesse prendere una brutta piega, a Matteo Renzi dovrà sempre essere riconosciuta la possibilità di dire: era mio padre.
Ma chi sono i “maledetti toscani”?
Toccherà alla magistratura capirlo e spiegarlo agli italiani. Faccendieri? Ladri? Corruttori? Affaristi? Arrivisti? Mitomani? Non lo sappiamo. Non azzardiamo giudizi. Non anticipiamo sentenze.
Ma ci lasci dire che tutti costoro si sono ritrovati sempre al momento sbagliato nel posto sbagliato; dove non avrebbe dovuto essere; a parlare di cose delle quali non avrebbero dovuto parlare; a prendere precauzioni, in difesa di se stessi, impensabili per chi, avendo la coscienza a posto, non dovrebbe avere nulla da temere.
Resta il fatto, però, che rappresentavano e hanno rappresentato sino a oggi il “cuore duro” del nuovo PD.
Quello del “rinnovamento”. Quello delle “riforme costituzionali e sociali”. Quello che doveva rivoltare l’Italia come un calzino. Che insomma la doveva cambiare da cima a fondo. Che per farlo, era persino costretto a rottamare interi pezzi del suo passato, del suo presente, del suo stesso gruppo dirigente.
E poi, come quando in uno stagno getti un sasso, ecco gli altri cerchi concentrici, quelli dei “Signorsì” venuti da altre regioni d’Italia, Emilia Romagna in testa, tutti alla ricerca di un posto al sole che fosse il più vicino a quello dei maledetti toscani del cosiddetto “giglio magico”.
Siamo ormai al fine corsa.
La raffica di sconfitte elettorali, insuccessi di immagine, fallimenti nelle cifre dei conti, casi giudiziari, scandali di periferia, tesseramenti fasulli, faide interne, ci dicono che il PD è ormai andato in malora. E a noi dispiace.
Sperano di risuscitarlo cianciando ancora un’altra volta di primarie, congressi, conferenze programmatiche, scissioni, nuovi simboli e nuove sigle.
Si aggrappano ai sondaggi, abbracciano i sondaggisti, quasi come il morto abbraccia il vivo.
E vale per tutti: per quelli che restano, per quelli che vanno via, per quelli che, per ora, non stanno né di qua né di la.
Lo spettacolo va in scena ogni sera in tv sotto lo sguardo, vuoi annoiato, vuoi sconcertato, vuoi nauseato, di quei pochi spettatori che ancora non cambiano canale.
Triste parabola. Triste parabola per quei milioni di persone che ci avevano creduto.
Già.
Maledetti toscani.
Intanto fa discutere e imbarazza l’autobiografia di Fabo che è stata resa pubblica ieri dall’associazione Luca Coscioni. Per il Vaticano questa vicenda è “una sconfitta per la società”. Area (magistratura) e Arci chiedono alla politica una legge che dia pieno riconoscimento all’autodeterminazione terapeuticaCerte morti proseguono. Altre verranno. Ieri l’Italia (anche il Parlamento) ha appreso la notizia della morte di un altro suo cittadino che stava soffrendo. Gianni Trez, un uomo di 65 anni. Anche lui, come dj Fabo, ha scelto di morire nella clinica svizzera Dignitas. “Come diceva sempre – ha dichiarato la moglie – è stato più facile morire che vivere senza dignità”. Anche Emanuela di Sanzo, che insieme alla figlia ha tenuto la mano a suo marito e l’ha visto sorridere, ieri ha rivolto un appello ai parlamentari: “Ora facciano una legge per impedire questi pellegrinaggi crudeli”.
Le parole di dj Fabo intanto continuano ad interrogare le coscienze di molti e ad imbarazzare la politica. Prima di morire ha scritto una sorta di autobiografia che è stata resa pubblica dall’associazione Luca Coscioni. Nel testo c’è la sua vita, la sua passione per la musica e poi il dolore senza fine. “Io, Fabiano Antoniani, nato a Milano il 9 febbraio 1977, all’età di sette anni frequento la scuola di musica per imparare a suonare la chitarra…”. Si descrive come un uomo “sempre vivace e amante della vita”, fino all’incidente. “Le mie giornate sono intrise di sofferenza e disperazione non trovando più il senso della vita”.
Sono considerazioni che non possono non toccare nel profondo anche gli uomini di chiesa, che però alzano le mani in segno di resa. Per il Vaticano, come dice il presidente della Pontificia Accademia per la Vita, l’arcivescovo Vincenzo Paglia, questa vicenda è “una sconfitta per la società”. Anche il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, parla di dolore e “sconfitta per tutti” ma non per questo può accettare l’idea che qualcuno possa decidere di darsi la morte. “Ognuno di noi riceve la vita – dice – non se la dà e questo è evidente e pertanto ne siamo dei servitori, dei ministri. Responsabili, intelligenti, ma senza potere mai dominare la vita nostra e tanto più degli altri”.
L’autobiografia di dj Fabo, se non per la chiesa, è un atto d’accusa per la politica e riceve ascolto soltanto dopo che la sua libera scelta ha messo fine a sofferenze inutili. Ma è un racconto che non può ricevere risposta da questo parlamento che non è in grado di colmare un vuoto che forse non è solo normativo. Gli appelli a porre rimedio si moltiplicano ma sembrano destinati a cadere nel vuoto, almeno fino alla prossima legislatura.
“Ancora una volta – si legge in una nota diffusa dal coordinamento nazionale Area, corrente della magistratura che comprende Md e Movimento per la giustizia – un drammatico caso evidenzia un vuoto normativo che permane ancorché si tratti di regolare diritti fondamentali in coerenza con principi sovranazionali e costituzionali di rispondere ad istanze ormai diffusamente avanzate dai cittadini”. Per i magistrati “la straziante vicenda umana e il suo doloroso epilogo” dovrebbero spingere la politica ad applicare proprio quei principi portando “a riconoscere la libertà di autodeterminazione negando ogni forma di obbligo di vivere incompatibile con la carta costituzionale”. Già altre volte, ricorda la nota, la giurisdizione, “non di rado accusata di supplenza da quella stessa politica che troppo spesso abdica ai propri doveri”, ha svolto il proprio compito “in precedenti dolorosi casi” ispirandosi alla carta costituzionale che tutela “la dignità umana, la libertà e la vita nel suo senso più profondo”.
Anche l’Arci chiede una legge che ambisca ad un pieno riconoscimento dell’autodeterminazione terapeutica come è indicato nella Costituzione. “E’ un paese crudele – si legge in una nota – quello che calpesta la dignità dell’essere umano. E lo fa due volte, la prima non riuscendo a garantire e tutelare la libertà dell’uomo o della donna di scegliere di andarsene con dignità, la seconda trasformando un percorso personale, di dolore e onestà, in un grande salotto televisivo”. Per l’Arci una buona legge sul testamento biologico sarebbe un primo passo importante, anche per non cedere al ricatto di chi affronta il tema con furori ideologici. “E’ una discussione complessa – si legge ancora – che rischia di essere inquinata da interventi strumentali che confondono il suicidio assistito con le dichiarazioni anticipate di trattamento, la sedazione profonda con l’eutanasia, minando qualsiasi possibilità di raggiungere con progressive consapevolezze traguardi importanti”.
L’esponente del Partito radicale rischia in Italia fino a dodici anni di carcere per «aiuto al suicidio»L’annuncio di Marco Cappato arriva dalla Svizzera poco dopo le 11,40: «Dj Fabo è morto, se ne è andato con le regole di un Paese che non è il suo». Il tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni – che domenica ha accompagnato Fabio Antoniani nella clinica Dignitas di Forck, ad una decina di chilometri da Zurigo, dove con il suicidio assistito l’uomo, cieco e tretraplegico dal 2014 a seguito di un grave incidente stradale, ha messo fine a quella condizione di vita che ormai considerava solo una tortura – ha fatto sapere che al suo rientro in Italia, forse oggi stesso, andrà ad autodenunciarsi «per il reato di aiuto al suicidio».
Poche ore prima Fabio Antoniani, 40 anni appena compiuti a febbraio, aveva affidato ai social network il suo ultimo messaggio: «Sono finalmente arrivato in Svizzera e ci sono arrivato, purtroppo, con le mie forze e non con l’aiuto del mio Stato». È stato un supplizio, per quel suo corpo martoriato, affrontare un viaggio di cinque ore da Milano caricato su un’automobile insieme alla sua carrozzina, senza il conforto delle persone più care, per evitare alla famiglia e alla sua compagna il rischio di una denuncia penale, al rientro in Italia. «Volevo ringraziare – ha aggiunto nel messaggio – una persona che ha potuto sollevarmi da questo inferno di dolore. Questa persona si chiama Marco Cappato e lo ringrazierò fino alla morte. Grazie Marco, grazie mille». RISCHIA FINO A 12 ANNI di carcere, Cappato, che è tra i promotori della campagna «Eutanasia legale», per una battaglia che ha promesso di combattere a centinaia di malati in cerca di una morte dignitosa, a cominciare da Luca Coscioni fino a Dj Fabo. «Mi assumo la responsabilità di quello che ho fatto, ne rendo conto pubblicamente», ha detto dai microfoni di Radio Radicale. E ha aggiunto: «Credo che ci siano dei principi costituzionali di libertà che sono in questo caso preminenti anche sulla legge, ma questo lo vedremo. Vedremo le forme e i modi anche di rientro in Italia».
«DOBBIAMO NOI RINGRAZIARE lui, perché ha scelto di rendere pubblica la sua storia pur rischiando in questo modo di comprometterne il buon esito», ribatte commosso Cappato quando ormai non resta che attendere l’arrivo delle autorità di polizia elvetiche che constateranno il decesso e si accerteranno, attraverso i video registrati dagli operatori della clinica, che tutto si sia svolto nel rispetto delle leggi svizzere. Dopo la visita e il colloquio con i medici e con gli psicologi di Dignitas, l’associazione elvetica che dal 1998 fornisce sostegno ai cittadini residenti nei cantoni, malati incurabili, che intendono ricorrere al suicidio assistito, Antoniani ha poi dovuto affrontare anche un’altra dura prova: riuscire ad azionare attraverso la bocca, unica parte del corpo che riusciva ancora a muovere lievemente, il dispositivo tramite il quale gli è stata somministrata la dose letale di Pento Barbital di Sodio.
«Aveva anche paura di non riuscirci – racconta Cappato -. Era sereno, ma all’inizio delle procedure, sempre convinto di voler andare avanti, era in ansia perché temeva di non riuscire a mordere il pulsante che avrebbe attivato l’immissione del farmaco letale. Era preoccupato perché la sua cecità non gli permetteva di vedere dove fosse collocato il pulsante esattamente. Poi, quando ha capito, facendo le prove, che ci sarebbe riuscito, è tornato più sereno». «Dj Fabo ha voluto procedere subito, ha voluto farlo subito senza esitare». Ha anche scherzato con i suoi amici che, insieme alla famiglia e alla sua fidanzata lo avevano raggiunto ieri mattina, «raccomandandosi – riferisce ancora Cappato dai microfoni di Radio Radicale – di mettere le cinture quando vanno in macchina».
SE OGNI TENTATIVO fosse fallito, Fabio Antoniani, che si era rivolto perfino al presidente Mattarella per chiedere di essere aiutato dal proprio Paese a porre ad una vita non considerata più «degna», non avrebbe potuto morire. Perché in Svizzera è comunque vietata l’eutanasia.
«IN CASI COME QUESTI – racconta al manifesto Sabina Cervoni, accompagnatrice dei cittadini svizzeri che si rivolgono all’associazione Exit, ente di supporto a Dignitas – dobbiamo usare un po’ di inventiva, ed escogitare degli escamotage tecnici per essere sicuri che tutto avvenga secondo le leggi nazionali: ossia che la persona possa assumere da sola, e senza l’aiuto di terzi, la sostanza letale».
La notizia ha suscitato un vespaio di reazioni da parte delle destre e dei cattolici più oltranzisti che da sempre si oppongono perfino al varo di una legge minima come quella sul testamento biologico.
CON UNA SOLA ECCEZIONE, il leghista Luca Zaia, che «con dolore e rispetto per una scelta straziante», ha indicato la morte di Dj Fabo come «l’ulteriore dimostrazione che bisogna che il Parlamento vari quanto prima una legge ben fatta sul testamento biologico. Non possiamo assistere inermi e impotenti a questi che non esito a definire viaggi della speranza, ma al contrario speranza di morire e non di vivere». Infine, il governatore del Veneto ha rivolto « un appello a tutti i parlamentari: legiferate rapidamente, avviate la discussione sui progetti già esistenti senza ulteriori rinvii, per ridare dignità a quanti soffrono. E sono tanti»».
L’annuncio di Cappato dalla Svizzera: “Alle 11,40 se ne è andato con le regole di un Paese che non è il suo. Domani al mio rientro in Italia andrò ad autodenunciarmi per il reato di aiuto al suicidio”. Filomena Gallo, segretario dell’associazione Coscioni: “Rischia 12 anni di carcere”. Saviano: “Per morire con dignità bisogna emigrare. Perdonaci”
“Ha morso un pulsante per attivare l’immissione del farmaco letale: era molto in ansia perché temeva, non vedendo il pulsante essendo cieco, di non riuscirci. Poi però ha anche scherzato”, ha raccontato Cappato che ha annunciato: “Al mio rientro in Italia, nella giornata di domani, andrò ad autodenunciarmi, dando conto dei miei atti e assumendomene tutte le responsabilità”. Il reato che si configurerebbe per l’esponente dei Radicali sarebbe quello di ‘aiuto al suicidio’, ha detto. “Rischia 12 anni di carcere”, ha detto a Sky Tg24 Filomena Gallo, segretaria della’associazione Coscioni sottolineando come Cappato si sia “preso la responsabilità” di tale atto e ha ricordato come molti malati siano “costretti ad emigrare per ottenere l’eutanasia e ciò è discriminatorio anche per i costi che ciò richiede, fino a 10mila euro”.
Dopo anni di terapie senza esito, Fabo aveva chiesto alle Istituzioni di intervenire per regolamentare l’eutanasia e permettere a ciascun individuo di essere libero di scegliere fino alla fine. Di qui un video-appello al presidente della Repubblica, realizzato grazie all’aiuto della sua fidanzata e dell’Associazione.
“Sono finalmente arrivato in Svizzera e ci sono arrivato, purtroppo, con le mie forze e non con l’aiuto del mio Stato. Volevo ringraziare una persona che ha potuto sollevarmi da questo inferno di dolore, di dolore, di dolore. Questa persona si chiama Marco Cappato e lo ringrazierò fino alla morte. Grazie Marco. Grazie mille”, era stato il suo ultimo messaggio arrivato via Twitter, attraverso l’associazione Coscioni, di Fabo che parlava dalla Svizzera dove era ricoverato in una clinica per ricevere il suicidio assistito.
L’ultimo appello di dj Fabo: “Sono giunto in Svizzera senza l’aiuto dello Stato
Oggi era in programma un’ultima visita medica e psicologica per confermare la sua volontà. Con Fabo c’era Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, che attraverso il social aveva risposto risponde: “Grazie a te Fabo”.
“Fabo è libero, la politica ha perso”, hanno detto Marco Cappato e Filomena Gallo della Associazione Luca Coscioni. “L’esilio della morte è una condanna incivile – affermano – Compito dello Stato è assistere i cittadini, non costringerli a rifugiarsi in soluzioni illegali per affrontare una disperazione data dall’impossibilità di decidere della propria vita morte. Chiediamo che il Parlamento affronti la questione del fine vita per ridurre le conseguenze devastanti che questo vuoto normativo ha sulla pelle della gente”.
“Fabiano era un uomo circondato dall’amore, l’amore della fidanzata, della famiglia, degli amici sempre presenti.
Ma non ne poteva più, non riusciva più a vivere in quelle condizioni – ha aggiunto Gallo – Fabo è morto un’ora fa e siamo ancora sconvolti. Ce lo aspettavamo, certo, ma è triste che un italiano debba andare all’estero per affermare la propria libertà”.
Fabo, dal suo primo appello a Mattarella era diventato un simbolo: “Ha voluto lui così, ci ha cercato e ha scelto di condurre una battaglia pubblica. Ha chiesto l’aiuto di Marco Cappato per arrivare in Svizzera, per affermare il diritto inalienabile alla libertà individuale”. Anche di fronte, attacca Gallo, “a un Parlamento che sceglie di non scegliere, che neanche discute le proposte di legge per l’eutanasia legale, e costringe un italiano ad andare a morire da solo, senza il suo Stato”. Le ultime parole di Fabo sono state comunque di gioia: “Ci ha detto che si sentiva finalmente libero, e ci era arrivato con le sue forze, con la sua tenacia, la sua dignità”.
“Sono tanti – ha spiegato Gallo – gli italiani che ci chiedono informazioni su come fare: dal 2015 sono stati 225. Di questi, 117 hanno deciso di andare in Svizzera. Non tutti sono morti: alcuni, dopo i test che hanno dato il nulla osta dei medici, hanno scelto comunque di rientrare in Italia. Avuta la certezza che si può fare, hanno deciso di pensarci ancora”.
“Non solo per lavorare con dignità, ma anche per morire con dignità bisogna emigrare dall’Italia. E Fabo è morto in esilio perchè il suo Paese, il nostro Paese, non ha ascoltato il suo appello”, scrive su Facebook, Roberto Saviano dopo l’annuncio della morte di dj Fabo. “‘Sono finalmente arrivato in Svizzera e ci sono arrivato con le mie forze e non grazie all’aiuto del mio Stato. Volevo ringraziare una persona che ha voluto salvarmi da questa vita, un inferno di dolore, di dolore, di dolore’. La persona che Fabo ringrazia – prosegue Saviano – è Marco Cappato, politico, difensore di diritti. Cappato, in un video pubblicato sulla sua pagina Facebook, spiega come in Svizzera non si pratichi eutanasia a chiunque lo chieda, ma c’è assistenza medica che valuta le condizioni che effettivamente consentano di accedere alla morte volontaria. In Svizzera, appunto. In Italia, invece, nel Paese di cui parlar sempre bene, tutti sordi all’appello di Fabo. Questa è l’Italia, una bella cartolina. Un Paese in cui la vita deve scorrere senza impedimenti di sorta, senza intoppi apparenti”.
“Tu Fabo hai potuto chiedere di finire la tua vita con umanità e hai potuto farlo con la tua voce – sottolinea Saviano -.
Ti abbiamo sentito distintamente chiedere una morte dignitosa, non esiste giustificazione possibile al silenzio che hai ottenuto in risposta. Non esiste giustificazione e urgenza possibile per la mancanza di empatia, di attenzione e di umanità del Parlamento e del Paese in cui ti è toccato in sorte di nascere e dal quale sei stato costretto ad auto esiliarti per morire. Perdonaci per aver reso la religione che crediamo di osservare talmente vuota da non saper più riconoscere un Cristo quando lo abbiano di fronte”.
“In Italia la libertà di scelta è violata. I continui rinvii del parlamento sul testamento biologico evidenziano una mancanza di volontà politica a riconoscere e affermare i diritti delle persone. Rendere impossibile l’eutanasia significa violare il diritto più importante: quello di decidere della propria vita e porre fine al proprio dolore”, aveva scritto Saviano in mattinata. “Ancora una volta il Parlamento italiano dimostra di non essere all’altezza dei suoi compiti”.
Dopo essere andato in Venezuela a incontrare esponenti della destra golpista, Pierferdinando Casini ha ottenuto per i suoi protetti l’appoggio della Commissione Esteri del Senato di cui è Presidente.
Ieri, 24 gennaio, con l’appoggio delle forze di governo, la maggioranza dei senatori (con il voto contrario di Sinistra Italiana ed il Movimento 5 stelle) ha approvato una mozione dichiara intromissione ed ingerenza contro l’indipendenza e la sovranità del Venezuela, con il rischio di consegnarsi nelle mani dell’opposizione venezuelana di matrice fascista e golpista.
Con la scusa di preoccuparsi per la comunità italiana in Venezuela, il maggiordomo Casini si schiera al servizio degli interessi degli Stati Uniti, il cui obiettivo principale è controllare le grandi riserve petrolifere e di acqua potabile. Per raggiungerlo, Washington applica contro Caracas la strategia del “caos costruttivo”, degli “Stati falliti”, della “incapacità del governo di soddisfare le esigenze della popolazione”, della “crisi umanitaria”. Lo scenario della destabilizzazione serve a giustificare un intervento contro il Venezuela, dichiarato, con un decreto di Obama, una “grave ed inusitata minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti”.
Per questo, il Parlamento venezuelano, controllato dall’opposizione, dichiara un presunto “abbandono ingiustificato dell’incarico” da parte del presidente Maduro, decide senza alcuna competenza costituzionale la sua “messa in stato d’accusa” (non prevista
nell’ordinamento giuridico venezuelano), e istiga le FF.AA. e i cittadini a “manifestare perché venga destituito il Presidente”.
Si tratta di una azione politica di natura apertamente sovversiva in linea con i colpi di Stato “istituzionali” in Honduras, Paraguay e Brasile. Si cerca di creare un “vuoto di potere” per giustificare eventuali azioni internazionali contro il Paese. È utile ricordare che in Venezuela vige un sistema presidenziale (non uno parlamentare), in cui il Parlamento rappresenta uno tra i cinque poteri pubblici del Paese. L’organo legislativo non ha alcuna competenza costituzionale che gli permetta di prendere tale
decisione. Dal punto di vista normativo, non esiste “la messa in stato di accusa”, o le “elezioni anticipate”, come invece è previsto in altri sistemi parlamentari.
Come nel recente caso del parlamento italiano, si cerca di ottenere dichiarazioni internazionali contro il Paese e il suo legittimo Presidente per giustificare un’azione militare degli Stati Uniti, direttamente, o attraverso l’intervento di un Paese vicino.
Non c’è dubbio che il governo bolivariano attraversa delle difficoltà ed è chiaro che sono stati commessi degli errori. Per questo motivo, l’azione del governo può essere legittimamente oggetto di critiche. Ma è assurdo, illegale e incostituzionale che un potere pubblico dichiari l’inesistenza del governo, senza alcuna competenza per farlo.
Come è noto, l’opposizione ha spinto per la destituzione del presidente Maduro con l’utilizzo di “ogni mezzo”, concretizzando le seguenti azioni:
Manifestazioni violente di piazza (guarimbas) che hanno provocato 43 morti
Modifiche alla Costituzione per ridurre il periodo di governo
Riforma della Costituzione con lo stesso obiettivo
Richiesta di dimissioni formali del Presidente della Repubblica
Processo costituente per realizzare un cambio di governo
Referendum revocatorio contro il Presidente della Repubblica la cui sospensione non è imputabile al governo, ma agli errori e alla mancanza di unità dell’opposizione.
La messa in stato d’accusa, la richiesta di “elezioni anticipate” e la dichiarazione di abbandono dell’incarico di Maduro.
Non contenta di ciò, l’opposizione ha chiesto pubblicamente l’intromissione politica ed economica da parte di Paesi e/o istituzioni internazionali, ed ha più volte richiesto un intervento militare esterno nel Paese.
Ma sia chiaro che un intervento militare incontrerebbe una dura resistenza ed aprirebbe le porte ad una sanguinosa guerra civile. Se c’è un aspetto sottovalutato, è proprio l’atteggiamento di un settore delle FF.AA. Venezuelane, apertamente anti-imperialista e che ha contrastato pubblicamente tutti gli attacchi del Parlamento.
In questo delicato scenario, si deve aggiungere il dissenso del Vaticano dalla linea di aggressione violenta degli Stati Uniti. Da qualche mese si è aperto un importante dialogo tra governo ed opposizione, con l’appoggio del Papa Francesco che si sta adoperando per favorire i negoziati fra governo e l’opposizione, così come avvenuto a Cuba, in Colombia e adesso in Venezuela. Responsabilmente il Vaticano cerca di evitare che il Venezuela si trasformi in un’altra Siria.
Viceversa, con una brutta pagina oggi il Senato italiano si è schierato con i golpisti, sbattendo la porta in faccia al dialogo tra governo venezuelano e opposizione.
Rifondazione Comunista ribadisce la propria solidarietà con il governo ed il popolo venezuelano, respinge al mittente gli attacchi al processo bolivariano e chiama i propri militanti a sviluppare eventi di solidarietà in tutto il Paese.
Tremila bombe d’aereo stipate in diciotto container sono partite in gran segreto, prima di Natale, dal porto canale di Cagliari a bordo di un mercantile diretto a Riyadh: riforniranno i bombardieri della Royal Saudi Air Force nelle loro missioni criminali contro lo Yemen.È l’ennesimo carico di morte che parte dall’Italia in violazione di tutte le norme internazionali. La novità dunque non è costituita dalla fabbricazione in Italia delle bombe e di altri terribili armamenti destinati all’Arabia Saudita, né dall’oramai sistematico avallo del nostro governo a questa infamia (di questo abbiam parlato più volte, nei mesi scorsi). Ma la novità, in questo caso, sta nell’entità del carico: senza precedenti nelle dimensioni e, per la prima volta, nel tentativo di tenere celata l’operazione ricorrendo all’antiterrorismo, alla Finanza e persino ai vigili del fuoco per circondare e mettere in sicurezza l’area del porto canale destinata all’approvvigionamento della Ro-Ro Cargo Ship “Bahir Tabuk”.
Allora bisogna anzitutto ricapitolare i termini di questo impressionante apporto italiano ad una delle più impressionanti, feroci e misconosciute guerra che si combattono – ad armi impari – nel Medio Oriente. Sono anni, oramai, che il nostro Paese fa da pozzo senza fondo alle esigenze militari di Riyadh. Un fornitore fisso è una azienda del gruppo tedesco Rheinmetall. Ma la Germania si guarda bene dall’agire in prima persona dopo aver denunciato il regime saudita anche in seguito al conflitto con lo Yemen e alle gravi violazioni dei diritti umani nel paese. E allora affida la produzione delle bombe aeree (il micidiale tipo MK80) a una azienda sì del proprio gruppo ma ufficialmente italiana, la Rwm-Italia, con sede legale a Ghedi (Brescia) e fabbrica a Domusnovas, in Sardegna.
Già, ma per fabbricare ed esportare ordigni micidiali come questi ci vogliono fior di autorizzazioni, nevvero? Ebbene, proprio mentre Obama, tra gli ultimi atti della sua amministrazione, decideva di sospendere l’invio in Arabia Saudita non solo di bombe aeree ma anche di munizionamento di precisione per un valore di centinaia di migliaia di dollari, l’Unità per le autorizzazioni di materiale d’armamento (UAMA) rilasciava l’ennesima licenza di esportazione, e lo faceva senza neppure l’alibi della già famigerata triangolazione: spedisco a un paese non belligerante, e poi a chi rispedisce le bombe non m’interessa. No, la licenza viene rilasciata direttamente a chi userà gli ordigni per mietere vittime soprattutto tra civili inermi.
Né l’UAMA è un ufficietto sterile. È una vera centrale strategica, una potenza politica e operativa di primissimo ordine: fa capo al ministero degli Esteri (più precisamente al gabinetto del ministro) ma nel percorso per il rilascio delle licenze incidono i pareri vincolanti di altri tre dicasteri: Economia, Interni e soprattutto Difesa. E i ministri, in prima persona (gli unici con poteri di firma per le decisioni dell’Unità), sanno bene che le esportazioni di armamenti sono vietate – legge n.185 del 1990 – non solo verso le nazioni sotto embargo internazionale ma anche verso quelle in stato di conflitto armato e la cui politica contrasti con i principi dell’art. 11 della Costituzione. Non a caso la Rete italiana per il disarmo ha espresso e continua ad esprimere la forte preoccupazione dei tanti organismi che rappresenta per il crescente supporto di diversi dicasteri alle industrie militari italiane che producono ed esportano armamenti.
Sarà un caso che, in questo clima, l’Arabia Saudita abbia ricevuto da Fincantieri – c’è una interrogazione che giace, senza risposta, alla Camera – proposte per l’acquisto di nuove navi militari tra cui alcune corvette e fregate? E sarà un caso che l’offerta sia giunta poche settimane dopo la visita a Riyadh (nell’ottobre scorso) della ministra della Difesa Roberta Pinotti, che si era incontrata con il suo omologo saudita, il vice principe ereditario Mohammed bin Salman bin Abdulaziz, proprio in vista di nuovi accordi navali nel settore militare?
Non è sicuramente casuale invece, ma tutto da chiarire, il rigoroso (e segretissimo: un segreto di Pulcinella) accerchiamento interforze di un ampio settore del porto canale di Cagliari quando si è trattato prima di fare abbordare la nave saudita, poi di trasferire i diciassette container sulla banchina, e infine di caricare i tremila micidiali ordigni sulla Bahri Tabuk. La nave era in rada già dal giorno prima, in attesa del via. Porto circondato da uomini dell’antiterrorismo e da pattugliamenti costanti. Quindi alle 5,48 dell’8 dicembre la nave della morte è entrata in porto e per lunghe ore sono andate avanti le operazioni di carico. Appena concluse, la porta-container ha ripreso il largo diretta al Canale di Suez per raggiungere lo scalo saudita.
Insomma, un blitz pianificato in ogni dettaglio e autorizzato (questo termine è francamente troppo blando) dagli organi più alti e delicati della nostra struttura politico-statuale. Una struttura che non solo “copre” le magagne affaristiche della Germania ma osa ignorare anche i molteplici pronunciamenti di condanna dell’Onu per l’aggressione saudita allo Yemen.
C’è da chiedersi il perché di cotanta e insolita mobilitazione guerresca. Che cosa – a parte la vergogna dell’operazione in sé – si temeva potesse accadere? Nulla è successo né poteva accadere. Piuttosto, ben più allarmante è un altro pericolo: che l’Italia e la Sardegna in particolare possano essere bersaglio di criminali rappresaglie del terrorismo per questi infami traffici e per le scandalose coperture che ad essi danno il governo e in particolare i ministri personalmente coinvolti nell’UAMA.
Ed è assai grave che, dopo le prime, clamorose rivelazioni di Famiglia Cristiana su questa vicenda; dopo la campagna di denunce in cui si è impegnata ytali; e dopo una sfilza di interrogazioni e interpellanze di molti gruppi alla Camera e in Senato, non un presidente del Consiglio e non un ministro dei quattro chiamati ripetutamente in causa, si sia degnato di rispondere non con generiche “giustificazioni” ma con argomentazioni di merito. Già, e come farebbero a spiegare ed argomentare un disegno così sfacciato di delittuose complicità belliciste?