Il Presidente Mattarella: “La lotta alla mafia priorità assoluta” da: quirinale .it

mattarella-giuramento-c-ansa lamiVideo integrale!

Messaggio del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella al Parlamento nel giorno del giuramento

Palazzo Montecitorio, 03/02/2015

Signora Presidente della Camera dei Deputati, Signora Vice Presidente del Senato, Signori Parlamentari e Delegati regionali,

Rivolgo un saluto rispettoso a questa assemblea, ai parlamentari che interpretano la sovranità del nostro popolo e le danno voce e alle Regioni qui rappresentate.

Ringrazio la Presidente Laura Boldrini e la Vice Presidente Valeria Fedeli.

Ringrazio tutti coloro che hanno preso parte al voto.

Un pensiero deferente ai miei predecessori, Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano, che hanno svolto la loro funzione con impegno e dedizione esemplari.

A loro va l’affettuosa riconoscenza degli italiani.

Al Presidente Napolitano che, in un momento difficile, ha accettato l’onere di un secondo mandato, un ringraziamento particolarmente intenso.

Rendo omaggio alla Corte Costituzionale organo di alta garanzia a tutela della nostra Carta fondamentale, al Consiglio Superiore della magistratura presidio dell’indipendenza e a tutte le magistrature.
Avverto pienamente la responsabilità del compito che mi è stato affidato.

La responsabilità di rappresentare l’unità nazionale innanzitutto. L’unità che lega indissolubilmente i nostri territori, dal Nord al Mezzogiorno.

Ma anche l’unità costituita dall’insieme delle attese e delle aspirazioni dei nostri concittadini.
Questa unità, rischia di essere difficile, fragile, lontana.

L’impegno di tutti deve essere rivolto a superare le difficoltà degli italiani e a realizzare le loro speranze.

La lunga crisi, prolungatasi oltre ogni limite, ha inferto ferite al tessuto sociale del nostro Paese e ha messo a dura prova la tenuta del suo sistema produttivo.

Ha aumentato le ingiustizie.

Ha generato nuove povertà.

Ha prodotto emarginazione e solitudine.

Le angosce si annidano in tante famiglie per le difficoltà che sottraggono il futuro alle ragazze e ai ragazzi.

Il lavoro che manca per tanti giovani, specialmente nel Mezzogiorno, la perdita di occupazione, l’esclusione, le difficoltà che si incontrano nel garantire diritti e servizi sociali fondamentali.

Sono questi i punti dell’agenda esigente su cui sarà misurata la vicinanza delle istituzioni al popolo.

Dobbiamo saper scongiurare il rischio che la crisi economica intacchi il rispetto di principi e valori su cui si fonda il patto sociale sancito dalla Costituzione.

Per uscire dalla crisi, che ha fiaccato in modo grave l’economia nazionale e quella europea, va alimentata l’inversione del ciclo economico, da lungo tempo attesa.

E’ indispensabile che al consolidamento finanziario si accompagni una robusta iniziativa di crescita, da articolare innanzitutto a livello europeo.

Nel corso del semestre di Presidenza dell’Unione Europea appena conclusosi, il Governo – cui rivolgo un saluto e un augurio di buon lavoro – ha opportunamente perseguito questa strategia.

Sussiste oggi l’esigenza di confermare il patto costituzionale che mantiene unito il Paese e che riconosce a tutti i cittadini i diritti fondamentali e pari dignità sociale e impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’eguaglianza.

L’urgenza di riforme istituzionali, economiche e sociali deriva dal dovere di dare risposte efficaci alla nostra comunità, risposte adeguate alle sfide che abbiamo di fronte.

Esistono nel nostro Paese energie che attendono soltanto di trovare modo di esprimersi compiutamente.
Penso ai giovani che coltivano i propri talenti e che vorrebbero vedere riconosciuto il merito.

Penso alle imprese, piccole medie e grandi che, tra rilevanti difficoltà, trovano il coraggio di continuare a innovare e a competere sui mercati internazionali.

Penso alla Pubblica Amministrazione che possiede competenze di valore ma che deve declinare i principi costituzionali, adeguandosi alle possibilità offerte dalle nuove tecnologie e alle sensibilità dei cittadini, che chiedono partecipazione, trasparenza, semplicità degli adempimenti, coerenza nelle decisioni.

Non servono generiche esortazioni a guardare al futuro ma piuttosto la tenace mobilitazione di tutte le risorse della società italiana.

Parlare di unità nazionale significa, allora, ridare al Paese un orizzonte di speranza.

Perché questa speranza non rimanga un’evocazione astratta, occorre ricostruire quei legami che tengono insieme la società.

A questa azione sono chiamate tutte le forze vive delle nostre comunità in Patria come all’estero.

Ai connazionali nel mondo va il mio saluto affettuoso.

Un pensiero di amicizia rivolgo alle numerose comunità straniere presenti nel nostro Paese.

La strada maestra di un Paese unito è quella che indica la nostra Costituzione, quando sottolinea il ruolo delle formazioni sociali, corollario di una piena partecipazione alla vita pubblica.

La crisi di rappresentanza ha reso deboli o inefficaci gli strumenti tradizionali della partecipazione, mentre dalla società emergono, con forza, nuove modalità di espressione che hanno già prodotto risultati avvertibili nella politica e nei suoi soggetti.

Questo stesso Parlamento presenta elementi di novità e di cambiamento.

La più alta percentuale di donne e tanti giovani parlamentari. Un risultato prezioso che troppe volte la politica stessa finisce per oscurare dietro polemiche e conflitti.

I giovani parlamentari portano in queste aule le speranze e le attese dei propri coetanei. Rappresentano anche, con la capacità di critica, e persino di indignazione, la voglia di cambiare.

A loro, in particolare, chiedo di dare un contributo positivo al nostro essere davvero comunità nazionale, non dimenticando mai l’essenza del mandato parlamentare.

L’idea, cioè, che in queste aule non si è espressione di un segmento della società o di interessi particolari, ma si è rappresentanti dell’intero popolo italiano e, tutti insieme, al servizio del Paese.

Tutti sono chiamati ad assumere per intero questa responsabilità.

Condizione primaria per riaccostare gli italiani alle istituzioni è intendere la politica come servizio al bene comune, patrimonio di ognuno e di tutti.

E’ necessario ricollegare a esse quei tanti nostri concittadini che le avvertono lontane ed estranee.

La democrazia non è una conquista definitiva ma va inverata continuamente, individuando le formule più adeguate al mutamento dei tempi.

E’ significativo che il mio giuramento sia avvenuto mentre sta per completarsi il percorso di un’ampia e incisiva riforma della seconda parte della Costituzione.

Senza entrare nel merito delle singole soluzioni, che competono al Parlamento, nella sua sovranità, desidero esprimere l’auspicio che questo percorso sia portato a compimento con l’obiettivo di rendere più adeguata la nostra democrazia.

Riformare la Costituzione per rafforzare il processo democratico.

Vi è anche la necessità di superare la logica della deroga costante alle forme ordinarie del processo legislativo, bilanciando l’esigenza di governo con il rispetto delle garanzie procedurali di una corretta dialettica parlamentare.
Come è stato più volte sollecitato dal Presidente Napolitano, un’altra priorità è costituita dall’approvazione di una nuova legge elettorale, tema sul quale è impegnato il Parlamento.

Nel linguaggio corrente si è soliti tradurre il compito del capo dello Stato nel ruolo di un arbitro, del garante della Costituzione.

E’ una immagine efficace.

All’arbitro compete la puntuale applicazione delle regole. L’arbitro deve essere – e sarà – imparziale.
I giocatori lo aiutino con la loro correttezza.

Il Presidente della Repubblica è garante della Costituzione.

La garanzia più forte della nostra Costituzione consiste, peraltro, nella sua applicazione. Nel viverla giorno per giorno.

Garantire la Costituzione significa garantire il diritto allo studio dei nostri ragazzi in una scuola moderna in ambienti sicuri, garantire il loro diritto al futuro.

Significa riconoscere e rendere effettivo il diritto al lavoro.

Significa promuovere la cultura diffusa e la ricerca di eccellenza, anche utilizzando le nuove tecnologie e superando il divario digitale.

Significa amare i nostri tesori ambientali e artistici.

Significa ripudiare la guerra e promuovere la pace.

Significa garantire i diritti dei malati.

Significa che ciascuno concorra, con lealtà, alle spese della comunità nazionale.

Significa che si possa ottenere giustizia in tempi rapidi.

Significa fare in modo che le donne non debbano avere paura di violenze e discriminazioni.

Significa rimuovere ogni barriera che limiti i diritti delle persone con disabilità.

Significa sostenere la famiglia, risorsa della società.

Significa garantire l’autonomia ed il pluralismo dell’informazione, presidio di democrazia.

Significa ricordare la Resistenza e il sacrificio di tanti che settanta anni fa liberarono l’Italia dal nazifascismo.

Significa libertà. Libertà come pieno sviluppo dei diritti civili, nella sfera sociale come in quella economica, nella sfera personale e affettiva.

Garantire la Costituzione significa affermare e diffondere un senso forte della legalità.
La lotta alla mafia e quella alla corruzione sono priorità assolute.

La corruzione ha raggiunto un livello inaccettabile.

Divora risorse che potrebbero essere destinate ai cittadini.

Impedisce la corretta esplicazione delle regole del mercato.

Favorisce le consorterie e penalizza gli onesti e i capaci.

L’attuale Pontefice, Francesco, che ringrazio per il messaggio di auguri che ha voluto inviarmi, ha usato parole severe contro i corrotti: «Uomini di buone maniere, ma di cattive abitudini».

E’ allarmante la diffusione delle mafie, antiche e nuove, anche in aree geografiche storicamente immuni. Un cancro pervasivo, che distrugge speranze, impone gioghi e sopraffazioni, calpesta diritti.

Dobbiamo incoraggiare l’azione determinata della magistratura e delle forze dell’ordine che, spesso a rischio della vita, si battono per contrastare la criminalità organizzata.

Nella lotta alle mafie abbiamo avuto molti eroi. Penso tra gli altri a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Per sconfiggere la mafia occorre una moltitudine di persone oneste, competenti, tenaci. E una dirigenza politica e amministrativa capace di compiere il proprio dovere.

Altri rischi minacciano la nostra convivenza.

Il terrorismo internazionale ha lanciato la sua sfida sanguinosa, seminando lutti e tragedie in ogni parte del mondo e facendo vittime innocenti.

Siamo inorriditi dalle barbare decapitazioni di ostaggi, dalle guerre e dagli eccidi in Medio Oriente e in Africa, fino ai tragici fatti di Parigi.

Il nostro Paese ha pagato, più volte, in un passato non troppo lontano, il prezzo dell’odio e dell’intolleranza. Voglio ricordare un solo nome: Stefano Taché, rimasto ucciso nel vile attacco terroristico alla Sinagoga di Roma nell’ottobre del 1982. Aveva solo due anni. Era un nostro bambino, un bambino italiano.

La pratica della violenza in nome della religione sembrava un capitolo da tempo chiuso dalla storia. Va condannato e combattuto chi strumentalizza a fini di dominio il proprio credo, violando il diritto fondamentale alla libertà religiosa.

Considerare la sfida terribile del terrorismo fondamentalista nell’ottica dello scontro tra religioni o tra civiltà sarebbe un grave errore.

La minaccia è molto più profonda e più vasta. L’attacco è ai fondamenti di libertà, di democrazia, di tolleranza e di convivenza.

Per minacce globali servono risposte globali.

Un fenomeno così grave non si può combattere rinchiudendosi nel fortino degli Stati nazionali.

I predicatori d’odio e coloro che reclutano assassini utilizzano internet e i mezzi di comunicazione più sofisticati, che sfuggono, per la loro stessa natura, a una dimensione territoriale.

La comunità internazionale deve mettere in campo tutte le sue risorse.

Nel salutare il Corpo Diplomatico accreditato presso la Repubblica, esprimo un auspicio di intensa collaborazione anche in questa direzione.

La lotta al terrorismo va condotta con fermezza, intelligenza, capacità di discernimento. Una lotta impegnativa che non può prescindere dalla sicurezza: lo Stato deve assicurare il diritto dei cittadini a una vita serena e libera dalla paura.

Il sentimento della speranza ha caratterizzato l’Europa nel dopoguerra e alla caduta del muro di Berlino. Speranza di libertà e di ripresa dopo la guerra, speranza di affermazione di valori di democrazia dopo il 1989.

Nella nuova Europa l’Italia ha trovato l’affermazione della sua sovranità; un approdo sicuro ma soprattutto un luogo da cui ripartire per vincere le sfide globali. L’Unione Europea rappresenta oggi, ancora una volta, una frontiera di speranza e la prospettiva di una vera Unione politica va rilanciata, senza indugio.

L’affermazione dei diritti di cittadinanza rappresenta il consolidamento del grande spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia.

Le guerre, gli attentati, le persecuzioni politiche, etniche e religiose, la miseria e le carestie generano ingenti masse di profughi.

Milioni di individui e famiglie in fuga dalle proprie case che cercano salvezza e futuro proprio nell’Europa del diritto e della democrazia.

E’ questa un’emergenza umanitaria, grave e dolorosa, che deve vedere l’Unione Europea più attenta, impegnata e solidale.

L’Italia ha fatto e sta facendo bene la sua parte e siamo grati a tutti i nostri operatori, ai vari livelli, per l’impegno generoso con cui fronteggiano questo drammatico esodo.

A livello internazionale la meritoria e indispensabile azione di mantenimento della pace, che vede impegnati i nostri militari in tante missioni, deve essere consolidata con un’azione di ricostruzione politica, economica, sociale e culturale, senza la quale ogni sforzo è destinato a vanificarsi.

Alle Forze Armate, sempre più strumento di pace ed elemento essenziale della nostra politica estera e di sicurezza, rivolgo un sincero ringraziamento, ricordando quanti hanno perduto la loro vita nell’assolvimento del proprio dovere.

Occorre continuare a dispiegare il massimo impegno affinché la delicata vicenda dei due nostri fucilieri di Marina, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, trovi al più presto una conclusione positiva, con il loro definitivo ritorno in Patria.

Desidero rivolgere un pensiero ai civili impegnati, in zone spesso rischiose, nella preziosa opera di cooperazione e di aiuto allo sviluppo.

Di tre italiani, padre Paolo Dall’Oglio, Giovanni Lo Porto e Ignazio Scaravilli non si hanno notizie in terre difficili e martoriate. A loro e ai loro familiari va la solidarietà e la vicinanza di tutto il popolo italiano, insieme all’augurio di fare presto ritorno nelle loro case.

Onorevoli Parlamentari, Signori Delegati,
Per la nostra gente, il volto della Repubblica è quello che si presenta nella vita di tutti i giorni: l’ ospedale, il municipio, la scuola, il tribunale, il museo.

Mi auguro che negli uffici pubblici e nelle istituzioni possano riflettersi, con fiducia, i volti degli italiani:
il volto spensierato dei bambini, quello curioso dei ragazzi.

i volti preoccupati degli anziani soli e in difficoltà il volto di chi soffre, dei malati, e delle loro famiglie, che portano sulle spalle carichi pesanti.

Il volto dei giovani che cercano lavoro e quello di chi il lavoro lo ha perduto.

Il volto di chi ha dovuto chiudere l’impresa a causa della congiuntura economica e quello di chi continua a investire nonostante la crisi.

Il volto di chi dona con generosità il proprio tempo agli altri.

Il volto di chi non si arrende alla sopraffazione, di chi lotta contro le ingiustizie e quello di chi cerca una via di riscatto.

Storie di donne e di uomini, di piccoli e di anziani, con differenti convinzioni politiche, culturali e religiose.

Questi volti e queste storie raccontano di un popolo che vogliamo sempre più libero, sicuro e solidale. Un popolo che si senta davvero comunità e che cammini con una nuova speranza verso un futuro di serenità e di pace.

Viva la Repubblica, viva l’Italia!

Tratto da: quirinale.it

Foto © Ansa/Lami

“Troppa scorta per i pm inquirenti. Così si isola la giudicante” da: antimafia duemila

01di Aaron Pettinari – 24 gennaio 2015

Tabelle, statistiche, numeri. La cerimonia di apertura dell’anno giudiziario è la prima occasione dove il Sistema Giustizia riflette sulla propria attività, si interroga sulle proprie disfunzioni e sulle opportunità di miglioramento. Un evento istituzionale dove le parole, dette e non dette, possono pesare come macigni. Lo scorso anno l’ex presidente della Corte d’appello, Vincenzo Olivieri, andato in pensione nel novembre 2014, era riuscito nell’impresa di non pronunciare alcuna parola sui pm minacciati dal Capo dei capi, Totò Riina, che dal carcere Opera di Milano inviava “strali di morte”, al tempo stesso inviando un messaggio d’affetto nei confronti del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, vittima di “infondati sospetti di interferenza” (riferendosi alle quattro telefonate intercettate sull’utenza di Nicola Mancino, oggi imputato nel processo sulla Trattativa Stato-mafia per falsa testimonianza). Oggi il presidente della corte “ad interim”, Vito Ivan Marino, ha ribadito il deferente saluto nei confronti del dimesso Capo dello Stato, ricordandone il discorso del 22 dicembre 2014 al Csm “Per la tutela del prestigio e della dignità dei magistrati, che sono corollari dell’autonomia e dell’indipendenza dell’ordine giudiziario, sono fondamentali comportamenti appropriati… ispirati a discrezione, misura, equilibrio, senza cedimenti a esposizioni mediatiche o a tentazioni di missioni improprie”. Non solo. Nel suo discorso in merito alle linee della criminalità nel distretto della Corte d’appello di Palermo ha lanciato una critica tutt’altro che velata nei confronti del servizio di sicurezza assegnato a certi magistrati. “Non si può sottacere – ha detto nella sua esposizione – che la indubitabile contingente e pericolosissima esposizione a rischio in determinati processi di taluno dei magistrati della requirente con conseguente adozione di dispositivi di protezione mai visti in precedenza, finisca per isolare e scoprire sempre di più i magistrati della giudicante titolari degli stessi processi”. Nessuno lo dice ma è chiaro che il riferimento appare indirizzato nei confronti del pm Nino Di Matteo, membro del pool trattativa, il cui livello di scorta è stato portato al massimo nell’ultimo anno dopo la condanna a morte di Totò Riina e le rivelazioni del neo pentito, Vito Galatolo, che ha parlato di un progetto di morte con oltre 150 chili di tritolo già arrivati a Palermo dalla Calabria.

A questa si aggiungono nell’ultimo anno le intimidazioni e le minacce nei confronti del procuratore aggiunto Teresa Principato e del procuratore generale Roberto Scarpinato, con la lettera anonima ritrovata lo scorso settembre sopra al tavolo, all’interno del suo ufficio, che prefigura scenari quantomeno inquietanti. Diversamente non risultano minacce di morte ed intimidazioni nei confronti dei magistrati giudicanti e pertanto non si capisce per quale motivo sia stato necessario un “appunto” di questo tipo. Forse si vuol far passare il messaggio che la sicurezza dei pm e l’adozione dei massimi livelli di protezione porta ad una sovraesposizione del processo cui fanno parte? L’intervento non chiarisce anche perché poi Marino aggiunge: “Si sta verificando la stessa identica situazione degli anni ’80 allorché la protezione era garantita per lo più, se non esclusivamente, ai magistrati facenti parte dei pool antimafia dell’Ufficio istruzione e della Procura della Repubblica, con indifferenza verso la situazione della giudicante”. Un riferimento chiaro ai tempi del maxiprocesso, dell’omicidio Saetta e a quella grande fibrillazione all’interno di Cosa nostra, a causa di quel procedimento che ne avrebbe segnato la storia. Un richiamo affinché venga adottato un “piano sicurezza” con il “carattere della permanenza e della costante efficenza”. Ed è anomalo che ciò avviene proprio nell’anno in cui la Procura generale, dopo i ripetuti allarmi bomba, il ritrovamento di un proiettile nei pressi del palazzo di giustizia e le incursioni negli uffici, ha affrontato il problema sicurezza anche sul piano strutturale. Una “bacchettata” viene data anche ala società civile: “Va riconosciuto il merito di quelle componenti della cosiddetta società civile che hanno contribuito a far crescere, nelle giovani generazioni, quella cultura antimafiosa che costituisce il vero e permanente antidoto alla diffusione dei comportamenti mafiosi. Ma occorre la dovuta attenzione affinché tale opera non guardi esclusivamente al momento repressivo dell’organizzazione criminale, ovvero sia in favore soltanto della pubblica accusa con, talvolta anche plateali, manifestazioni di protesta nei confronti della giudicante, rea soltanto di avere appunto giudicato in base agli elementi di accusa presenti nel processo, spesso insufficienti”. Ed infine Marino ha concluso il suo discorso in pieno “stile Napolitano”, parlando dell’importanza di evitare comportamenti di “protagonismo”: “L’alta funzione affidata ai magistrati di applicare la legge assume un carattere di laica sacralità, che immune da ogni atteggiamento di personale protagonismo, non può prescindere del carattere di indipendenza e imparzialità, di rigore e di obiettività. E’ essenziale inoltre il prestigio e la dignità dei magistrati che deve tradursi in comportamenti appropriati”.

Foto © ACFB

Il presidente che sussurrava alla crisi | Fonte: Il Manifesto | Autore: Michele Prospero

Novennato. Quale eredità lascia il mandato di Giorgio Napolitano. Anni difficili, dal crollo delle coalizioni alla fine del bipolarismo, dalle leggi ad personam di Berlusconi allo statista di Rignano. Dopo di lui il parlamentarismo è più debole. E le larghe intese non hanno aiutato il paesePer un bilan­cio storico-critico dei nove anni di pre­si­denza Napo­li­tano occorre appu­rare quanto, nel suo modo di inter­pre­tare il ruolo, ci sia di occa­sio­nale e quanto invece segni un muta­mento per­ma­nente nella col­lo­ca­zione del Qui­ri­nale negli equi­li­bri dina­mici del sistema costi­tu­zio­nale. La cate­go­ria del pre­si­den­zia­li­smo di fatto, uti­liz­zata di solito per descri­vere una avve­nuta sovrae­spo­si­zione del Colle nelle vicende isti­tu­zio­nali più deli­cate, non è ade­guata per cogliere la reale por­tata, e dun­que le con­se­guenze di più lungo periodo, dell’interventismo qui­ri­na­li­zio, che è parso sicu­ra­mente accen­tuato in taluni momenti.

Mal­grado una cre­scita visi­bile dell’influenza, e talora anche della respon­sa­bi­lità pre­si­den­ziale diretta in opzioni di più stretta marca poli­tica, la repub­blica non si è tra­sfor­mata in una variante incom­pleta di regime pre­si­den­ziale. Cioè, dopo Napo­li­tano, il pro­blema sul tap­peto non è certo quello di por­tare final­mente a com­pi­mento for­male quel muta­mento qua­li­ta­tivo delle attri­bu­zioni del capo dello stato avve­nuto già sul piano della con­sue­tu­dine, con l’espropriazione defi­ni­tiva di com­pe­tenze un tempo parlamentari.

L’eccezionale cumulo di poteri di con­di­zio­na­mento avu­tosi nella per­sona di Napo­li­tano (di cui la rie­le­zione, sia pure a tempo e non sol­le­ci­tata, è una con­ferma) resta all’interno di un par­la­men­ta­ri­smo che, nelle giun­ture cri­ti­che del mec­ca­ni­smo poli­tico incep­pato, trova pro­prio nell’attivismo di altri poteri costi­tu­zio­nali (la Con­sulta o il Qui­ri­nale) una val­vola di sfogo, non priva di ele­menti di fri­zione e di ela­stica indeterminazione.

Il regime par­la­men­tare al bivio
La que­stione cru­ciale è quindi di accer­tare se, dopo il sur­ri­scal­da­mento ele­vato delle fun­zioni e delle pre­ro­ga­tive del Colle, que­sti poteri d’eccezione, riat­ti­vati in rispo­sta alla con­cla­mata situa­zione di emer­genza e gestiti secondo moda­lità suscet­ti­bili di discorde valu­ta­zione, tor­ne­ranno ad essere dor­mienti (come è già acca­duto con Scal­faro, dopo il varo della “tri­nità isti­tu­zio­nale” impe­gnata nel governo dell’eccezione e la gesta­zione di governi del pre­si­dente) o invece deter­mi­ne­ranno una sla­vina che con­durrà alla fuo­riu­scita dagli ingra­naggi pecu­liari della forma di un regime parlamentare.

Ogni pre­si­dente, get­tato in con­di­zioni cri­ti­che, come sono quelle della seconda lunga crisi dei vent’anni, che ha deter­mi­nato due crolli del sistema dei par­titi in tempi rav­vi­ci­nati e subìto l’irruzione di un potente vin­colo esterno euro­peo che ha limato l’autonomia poli­tica di una demo­cra­zia sovrana, con­duce una sua poli­tica isti­tu­zio­nale. Ed è pro­prio que­sta poli­tica delle isti­tu­zioni, cali­brata per gover­nare una fase di forte fol­lia siste­mica, che occorre ana­liz­zare, alla luce di un cri­te­rio prin­cipe che carat­te­rizza la poli­tica: l’efficacia. La domanda quindi è: Napo­li­tano, con la sua poli­tica delle isti­tu­zioni, ha arre­stato le dina­mi­che dege­ne­ra­tive che inve­sti­vano la repub­blica o ha con­tri­buito anch’egli con la sua con­dotta, che aveva delle pos­si­bili opzioni alter­na­tive, ad appro­fon­dire la crisi?

L’efficacia nella crisi
È den­tro i tempi storico-politici che ha dovuto gestire che va inqua­drato il com­por­ta­mento del capo dello stato. E quelli toc­cati a Napo­li­tano non sono stati anni banali. Come ogni pre­si­dente della seconda repub­blica, è stato eletto da una mag­gio­ranza di sini­stra. Per for­tuna, almeno per il Qui­ri­nale, l’alternanza non si è veri­fi­cata. E al Colle sono saliti per­so­na­lità nel com­plesso fedeli all’impianto par­la­men­tare della Repubblica.

Ad ognuno di loro è toc­cato di con­vi­vere con la sco­moda pre­senza di Ber­lu­sconi a Palazzo Chigi. Come è capi­tato per ogni inqui­lino del Qui­ri­nale, anche a Napo­li­tano sono pio­vute addosso le cri­ti­che per non aver rifiu­tato la firma a leggi discu­ti­bili varate dalla destra.

Ma qui, a parte Scal­faro che ha inter­pre­tato sino in fondo il ruolo di un espli­cito con­tro­po­tere, il Colle non può in maniera strut­tu­rale sur­ro­gare le fun­zioni dell’opposizione.

Per i decreti che pos­sono essere cor­retti o non con­ver­titi nel nor­male iter isti­tu­zio­nale o inva­li­dati in un’opera di con­trollo di lega­lità che si estende sino alle supreme magi­stra­ture dello Stato, la vigi­lanza pre­ven­tiva del Qui­ri­nale può essere a maglie più lar­ghe. Quando però un atto nor­ma­tivo ha effetti distor­sivi imme­diati, e la sua costi­tu­zio­na­lità è assai dub­bia (è il caso della legge elet­to­rale Cal­de­roli non cen­su­rata da Ciampi e poi irri­tual­mente demo­lita dalla Con­sulta), il capo dello Stato deve rifiu­tare la firma per­ché l’abuso di mag­gio­ranza non è facil­mente rime­dia­bile con nor­mali procedure.

Il crollo del bipolarismo
La prima fase della lunga espe­rienza di Napo­li­tano ha dovuto veder­sela con la fra­gi­lità del mag­gio­ri­ta­rio di coa­li­zione. Dap­prima il cen­tro sini­stra che, con la esplo­siva diar­chia Prodi-Veltroni creata a colpi di pri­ma­rie, non ha tenuto in aula e poi la disin­te­gra­zione della coa­li­zione di cen­tro destra hanno sve­lato l’inconsistenza degli assi por­tanti del nuovo sistema poli­tico. Il teo­rema della coa­li­zione mas­sima vin­cente con­sen­tiva di aggiu­di­carsi il pre­mio in seggi ma non di sor­reg­gere un coe­rente indi­rizzo poli­tico di mag­gio­ranza. La neces­sa­ria opera di media­zione, entro alleanze mul­ti­formi, urtava con­tro i sim­boli della per­so­na­liz­za­zione del comando (nome del pre­mier stam­pato sulla scheda elet­to­rale) e ogni blocco di potere sal­tava in aria dinanzi all’affiorare di ine­vi­ta­bili spinte centrifughe.

Al crollo del bipo­la­ri­smo mec­ca­nico ha forse con­tri­buito una certa sin­to­nia isti­tu­zio­nale sta­bi­li­tasi tra il Qui­ri­nale e Mon­te­ci­to­rio che ha indotto Fini ad assu­mere i tratti di una destra in cerca di un cor­redo libe­rale e quindi costretta alla rot­tura netta con il popu­li­smo ber­lu­sco­niano. Ma il ritardo con cui la mozione di sfi­du­cia è stata votata in aula nel 2010, ha favo­rito delle ope­ra­zioni di tra­sfor­mi­smo che hanno pro­lun­gato arti­fi­cial­mente la vita di un governo poli­ti­ca­mente morto. Quello che non ha pro­dotto per via poli­tica, la espli­cita cen­sura par­la­men­tare del governo Ber­lu­sconi, il sistema lo ha dovuto com­piere per il soprag­giun­gere di un com­plesso di inter­venti esterni e per adem­piere a degli inviti inter­na­zio­nali dive­nuti pres­santi a ridosso dell’emergenza della crisi finan­zia­ria. Abile nella depo­si­zione del Cava­liere che ha accet­tato la defe­ne­stra­zione senza andare in escan­de­scenza, la stra­te­gia del Qui­ri­nale ha mostrato una dub­bia effi­ca­cia nel governo della tran­si­zione aper­tasi nel novem­bre del 2011.

Sta­bi­lità, la regia delle lar­ghe intese
Due erano gli imperativi-cardine delle poli­ti­che isti­tu­zio­nali con­fe­zio­nate dal Colle: la sta­bi­lità di governo, come valore asso­luto in tempi di crisi, e l’emergenza eco­no­mica e isti­tu­zio­nale da affron­tare con lo spi­rito delle lar­ghe intese e secondo gli impe­ra­tivi del risa­na­mento e delle con­nesse riforme strut­tu­rali. È indub­bio che nelle fasi più gravi dell’emergenza finan­zia­ria, pro­prio Napo­li­tano sia diven­tato un inter­lo­cu­tore fon­da­men­tale che, con cre­di­bi­lità e pre­sti­gio, ha par­lato con le più influenti can­cel­le­rie (non solo) euro­pee. Però la solu­zione di una guida tec­nica dell’esecutivo pro­spet­tata dal Colle (e accet­tata dagli attori poli­tici, che quindi ne assu­mono la respon­sa­bi­lità piena) dopo la caduta del ber­lu­sco­ni­smo non si è rive­lata un fat­tore effi­cace nel con­te­ni­mento della cata­strofe in atto.

L’operazione Monti non era una rie­di­zione del governo Dini, per­ché men­tre quest’ultimo era pur sem­pre un pro­dotto dell’attivismo dei par­titi che ave­vano pro­get­tato “il ribal­tone”, e rima­ne­vano pronti a san­cire con il voto una alter­na­tiva di governo, il dica­stero Monti nasceva come un espli­cito allon­ta­na­mento della poli­tica dalle stanze del potere e come l’espropriazione di un ruolo del ricam­bio poli­tico nella fase dell’emergenza.

Per que­sto l’esperimento Monti, pro­trat­tosi così a lungo anche per la mio­pia del Pd che non per­ce­piva l’usura celere della for­mula e la rab­bia sociale che mon­tava, ha com­presso le spinte al rin­no­va­mento, sof­fo­cato domande di inno­va­zione e ope­rato come l’agente pato­geno che ha deter­mi­nato un ulte­riore aggra­va­mento del males­sere sfo­ciato nella ribel­lione dal basso con­tro il sistema al motto di “tutti a casa”. La paren­tesi tec­nica ha piaz­zato i bot e i titoli di stato ma ha spiaz­zato il sistema poli­tico indu­cen­dolo al col­lasso. Bloc­cate le vie di una alter­na­tiva den­tro il sistema, le ener­gie com­presse non pote­vano che assu­mere i con­torni della ribel­lione esterna con­tro il sistema.

Monti apre la strada a Grillo
Grillo non ci sarebbe mai stato senza Monti, con la sua strana mag­gio­ranza e la sua ino­pi­nata discesa in campo. Dalla crisi del ber­lu­sco­ni­smo, non si è usciti con lo stru­men­ta­rio dell’alternanza ma con la crisi di regime, la seconda nel giro di un ven­ten­nio. Non solo l’interprete (Monti e le sue meschine ambi­zioni di potere) ma pro­prio il rime­dio, quello tec­nico appunto, era sba­gliato come illu­so­rio neutralizzazione.

Non inco­sti­tu­zio­nale ma inef­fi­cace, alla luce del soprag­giunto crollo del sistema, è risul­tata la poli­tica isti­tu­zio­nale del Colle. Anche dopo il voto del 2013, e a caduta di sistema poli­tico ormai con­su­mata, la rilut­tanza a con­fe­rire un man­dato pieno al “non vin­ci­tore” Ber­sani ha accen­tuato i momenti di incer­tezza e di crisi. Ciò ha favo­rito l’ascesa dell’altro ele­mento di destrut­tu­ra­zione cieca, che è il ren­zi­smo (il Qui­ri­nale pro­tegge lo sta­ti­sta di Rignano, arri­vando per­sino a stig­ma­tiz­zare ogni ipo­tesi scis­sio­ni­stica nel Pd).

In fondo, quel governo di mino­ranza, che solo in aula avrebbe dovuto tro­vare i con­sensi, e che è stato negato a Ber­sani come una for­mula insulsa, costi­tui­sce il pila­stro su cui pog­gia il deci­sio­ni­smo simu­lato di Renzi. Il suo è pro­prio un mono­co­lore di fatto, che raci­mola spez­zoni par­la­men­tari ete­ro­ge­nei dopo che il gover­nis­simo era durato solo per le poche set­ti­mane che divi­de­vano il Cava­liere dalla con­danna defi­ni­tiva in cas­sa­zione. Il pro­blema è che una mag­gio­ranza Bersani-Vendola era per­ce­pita come la resur­re­zione di una sini­stra tra­di­zio­nale, ten­den­zial­mente ostile agli impe­ra­tivi domi­nanti nella vec­chia Europa, men­tre Renzi, mal­grado le prove di popu­li­smo e anti­po­li­tica, è pur sem­pre una fedele sen­ti­nella del rigore, dei con­doni fiscali e della pre­ca­rietà del lavoro. Pro­prio sui temi del lavoro, dopo una ini­ziale insi­stenza sui nuovi diritti civili e sul fine vita, sul regime car­ce­ra­rio e sugli infor­tuni nelle fab­bri­che, il capo dello Stato ha con­di­viso la reto­rica con­tro il con­ser­va­to­ri­smo della Cgil, con l’invito rivolto al movi­mento sin­da­cale a non distur­bare le pre­ro­ga­tive della mag­gio­ranza intenta nel varo delle cosid­dette riforme strutturali.

Se la repub­blica avrà, a breve o a medio rag­gio, una svolta in senso pre­si­den­zia­li­sta, non sarà però per­ché Napo­li­tano si è tra­mu­tato in “re Gior­gio”, e quindi dopo di lui occorre sol­tanto rati­fi­care gli spo­sta­menti avve­nuti nella prassi. La car­rozza del com­mis­sa­rio avan­zerà per­ché le grandi cul­ture costi­tu­zio­nali della repub­blica sono state tra­volte dal virus della sem­pli­fi­ca­zione che sug­ge­ri­sce l’illusoria solu­zione della ele­zione diretta della carica mono­cra­tica impo­sta attra­verso una ano­mala legge elettorale.

Le riforme isti­tu­zio­nali ad ogni costo, e l’Italicum impo­sto con i suoi ritoc­chi solo cosme­tici alla vec­chia legge Cal­de­roli, sono dei fasulli rimedi dati in pasto (con le norme sul o meglio con­tro il lavoro) ai cen­sori europei.

Su que­sto rifor­mi­smo improv­vi­sato dell’asse Boschi-Verdini, con­tro cui si sono accesi momenti di ostru­zio­ni­smo in aula, un minore coin­vol­gi­mento del Qui­ri­nale, a difesa della velo­cità delle mosse del governo, forse sarebbe stato più oppor­tuno, quale che sia il livello di pre­oc­cu­pa­zione sulla tenuta del sistema e sulla pre­senza o meno di valide alter­na­tive al con­dot­tiero di Rignano.

“Il presidente di tutti? Napolitano non ci ha mai ricevuto e non capiamo perché”. Parlano i famigliari delle vittime di Viareggio Autore: fabio sebastiani da: controlacrisi.org

Nel giorno poi in cui il presidente Giorgio Napolitano ha lasciato il proprio incarico i familiari delle vittime della strage di Viareggio, dove ins eguito all’esplosione di un treno merci sono morte 32 persone, (riuniti nell’associazione “Il mondo che vorrei” e nell’assemblea “29 giugno”) hanno ancora una volta ribadito di non essere stati mai ricevuti nonostante le ripetute richieste.

Nei giorni scorsi, in una lettera aperta al Commissario Prefettizio, Valerio Massimo Romeo, firmata da Riccardo Antonini, il ferroviere licenziato da Mauro Moretti per avere assistito i familiari, e Claudio Menichetti, padre di Emanuela, una delle giovani vittime di questa strage, ricordano che Napolitano ha nominato cavaliere Moretti nel primo anniversario della strage ferroviaria. E che il 28 novembre 2011 all’inaugurazione della stazione Tiburtina a Roma “ha fatto blindare i familiari con cellulari e cordoni di polizia”.

Qualcuno a Viareggio, fanno sapere i familiari, si sarebbe aspettato che arrivasse dal Quirinale un invito almeno per il piccolo Leonardo Piagentini, che ha perso la mamma Stefania Maccioni, 40 anni e due fratellini Lorenzo e Luca di 2 e 5 anni (con il papà Marco gravemente ustionato). Il presidente Napolitano andò a far visita al piccolo in ospedale il giorno dopo l’esplosione ricevendo in regalo dal bambino un disegno nel quale veniva sintetizzato quanto accaduto quella notte maledetta. “Non capiamo ancora il motivo per cui non siamo stati ricevuti – dicono amareggiati i parenti delle 32 vittime – dopo quello che abbiamo subito sarebbe stato il minimo”.

Daniela Rombi, la mamma di Emanuela Menichetti, la ragazza deceduta insieme all’amica Sara Orsi in seguito alle gravi ustioni riportate nell’esplosione alla stazione di Viareggio, ieri alla ripresa dell’udienza del processo a Lucca ha ribadito che il reato di incendio colposo non deve cadere in prescrizione. “Si parla di 32 vittime bruciate vive in questa tragedia – dice – quindi non è possibile che ci sia il rischio che vada in prescrizione”. Daniela Rombi ha mostrato poi una foto in cui è riportata la figlia e gli altri ustionati gravi in via Ponchielli per rendere ancora una volta chiara l’entità di questa tragedia, unica nel suo genere in Italia.

Signora Falcone parli! da: antimafia duemila

lodato-falcone-mariadi Saverio Lodato – 15 ottobre 20Brava Sabina Guzzanti.

Alla domanda di un giornalista, se rifarebbe il twitter di “solidarietà a Riina e Bagarella”, che ha sollevato un uragano di polemiche da parte dei “soliti noti” o, se si preferisce, dei “soliti sospetti”, ha risposto netta: “non lo rifarei, assolutamente”. Credo che sia il primo caso in Italia, a mia memoria negli ultimi quarant’anni, in cui qualcuno, dotato di una sua forte visibilità pubblica, fa platealmente marcia indietro riconoscendo di averla detta grossa. Solo per questo, Sabina Guzzanti meriterebbe di entrare nel guinnes dei primati, in un Paese di ciarlatani e cialtroni, doppiogiochisti e doppiopesisti, giornalisti già spie della Cia o dei servizi segreti italiani, politici e opinionisti da un tanto al chilo, rappresentanti delle istituzioni tanto incartapecoriti quanto immarcescibili.
Tutti costoro, vestali della moralità offesa dalle parole prima maniera della Guzzanti, dovrebbero adesso unirsi al coro delle felicitazioni per la rettifica che lei ha reso mettendoci la sua faccia e la sua voce. Ma non lo possono fare. Perché?

Perché la Guzzanti è convinta, tanto da averci fatto un film (“La Trattativa”), che buona parte dello Stato italiano è corrotto, e da almeno sessant’anni va a braccetto con la Mafia per un’inconfessabile sintonia di vedute e di interessi. Verissimo.
Uno Stato-Mafia e una Mafia-Stato sono le entità che resero possibile la carneficina in Sicilia che ebbe come vittime tutti coloro i quali credevano di avere le spalle coperte dallo Stato. D’altra parte, se avessero avuto ragione loro, non sarebbero stati massacrati dal tritolo e dai pallettoni. Invece avevano torto. Andavano allo sbaraglio mentre Stato-Mafia e Mafia-Stato li pugnalavano alle spalle. Ci dispiace se il nostro capo dello Stato, Giorgio Napolitano, è di parere diverso. Ma il nostro pensiero è proprio questo. Per questo è bella la libertà d’opinione!
Quanto alle vestali della moralità offesa, sappiamo bene che strillano contro la Guzzanti perché l’argomento è scabroso. Il fatto stesso che sul banco degli imputati nel processo di Palermo sulla Trattativa siano accomunati mafiosi, carabinieri, politici ed ex cariche dello Stato, dovrebbe indurre a riflettere.
Ma le vestali non sono nate per riflettere, ma per strillare, negare l’evidenza e cercare di riparare i danni.
Che c’è di strano nel denunciare come fatto scandaloso che a degli imputati di quel processo non sia stato riconosciuto il diritto a presenziare all’udienza perché quel giorno va in scena il “Napolitano day”? E Napolitano, da un paio di anni a questa parte, non ha forse detto in tutte le salse che questo processo di Palermo lo vede come fumo negli occhi? Gli opinionisti si genuflettono di fronte a questi corrucci presidenziali. Ma che possiamo farci?
In conclusione. Non abbiamo indicato i nomi delle vestali della moralità offesa perché ci appaiono piccole comparse in quest’ennesimo teatrino all’italiana. Ma – e ne spiegheremo subito la ragione – vogliamo riportare la frase pronunciata da Maria Falcone a proposito delle dichiarazioni prima maniera della Guzzanti: “una cosa vergognosa per la quale non bastano gli aggettivi dispregiativi”. Parole forti.
Si da il caso che, appena qualche giorno dopo, Maria Falcone sia stata insignita di una speciale onorificenza del Quirinale, con parole di Napolitano che suonano più o meno così: “la lotta alla mafia si fa come faceva Giovanni”.
Sin qui, nulla da eccepire. Resta il fatto che non è dato sapere cosa la sorella del magistrato assassinato pensi di questa benedetta Trattativa e del processo di Palermo. E no, signora Falcone. Questo suo prolungato silenzio sull’argomento non ci piace. Troppo comodo il top secret. Ci vuole un minimo di coerenza. Lei non appartiene alle vestali di cui sopra. Lei è una donna simbolo nell’Italia dello stragismo. Lei è appena stata insignita di alta onorificenza. Da lei ci aspettiamo qualcosa di più.
Con la stessa franchezza con la quale ha espresso il suo pensiero sulla Guzzanti, ci dica adesso se, secondo Lei, buona parte dello Stato italiano è marcio e corrotto, oppure no. Ci dica se Riina fece tutto da solo. Ci dica a chi si riferiva suo fratello dopo il fallito attentato all’Addaura, quando parlò di “menti raffinatissime”. Ci dica se suo fratello aveva le spalle coperte dalle istituzioni, oppure no. Se a Roma era ben visto oppure no. Ci dica se il suo diario era costituito solo da tre paginette.
Ci dica cosa pensa delle telefonate fra Mancino e il povero D’Ambrosio. Ci dica cosa pensa delle telefonate fra Mancino e Napolitano che furono mandate al macero su richiesta di Napolitano. E, già che c’è, ci dia la sua opinione sui guai che sono costretti ad attraversare Nino Di Matteo, Roberto Scarpinato, e tanti giudici della Procura di Palermo, perché con le loro inchieste si sono spinti troppo in alto. Non ci permettiamo di fare paragoni. Ma ci sono famiglie di vittime della mafia, esattamente come Lei, che tutto quello che sapevano sui loro congiunti lo hanno squadernato ai magistrati. Giovanni l’avrebbe fatta così la lotta alla mafia, e riprendiamo le parole di Napolitano. E adesso, magari, dica anche due parole carine alla Guzzanti dimostrando che Lei con il coro delle vestali non ha nulla a che spartire!

saverio.lodato@virgilio.it

Lettera dei Giuristi democratici a Napolitiano:”Chiarisca le contraddizioni dell’emendamento del Governo sull’articolo 18″ Autore: fabio sebastiani da: controlacrisi.org

L’Associazione Nazionale Giuristi Democratici scrive a Giorgio Napolitano chidendogli una parola di verità sulla controversa questione dell’Articolo 18. Sarà o no cancellato dal Governo? L’interrogativo è più che mai lecito visto che sul delicato passaggio esistono al momento due versioni, quella del deputato Maurizio Sacconi e quella della relatrice dell’emendamento di palazzo Chigi, la sottosegretaria Bellanova: il primo dce di sì e la seconda di no.  «Oggi il vero tema del confronto è tra chi vuole tenere oscura la riforma, dichiarandosi pronto ad attuarla “violentemente” in spregio agli articoli 76 e 77 della Costituzione e chi invece chiede che le riforme avvengano nel rispetto della legalità repubblicana e non certo nello scontro tra presunti innovatori da una parte e corporativismi e conservatorismi dall’altra».
I Giuristi Democratici, nella lettera, ricordano che l’onorevole Renzi, a fronte dell’intenzione di molti parlamentari (anche afferenti alla stessa maggioranza) di meglio chiarire nel percorso in aula i termini della delega, ha dichiarato che o il testo verrà lasciato invariato dalle Camere, oppure procederà in sede di decretazione d’urgenza.
Al riguardo i Giuristi democratici hanno voluto ricordare come «l’art. 76 della Carta impone come “l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principî e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”, limite all’evidenza violato da un testo che consente al relatore dell’emendamento e al relatore del DDL di affermare lo stesso giorno che la delega assegnata al Governo abbia contenuti diametralmente opposti. E l’art. 77 consente al Governo di emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria solo “in casi straordinari di necessità e d’urgenza”, che non possono certo essere rappresentati dall’intenzione delle Camere di espletare in modo non solo formale la propria funzione legislativa». I Giuristi Democratici hanno quindi invitato il Presidente Napolitano a pronunciarsi non già sul merito del provvedimento ma «sul doveroso rispetto da parte delle Camere del disposto dell’art. 76 e sul doveroso rispetto da parte del Governo delle prerogative del Parlamento ai sensi dell’art. 77», affermando che «solo così sarà possibile riportare il dibattito dalle interviste giornalistiche e dai conciliaboli segreti nella sua sede propria —ovverosia nelle aule del Senato e della Camera— al fine di consentire a tutti i cittadini di poter valutare in trasparenza le proposte in campo, rendere chiare le mediazioni politiche e rispettare la sovranità del popolo fondata sulla insuperabile distinzione tra funzione legislativa e funzione esecutiva». La lettera si conclude affermando come «questo è oggi il vero tema del confronto e non certo lo scontro tra presunti innovatori da una parte e “corporativismi e conservatorismi” dall’altra che pure Lei ha stigmatizzato con ciò però contribuendo — di certo involontariamente— a rendere più oscuro il problema e più lontana la sua soluzione nel rispetto del testo costituzionale» come sembrano attestare «le prime dichiarazioni successive dell’On. Renzi in ordine all’intenzione di attuare le riforme “violentemente”, dimenticando come le riforme del lavoro in questo paese hanno purtroppo già visto talvolta scatenarsi la violenza omicida, così nuovamente ed irresponsabilmente evocata». Per questi motivi, l’Associazione dei Giuristi Democratici ha chiesto al Presidente «un breve incontro quale gesto di attenzione, non certo nei confronti della nostra associazione, ma della legalità repubblicana rispetto alla quale siamo certi Lei condividerà con noi la considerazione in ordine alla gravità dell’attacco a cui è esposta».

Gratteri: “È vero mi ha bocciato Napolitano” da: antimafia duemila

gratteri-nicola-web10di Mimmo Varone – 26 maggio 2014

La Calabria è una terra estrema. Genera il male «assoluto» della ‘ndrangheta ma anche gli uomini capaci di combatterla. Nicola Gratteri è uno di questi, forse l’unico che lo Stato può mettere in campo al momento, e lo fa dalla prima linea della Procura di Reggio Calabria.
Anziché procuratore aggiunto della Dda del capoluogo calabro, oggi avrebbe potuto essere ministro della Giustizia, ma pare che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano abbia sconsigliato. «C’è una regola non scritta per la quale un magistrato non può fare il ministro della Giustizia», avrebbe detto, ed è lo stesso Gratteri a rivelarlo con un commento: «Pensavo che l’unica legge che dovesse salvaguardare è la Costituzione». Ma tant’è, Gratteri è uno di quegli uomini per niente avvezzi alle mediazioni di palazzo. Ha le sue idee, e non ci rinuncia. Combatte mafia, camorra e ‘ndrangheta con la stessa determinazione con cui queste delinquono. Non ha paura della morte. Anzi, pare l’abbia già messa in conto: «Ho catturato latitanti da 15 anni dopo aver ascoltato intercettazioni in cui discutevano di come ammazzarmi».

AL SOTTOSEGRETARIO Delrio, quando nel febbraio scorso è andato a proporgli di fare il ministro, ha chiesto carta bianca. «Abbiamo discusso per quasi tre ore di modifiche normative – dice -, più parlavo e più il sottosegretario si eccitava. Quando hai la morte negli occhi, perdi del tutto il timore reverenziale del potere. La notte non ho dormito, sapevo che mettevo in gioco la mia vita, che un ministro dura poco e mi sarei dovuto cercare un altro mestiere. Ma l’avrei fatto». Il giorno dopo, Delrio sta un’ora a colloquio con Napolitano, che poi gli parla della «regola non scritta».
Cambiare le regole, invece, è il suo leitmotiv, anche sul fronte delle carceri. «Critico molto gli interventi dei ministri Severino, Alfano e Cancellieri sulla custodia cautelare – dichiara -, è grave mettere in testa alla gente che c’è uno sconto per tutti. Il problema del sovraffollamento si può risolvere con trattati bilaterali che permettano a detenuti stranieri di scontare la pena nel loro paese a spese dello Stato italiano». Riaprirebbe subito Pianosa e l’Asinara per i 400 del 41 bis, e il personale necessario lo prenderebbe dai 20mila esuberi dell’Esercito formati «mille al mese con corsi accelerati».
Sono frammenti di un lungo discorso che Gratteri ha fatto venerdì pomeriggio in un’affollata aula magna di Giurisprudenza nel primo giorno di Unibsdays. Discorso per niente rassicurante anche per i territori del Nord. «La ‘ndrangheta è entrata in Lombardia perchè gli imprenditori le hanno aperto le porte convinti di poter avere mano d’opera in nero e smaltimento di rifiuti a bassissimo costo – dice -. Ora si tende a rimuovere e se ne nega la presenza, pur sapendo che c’è da 40 anni». Il fenomeno è mondiale, e lui tutte le settimane è all’estero per coordinarsi con gli altri sistemi giudiziari e rendere non conveniente il delinquere.
Gratteri è uomo pragmatico e determinato. In 29 anni di magistratura dice di non aver fatto mai un giorno di malattia: «Sono andato in udienza a chiedere sei ergastoli con quattro costole rotte». Da 28 anni utilizza le ferie per andare nelle scuole a parlare con i ragazzi con lo stesso pragmatismo. Fa il consulente gratuito di qualsiasi istituzione o partito glielo chieda. A muoverlo è la speranza che «ancora ce la possiamo fare», ma non si fa grandi illusioni. «Siamo un popolo di commedianti, allenati non al rischio ma a essere furbi. Ai giovani possiamo dare poco perchè siamo falliti, consegniamo loro una società peggiore di come l’abbiamo ricevuta». Anche per questo agli universitari che lo ascoltano manda un avvertimento chiaro: «Quando vi dicono che siete il futuro vi stanno fregando, il futuro è di tutti noi, tutti dobbiamo prendere posizione».
È IL RIGORE FERREO di un figlio di contadini poveri di Gerace, che andava a scuola a Locri in autostop e più volte ha visto morti ammazzati per strada. «Il mio compagno di banco è morto di lupara e molti compagni di classe sono stati miei clienti, indagati». Nato in una famiglia onesta e dai sani valori, per questo «mal tolleravo il bullismo dei figli di capimafia davanti al liceo di Locri». Studia Legge a Catania, fa il concorso di magistrato e torna a Locri da Pm. Uno così sarebbe ministro, in un’altra Italia.

Fonte: bresciaoggi.it

Tratto da: gianlucacongiusta.org

Coordinamento Regionale dei Comitati No MUOS comunicato stampa : Guerra e pace

Guerra e pace
Il 25 aprile, giorno della liberazione dal nazifascismo e dall’ideologia militarista che il nazifascismo ha espresso in una serie di sanguinose guerre d’aggressione, il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha scelto di muovere un attacco senza precedenti nella storia repubblicana a chi a tale ideologia di prepotenza, spreco e  morte si oppone.
Dopo aver reso uno stupefacente onore ai due fucilieri della Marina che, impiegati a protezione di interessi privati, in India sono accusati di aver ucciso due pescatori inermi, Napolitano si è fatto garante del “rinnovamento dello strumento militare”, aggiungendo che sarebbero inaccettabili “incomprensioni di fondo e perfino anacronistiche diffidenze verso lo strumento militare, vecchie e nuove pulsioni demagogiche antimilitariste”. Nessuno statista italiano era mai arrivato a tanto.
Il Movimento No Muos e tutti coloro che da anni, in Sicilia e ovunque, si battono contro una cultura militarista che, con le sue ininterrotte guerre d’aggressione, devasta territori e distrugge popoli e di cui  lo Stato italiano è parte attiva, respinge come irricevibile e inqualificabile questa dichiarazione. Si tratta di un virulento attacco mosso ai valori di pace sanciti dalla Costituzione e dal suo articolo 11 che ripudia la guerra, valori di cui il Capo dello Stato avrebbe il dovere primario di essere garante.
In tempi recenti Giorgio Napolitano ha ribadito la sua passione per lo strumento militare opponendosi alla sospensiva che il Parlamento aveva deciso per l’acquisto dei famigerati cacciabombardieri d’attacco F-35.
I siciliani e le siciliane si onorano di nutrire “vecchie e nuove pulsioni antimilitariste”. Sono state coltivate dalle distruzioni e sofferenze subite per mano del militarismo nazifascista, come, oggi, dalla riduzione della propria terra, da secoli crocevia di culture e armonie, a piattaforma di guerre d’aggressione. Grazie a “pulsioni militariste”, come quelle manifestate da Napolitano, la Sicilia è stata privata di sovranità e autodeterminazione e ridotta a colonia di una potenza straniera
Il Movimento No Muos, riunito in assemblea regionale a Niscemi, dove è stato installato il centro di comunicazione, controllo e comando militare per le guerre degli Usa e dell’Alleanza Atlantica, da anni si batte pacificamente contro questo strumento di guerra e di attacco alla salute dei cittadini. Non si farà intimidire né dai vaticinii militaristi di Napolitano, né dalla repressione poliziesca e giudiziaria che li accompagna. Il suo impegno a promuovere sacrosante “pulsioni antimilitariste”, in sintonia con il dettato della Costituzione e del sentire di tutte le persone di pace, si è espresso in un altro modo di celebrare il 25 aprile. È stato il taglio delle recinzioni che circondano la base Muos e la riconquista di un pozzo d’acqua che dai militari statunitensi era stato sottratto ai cittadini di Niscemi. Siamo certi che la Resistenza, che ci ha dato una Costituzione nella quale le pulsioni militariste sono state annientate per sempre, si sente più vicina a quel pozzo e ai No Muos che non al Quirinale.
Coordinamento Regionale dei Comitati No MUOS
http://www.nomuos.info/?p=5931

Giorgio Napolitano: “La memoria è un valore” da: anpi nazionale

Giorgio Napolitano: “La memoria è un valore”

Pubblichiamo di seguito il testo del messaggio che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha inviato a Carlo Smuraglia in occasione della presentazione – svoltasi martedì 14 gennaio alla sala del Cenacolo a Roma – del volume “Le stragi nazifasciste del 1943-1945, memoria, responsabilità e riparazione” curato dall’ANPI e del progetto di realizzazione dell’ ”Atlante delle stragi nazifasciste”.

Sono idealmente vicino a quanti, intervenendo alla presentazione del volume “Le stragi nazifasciste del 1943-1945, memoria, responsabilità e riparazione” intendono riaffermare il valore della memoria delle migliaia di italiani vittime innocenti di una efferata barbarie.

Il prezioso e costante impegno dell’ANPI nel documentare in modo oggettivo e ricostruire storicamente le responsabilità per i crimini nazifascisti  – che si affianca al significativo impegno assunto dal governo tedesco di finanziare la realizzazione di un Atlante dei luoghi dove sono avvenuti i massacri –  onora lo spirito nazionale della lotta di Liberazione contribuendo a farne un patrimonio condiviso, morale e civile, da custodire e valorizzare a vantaggio, in primo luogo, delle giovani generazioni.

Nell’esprimere vivo apprezzamento per l’iniziativa e per il lavoro di coloro che hanno contribuito a realizzare il volume invio a lei, gentile Presidente, ai relatori e a tutti i presenti il mio cordiale, partecipe saluto.

Giorgio Napolitano

Migranti, 14 anni fa la strage al Vulpitta: quelle chiavi che ancora non si sono trovate | Autore: stefano galieni da: controlacrisi.org

Accadde la notte del 28 dicembre 1999, a Trapani, nell’allora Centro di Permanenza Temporanea “Serraino Vulpitta” (oggi chiuso). Accadde quando non c’era la Bossi Fini e questi centri erano stati introdotti in Italia nel 1998 mediante una legge che porta il nome dell’allora ministro dell’Interno e ora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Rabah, Nashreddine, Jamel, Ramsi, Lofti e Nasim in quel centro erano stati rinchiusi e avevano provato a fuggire. Si erano calati con una corda fabbricata con le lenzuola, si era immediatamente scatenata la caccia all’uomo, li avevano ripresi e condotti in cella. Uno dei reclusi aveva probabilmente dato fuoco ad un materasso scatenando l’incendio. Le chiavi non si trovavano, gli estintori erano rotti, nessuno volle prendersi la responsabilità di farli uscire. Ma uscirono, in 3 già morti e gli altri destinati alla stessa fine, dopo una tremenda agonia. Altri due ragazzi rinchiusi nella stanza si salvarono, ma portano i segni del rogo ancora addosso.

Accoglienza, le chiavi ancora non si sono trovate
Anni e anni di indagini, mai nessuno pagò per queste morti oscene, neanche l’allora prefetto. Solo un misero risarcimento, mentre l’allora ministro dell’Interno (succeduto a Napolitano), l’onorevole Enzo Bianco, ora sindaco di Catania, dichiarava che il “Vulpitta era un albergo a 5 stelle”. Una strage di centro-sinistra che dà inizio ad una stagione senza ritorno, di cui le vicende di questi giorni costituiscono un continuum mai interrotto, indipendentemente dai governi. Chi ha seguito non ha fatto altro che inasprire le condizioni di vita dei trattenuti perché privi di permesso di soggiorno (quindi non per un reato commesso ma per ciò che si è), aumentando il numero di centri, cambiando loro nome, accrescendo i tempi massimi di trattenimento, inibendo l’accesso ai giornalisti. E poi, di fronte all’incapacità strutturale di gestire i movimenti di persone dall’Africa Sub-sahariana prima e dal Magreb poi, dopo le rivoluzioni e le dinamiche innestate dalla crisi, ancora tentativi miseri di proibizionismo: esternalizzazione delle frontiere con i campi in Libia, missioni militari congiunte, respingimenti al di fuori di ogni norma internazionale, processi a chi tentava di salvare naufraghi e infine, centri di accoglienza di dubbia natura. Da Lampedusa spesso trasformata in carcere a cielo aperto fino agli ultimi spazi requisiti e utilizzati per strutture ubicate in un vero e proprio limbo giuridico, a volte di detenzione, poi di ospitalità per richiedenti asilo, poi di prima accoglienza, tutto affidato all’improvvisazione e alla discrezionalità delle prefetture.

Nell’epoca di mezzo
Per ora tanto il sistema dei Cie che quello dell’accoglienza stanno franando miseramente. Non sono più un affare per gli enti gestori che vincono le gare di appalto, un tempo si riusciva ad avere – è il caso di Modena – 72 euro al giorno, pro capite per trattenuto, oggi si vincono le gare al ribasso, a meno di 30 euro. Quindi diminuisce il numero dei dipendenti, delle persone che è possibile detenere, e peggiorano le condizioni di vita. Aver portato inutilmente a 18 mesi i tempi massimi di trattenimento ha acuito la trasformazione in penitenziari dei centri, sbarre e gabbie sono una condizione umana ed esistenziale in cui non si regge. E allora continue e mai cessate rivolte, atti di autolesionismo, suicidi riusciti o meno. Oggi dei 13 centri previsti ne sono in funzione 6. Crotone è stato chiuso questa estate dopo la morte per cause non ancora chiarite di un 32enne. Gradisca d’Isonzo ha avuto lo stesso destino a novembre, dopo che in estate, durante una rivolta, un altro recluso era caduto dal tetto e da allora è in coma irreversibile all’ospedale di Trieste. Prima erano stati chiusi i centri di Lamezia Terme, il “Vulpitta” di Trapani, il “Restinco” di Brindisi, poi quelli di Bologna e Modena. E proprio da Modena è giunta in questi giorni la nota ufficiale con decreto del Ministro dell’Interno, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, in data 23 dicembre. In attesa di futura(?) ristrutturazione la Prefettura ha avviato le procedure per la disdetta del contratto di locazione dell’immobile e dei contratti di manutenzione per la gestione degli impianti del Centro. Insomma in maniera ambigua ma soppresso. In questi giorni la potente protesta delle “bocche cucite” nel Cie di Ponte Galeria a Roma ha fatto irruzione negli schermi e nell’agenda politica. Si è parlato meno, perché più periferici di quanto accadeva a Bari e a Torino, scioperi della fame e sommosse e in molti hanno cominciato a parlare di revisione del sistema ma la confusione regna sovrana. In parlamento, prima delle rivolte, era stata approvata con i voti di Pd, Sc e Ncd, una mozione che dichiarava di voler cambiare tutto ma non interviene nell’immediato su nulla. Al Viminale, il Ministro dichiara che la Bossi Fini non si tocca, il suo vice parla di rapida e drastica riduzione dei tempi di trattenimento, nello stesso Pd si fronteggiano posizioni diverse e disparate. Durante il precedente governo, una task force del Viminale aveva poi redatto un rapporto, curato dal sottosegretario Ruperto, che per certi versi inaspriva le condizioni di vita nei centri con la boria di volerli rendere più efficienti. La Campagna LasciateCIEntrare (www.lasciatecientrare.it) ha prodotto un documento che è stato inviato a tutti i parlamentari dal titolo diretto, “Mai più Cie”.

“Torneremo a farci sentire”
Ma sono tante le forze esterne o interne ad essa che chiedono di chiudere l’ignobile capitolo della detenzione amministrativa. Competenze collettive organizzate, da associazioni umanitarie a quelle direttamente antirazziste, hanno comprovato come sia impossibile riformare tali istituzioni, la sola via è quella che non si vuole intraprendere. Un coraggioso stop. Del resto, per stessa ammissione del Ministero, ad oggi, causa l’inagibilità di parte delle stesse strutture aperte, nei Cie italiani ci sono 440 persone. Una questione quindi politica e non numerica. Si è in un momento di transizione, se prevarrà l’inerzia, i reclusi che hanno scritto tanto al Papa che a Napolitano, torneranno rapidamente a farsi sentire. Non torneranno indietro, sono determinati, non hanno nulla da perdere. A Ponte Galeria c’è chi ha tranquillamente garantito che si impiccherà e chi intende cucirsi anche le palpebre oltre che la bocca. I dipendenti degli enti gestori si sentono sulla bocca di un vulcano.

La fine dell’accoglienza
Accolti da chi? Il crollo dei Cie è nulla rispetto a quanto si è verificato e si sta verificando anche in queste ore in Sicilia sul fronte dell’accoglienza. C’è voluta la clamorosa e giusta iniziativa di protesta di Khalid Chaouki, parlamentare Pd, per far uscire dall’inferno del Cpsa di Lampedusa, buona parte dei profughi da mesi in attesa di conoscere il proprio destino. Sono rimasti, in condizioni pessime i 17, fra cui una donna in stato di grave prostrazione, sopravvissuti al naufragio del 3 ottobre. Sono testimoni e si attendono le decisioni della magistratura per deciderne nuova allocazione. Alcuni legali, Alessandra Ballerini, Michele Passione, Fulvio Vassallo Paleologo, hanno realizzato un esposto per denunciare un trattenimento collettivo illegale. Il testo, da inviare al Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa, alla Commissione Europea e ad altre autorità comunitarie, costituisce un duro atto di accusa nei confronti del governo italiano. Saranno in molti, fra associazioni e individui, ad inviarlo a proprio nome, ovviamente anche il Prc procede in tal senso. Accanto a questo un appello, firmato da LasciateCientrare e Asgi, rivolto a tutto il tessuto politico e sociale. Le immagini fortunosamente giunte e trasmesse al Tg2 non possono essere cancellate.

L’inferno contiene altri inferni
Ma l’inferno contiene altri inferni. Quello del Cara (Centro Accoglienza Richiedenti Asilo) di Mineo, in provincia di Catania, 4000 persone rinchiuse in un luogo che ne può contenere 2000, minorenni costrette alla prostituzione per pochi euro con la compiacenza dei gestori. Lì si può restare anche oltre 18 mesi prima di conoscere il proprio destino di richiedente asilo, li si può finire come è accaduto ad un ragazzo eritreo di 21 anni, di aspettare da maggio una risposta, non poterne più e poi decidere di impiccarsi. Un’altra morte assurda ed evitabile, punta di iceberg di condizioni di disumanizzazioni collettive, con centri improvvisati messi in piedi dalle prefetture, senza medici o mediatori, da cui la gente può solo fuggire. A Messina, circa 200 profughi si son ritrovati sommersi dall’acqua. Erano in una tendopoli realizzata a forza, contro il parere del Comune, guai ad utilizzare le strutture turistiche. Son dovuti intervenire i vigili del fuoco per drenare l’acqua e mettere delle passerelle in legno fra le tende. Alcuni hanno accettato di farsi ospitare in un convento, gran parte sono rimasti nel fango. Hanno chiesto al Comune e l’assessore era con loro, volevano anche intraprendere uno sciopero della fame che per ora sembra interrotto. Non è colpa del maltempo, di certo prevedibile in questa stagione se il campo da baseball dove è posta la tendopoli, in Viale dell’Annunziata, si è allagato. È perché l’idea stessa di accoglienza non esiste, nonostante fra fondi europei e nazionali, fiumi di denaro si impieghino in nome di questa. Anche sapere che fine fa quel denaro, come quello dei Cie, potrebbe essere una risposta necessaria. L’anno finisce insomma con storie di sofferenza e di morte. E non è un buon augurio, ripensando a quel rogo di 14 anni fa.