Ttip, un trattato contro il clima Fonte: sbilanciamociAutore: Mario Agostinelli

Washington è attualmente impegnata in due importanti accordi commerciali multilaterali di negoziazione: il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti ( TTIP , con i 28 Paesi dell’UE) e la Trans-Pacific Partnership ( TPP, con 11 Paesi nella regione Asia-Pacifico e Americhe).

Va qui ricordato che quando si tratta di esportazioni di GNL o shale gas, la legge statunitense concede l’approvazione automatica alle applicazioni per i terminali destinati a spedire il gas ai paesi che hanno sottoscritto accordi commerciali con Washington, mentre le richieste di terminali GNL per inviare il gas altrove, al contrario, devono passare-attraverso un processo di valutazione, che determina se tale commercio è nell’interesse nazionale degli Stati Uniti. Questo è il nodo che gli Stati Uniti vogliono risolvere una volta per tutte a loro vantaggio e a vantaggio delle loro imprese, sia con l’UE che con i Paesi asiatici (Cina e India escluse) e dell’Oceania.

Per quanto riguarda il Ttip, e considerando il caso specifico dell’energia, il risultato del reciproco riconoscimento degli standard ambientali potrebbe essere il proliferare di tecnologie controverse come la fatturazione idraulica ( fracking ) per produrre il gas di scisto , con gravi danni alla salute e alla sicurezza delle persone e dell’ambiente. Il fracking, già bandito in Francia per rischi ambientali, potrebbe diventare una pratica tutelata dal diritto: le compagnie estrattive interessate ad operare in questo settore potrebbero – sulla base delle norme previste – chiedere risarcimenti agli Stati che ne impediscono l’utilizzo. Diverse imprese energetiche USA hanno posato gli occhi sui giacimenti europei di gas di scisto (specialmente in Polonia, Danimarca e Francia) e potrebbero avvalersi del TTIP per smantellare i divieti e le moratorie nazionali adottate per proteggere i cittadini europei. Nella sua attività di lobby BusinessEurope, la più grande federazione di datori di lavoro europei, che rappresenta le maggiori multinazionali d’Europa, sollecita un capitolo energia che renda libero il flusso di petrolio e di shale gas dagli USA all’Europa. Ad oggi infatti non esiste export petrolifero dagli USA e per il gas si attende il 2016, ma esistono molte restrizioni legislative oltreoceano al riguardo. L’eliminazione di qualsiasi restrizione all’export di materie prime fossili in Europa è la richiesta di una industria europea che, consapevole dell’esaurimento delle risorse del vecchio continente (la produzione domestica di petrolio è stimata in calo del 57% al 2035 e quella del gas del 46%), ignora la possibilità della rivoluzione delle fonti rinnovabili e dell’efficienza e rimane ancorata a carbone, gas e petrolio.

L’Unione, dal canto proprio, ha fatto di tutto nell’ultimo periodo per preparare il terreno delle importazioni di idrocarburi non convenzionali . Ha stracciato tutti i regolamenti che si era data per limitare l’inquinamento, come la direttiva sulla qualità dei carburanti e quella sulla qualità dell’aria . Un regalo all’industria automobilistica da una parte, alle multinazionali dell’energia fossile dall’altra.

Interessante in questo quadro è notare la predisposizione del nostro Governo a anticipare le avances americane e a offrirsi come l’approdo (hub) europeo del gas. Federica Mogherini , alto rappresentante Ue per gli affari esteri e certo non estranea alle posizioni italiane al riguardo, ha fatto pressioni a dicembre sul segretario di Stato americano John Kerry per inserire il capitolo sull’energia nel Trattato e, con esso, aprire un canale di importazione per lo shale gas americano. Mogherini ha sostenuto che un capitolo sull’energia nell’accordo di libero scambio potrebbe rappresentare “un punto di riferimento per il resto del mondo” in fatto di mercati energetici.

Per i biocombustibili , il TTIP, attraverso l’armonizzazione delle normative europee in ambito energetico, incentiverebbe l’importazione di biomasse americane che non rispettano i limiti di bilancio di emissione di gas a effetto serra e altri criteri di sostenibilità ambientale.

Per le rinnovabil i si profila il divieto assoluto di “domestic content nelle energie alternative” (quindi addio ad ogni connessione tra sviluppo locale e green economy), con stretti limiti alla possibilità in uso in Europa di incentivare le fonti naturali. In particolare, l’articolo O della bozza al comma a) vieta ai Governi di far valere “requisiti relativi al contenuto locale” nei programmi per le energie rinnovabili. Tradotto dal burocratese, significa abolire la corsia preferenziale per favorire chi produce e consuma sul posto energia rinnovabile.

Nei carburanti da autotrazione sono differenti i limiti inquinanti e anche qui il rischio è un accordo al ribasso.

L’articolo D al punto 2, stabilisce che i Governi, in materia di energia, abbiano la possibilità di mantenere obblighi relativi all’erogazione dei servizi pubblici solo finchè la loro politica non è più onerosa del necessario. Diventerebbe quindi praticamente impossibile accordare ai più poveri e ai più deboli una “tariffa sociale” ribassata del gas o dell’energia elettrica. Prezzo di mercato per tutti, senza se e senza ma! (ma Renzi ci ha già pensato e la tariffa di maggior tutela per gas e elettricità cesserà per decreto tra un anno e mezzo).

Il tumore che minaccia l’Europa da: www.resistenze.org – osservatorio – europa – politica e società – 24-05-15 – n. 545

 

Higinio Polo, La vecchia talpa | rebelion.org
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

04/05/2015

Un anno dopo la caduta del presidente Yanukovich e il trionfo del colpo di stato a Kiev, l’Ucraina continua ad essere coinvolta in una guerra civile che Poroshenko aveva promesso di vincere in un mese. È difficile trovare uno scenario in cui l’irresponsabilità occidentale sia così grande come in Ucraina. In un anno, i responsabili della diplomazia europea e statunitense sono passati dallo spingere le proteste e dal finanziare i gruppi di teppisti e provocatori, cui distribuivano biscotti a Maidan, come fatto da Victoria Nuland, assistente segretario del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, al contemplare impassibili una guerra civile che ha già causato migliaia di morti nell’est del paese e che può evolvere in una guerra europea di maggiore portata se non si consoliderà la via diplomatica fissata negli accordi di Minsk.

Tuttavia, l’assenza degli Stati Uniti ai negoziati e il loro persistente desiderio di alimentare gli scontri procedendo ad armare il governo di Kiev e a fornire assistenza alle sue truppe per propagare una guerra che potrebbe coinvolgere la Nato, hanno aperto una pericolosa ferita in Europa. Obama, il Pentagono e il Dipartimento di Stato discutono sulla portata del loro coinvolgimento nella guerra, perché, nei fatti, già vi partecipano indirettamente avendo inviato consulenti, spie e mercenari. Victoria Nuland, inoltre, non ha avuto remore a incontrare Andrij Parubij, il dirigente neonazista che ha organizzato Maidan a Kiev con la complicità della Cia nordamericana e della Aw [Agencja Wywiadu] polacca e che più tardi è diventato capo del Consiglio di sicurezza nazionale del governo sorto dal colpo di stato. Abituati alla manipolazione e alla propaganda, Washington e il quartier generale della Nato a Bruxelles, assistiti da un esercito di giornalisti senza scrupoli, hanno sollevato una gigantesca montagna di menzogne, che riporta alla mente altre guerre come quelle della Jugoslavia e dell’Iraq, sapendo che la memoria dell’opinione pubblica è debole e che alcune bugie ne coprono altre. Perché l’incendio dell’Ucraina ha una logica che acquista un senso quando si tiene conto delle guerre iniziate dagli Stati Uniti nel corso degli ultimi anni in Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Siria, Libia, Yemen.

Sotto Yanukovich, la corruzione dilagante era moneta corrente e strangolava il paese, ma tutti i passi compiuti finora, dal compiacente, con Washington, governo di Poroshenko e Yatseniuk, sono andati nella direzione del disastro. L’Ucraina retta da Poroshenko è oggi un paese grottesco dove comandano i capitalisti della nuova oligarchia creata, come ieri, a partire dal furto, ma anche i teppisti e gli assassini, i comandanti dei gruppi armati di strema destra che non esitano a sbarazzarsi di qualsiasi persona, i ladri delle risorse del paese e gente che non sembra essere sana di mente. Non è un’esagerazione: basta guardare i personaggi che frequentano il Parlamento e i ministeri, armati, accompagnati da picchiatori fascisti che non esitano a tirar fuori bombe a mano dalle tasche. Sebbene divisi in fazioni, condividono con solidarietà il fatto di essere i beneficiari del colpo di stato e i protetti degli Stati Uniti. Yakseniuk (complice e socio di Igor Kolomoyskyi, uno dei principali capitalisti ucraini e organizzatore dei battaglioni fascisti) è uno degli uomini di Washington a Kiev. Poroshenko oscilla tra l’avvicinamento a Berlino e la sottomissione agli Stati Uniti e come Turchinov e il resto dei governanti, sguazzano entrambi nella corruzione e nell’incompetenza che ha affondato l’economia del paese, mentre lanciano richieste di aiuto a Washington e Berlino e cercano di convincere il mondo che la Russia è un pericolo. E’ significativo che tutti utilizzino una retorica patriottica che si rifà ai tempi di Stepan Bandera, nascondano i fatti di Volin e Babi Yar e si disinteressino dei simboli e della lotta contro il nazismo durante la Seconda guerra mondiale. Non esitano nemmeno a servirsi delle più grossolane bugie, fornendo, ad esempio, a Washington fotografie scattate nella guerra in Georgia nel 2008… come prove dell’invasione russa in Ucraina, lasciando il senatore degli Stati Uniti Jim Inhofe in una posizione imbarazzante.

Durante l’anno trascorso dal colpo di stato, la corruzione non solo non è stata bloccata, bensì è aumentata, aiutata dal caos della guerra e ad essa partecipano tutti i dirigenti di Kiev: è addirittura la stampa ucraina a scrivere che Poroshenko ha fatto enormi profitti con le sue aziende e che non ha esitato a mentire e ad approfittare delle strutture statali per arricchirsi ancora di più. Così, l’economia ucraina, che già attraversava una grave crisi, è stata praticamente distrutta: molte fabbriche hanno smesso di funzionare. E’ abituale che non si paghino i salari in molte aziende, che le pensioni siano miserabili e le condizioni di vita sempre più dure, ma il governo golpista sa che forse non avrà un’altra opportunità come quella attuale e i suoi membri rubano a man bassa. E la guerra e la paura silenziano molte bocche.

Poroshenko ha riconosciuto che furono le sue forze a rompere la prima tregua di Minsk, consigliato senza dubbio dai servizi segreti nordamericani, confidando in una rapida sconfitta dei ribelli del Donbass, ma l’aiuto russo con armamento e rifornimenti alle milizie ha sventato l’offensiva e forzato Poroshenko a firmare gli accordi di Minsk II. Se durante la guerra fredda i confini tra destra e sinistra, tra sostenitori e oppositori degli Stati Uniti erano chiari, oggi la situazione è più confusa. Nel Donbass sono accorsi volontari provenienti da molti paesi, benché in numero ridotto, per aiutare le milizie. Dai comunisti e dai sostenitori di sinistra fino ai nazionalisti e ai membri di estrema destra, da tradizionalisti cosacchi ai sostenitori della solidarietà pan-slava che vedono nella Russia la sorella maggiore, anche se è evidente che il riferimento antifascista e antimperialista è dominante tra le forze ribelli, così come la simbologia fascista e nazista è molto presente nella Guardia Nazionale ucraina e nelle truppe che combattono con Kiev, integrate anche da mercenari e avventurieri fascisti. Così, il gruppo neonazista russo Restrukt (Ristrutturazione) supporta il partito fascista ucraino Pravii Serktor, circostanza che ha portato alcuni membri dei servizi di sicurezza ucraini ad accusare il Fsb (Servizio di sicurezza federale) russo di infiltrare membri di questa organizzazione (insospettabili e che sono stati comperati) nel battaglione Azov (creato dal governo golpista di Kiev e finanziato dall’oligarca Igor Kolomoisky) al fine di ottenere informazioni. Si tratta di uno tra tanti esempi, simile a quanto stanno facendo i servizi segreti occidentali.

Una parte del nazionalismo russo supporta, in funzione pan-russa, i ribelli del Donbass. In questa galassia si trovano gruppi neonazisti, mentre gruppi di estrema destra simpatizzano anche con i gruppi fascisti di Maidan a Kiev, e alcuni gruppi ceceni, con motivazioni opposte, lottano con entrambe fazioni. Allo stesso modo, gruppi di serbi sono accorsi per sostenere i ribelli dell’Ucraina orientale rifugiandosi nell’identità slava, che ritengono sia minacciata dall’Occidente, come essi stessi constatarono nelle guerre jugoslave e addirittura sono accorsi gruppi di destra ungheresi che sognano di “recuperare” territori rumeni e ucraini per creare una Grande Ungheria… che necessita dell’imprescindibile requisito della partizione dell’attuale Ucraina. Tuttavia, questi gruppi conservatori sono molto minoritari tra i miliziani del Donbass. Anche alcuni gruppi russi parlano di “scontro imperialista” tra Washington e Mosca per chiedere una rigorosa neutralità. Per rendere la situazione più confusa, la lunga mano dei servizi segreti, la Cia, il Mossad, il Bnd tedesco, l’Aw polacca e altri, hanno reso possibile il transito di mercenari dal Medio Oriente all’Ucraina e di gruppi islamici della periferia russa, mentre il Fsb russo cerca di non far arrivare i combattenti jihadisti tele-diretti dalla Cia in Ucraina e nella stessa Russia.

Se sono cessati i combattimenti in Ucraina grazie a Minsk II, la guerra di propaganda continua. La fantasia dei devoti della Nato recita così: il sogno imperiale di Putin, come dimostra l’annessione della Crimea, rivendica sfere d’influenza esclusive in Europa e ha provocato la più grave crisi dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica. In questo mantra è incluso il ruolo di Putin come aggressore nella guerra, nell’abbattimento dell’aereo malese, nella violazione dei confini dell’Ucraina, nel dispiegamento di truppe russe nel Donbass e nella violazione del diritto internazionale. Non importa che non abbiano dimostrato nessuna di queste accuse, anche se non c’è dubbio che le milizie dell’est non sarebbero state in grado di resistere senza l’aiuto russo in armi, rifornimenti e provviste. Nella gigantesca campagna di propaganda occidentale non mancano nemmeno gli sforzi perché nessuno ricordi l’incoraggiamento nordamericano ed europeo per rovesciare un governo, quello di Yanukovich, eletto dal popolo ucraino in elezioni che né gli Stati Uniti, né l’Unione Europea hanno ritenuto illegittime; ed è stato nascosto il sostegno occidentale alla violenza scatenata dalle bande fasciste (decine di poliziotti sono stati uccisi da colpi di pistola al Maidan, ad esempio), mentre si diffondeva la bontà di un presunto “movimento per la pace”, che voleva “unirsi all’Europa”, così come rimane in ombra il fatto che, nei mesi precedenti la caduta di Yanukovich, era stato organizzato l’addestramento militare di gruppi di mercenari e fascisti in Polonia per inviarli poi al Maidan di Kiev. Non viene neanche fatto, naturalmente, alcun riferimento alla progressiva espansione della Nato in Europa orientale, alla guerra provocatoria della Georgia, allo scudo antimissilistico, al tentativo di incorporare l’Ucraina e la Georgia nella Nato, al colpo di stato a Kiev. Le argomentazioni di Washington sono palesemente inconsistenti, come lo è la successiva sua ipocrita indignazione per l’aiuto russo alle milizie, poiché se Putin avesse avviato il conflitto, non si capirebbe la crisi ucraina. Per quale motivo l’avrebbe creata Mosca se il governo Yanukovich manteneva buoni rapporti con la Russia? E, dopo il colpo di stato filo-occidentale, poteva Mosca lasciare al suo destino il popolo ribellatosi a Kiev perché fosse schiacciato dal governo golpista? Ma per gli esperti nordamericani nel lancio di massicce campagne pubblicitarie, il colpo di stato di Kiev si e trasformato in “rivoluzione della dignità” e i loro clienti ucraini lo ricordano ogni giorno sulla stampa. Un anno dopo la caduta del governo di Yanukovich, rimangono senza chiarimento gli omicidi commessi dai misteriosi cecchini che hanno causato una strage a Maidan e che sono stati la scintilla per il rovesciamento del governo. Né il governo golpista di Kiev né gli Stati Uniti hanno mostrato il minimo interesse per tale inchiesta, mentre gli oligarchi si spartiscono il bottino e il territorio: Igor Kolomoisky, uno dei milionari più corrotti di Ucraina, finanziatore di gruppi nazisti, un personaggio che è arrivato a utilizzare gruppi di teppisti per imporre i suoi desideri, che compra giudici e ottiene sentenze o, se necessario, le falsifica, è oggi governatore di Dnepropetrovsk. Il procuratore generale Viktor Shokin, che trascura la lotta alla corruzione e alla criminalità, che disdegna di indagare sui cecchini di Maidan nei giorni del colpo di stato contro Yanukovich e non ha alcuna intenzione di chiarire il terrificante massacro nella casa dei sindacati di Odessa, lavora invece per mettere fuori legge il Partito comunista, l’unica forza politica che cerca di limitare il potere dei corrotti uomini d’affari-ladri. Perché il Partito comunista è anche l’unico partito che denuncia il fascismo in Ucraina, sostenendo lo scioglimento delle bande paramilitari naziste e chiedendo, invano, la tutela dei monumenti e dei simboli della lotta contro i nazisti durante la Seconda guerra mondiale.

Gli Stati Uniti sono divisi tra un maggiore coinvolgimento nella guerra e la spedizione di armi. Influenti fondazioni private e settori del Pentagono e del governo sono inclini all’invio di armi, benché consapevoli che questo non convertirà l’esercito ucraino in una forza in grado di vincere la guerra civile e che potrebbe crearsi una difficile situazione con Mosca. Tuttavia, altri settori dell’amministrazione Usa, pur accettando i rischi dello sfidare la Russia, un paese dotato di un enorme arsenale nucleare, puntano sull’armare Kiev, fiduciosi che una guerra di logoramento finirà con danneggiare l’economia russa e che, eventualmente, potrebbe affondare Putin, o almeno rendere irrealizzabile lo sforzo di ricomposizione dell’Unione eurasiatica progettato da Mosca. Tutto questo, a Washington, in mezzo a discussioni assurde sul fatto se si debbano inviare in Ucraina armi “offensive” o “difensive”, quando la verità è che una escalation nella guerra avrebbe una soluzione difficile e che la tentazione di annullare la Russia e legare di più l’Unione europea attraverso una guerra continentale è molto presente nelle strategie del Pentagono e della Casa Bianca. Dello stato delle cose a Washington possono dare un’idea i commenti di un analista del Csis (Centro di studi strategici e internazionali), il più importante “laboratorio d’idee” della capitale nordamericana le per questioni di politica estera. Andrew C. Kuchins, direttore del programma per la Russia e l’Eurasia del Csis, presentava l’assassinato Boris Nemtsov come un patriota e demonizzava Putin, dicendo che il discorso del presidente russo al parlamento nell’aprile 2014 potrebbe indicare il “punto di flessione della Russia verso uno stato fascista”. Ovviamente, per quelli che la pensano così, sarebbe più che giustificato l’intervento militare aperto in Ucraina, benché con attori interposti, mercenari o soldati che siano dei paesi più aggressivi, come Polonia o gli stati baltici. Dopo tutto, si possono sempre argomentare i pericoli di un “attacco russo imminente” o pretesti similari a quelli che hanno portato all’aggressione nordamericana in Iraq.

Lo strano omicidio di Boris Nemtsov (che, oggi, sarebbe stato un personaggio irrilevante in Russia) potrebbe avere implicazioni legate alla crisi ucraina e non può escludersi la lunga mano della Nuland e dei circoli russofobi del governo degli Stati Uniti, soprattutto davanti all’evidenza che la scomparsa di Nemtsov non va a beneficio precisamente di Putin. Convertito il presidente russo in un litigioso spaventapasseri, Washington non vuole riconoscere la propria responsabilità nell’aumento della tensione internazionale. Dobbiamo ricordare che Putin ha iniziato la sua presidenza cercando di adattarsi a un mondo unipolare diretto dagli Stati Uniti, chiedendo il rispetto e il riconoscimento degli interessi russi. Il palese disprezzo verso il presidente russo, l’evidenza che gli Stati Uniti continuano a speculare e incoraggiare un’ipotetica spartizione della Russia, come hanno fatto con l’Unione Sovietica, hanno fatto suonare tutti gli allarmi a Mosca e portato Putin, ancora sotto la presidenza di George W. Bush, al discorso del febbraio 2007 a Monaco di Baviera, nel quale denunciava l’espansionismo nordamericano e la violazione di tutti gli accordi firmati o taciti, tra Mosca e Washington dopo la sparizione dell’Unione Sovietica. Da allora e nonostante i gesti teatrali come quello del tasto “reset” offerto da Hillary Clinton (che non si è concretato in alcun cambiamento nella politica estera Usa), gli Stati Uniti hanno continuato ad avvicinare il loro dispositivo militare ai confini russi.

Francia e Germania si sono spese nella ricerca di una soluzione politica in Ucraina, ma il loro margine di manovra è limitato, perché nei loro governi predominano degli obblighi in quanto membri della Nato e Washington, con il quartier generale alleato a Bruxelles hanno elaborato un discorso che, in sostanza, è stato imposto a tutti i membri ed è stato adottato anche da Parigi e Berlino, che sebbene seguano a malincuore il discorso bellicista, sono costretti a imporre sanzioni economiche a Mosca e a discutere su ipotesi più pericolose, non scartando l’invio di armamenti e di forze militari, benché per il momento tale possibilità venga discussa in segreto. Intrappolati dalla loro stessa propaganda, i paesi della Nato non sono in grado di accettare il fatto che la crisi ucraina è scoppiata non per delle “proteste cittadine” (tra l’altro istigate e finanziate in gran parte dai paesi occidentali), bensì per il sostegno ad un colpo di stato e ad un cambiamento di regime che pretende di integrare l’Ucraina in un’alleanza militare apertamente ostile a Mosca. Se ti mostri aggressivo con gli altri, non puoi sperare di essere accolto a braccia aperte.

Né l’Unione europea, né tanto meno gli Stati Uniti vogliono riconoscere che il tentativo di incorporare l’Ucraina nella Nato è una vera e propria provocazione contro la Russia (qualcuno riesce ad immaginare l’ipotesi che il Messico o il Canada si uniscano ad un’alleanza militare aggressiva contro Washington?) che, oltre che inutile, ha portato a una guerra civile, ha distrutto l’economia ucraina, ha aperto un pericoloso fronte in Europa e minato la possibilità a medio termine di una convivenza amichevole e pacifica nel continente. Che la guerra ucraina sia stata il risultato di un calcolo o una conseguenza imprevista del colpo di stato non attenua la responsabilità degli Stati Uniti. La guerra che l’avventurismo della politica estera nordamericana ha acceso si presenta ora come responsabilità esclusiva di Mosca e come la prova del pericoloso “espansionismo” russo, ma si dimentica che, dopo la dissoluzione del Patto di Varsavia, il destino manifesto della Nato non è stato di iniziare il proprio smantellamento, bensì quello un’espansione accelerata verso i confini russi che l’ha portata a stabilirsi in otto paesi (Polonia, Estonia, Lettonia, Lituania, Repubblica Ceca, Slovacchia, Romania, Bulgaria) e al tentativo di farlo con la Georgia e l’Ucraina, senza dimenticare le sue basi in alcune delle vecchie repubbliche sovietiche dell’Asia centrale. Questo è stato il vero espansionismo militare degli ultimi due decenni. Perché Washington non vuole capire che la sicurezza deve essere un principio condiviso e che portare la presenza militare della Nato ai confini russi non è solo una provocazione, ma anche la rottura degli instabili equilibri internazionali.

Le accuse e gli allarmi, sempre senza prove, lanciati contro la Russia dal nordamericano Philip M. Breedlove, comandante delle forze Nato in Europa, o la visita segreta a Kiev nel mese di gennaio 2015 del generale James R. Clapper, direttore della National Intelligence Usa, tra le altre cose, riflettono la visione dei falchi di Washington. Il segretario alla Difesa Chuck Hagel e il capo dello Stato Maggiore, il generale Martin Dempsey, sostengono anche l’invio di armi a Kiev e gli allarmi lanciati dal duro Zbigniew Brzezinski su di un ipotetico attacco della Russia verso i paesi baltici, vanno nella stessa direzione: vogliono inviare armi in Ucraina, avvelenare la situazione e rendere irreversibile una guerra europea, forse mondiale, e lo si può fare in diversi modi, perché i falchi di Washington non si fanno troppi scrupoli: non molto tempo fa, il generale Wesley Clark fece una dichiarazione alla Cnn sui nuovi islamisti che sgozzano in favore delle telecamere: “Abbiamo creato lo Stato Islamico con il finanziamento dei nostri alleati”.

La recente dichiarazione del Partito Comunista Ucraino, la principale forza di opposizione, ora perseguitata e ridotta, si è chiusa con un proclama preoccupante diretto agli ucraini e agli europei: dite no alla guerra e al fascismo. Perché questo è il rischio, il tumore che minaccia l’Ucraina e l’Europa. Ci sono altri problemi per l’Europa, ovviamente, in aggiunta alla grave crisi economica e alle crepe nella zona euro: dall’imprevista ribellione greca, che Bruxelles intende sottomettere; fino alla risposta dei poteri reali davanti all’ipotetico emergere di un movimento di opposizione che, anche se confusamente, attacchi in diversi paesi la costruzione neoliberista dell’Unione europea; passando per il rafforzamento dell’estrema destra, che non preoccupa tanto per il suo modello sociale, quanto perché può far indietreggiare le formazioni conservatrici oggi dominanti; o anche le insidie dell’inaffidabile partner britannico, testa di ponte nordamericana in Europa, insieme alle rivendicazioni dei governi polacco e baltici; e, infine, ai resti del terrorismo che la stessa Europa e gli Stati Uniti hanno contribuito a creare. Ma nessuno di questi problemi è così grave come la guerra in Ucraina e la possibilità che si estenda al resto del continente, se non si consolida la via diplomatica. Il pragmatismo di Angela Merkel, che ha dato impulso agli accordi di Minsk, ha una duplice interpretazione: da una parte, sa che non si può vincere la Russia in una guerra globale e, di conseguenza, si muove lungo la via della diplomazia; dall’altra parte, benché voglia mettere in ginocchio Mosca, sa che la vittoria non sarebbe tedesca, bensì statunitense e questo spinge Berlino a cercare l’equilibrio tra l’obbligata sottomissione a Washington (e alla Nato), l’interesse proprio per la stabilità europea e le immancabili diffidenze tedesche verso il grande paese slavo, che si rifiuta di accettare la supremazia occidentale. Da parte sua, gli Stati Uniti vogliono una Russia debole e non rinunciano alla sua frammentazione, che consentirebbe il controllo nordamericano sui giacimenti di idrocarburi e, in questo scenario, non è un caso che gli Stati Uniti non partecipino alla soluzione pacifica della crisi in Ucraina: una guerra aperta sottoporrebbe Mosca a una dura prova, le impedirebbe la ricostruzione dei legami tra le antiche repubbliche sovietiche e bloccherebbe il suo ammodernamento economico. Al tempo stesso, per l’Unione europea, l’estensione della guerra ucraina sarebbe un nuovo chiodo piantato nella bara dell’impotenza strategica e della sottomissione nella quale Washington vuole rinchiudere Bruxelles. Un confronto tra la Russia e l’Unione europea in Ucraina sarebbe una ferita aperta e sanguinante nel continente e l’ipotesi migliore per gli Usa per rafforzare il proprio potere attraverso la Nato, mettendo nell’angolo la Russia e preparandosi così alla grande battaglia dei prossimi decenni, quella con la Cina.

“Le persone prima dei profitti”. Contro il Ttip il 18 mobilitazione mondiale! | Autore: fabio sebastiani da: controlacrisi.org

Il 18 aprile il mondo si mobilita contro TTIP e trattati di libero scambio In Italia decine di iniziative, centinaia in Europa e negli USA. Saranno 200 nel nostro Paese, migliaia in tutto il mondo. Le organizzazioni in difesa dell’ambiente e della società civile si troveranno nelle piazze di più continenti, per esigere il blocco degli accordi internazionali sul commercio e gli investimenti. L’Europa e l’Italia, insieme agli Stati Uniti, chiederanno l’arresto delle trattative sul TTIP.
“Le persone e il pianeta prima dei profitti” è lo slogan dell’iniziativa che mira innanzitutto al TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership), che gli Stati Uniti stanno discutendo in sostanziale segreto con l’Unione Europea. L’accordo prevede l’abbattimento di tutte le barriere non tariffarie al commercio, ossia normative e regolamenti a protezione di beni comuni e servizi pubblici, che le grandi compagnie multinazionali che spingono per la chiusura dell’accordo ambiscono a monetizzare. In cambio di un abbassamento degli standard qualitativi, nonostante le promesse dei promotori, gli studi più ottimistici prevedono nel caso improbabile in cui tutte le condizioni fossero soddisfatte un aumento del PIL europeo appena dello 0.5%, a partire dal 2027. Quelli meno ottimistici, una perdita di posti di lavoro in UE di minimo 600 mila unità.

Stime che non tengono conto dell’aleatorietà delle ipotesi, considerato che solo per l’Italia e per le sue politiche economiche degli ultimi anni, recenti studi della CGIL hanno mostrato scostamenti tra l’ipotizzato e il reale di più del 14%.
Per la Campagna Stop TTIP Italia parteciperanno sono previste circa 30 iniziative in tutto il Paese. Vi saranno manifestazioni e flash mob nelle grandi città – da Roma a Milano, da Torino a Napoli, fino a Firenze – e in molti centri minori.

L’intenzione dei due blocchi, USA e UE, è convergere su una bozza di accordo entro quest’anno, ma la forza dell’opposizione sociale e la richiesta di maggiore trasparenza sta rallentando le decisioni. Una parte del Parlamento Europeo si è detta contraria a un’armonizzazione delle normative con quelle degli Stati Uniti, perché i rischi sono troppo alti e il processo irreversibile. Inoltre, oltre un milione e 700 mila cittadini europei hanno sottoscritto la petizione per chiedere alla Commissione l’immediato arresto delle trattative sul TTIP. Una raccolta di firme che prosegue intercettando il crescente consenso dell’opinione pubblica sul tema, con l’intento di tagliare il traguardo dei 2 milioni ad ottobre.
Sulo Ttip, la Cgil – come la Ces e il sindacato americano – hanno già espresso chiaramente le loro posizioni volte ad evitare l’ulteriore compressione della democrazia – grazie a “cooperazione regolatoria” e meccanismi di disputa investitori/stati – così come a vedere compressi i diritti ambientali, sociali e del lavoro e gli stessi livelli occupazionali generali e/o settoriali. La Commissione Europea – su mandato del Consiglio Europeo, cioè dei governi dell’Unione – è molto attiva sul piano dei trattati commerciali e di investimento e, accanto al negoziato TTIP, sta conducendo altri importanti e pericolosi negoziati bilaterali (come quello sugli investimenti con la Cina) o plurilaterali, come quello TISA sui servizi, mentre ha appena siglato l’accordo CETA con il Canada (“cavallo di troia” per il TTIP) che dovrà essere tra breve posto alla ratifica di Consiglio e Parlamento europei.

L’appello alla mobilitazione cade mentre – a livello mondiale – il WTO sta proseguendo i negoziati “tecnici” applicativi dell’accordo sulle “Trade Facilitations” raggiunto a Bali, come preludio per il proseguimento del Doha Round avviato nel 2001, e i paesi “più avanzati” stanno spingendo per la definizione di “nuove regole” globali, attraverso accordi bilaterali o plurilaterali

L’esercito dell’Unione europea da: www.resistenze.org


Cassad | cassad-eng.livejournal.comresistir.info
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

08/03/2015

Brevi considerazioni sull’esercito comune europeo, con il quale gli europei tentano di “spaventare” la Russia oggi.

Il fondamento di questa proposta consiste principalmente nel desiderio che gli europei hanno di uscire dal fitto abbraccio americano. Gli Usa si assicurano il controllo militare attraverso le strutture Nato. Gli Stati Uniti, oltre ad avere un’ampia partecipazione nelle strutture dell’alleanza, che è stata vista come lo strumento di perseguimento degli interessi nazionali americani nel libro di Brzezinski, hanno una serie di leve di influenza sulle “decisioni collettive” attraverso i loro satelliti europei, in particolare attraverso i satelliti dell’Europa orientale, che vengono coscientemente contrapposti alla “vecchia Europa”, che cerca di modellare l’unione amorfa in qualcosa di simile ad un impero unito europeo o qualsiasi altra cosa essi vogliano ottenere alla fine. Nonostante i vari progetti, nel panorama politico l’Ue rimane una formazione piuttosto frammentata, dove la discordia e l’indecisione si accentuano nei momenti di crisi.

Senza avere lo status di completo soggetto militare e politico all’interno dei confini della esistente dipendenza dagli Usa, vari progetti di centralizzazione di strutture militari e politiche vagano all’interno dell’establishment europeo. Tuttavia, gli anni passano ma invece di un esercito comune europeo esiste ancora un’insieme di eserciti con diversi gradi di prontezza al combattimento ed una sovrastruttura Nato che formalmente li combina in un singolo sistema. Ma anche la questione della creazione di una forza comune di reazione rapida si sviluppa molto lentamente.

È assolutamente evidente che i padroni europei vorrebbero avere un proprio esercito, che sarebbe controllato esclusivamente da Bruxelles e fuori dall’influenza della Nato. Tuttavia, sorgono tutta una serie di questioni che sono difficilmente risolvibili per l’Ue in questa fase. Inoltre, per l’Unione europea si tratta di un problema molto costoso nelle condizioni della crisi economica che incombe (si può ricordare come gli eserciti europei che hanno partecipato all’aggressione contro la Libia abbiano dovuto implorare gli americani in quanto avevano esaurito le proprie scorte di missili e munizioni di precisione), ma anche principalmente per la dipendenza delle strutture europee dall’alleanza controllata dagli Usa, che in sostanza svolge un compito di definizione degli obiettivi militari per l’Unione europea, grazie alla quale alcuni dei membri dell’alleanza finiscono sul carro dei vincitori delle future aggressioni americane.

Ciò ha già giocato uno scherzo crudele all’Ue nel caso dell’Ucraina, perché una chiara dipendenza dell’Ue sulle decisioni prese a Washington è stata chiaramente palesata quando l’Ue venne costretta a entrare in conflitto con la Russia in Ucraina. Il ruolo effettivo della Ue in questo processo è finito in secondo piano, in un luogo dove gli esistenti strumenti economici, politici e militari dell’UE hanno fallito nel garantire un proprio scenario al conflitto ucraino. Tristi tentativi di scommettere su Klitschko (che sono stati sarcasticamente commentati dai cinici diplomatici americani) e le minacce di sanzioni alla coda degli Usa apparivano piuttosto deboli, sullo sfondo della salda linea americana, alla quale gli europei sono stati costretti ad integrarsi.

Adesso, come parte del tentativo di esibire un proprio status di soggetto politico, i leader dell’Ue mostrano l’idea di un esercito unito. Tuttavia questa idea dovrebbe preoccupare più gli Usa che la Russia, poiché alla Russia in realtà non cambia molto dal fatto che gli eserciti europei siano combinati insieme nella Nato o uniti in un esercito comune controllato da Bruxelles. Non importa quale unione, qualsiasi guerra tra l’Ue e la Russia culminerà in uno scontro nucleare. Anche una situazione di stallo non-nucleare non promette alcun rapido successo su ciascun fronte. E gli Stati Uniti dovrebbero essere più preoccupati a questo riguardo, perché la perdita di strumenti militari di controllo sugli eserciti europei porterà alla perdita di influenza in Europa e alla fine dell’era delle “coalizioni democratiche guidate dagli Usa”.

È del tutto naturale che la Russia condannerà tutti i movimenti militari in Europa e che gli Usa insisteranno sulla supremazia delle strutture della Nato al fine di non lasciare che gli europei si sgancino. Quindi, è improbabile che nei prossimi anni l’Europa sarà in grado di sgusciare via dai dettami della struttura atlantica. Tuttavia, si deve rilevare che la dimostrazione di forza degli apparati militari è diventata un segnale chiaro negli ultimi tempi.

Iraq, l’ultimo crimine di guerra La cancellazione della storia della Mesopotamia e la distruzione di Ninive da:www.resistenze.org


Felicity Arbuthnot | globalresearch.ca
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

14/03/2015

“L’Iraq potrebbe presto finire senza storia” (archeologa Joanna Farchakh, citata in Cultural Cleansing in Iraq, Pluto Press, 2010 )

Nel suo indispensabile libro “Dai Sumeri a Saddam” [From Sumer to Saddam] (1) Geoff Simons scrive:

“La regione del mondo che gli antichi greci chiamavano Mesopotamia (terra tra i fiumi)… è stata una fonte di civiltà, un vero e proprio crogiolo… Culla, grembo del progresso culturale… Qui nacquero le prime città, apparve la scrittura e furono codificati i primi sistemi giuridici. E’ qui, lungo queste terre antiche come Sumer, Akkad, Babilonia e Assiria che fu agitato quel fermento culturale vitale, quello straordinario miscuglio da cui sarebbe emersa la civiltà occidentale”.

Quel capitolo, “L’antico crogiolo” [The Ancient Crucible], si conclude così: “Si potrebbe anche pensare che un moderno Iraq abbia il diritto di contemplare con stupore e orgoglio la fruttifica ricchezza delle culture che dapprincipio emersero in questa terra, più di cinquemila anni fa”.

Dal giorno dell’invasione statunitense-britannica, quella “fruttifica ricchezza” sociale, culturale, storica è stata sistematicamente, deliberatamente cancellata in uno dei più devastanti, dispotici, profanatori, polverizzanti Armageddon culturali della storia.

Il 19 marzo si rievoca il dodicesimo anniversario dalla distruzione di quel “crogiolo”, le cui meraviglie sono ancora incessantemente saccheggiate e demolite.

Quando fu saccheggiato il Museo nazionale (10-12 aprile 2003), le truppe americane stettero a guardare, mentre i loro colleghi custodivano diligentemente il Ministero del petrolio.

Dopo che furono saccheggiate alcuni delle più sublimi meraviglie dell’antichità, ben quindicimila pezzi, Donald Rumsfeld, palesemente un cretino culturale, osservò che sono “cose che succedono”.

I militari Usa avevano le coordinate di tutti i musei, i monumenti e i siti archeologici iracheni. “L’intero Iraq è un tesoro archeologico”, osservava un archeologo all’epoca. Ma le truppe americane hanno portato la distruzione, creando una base militare a Babilonia (2300 a.C.), luogo dei Giardini pensili. I miracoli dell’antichità furono cancellati a colpi di scavatrice per costruire una pista per elicotteri militari. Hanno usato lo stesso trattamento per quello che è ritenuto il luogo di nascita di Abramo, nei pressi della grande Ziqqurat [costruzione templare] di Ur. La città di Ur risale al 3800 a.C., ma è registrata nella storia scritta dal XXVI secolo a.C. Questi sono dei crimini di guerra enormi.

Dopo che George W.Bush aveva dichiarato una “crociata”, i soldati americani crociati (letteralmente) entrarono nell’Iraq prevalentemente musulmano (come pure in Afghanistan) con migliaia di Bibbie da regalare. Chiaramente erano estremamente ignoranti sul fatto che quella Babilonia, come pure Ur, che stavano distruggendo era sacra per le tre religioni abramitiche. Babilonia è riportata nella Bibbia nei Libri di Daniele, Isaia e Geremia. Ur compare tre volte nella Genesi e nella Neemia.

Il vandalismo criminale dei soldati statunitensi risulta dall’articolo del Guardian (8 giugno 2007): “Babilonia viene resa archeologicamente sterile” [Babylon being rendered archeologically barren] . Il “cortile del caravanserraglio (*) di Khan al-Raba, del X secolo, è stato utilizzato per far esplodere le armi catturate. Una esplosione ha demolito gli antichi tetti e abbattuto molte delle pareti. Il posto è ora un rudere”. Come i barbari attraverso la Porta di Ishtar.

La distruzione è continuata in tutto l’Iraq, portata avanti sia dalle forze di occupazione che dalle bande e dalle fazioni senza controllo che accorrevano nel paese a seguito dell’invasione e a causa dell’irresponsabile abbandono dei controlli alle frontiere da parte di Stati Uniti e Regno Unito, paesi questi al limite della paranoia riguardo questo tipo di controlli sui propri confini.

Gli archeologi e gli storici paragonano questi ultimi saccheggi a quello di Baghdad, per opera dei mongoli nel 1258.

Venerdì 9 marzo, nello Sabbath musulmano, l’antica città di Nimrud è stata rasa al suolo dall’auto dichiarato “Stato islamico”, distruggendo quella che divenne la capitale dell’impero neo-assiro, risalente al XIII secolo a.C. Il sito conteneva anche i resti del palazzo di Assurnasirpal, re di Assiria (883-859 a.C.) che fece di Nimrud la sua capitale.

Una fonte locale ha riferito alla Reuters che la città prima è stata saccheggiata dei valori, quindi rasa al suolo. Fino alla settimana scorsa, un ingresso a questo luogo inquietante era custodito da tori dalla testa umana e leoni con ali di falco. Questi guardiani hanno avuto la meglio sui tumulti della regione per quasi 3000 anni, per essere poi distrutti insieme a tutto ciò che sorvegliavano dai terroristi generati dalla criminale invasione di Bush e Blair.

Nel palazzo sud-occidentale vi è il tempio di Nabu, dio della saggezza, delle arti e delle scienze, considerato figlio del dio babilonese Marduk. La costruzione data probabilmente tra il 810 e il 782 a.C.

Lo storico Tom Holland ha dichiarato al Guardian: “E’ un crimine contro l’Assiria, contro l’Iraq e contro l’umanità. Distruggi il passato e controllerai il futuro. Quelli dello Stato Islamico, proprio come i nazisti, lo sanno fin troppo bene”.

Due giorni dopo, Hatra, un’altra delle meraviglie del mondo, è stata in gran parte distrutta. Hatra fu costruita intorno al III o II secolo a.C., nella stessa epoca delle grandi città arabe come Palmira in Siria, Petra (“città per metà rosa e per metà rossa, vecchia come il tempo”) in Giordania e Baalbek in Libano. Hatra ha resistito ai ripetuti attacchi da parte dell’Impero romano, per essere poi sconfitta sempre da coloro che sono stati generati dalle azioni di Bush e Blair.

Una guida del 1982 del Ministero del turismo iracheno descrive ad Hatra “… Un fregio con sculture che sembrano raccontare una storia religiosa, inscenata da dei e musicisti – la più bella opera d’arte finora scoperta” in questa vasta, eterea città di pietra arenaria che brilla d’oro sotto il sole, ambra splendente sotto i raggi dell’alba e il sole al tramonto.

Le colonne, i templi, le statue non comunicano solo per mezzo dei templi degli dei, ma sicuramente attraverso l’architettura degli dei, come uno scrittore alla ricerca di parole non ancora concepite.

Vi è il tempio della dea Shahiro (“la stella del mattino”). Un’area è “pavimentata con marmo venato, con pareti decorate da motivi geometrici e aquile – essendo l’aquila il principale elemento nella religione di Hatra. Su di un fregio decorativo, la scrittura araba risale alla seconda metà del periodo abbaside” (750-1258 d.C.). Il Califfato abbaside ha sovrinteso la “età dell’oro della civiltà islamica”.

Hatra è ricca di templi alla creazione. Sono stati dedicati al dio Sole, a Venere (la stella del mattino) “chiamata differentemente Allatu, Atra’ta e Marthin – nostra signora”. Il dio Nergoul, con un tempio a lui dedicato, simboleggiava il pianeta Marte. La venerata, grande, altissima aquila aveva il suo tempio, nel quale le statue guardavano dall’alto in basso.

Le iscrizioni sono prevalentemente in aramaico antico, in qualcuna si legge “re e principi di Hatra sono i re vittoriosi degli arabi”. Sono sicuramente in lacrime.

I cuori di coloro che conoscono tali meraviglie non potranno mai guarire. Le lacrime non si asciugheranno mai. Durante la mia ultima visita, mi trovavo di fronte alla statua di Abbu, sposa di Santruk I. Mi sono ricordata le riflessioni di James Elroy Flecker sul British Museum. Le ho ripetute a voce alta, sola in un’alba azzurra:

“Vi è una sala a Bloomsbury
Che non ho più il coraggio di percorrere,
Per tutti gli uomini di pietra che mi urlano e giurano di non esser morti
E una volta ho toccato una ragazza spezzata, e
seppi che il marmo sanguinava”

Il giorno dopo che Hatra veniva distrutta, è stata la volta della quarta capitale dell’Assiria, Khorsabad, costruita da Sargon II (721-705 a.C.).

Le scritture parlano di una città con un parco di caccia reale e giardini con “tutte le piante aromatiche” trovate nelle fertili valli fluviali dell’Eufrate. Migliaia di alberi da frutto, tra cui il melo, il melo cotogno e il mandorlo.

Khorsabad fu ampiamente saccheggiata dai francesi nel XIX secolo e dagli americani tra il 1928 e il 1935.

Nello scavo avviato dal Console generale di Francia a Mosul nel 1842, venne fatto un tentativo per “spostare due statue di 30 tonnellate e altro materiale da Khorsabad a Parigi su una grande chiatta e quattro zattere” (2). Le due zattere e la chiatta furono affondate dai pirati e i tesori dell’Iraq rubati e perduti per sempre.

Nel 1855, venne effettuato un ulteriore tentativo di spedire i tesori rimanenti “così come il materiale da altri siti in cui lavoravano i francesi, principalmente Nimrud. Quasi tutta la collezione – oltre duecento casse – fu persa nel fiume. I manufatti superstiti di questo scavo, sono stati portati al Museo del Louvre di Parigi”.

Tra il 1928 e il 1935, archeologi americani dell’Oriental Institute di Chicago scavarono nell’area del palazzo. “Un toro colossale, dal peso stimato di 40 tonnellate, è stato scoperto all’esterno della sala del trono. E’ stato trovato diviso in tre grandi tronconi. Il solo busto pesava circa 20 tonnellate. Questo è stato spedito a Chicago”.

Inglesi e tedeschi hanno compiuto la loro buona dose di saccheggi nel sud dell’Iraq e in particolare a Babilonia e Ur, come testimoniano i loro musei nazionali.

La settimana precedente alla distruzione di Nimrud, circa 113.000 libri e manoscritti unici della biblioteca di Mosul sono stati bruciati dai selvaggi dello Stato Islamico, in quello che Irina Bokova, direttore generale dell’Unesco, ha descritto come “pulizia culturale” e uno dei più devastanti atti di distruzione delle collezioni librarie della storia umana” (3). Alcuni volumi comparivano nella lista dei patrimoni rari dell’Unesco.

A finire bruciati in un rogo all’esterno della biblioteca sono stati anche i libri in lingua siriaca, stampati nella prima tipografia dell’Iraq, manoscritti settecenteschi, volumi di epoca ottomana (1534-1704 e 1831-1920). Rarità uniche come un astrolabio, un “computer” astronomico per calcolare i tempi delle posizioni del sole e delle stelle, utilizzato nell’antichità classica e nell’età d’oro dell’Islam, come le superbe clessidre anch’esse distrutte. Sono state incenerite anche un centinaio di librerie personali delle famiglie dei notabili di Mosul create “nel corso dell’ultimo secolo”. La biblioteca è stata poi fatta saltare in aria.

Nella stessa settimana, anche il Museo di Mosul è stato attaccato. Statue assire e hatrene, tra cui quella di un re hatreno che stringe un’aquila, sono state distrutte, insieme con quelle di un toro alato e del dio di Rozhan. Gli altri pezzi si ritiene siano stati rubati per poi essere venduti, probabilmente in Turchia e Siria.

Nel luglio dello scorso anno, la tomba secolare ritenuta essere quella del profeta Giona a Mosul è stata cancellata dagli esplosivi piazzati dall’Isis nella moschea in cui si trovava, risalente al XIV secolo. La “Moschea di Giona “, che dapprincipio era una chiesa, era anche tradizionalmente nota per conservare una parte dei resti della balena che lo inghiottì.

Tutte le distruzioni descritte sono avvenute nella provincia di Ninive, di cui John Masefield ha scritto:

Quinquereme di Ninive dalla lontana Ofir,
Remando verso casa al rifugio della soleggiata Palestina,
Con un carico di avorio,
E scimmie e pavoni,
Sandalo, legno di cedro, e dolce vino bianco.

L’Iraq, come la Palestina, è stato cancellato, insieme con la Libia, la Siria e anche le grandi piramidi d’Egitto, sono ora minacciate dai mostri che la “crociata” di Bush e Blair hanno creato.

Stati Uniti, Regno Unito, Canada e altri paesi hanno “consiglieri militari “in Iraq. Sono silenziosi e inattivi su questi crimini di guerra dei nuovi mongoli.

I siti web delle ambasciate statunitense e britannica a Baghdad sono ugualmente muti. Eppure sul sito dell’ambasciata americana vi è scritto: Riguardo lo stato dell’Archivio ebraico iracheno, 28 gennaio 2015: l‘Archivio ebraico iracheno rimane sotto la custodia della U.S. National Archives and Record Administration, mentre sono previsti piani per future mostre negli Stati Uniti. Nessuno dei materiali dell’Archivio ebraico iracheno hanno viaggiato al di fuori degli Stati Uniti. Gli Stati Uniti continuano a rispettare i termini dell’accordo con il governo iracheno”.

Un governo sotto occupazione, ovviamente, non può legalmente fare tali accordi.

“L’esposizione del materiale a Washington nel 2013 e a New York nel 2014, ha portato ad una maggiore comprensione tra l’Iraq e gli Stati Uniti e un maggiore riconoscimento del variegato patrimonio dell’Iraq. Siamo impazienti di continuare la nostra collaborazione con il governo iracheno su questa materia in modo che la mostra possa essere vista in altre città degli Stati Uniti” (4).

Così, gli Archivi ebraici iracheni (sequestrati dagli Stati Uniti nel maggio 2003), salvaguardati in Iraq per centinaia di anni, sono stati portati via dagli Usa. Eppure sono stati complici (Babilonia, Ur, Museo di Baghdad e altrove) o passivi quando la “variegata eredità dell’Iraq” veniva sistematicamente saccheggiata e distrutta.

Curiosamente, nel 2005, John Yoo, un ex avvocato del Dipartimento di Giustizia, suggerì che gli Stati Uniti avrebbero dovuto passare all’offensiva contro al-Qaeda. Avendo infatti “le nostre agenzie di intelligence creato una falsa organizzazione terroristica, essa potrebbe avere i propri siti web, centri di reclutamento, campi di addestramento e operazioni di raccolta fondi. Potrebbe intraprendere false operazioni terroristiche e rivendicare attacchi terroristici reali, contribuendo a seminare confusione… “ (5). Vedi anche (6).

Per inciso, sono stati segnalati arresti di “consiglieri militari” israeliani e statunitensi nelle vicinanze, mentre la distruzione di vaste aree della provincia di Ninive Provincia proseguiva tranquillamente. Ci sono quindi molte più domande che risposte.

Note

(*) I primi luoghi di ristoro per i viaggiatori e le loro bestie da soma, recintati da un muro esterno, disposti intorno a un cortile, con cibo per i viaggiatori e gli animali, ricovero, negozi, impianti di lavaggio e spesso bagni.

1. https://www.questia.com/library/97576407/iraq-from-sumer-to-saddam

2. http://en.wikipedia.org/wiki/Dur-Sharrukin

3. http://globalvoicesonline.org/2015/02/25/isis-burns-mosul-library-in-iraq-destroys-thousands-of-valuable-manuscripts-and-books/

4. http://iraq.usembassy.gov/pr_012815.html

5. http://www.washingtonsblog.com/2015/02/x-admitted-false-flag-attacks.html

6. http://www.globalresearch.ca/the-relationship-between-washington-and-isis-the-evidence/5435405

Una cronologia dettagliata della distruzione della storia dell’Iraq (2003-2009) redatta da BRussells Tribunal è disponibile all’indirizzo http://www.brusselstribunal.org/Looting.htm

Europa, venti di guerra sempre più potenti. “La pace non è un fatto scontato”. Intervento di Sergio Cararo fonte www.contropiano.org

 

Nell’agenda politica europea continuano a riverberarsi gli echi dell’intervista del presidente della Commissione Europea Junker, che ha evocato la necessità di un esercito europeo. La proposta di Juncker ha trovato qualche prevedibile resistenza nella stessa Unione europea, soprattutto da parte degli stati più legati agli Stati Uniti. Si segnalano infatti il no scontato del premier inglese, David Cameron e della Polonia. La Francia nicchia ma non nella sostanza. Essendo l’unica potenza dell’Eurozona (la Gran Bretagna ne è fuori) a possedere le armi nucleari, non nasconde l’ambizione di voler essere l’azionista di riferimento di un esercito europeo. Al contrario la ministra della Difesa tedesca Von der Leyden è stata invece tra i primi ad esprimersi favorevolmente verso il progetto evocato domenica scorsa da Juncker su un esercito europeo, spiegando che “il nostro futuro di europei esigerà un giorno che ci dotiamo anche di un esercito comune”. In Germania, da almeno due anni stanno cambiando di molto gli orientamenti sulla politica militare. Qualcosa si era intuito già nella annuale Conferenza sulla Sicurezza a Monaco dello scorso anno.

Il ministro tedesco delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, quando ha presentato la legge di bilancio per il 2015, ha annunciato che la Germania aumenterà la spesa per la difesa. Schauble non ha dettagliato le cifre, ma la decisione è presa ed è emblematica. In piena guerra fredda la Germania spendeva per la difesa il 3,2% del Pil. Ne tre decenni successivi, le spese militari si erano ridotte, scendendo all’1,4% del Pil nel 2013, che corrispondono però ad una spesa di 48,8 miliardi di dollari (secondo altre fonti come l’Istituto Internazionale di Studi Strategici sarebbero invece 43,9 miliardi di dollari). La Francia ad esempio ne spende 53,1 per la Difesa. Dal settembre 2014, la Germania, al pari degli altri membri della Nato, si è impegnata a portare le spese  nella difesa al 2% del Pil. Il ministro della Difesa, Ursula Von der Leyen, ha inoltre costituito una commissione composta da duecento esperti militari per ridefinire la strategia delle forze armate tedesche del XXI Secolo.

Juncker nell’intervista al giornale tedesco Die Welt am Sontag ci ha tenuto a spiegare che: “L’immagine dell’Europa ha sofferto drammaticamente anche in termini di politica estera: non sembra che siamo presi completamente sul serio”. Per Juncker dunque la debolezza della politica estera europea dipende dal fatto che l’Europa non ha un esercito proprio, ma ha aggiunto anche qualcosa di più: “La Nato non può bastare, visto che non tutti i Paesi membri dell’Alleanza atlantica sono anche della Ue. Una forza armata europea, invece, mostrerebbe al mondo che non ci saranno mai più guerre tra gli Stati membri, aiuterebbe a disegnare una politica estera e di sicurezza comune, e permetterebbe all’Europa di assumersi le sue responsabilità nel mondo”.

Era il 1996 quando Helmut Khol, in una conferenza all’università di Lovanio disse che “l’integrazione europea sarebbe stata una questione di pace o di guerra nel XXI Secolo”. Un concetto ribadito da Khol dieci anni dopo in una intervista al Corriere della Sera. E ancora dieci anni dopo, il 22 febbraio scorso, durante un colloquio in Vaticano, è stata Angela Merkel ad affermare che “La pace in Europa? Non è un fatto scontato”.

Molti di questi aspetti, anche sul piano del crescente sganciamento dell’Unione Europea dagli Usa e dalla Nato, soprattutto in materia di tecnologie satellitari, droni, settore aereospaziale, sono stati analizzati nel recente forum della Rete dei Comunisti a Bologna su “Il piano inclinato degli imperialismi”. Il cerchio di fuoco dei conflitti che circonda l’Europa (da Est a Sud) non solo non lascia affatto indifferenti gli apparati dirigenti della Ue ma sta rafforzando le ambizioni globali della stessa Unione Europea per dotarsi di tutti i “fattori di egemonia” necessari ad un polo imperialista: quello economico, quello ideologico e infine quello militare. Un nuovo status che preoccupa molto gli Stati Uniti, i quali vedono configurarsi la possibilità di un polo rivale nella competizione globale.

Ma è una ambizione che deve preoccupare – e molto – anche i popoli dell’Europa dell’Est e della regione afro-mediterranea. Quanto sta già accadendo con gli interventi militari europei nell’Africa Centrale o quanto avvenuto contro la Libia nel 2011, indicano che le questioni della pace e della guerra in Europa stanno cambiando di passo e di segno. Continuiamo a ritenere che sia un errore – anzi un grosso guaio – che questo “dettaglio” nella strutturazione dell’Unione Europea continui ad essere sottovalutato. Combattere ed indebolire il “proprio imperialismo” è un compito dal quale nessuna forza internazionalista o che lotti per la pace dovrebbe sottrarsi.

Africa: Gli agro-imperialisti fanno man bassa di terreni agricoli da: www.resistenze.org – osservatorio – mondo – politica e società – 08-02-15 – n. 530

Lyès Menacer | michelcollon.infoTraduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

27/01/2015

Il continente africano, che possiede da solo un quarto delle terre fertili mondiali, concentra il 41% delle transazioni fondiarie, su un numero totale di 1.515 transazioni nel mondo, secondo una recente relazione dell’ONG ActionAid International datata fine maggio 2014. “Dal 2000, più di 1.600 transazioni su larga scala sono state documentate, su una superficie totale di 60 milioni di ettari”, ha dichiarato l’ONG che ha precisato che “è probabile anche che un buono numero di acquisizioni di media o grande portata rimangano ad oggi non documentate, né quantificate”. Questa relazione di una ventina di pagine intitolata “La Rapina delle terre: come il mondo apre la via agli accaparramenti delle terre da parte delle imprese” ci rivela infatti l’ampiezza di questo fenomeno che minaccia non soltanto la sopravvivenza di milioni di persone nel mondo, ma anche gli ecosistemi, le foreste e le specie animali in pericolo di estinzione.

L’ONG si è enormemente interessata all’Africa, poiché questo continente è diventato la nuova attrazione delle multinazionali, dei fondi pensione e dei grandi gruppi agroalimentari che hanno acquisito, con le complicità dei governi locali, milioni di ettari di terre coltivabili.

Anche gli Stati si sono messi a comperare le terre fertili, per soddisfare i loro fabbisogni alimentari e produrre biocarburanti. L’Arabia Saudita, il Qatar, l’India sono spesso citati nelle relazioni di queste ONG, che tirano in ballo anche le grandi potenze come gli Stati Uniti, alcuni Stati membri dell’Unione europea (Francia, Germania, Gran Bretagna, Paesi Bassi) e, da qualche anno, la Cina, che vuole avere la sua parte in Africa per soddisfare la sua domanda interna. Nell’Africa subsahariana, regione insicura e a forte instabilità politica, l’accaparramento delle poche terre fertili è stato realizzato dalle autorità che hanno privato migliaia di contadini della loro principale risorsa di sopravvivenza.

Il sequestro delle terre è stato facilitato dall’assenza degli atti di possesso che questi contadini non hanno mai potuto far valere, in una regione in cui i beni sono gestiti dai capi tribù.

Stati in guerra, paese da vendere?

Nell’Africa subsahariana, il 10% di queste terre coltivabili è registrato nei registri ufficiali. Sotto la copertura del rilancio dell’agricoltura per sradicare la carestia che sconvolge regolarmente la vita di milioni di persone in questa zona arida, i governi locali hanno ceduto quasi ad un prezzo simbolico centinaia di migliaia di ettari ai produttori di biocarburante. Questo fatto è stato denunciato da numerose ONG, tra le quali Grain che è costantemente oggetto di attacchi da parte di alcuni paesi acquirenti di queste terre.

È facile constatare che i paesi indicati come quelli che si fanno passare per investitori sono gli stessi che attualmente sono scossi dai conflitti politici e dalle guerre etniche e religiose. Si può citare il Sudan del Sud, la Repubblica Democratica del Congo (RDC o Congo-Kinshasa), il Sudan, la Sierra Leone, il Mozambico, la Liberia, la Tanzania, il Kenia, lo Zimbabwe, la Nigeria e la Repubblica Congolese (Congo-Brazzaville). L’Isola Rossa (il Madagascar) che ha vissuto una crisi politica nel 2009, dopo una protesta contro la vendita di 300.000 ettari di terre all’impresa sudcoreana Daewoo, resta un obiettivo dei predatori di terre fertili.

In altre parole, oltre alla guerra per il controllo dei giacimenti petroliferi e minerari in questi paesi, un’altra guerra si svolge lontano dagli sguardi e dalle curiosità dei media, che spesso vedono nella rivolta dei poveri in Africa soltanto delle violenze tribali per lo sfruttamento delle fonti d’acqua e delle zone di pascolo. Tuttavia, decine di persone, tra agricoltori ed allevatori, subiscono la repressione dei propri governi, che li cacciano a colpi colpi di polvere da sparo e di bulldozer dai territori che occupano da secoli. Territori che non sono soltanto spazi di vita economica, ma di culture ancestrali. Le sommosse della fame che hanno scosso Maputo nel 2010 non hanno impedito dal governo di cedere 6,6 milioni di ettari agli Stati Uniti ed a società straniere. Il Mozambico dispone di 36 milioni di ettari di terre coltivabili, cioè il 46% del suo territorio, di cui soltanto il 10% è sfruttato.

Anziché approntare una politica agrario-alimentare che garantisca la sicurezza alimentare, il governo Maputo preferisce cedere le sue terre all’industria distruttiva dei biocarburanti. Nel frattempo, secondo le cifre ufficiali delle ONG dell’ONU, il 40% dei mozambicani soffre di malnutrizione.

La Repubblica Democratica del Congo (RDC) non ha fatto eccezione, poiché il 50% delle sue terre fertili è passato sotto il controllo di paesi stranieri e delle imprese internazionali che sono più interessate dallo sfruttamento il sottosuolo che all’agricoltura, senza pagare tasse o diritti.

E quando devono pagare, le somme sono irrisorie e vanno per lo più a vantaggio dei membri del clan al potere. È il caso anche della vicina Repubblica congolese, che ha ceduto il 46% delle sue terre fertili agli stessi predatori che sono alla ricerca di ogni porzione di terreno coltivabile, che sia per l’industria agroalimentare o per nutrire la popolazione del paese acquirente, come nel caso dell’Arabia Saudita e del Qatar, due paesi desertici che importano tutti i loro prodotti alimentari. Questi due paesi hanno acquisito, al prezzo della repressione condotta dal governo di Addis-Abeba contro i contadini e gli allevatori, decine di migliaia di ettari per soddisfare la loro domanda interna di frutta e verdura. Le denunce dei massacri orchestrati dall’esercito etiopico per dissodare il terreno “agli investitori” sono rimaste lettera morta.

Chi sono gli acquirenti?

“Gli Stati Uniti sono all’origine della maggior parte degli investimenti portati a termine (7,09 milioni di ettari), seguiti dalla Malesia (3,35), dagli Emirati Arabi Uniti (2,82), dal Regno Unito (2,96), dall’India (1,99), Singapore (1,88), Paesi Bassi (1,68), Arabia Saudita (1,57), Brasile (1,37) e Cina (1,34)”. Tutti questi paesi sono presenti nel documento reso pubblico da ActionAid International, che cita Land Matrix, un organismo indipendente che dispone di un ricco archivio delle transazioni fondiarie registrate in tutto il mondo.

Oltre agli Stati acquirenti, gli organismi finanziari, i fondi investimento e i gruppi industriali che sono stati molto toccati dalla crisi economica del 2008, hanno orientato il loro interesse verso questo mercato.

“Uno studio condotto dalla Deutsche Bank Research mette in luce l’esistenza di tre grandi gruppi di attori economici implicati nel settore dei terreni agricoli: i governi, che cercano di acquistare terreni all’estero per assicurare le loro riserve in prodotti alimentari ed energia, le imprese agricole che cercano sia di aumentare la loro produzione, sia di integrare la catena d’approvvigionamento, e gli investitori finanziari” aggiunge sempre lo stesso testo. Gli attori influenti delle industrie minerarie, delle imprese del turismo e delle concessioni forestali non sono restati lontani da questa battaglia che causerà, a lungo termine, una grande esplosione sociale nel continente. “Lo studio mostra che questi attori non agiscono in modo isolato. Viene aggiunto nella relazione di ActionAid International che, facendo pressione sulla terra, gli interessi di uno dei gruppi di attori motiveranno le azioni degli altri gruppi”.

I contadini dei paesi africani provano ad organizzarsi, aiutati dalle ONG che tentano alla meno peggio di dare l’allarme all’opinione pubblica internazionale e alle alte istanze dell’ONU. Una battaglia che, per il momento, è in molti casi compromessa, con le varie dittature locali che reprimono ed imprigionano tutti coloro che osano mettersi contro ciò che è chiamato progetto d’investimento, sviluppo sostenibile, rilancio economico, ecc.

 

Il ritorno del fascismo nel capitalismo contemporaneo Fonte: monthlyreview.org/ | Autore: Samir Amin

Non è per caso che il titolo stesso di questo contributo collega il ritorno del fascismo sulla scena politica con la crisi del capitalismo contemporaneo. Il fascismo non è sinonimo di un regime di polizia autoritario che rifiuta le incertezze della democrazia parlamentare elettorale. Il fascismo è una particolare risposta politica alle sfide con le quali la gestione della società capitalistica può essere confrontata in circostanze specifiche.

Unità e diversità del fascismo

Movimenti politici che si possono giustamente chiamare fascisti erano in prima linea e hanno esercitato il potere in un certo numero di paesi europei, in particolare durante gli anni ’30 fino al 1945. Questi includevano l’Italia di Benito Mussolini, la Germania di Adolf Hitler, la Spagna di Francisco Franco, il Portogallo di António de Oliveira Salazar, la Francia di Philippe Pétain, l’Ungheria di Miklós Horthy, la Romania di Ion Antonescu, e la Croazia di Ante Pavelic. La diversità delle società che sono state vittime del fascismo -sia le maggiori società capitaliste sviluppate sia  minori società capitaliste dominate, alcune annesse con una guerra vittoriosa, altre trasformatesi in tali come prodotto di una sconfitta- dovrebbe impedirci di considerarle alla stessa stregua tutte insieme. Io quindi specificherò i diversi effetti che questa diversità di strutture e congiunture produsse in queste società.

Eppure, al di là di questa diversità, tutti questi regimi fascisti avevano due caratteristiche in comune:

(1)    Nel caso di specie, erano tutti disposti a gestire il governo e la società in modo tale da non porre i principi fondamentali del capitalismo in discussione, in particolare la proprietà privata capitalistica, compresa quella del moderno capitalismo monopolistico. È per questo che io chiamo queste diverse forme di fascismo particolari modi di gestire il capitalismo e non forme politiche che mettono in discussione la legittimità di quest’ultimo, anche se “capitalismo” o “plutocrazie” sono stati oggetto di lunghe diatribe nella retorica dei discorsi fascisti. La bugia che nasconde la vera natura di questi discorsi appare non appena si esamina l’ “alternativa” proposta da queste varie forme di fascismo, che sono sempre in silenzio in merito al punto principale – la proprietà privata capitalista. Resta il fatto che la scelta fascista non è l’unica risposta alle sfide che deve affrontare la gestione politica di una società capitalista. E ‘solo in certe congiunture di crisi violenta e profonda che la soluzione fascista sembra essere quella migliore per il capitale dominante, o talvolta anche l’unica possibile. L’analisi deve, quindi, concentrarsi su queste crisi.

(2)    La scelta fascista per la gestione di una società capitalista in crisi si basa sempre – anche per definizione sul rifiuto categorico della “democrazia”. Il fascismo sostituisce sempre i principi generali su cui le teorie e le pratiche delle democrazie moderne sono basate – il riconoscimento di una diversità di opinioni, il ricorso a procedure elettorali per determinare la maggioranza, la garanzia dei diritti della minoranza, ecc con i valori opposti della sottomissione alle esigenze della disciplina collettiva e all’autorità del leader supremo e dei suoi agenti . Questa inversione di valori è quindi sempre accompagnata da un ritorno di idee rivolte al passato, che sono in grado di fornire una legittimazione apparente alle procedure di sottomissione che vengono implementate. L’annuncio della presunta necessità di tornare al (“medievale”) passato, di sottomettersi alla religione di stato o a qualche presunta caratteristica della “razza” o della “nazione” (etnica) costituiscono la panoplia dei discorsi ideologici messo in atto  dalle potenze fasciste.

Le diverse forme di fascismo trovate nella moderna storia europea condividono queste due caratteristiche e rientrano in una delle seguenti quattro categorie:

(1)    Il fascismo delle principali potenze capitaliste “sviluppate” che aspiravano a diventare potenze egemoniche dominanti nel mondo, o almeno nel sistema capitalista regionale.

Il nazismo è il modello di questo tipo di fascismo. La Germania divenne una delle principali potenze industriali a partire dagli anni 1870 e una concorrente dei poteri egemoni dell’epoca (Gran Bretagna e, secondariamente, Francia) e del paese che aspirava a diventare egemone (gli Stati Uniti). Dopo la sconfitta del 1918, ha dovuto affrontare le conseguenze della sua incapacità di realizzare le sue aspirazioni egemoniche. Hitler formulò chiaramente il suo piano: stabilire in Europa, compresa la Russia e forse al di là, la dominazione egemonica della “Germania”, vale a dire dalle capitalismo dei monopoli che avevano sostenuto l’ascesa del nazismo. Egli era disposto ad accettare un compromesso con i suoi principali avversari: l’Europa e la Russia sarebbero state date a lui, la Cina al Giappone, il resto dell’Asia e dell’Africa alla Gran Bretagna, e le Americhe agli Stati Uniti. Il suo errore fu nel pensare che un tale compromesso fosse possibile: la Gran Bretagna e gli Stati Uniti non l’accettarono, mentre il Giappone, al contrario, lo sostenne.

Il fascismo giapponese appartiene alla stessa categoria. Dal 1895, il moderno Giappone capitalista aspirava a imporre il suo dominio su tutta l’Asia orientale. Qui lo scivolamento è stato fatto “dolcemente” dalla forma “imperiale” di gestire un nascente capitalismo nazionale – basato  su  istituzioni apparentemente  ”liberali” (una dieta eletta), ma in realtà completamente controllate dall’Imperatore e dall’aristocrazia trasformata dalla modernizzazione – a una forma brutale, gestita direttamente dall’Alto Comando militare. La Germania nazista fece un’alleanza con l’imperiale / fascista Giappone, mentre la Gran Bretagna e gli Stati Uniti (dopo Pearl Harbor, nel 1941) si scontrarono con Tokyo, come fece la resistenza in Cina- le carenze del Kuomintang essendo compensate dal sostegno dei comunisti maoisti.

 

(2)    Il Il fascismo delle potenze capitaliste di secondo rango.

L’Italia di Mussolini (l’inventore del fascismo, compreso il suo nome) è il primo esempio. Il mussolinismo è stata la risposta della destra italiana (la vecchia aristocrazia, la nuova borghesia, le classi medie) alla crisi degli anni ’20 e alla minaccia comunista in crescita. Ma né il capitalismo italiano, né il suo strumento politico, Il fascismo di Mussolini, avevano l’ambizione di dominare l’Europa, per non parlare del mondo. Nonostante tutte le vanterie del Duce sulla ricostruzione dell’Impero Romano (!), Mussolini capì che la stabilità del suo sistema poggiava sulla sua alleanza-  come subalterno-  o con la Gran Bretagna (padrona del Mediterraneo) o con la Germania nazista. L’esitazione tra le due possibili alleanze continuò fino alla vigilia della seconda guerra mondiale.

Il fascismo di Salazar e Franco appartiene a questo stesso tipo. Erano entrambi dittatori installati dalla destra e dalla Chiesa cattolica in risposta ai pericoli dei liberali repubblicani o dei repubblicani socialisti. I due non sono mai stati, per questo motivo, ostracizzati per la loro violenza anti-democratica (con il pretesto dell’ anti-comunismo) dalle grandi potenze imperialiste. Washington li riabilitò dopo il 1945 (Salazar era un membro fondatore della NATO e la Spagna acconsentì a basi militari americane),  seguita dalla Comunità europea – garante per natura dell’ordine capitalista reazionario. Dopo la rivoluzione dei garofani (1974) e la morte di Franco (1975), questi due sistemi hanno aderito al campo delle nuove “democrazie” a bassa intensità della nostra epoca.

 

(3) Il fascismo delle potenze sconfitte.

Queste includono il governo della Francia di Vichy, così come in Belgio di Léon Degrelle e lo pseudo- governo “fiammingo” sostenuto dai nazisti. In Francia, la classe superiore scelse “Hitler piuttosto che il Fronte Popolare” (vedi i libri di Annie Lacroix- Riz su questo argomento). Questo tipo di fascismo, collegato con la sconfitta e la sottomissione all’ “Europa tedesca”, è stato costretto a ritirarsi in secondo piano dopo la sconfitta dei nazisti. In Francia, cedette il passo ai Consigli della Resistenza che, per un certo tempo, unirono i comunisti con gli altri combattenti della Resistenza (Charles de Gaulle, in particolare). La sua ulteriore evoluzione ha dovuto attendere (con l’avvio della costruzione europea e l’adesione della Francia al Piano Marshall e alla NATO, vale a dire, la volontaria sottomissione all’egemonia statunitense) che la destra conservatrice e anti- comunista e la destra  social- democratica rompessero definitivamente con la sinistra radicale  che venne fuori dalla Resistenza antifascista e potenzialmente anti-capitalista.

 

(4) Il fascismo nelle società dipendenti dell’Europa orientale.

Ci spostiamo verso il basso di parecchi gradi di più quando veniamo a esaminare le società capitalistiche dell’Europa orientale (la Polonia, gli Stati baltici, la Romania, l’Ungheria, la Jugoslavia, la Grecia e l’Ucraina occidentale durante l’era polacca). Dovremmo qui parlare di capitalismo arretrato e, di conseguenza, dipendente. Nel periodo tra le due guerre, le classi dominanti reazionarie di questi paesi hanno appoggiato la Germania nazista. E’, tuttavia, necessario esaminare caso per caso la loro articolazione con il progetto politico di Hitler.

In Polonia, la vecchia ostilità verso la dominazione russa (della Russia zarista), che divenne ostilità nei confronti della Unione Sovietica comunista, incoraggiata dalla popolarità del papato cattolico, di norma hanno fatto di questo paese un vassallo della Germania, sul modello di Vichy. Ma Hitler non la vedeva in questo modo: i polacchi, come i russi, gli ucraini e i serbi, erano popoli destinati allo sterminio, insieme con gli ebrei, i rom, e molti altri. Non c’era, poi, posto per un fascismo polacco alleato con Berlino.

L’Ungheria di Horthy e la Romania di Antonescu erano, al contrario, trattati come alleati subalterni della Germania nazista. Il fascismo in questi due paesi era in sé il risultato di  crisi sociali specifiche per ciascuno di essi: la paura del “comunismo” dopo il periodo di Béla Kun in Ungheria e la mobilitazione sciovinista nazionale contro gli ungheresi e ruteni in Romania.

In Jugoslavia, la Germania di Hitler (seguita dall’ Italia di Mussolini) sostenne un “indipendente” Croazia, affidata alla gestione del movimento anti-serbo ustascia con il supporto decisivo della Chiesa cattolica, mentre i serbi erano condannati allo sterminio.

La rivoluzione russa aveva evidentemente cambiato la situazione per quanto riguarda le prospettive di lotta della classe operaia e la risposta delle classi possidenti reazionarie, non solo nel territorio della pre-1939 Unione Sovietica, ma anche nei territori perduti: gli Stati baltici e la Polonia. A seguito del Trattato di Riga nel 1921, la Polonia annesse la parte occidentale della Bielorussia (Volinia) e l’Ucraina (sud della Galizia, che era in precedenza un Crownland austriaco, e nel nord della Galizia, che era stata una provincia dell’Impero zarista).

In tutta questa regione, due campi presero forma dal 1917 (e dal 1905 _ con la prima rivoluzione russa): pro- socialista (che divenne pro- bolscevico), popolare in gran parte dei contadini (che aspiravano una riforma agraria radicale a loro beneficio) e nei circoli intellettuali (gli ebrei in particolare); e anti- socialista (e di conseguenza compiacenti per quanto riguarda i governi anti-democratici sotto l’influenza fascista) in tutte le classi di proprietari terrieri. La reintegrazione degli stati baltici, Bielorussia e Ucraina occidentale in Unione Sovietica nel 1939 ha enfatizzato questo contrasto.

La mappa politica dei conflitti tra “pro- fascisti” e “antifascisti” in questa parte d’Europa orientale è stata offuscata, da un lato, dal conflitto tra lo sciovinismo polacco (che persisteva nel suo progetto di “Polonizzare” le annesse regioni bielorusse ed ucraine con insediamenti di coloni) e le popolazioni vittime;  e, d’altra parte, dal conflitto tra i “nazionalisti” ucraini che erano al tempo stesso anti-polacchi e anti-russi (a causa dell’ anti-comunismo) e il progetto di Hitler, che non prevedeva nessuno Stato ucraino come alleato subalterno, poiché il suo popolo era semplicemente contrassegnato per lo sterminio.

Io qui rinvio  il lettore al lavoro autorevole di Olha Ostriitchouk  Les Ukrainiens face à leur passé. La rigorosa analisi di Ostriitchouk della storia contemporanea di questa regione (Galizia austriaca, Ucraina polacca, Piccola Russia, che divenne l’Ucraina sovietica) fornirà al lettore una comprensione delle questioni in gioco nei conflitti ancora in corso, nonché dello spazio occupato dal fascismo locale.

 

La visione accondiscendente della destra occidentale sul fascismo passato e presente

La destra nei parlamenti europei tra le due guerre mondiali fu sempre accondiscendente verso il fascismo e anche il più ripugnante nazismo. Churchill stesso, a prescindere dalla sua estrema “britannicità,” non ha mai nascosto la sua simpatia per Mussolini. I presidenti degli Stati Uniti, e l’establishment dei partiti democratico e repubblicano, solo tardivamente scoprirono il pericolo rappresentato dalla Germania di Hitler e, soprattutto, dal Giappone imperiale / fascista. Con tutto il cinismo caratteristico dell’establishment degli Stati Uniti, Truman apertamente dichiarò quello che altri pensavano in silenzio: consentire alla guerra di consumare i suoi protagonisti – Germania, Russia sovietica, e europei sconfitti – e intervenire il più tardi possibile per raccogliere i frutti. Questa non è affatto l’espressione di una posizione anti-fascista di principio. Nessuna esitazione fu mostrata nella riabilitazione di Salazar e Franco nel 1945. Inoltre, la connivenza con il fascismo europeo è stata una costante nella politica della Chiesa cattolica. Non è poi così fuori luogo descrivere Pio XII come un collaboratore di Mussolini e Hitler.

Lo stesso antisemitismo di Hitler suscitò orrore solo molto più tardi, quando raggiunse la fase finale della sua follia omicida. L’enfasi sull’ odio per il “giudeo-bolscevismo” fomentato dai discorsi di Hitler era comune a molti politici. Fu solo dopo la sconfitta del nazismo che si rese necessario condannare l’antisemitismo in linea di principio. Il compito fu reso più facile perché gli eredi autoproclamati del titolo di “vittime della Shoah” erano diventati i sionisti di Israele, alleati dell’imperialismo occidentale contro i palestinesi e il popolo arabo  che invece, non era mai stato coinvolto negli orrori dell’antisemitismo europeo!

Ovviamente, il crollo dei nazisti e dell’Italia di Mussolini obbligarono le forze politiche di destra in Europa occidentale (ad ovest della “cortina”) a distinguersi da quelli che – all’interno dei propri gruppi -erano stati complici e alleati del fascismo. Tuttavia, i movimenti fascisti furono solo costretti a ritirarsi in secondo piano e nascondersi dietro le quinte, senza realmente scomparire.

In Germania occidentale, in nome della “riconciliazione”, il governo locale ei suoi committenti (gli Stati Uniti e in secondo luogo la Gran Bretagna e Francia) lasciarono al loro posto quasi tutti coloro che avevano commesso crimini di guerra e crimini contro l’umanità. In Francia, sono stati avviati procedimenti giudiziari contro la Resistenza per “esecuzioni abusive contro i collaborazionisti” quando i Vichyisti riapparvero sulla scena politica con Antoine Pinay. In Italia, il fascismo divenne silenzioso, ma era ancora presente nelle file della Democrazia Cristiana e della Chiesa cattolica. In Spagna, il compromesso di “riconciliazione” imposto dalla Comunità Europea (che più tardi divenne l’Unione europea) puramente e semplicemente vietò qualsiasi richiamo ai crimini franchisti.

Il sostegno dei partiti socialisti e socialdemocratici dell’Europa occidentale e centrale alle campagne anti-comuniste intraprese dalla destra conservatrice condivide la responsabilità per il successivo ritorno del fascismo. Questi partiti della sinistra “moderata” erano, invece, stati autenticamente e risolutamente anti-fascisti. Tuttavia tutto questo è stato dimenticato. Con la conversione di questi partiti al liberalismo sociale, il loro appoggio incondizionato alla costruzione europea- sistematicamente concepita come una garanzia per l’ordine capitalista reazionario – e la loro sottomissione non meno incondizionata alla egemonia degli Stati Uniti (attraverso la NATO, tra gli altri mezzi), si è consolidato un blocco reazionario che combina la classica destra e i liberali sociali;  un blocco che potrebbe se necessario ospitare la nuova estrema destra.

Successivamente, la riabilitazione del fascismo dell’Europa orientale è stata rapidamente effettuata a partire dal 1990. Tutti i movimenti fascisti dei paesi interessati erano stati alleati o collaboratori fedeli a vari livelli con l’hitlerismo. Di fronte alla sconfitta imminente, un gran numero dei loro capi attivi era stato reimpiegato in Occidente e poterono, di conseguenza, “arrendersi” alle forze armate degli Stati Uniti. Nessuno di loro fu restituito ai governi sovietico, jugoslavo, o di altri  nelle nuove democrazie popolari per essere processati per i loro crimini (in violazione degli accordi alleati). Tutti trovarono rifugio negli Stati Uniti e in Canada. Ed essi furono tutti coccolati dalle autorità per il loro feroce anti-comunismo!

In Les Ukrainiens face à leur passé , Ostriitchouk fornisce tutto il necessario per dimostrare inconfutabilmente la collusione tra gli obiettivi della politica degli Stati Uniti (e dietro di essi dell’ Europa) e quelli dei fascisti locali dell’Europa orientale (in particolare, Ucraina). Ad esempio, il “Professore” Dmytro Dontsov, fino alla sua morte (nel 1975), ha pubblicato tutte le sue opere in Canada, che non sono soltanto violentemente anti-comuniste (il termine “bolscevismo giudaico” è consuetudine con lui), ma anche fondamentalmente anti-democratiche. I governi dei cosiddetti stati democratici dell’Occidente sostennero, e anche finanziarono e organizzarono, la “rivoluzione arancione” (vale a dire, la controrivoluzione fascista) in Ucraina. E tutto ciò  sta continuando. In precedenza, in Jugoslavia, il Canada aveva anche spianato la strada agli Ustasha croati.

Il modo intelligente in cui i media “moderati” (che non possono apertamente riconoscere che supportano fascisti dichiarati) nascondono il loro sostegno a questi fascisti è semplice: sostituire il termine “nazionalista” a fascista. Il professor Dontsov non è più un fascista, è un “nazionalista” ucraino, come Marine Le Pen non è più una fascista, ma una nazionalista (come Le Monde, per esempio, ha scritto)!

Sono questi fascisti davvero “nazionalisti”, semplicemente perché dicono così? Questo è dubbio. I nazionalisti oggi meritano questa etichetta solo se mettono in discussione il potere delle forze realmente dominanti nel mondo contemporaneo, vale a dire, quella dei monopoli degli Stati Uniti e dell’Europa. Questi cosiddetti “nazionalisti” sono amici di Washington, Bruxelles, e della NATO. Il loro “nazionalismo” consiste nell’ odio sciovinista di persone vicine in gran parte innocenti che non sono mai state responsabili delle loro disgrazie: per gli ucraini, sono i russi (e non lo zar); per i croati, sono i serbi; per la nuova estrema destra in Francia, Austria, Svizzera, Grecia, e altrove, si tratta degli “immigrati”.

Il pericolo rappresentato dalla collusione tra le maggiori forze politiche negli Stati Uniti (repubblicani e democratici) e in Europa (la destra parlamentare e i liberali sociali), da un lato, ed i fascisti d’Oriente, dall’altro, non deve essere sottovalutata . Hillary Clinton si è posta come principale portavoce di questa collusione e spinge l’isteria di guerra al limite. Ancor più che George W. Bush, se possibile, lei aleggia una guerra preventiva di vendetta (e non solo per la ripetizione della guerra fredda) contro la Russia- con un interventi decisamente espliciti in Ucraina, Georgia, Moldova , tra gli altri-contro la Cina, e contro i popoli in rivolta in Asia, Africa e America Latina. Purtroppo, questa corsa a capofitto degli Stati Uniti in risposta al loro declino potrebbe trovare un supporto sufficiente per consentire a Hillary Clinton di diventare “la prima donna presidente degli Stati Uniti!” Non dimentichiamo che cosa si nasconde dietro questa falsa femminista!

Senza dubbio, potrebbe ancora apparire oggi che il pericolo fascista non sia una minaccia per l’ordine “democratico” negli Stati Uniti e in Europa ad ovest della vecchia “cortina”. La collusione tra la classica destra parlamentare e i liberali sociali rende superfluo per il capitale dominante ricorrere ai servizi di una estrema destra che segue la scia dei movimenti storici fascisti. Ma allora cosa dovremmo concludere sui successi elettorali dell’estrema destra negli ultimi dieci anni? Gli europei sono chiaramente anche le vittime della diffusione generalizzata del capitalismo monopolistico. Possiamo capire perché, poi, posti di fronte alla collusione tra la destra e la cosiddetta sinistra socialista, si rifugiano in astensione elettorale o nel voto per l’estrema destra. La responsabilità della potenziale sinistra radicale è, in questo contesto, enorme:  se questa sinistra avesse avuto l’audacia di proporre avanzamenti reali al di là del capitalismo attuale, avrebbe ottenuto la credibilità che le manca. Una sinistra radicale audace è necessaria per fornire la coerenza che gli attuali movimenti frammentari di protesta e le lotte difensive ancora non hanno. Il “movimento” potrebbe, quindi, invertire l’equilibrio sociale del potere in favore delle classi lavoratrici e rendere possibili avanzamenti progressisti . I successi conquistati dai movimenti popolari in Sud America ne sono la prova.

Allo stato attuale delle cose, i successi elettorali dell’estrema destra derivano dal capitalismo contemporaneo stesso. Questi successi consentono ai media di mettere insieme, sotto la stessa etichetta di condanna, i “populisti di estrema destra e quelli di estrema sinistra,” oscurando il fatto che i primi sono pro-capitalisti (come il termine estrema destra dimostra ) e, quindi, possibili alleati per il capitale, mentre i secondi sono i soli avversari potenzialmente pericolosi del sistema di potere del capitale.

Osserviamo, mutatis mutandis, una congiuntura simile negli Stati Uniti, anche se la loro estrema destra non viene mai chiamata fascista. Il maccartismo di ieri, proprio come i fanatici del Tea Party e i guerrafondai (ad esempio, Hillary Clinton) di oggi, difendono apertamente le “libertà” – intese come appartenenti esclusivamente ai proprietari e manager del  capitale monopolistico contro “il governo” sospettato di acconsentire alle richieste delle vittime del sistema.

Un’ultima osservazione sui movimenti fascisti: sembrano incapaci di capire quando e come smettere di fare le loro richieste. Il culto del leader e dell’obbedienza cieca, l’acritica e suprema valorizzazione delle costruzioni mitologiche pseudo-etniche o pseudo-religiose che trasmettono il fanatismo e il reclutamento di milizie per azioni violente rendono il fascismo una forza che è difficile da controllare. Gli errori addirittura oltre le deviazioni irrazionali dal punto di vista degli interessi sociali serviti dai fascisti sono inevitabili. Hitler era una persona veramente malata di mente eppure riuscì a costringere i grandi capitalisti che lo avevano messo al potere a seguirlo fino alla fine della sua follia e ottenne anche il sostegno di una grande parte della popolazione. Anche se questo è soltanto un caso estremo e Mussolini, Franco, Salazar e Pétain non erano malati di mente, un gran numero dei loro collaboratori e seguaci non ha esitato a commettere atti criminali.

 

Il fascismo nel Sud contemporaneo

L’integrazione dell’America Latina nel capitalismo globalizzato nel XIX secolo si basava sullo sfruttamento dei contadini ridotti al rango di “peones” e il loro assoggettamento alle pratiche selvagge dei grandi proprietari terrieri. Il sistema di Porfiro Diaz in Messico ne è un buon esempio. La promozione di questa integrazione nel XX secolo ha prodotto la “modernizzazione della povertà” . Il rapido esodo rurale, più pronunciato e precedente in America Latina che in Asia e in Africa, ha portato a nuove forme di povertà nelle favelas urbane contemporanee, che vennero a sostituire le vecchie forme di povertà rurale. Allo stesso tempo, le forme di controllo politico delle masse sono state “modernizzate” creando dittature, abolendo la democrazia elettorale, vietando i partiti e i sindacati, e attribuendo a “moderni” servizi segreti tutti i diritti di  arrestare e torturare attraverso le loro tecniche di intelligence. Chiaramente, queste forme di gestione politica sono visibilmente analoghe a quelle del fascismo scoperte nei paesi del capitalismo dipendente in Europa orientale. Le dittature del XX secolo in America Latina servirono il blocco reazionario locale (grandi proprietari terrieri, borghesia compradora, e qualche volta le classi medie che hanno beneficiato di questo tipo di sottosviluppo), ma soprattutto, hanno servito il capitale straniero dominante, in particolare quello degli Stati Uniti , che, per questo motivo, sostennero queste dittature fino al loro rovesciamento con la recente esplosione di movimenti popolari. La forza di questi movimenti e le conquiste sociali e democratiche che hanno imposto escludono, almeno nel breve termine, il ritorno delle dittature para-fasciste. Ma il futuro è incerto: il conflitto tra il movimento delle classi lavoratrici e  il capitalismo locale e mondiale è appena cominciato. Come per tutti i tipi di fascismo, le dittature dell’America Latina non evitarono errori, alcuni dei quali sono stati fatali per loro. Penso, per esempio, a Jorge Rafael Videla, che è andato in guerra per le isole Malvinas per capitalizzare il sentimento nazionale argentino a suo beneficio.

A partire dagli anni ’80, il sottosviluppo tipico della diffusione generalizzata del capitalismo monopolistico prese il posto dei sistemi nazionali populisti dell’epoca di Bandung (1955-1980), in Asia e Africa(3). Questo sottosviluppo produsse inoltre forme affini sia alla modernizzazione della povertà sia alla modernizzazione della violenza repressiva. Gli eccessi dei sistemi post-nasseriani e post-baathisti nel mondo arabo forniscono buoni esempi di questo. Non dobbiamo mettere assieme i regimi populisti nazionali dell’epoca Bandung e quelli dei loro successori, che sono saltati sul carro del neoliberismo globalizzato, perché erano entrambi “non democratici”. I regimi di Bandung, nonostante le loro pratiche politiche autocratiche, godevano di qualche legittimazione popolare sia per i loro risultati effettivi, che beneficiavano la maggioranza dei lavoratori, sia per le loro posizioni anti-imperialiste. Le dittature che seguirono hanno perso questa legittimità non appena hanno accettato la sudditanza al modello neoliberista globalizzato e al sottosviluppo che l’accompagna. L’autorità popolare e nazionale, anche se non democratica, lasciò il posto alla violenza della polizia e al servizio del progetto neoliberista, antipopolare e antinazionale.

Le recenti rivolte popolari, a partire dal 2011, hanno messo in discussione le dittature. Ma le dittature sono state soltanto messe in discussione. Un’alternativa troverà gli strumenti per raggiungere la stabilità soltanto se riuscirà a conciliare i tre obiettivi attorno a cui le rivolte sono riuscite ad aggregare: continuazione della democratizzazione della società e della politica, conquiste sociali progressiste e l’affermazione della sovranità nazionale.

Siamo ancora lontani da questo. Questo è il motivo per cui ci sono molteplici alternative possibili nel breve periodo visibile. Ci può essere un possibile ritorno al modello nazionale popolare dell’epoca di Bandung, magari con maggiore democrazia? O la costituzione e l’affermazione di un fronte democratico, popolare e nazionale? O un tuffo in una illusione rivolta al passato che, in questo contesto, assume la forma di una “islamizzazione” della politica e della società?

Nel conflitto – nella troppa confusione- le potenze occidentali (Stati Uniti ei suoi subalterni alleati europei) hanno fatto la loro scelta su queste tre possibili risposte alla sfida: hanno dato sostegno preferenziale ai Fratelli Musulmani e / o a altre organizzazioni “salafite” dell’Islam politico. La ragione di ciò è semplice ed evidente: queste forze politiche reazionarie accettano di esercitare il loro potere all’interno del neoliberismo globalizzato (e abbandonando così ogni prospettiva di giustizia sociale e indipendenza nazionale). Questo è l’unico obiettivo perseguito dalle potenze imperialiste.

Di conseguenza, il programma dell’ Islam politico appartiene al tipo di fascismo trovato nelle società dipendenti. Infatti condivide con tutte le forme di fascismo due caratteristiche fondamentali: (1) l’assenza di una sfida  agli aspetti essenziali dell’ordine capitalista (e in questo contesto ciò equivale a non contestare il modello di sottosviluppo connesso alla diffusione del capitalismo globalizzato neoliberista); e (2) la scelta di forme di gestione politica anti-democratiche, da stato di polizia (come ad esempio il divieto di partiti e organizzazioni, e l’islamizzazione forzata della morale).

L’opzione anti-democratica delle potenze imperialiste (che dimostra quanto sia falsa la retorica pro-democratica sbandierata nel diluvio di propaganda a cui siamo sottoposti), allora, accetta i possibili “eccessi” dei regimi islamici in questione. Come altri tipi di fascismo e per le stesse ragioni, questi eccessi sono iscritti nei “geni” dei loro modi di pensare: sottomissione indiscussa ai leader, valorizzazione fanatica dell’ adesione alla religione di stato, e la formazione di forze d’urto utilizzate per imporre la sottomissione . In realtà, e questo può essere visto già, il programma “islamista” progredisce soltanto nel contesto di una guerra civile (tra, tra gli altri, sunniti e sciiti) e determina nient’altro che caos permanente. Questo tipo di potere islamico è, quindi, la garanzia che le società in questione restano assolutamente incapaci di affermarsi sulla scena mondiale. E’ chiaro che dei declinanti Stati Uniti hanno rinunciato ad ottenere qualcosa di meglio- uno stabile e sottomesso governo locale – in favore di questa “seconda scelta”.

Sviluppi e scelte analoghe possono essere trovati anche al di fuori del mondo arabo-musulmano, come ad esempio nell’India indù, per esempio. Il Bharatiya Janata Party (BJP), che ha appena vinto le elezioni in India, è un partito religioso indù reazionario che accetta l’inserimento del suo governo nel neoliberismo globalizzato. È la garanzia che l’India, sotto il suo governo, si ritirerà dal suo progetto di essere una potenza emergente. Descriverlo come fascista, poi, non è in fondo un azzardo.

In conclusione, il fascismo ha fatto il suo ritorno a Sud, Est e Ovest: e questo ritorno è intimamente connesso con la diffusione della crisi sistemica del capitalismo monopolistico generalizzato, finanzia rizzato e globalizzato. Un effettivo o persino un potenziale ricorso ai servigi dei movimenti fascisti da parte dei centri dominanti di questo sistema ridotto allo stremo richiede la più stretta vigilanza da parte nostra. Questa crisi è destinata a peggiorare e, di conseguenza, la minaccia di una risorgenza di soluzioni fasciste potrebbe diventare un pericolo concreto. Il sostegno di Hillary Clinton a politiche americane guerrafondaie non lascia presagire buone cose per il futuro più immediato.

Note:

1)      Olha Ostriitchouk,  Les Ukrainiens face à leur passé  [Gli ucraini di fronte al loro passato] (Brussels: P.I.E. Lang, 2013)

2)      Samir Amin, The Implosion of Contemporary Capitalism (New York: Monthly Review Press, 2013)

3)      Per la diffusione generalizzata del capitalismo monopolistico, vedi ibid.

Articolo originale: http://monthlyreview.org/2014/09/01/the-return-of-fascism-in-contemporary-capitalism/

Traduzione di Federico Vernarelli

Gli eroi della nostra epoca di Fidel Castro da: www.resistenze.org – osservatorio – mondo – politica e società – 07-10-14 – n. 514

Gli eroi della nostra epoca

Fidel Castro Ruz | prensa-latina.cu

06/10/2014

L’Avana, 6 ott (Prensa Latina) Il quotidiano Granma ha pubblicato sabato scorso un nuovo articolo del Comandante Fidel Castro, “Gli eroi della nostra epoca”, che pubblichiamo integralmente. 

“Ci sono molte cose da dire, in questi tempi difficili per l’umanità. Oggi, tuttavia, è un giorno di interesse speciale per noi e chissà anche per molte persone.

Durante la nostra breve storia rivoluzionaria, dal golpe astuto del 10 marzo 1952, promosso dall’impero contro il nostro piccolo paese, non poche volte ci siamo visti nella necessità di prendere importanti decisioni.

Quando non rimaneva oramai nessuna alternativa, altri giovani, di qualunque altra nazione, nella nostra complessa situazione, facevano o si proponevano di fare come noi, benché nel nostro caso in particolare, come tante volte nella storia, Cuba ha svolto un ruolo decisivo.

A partire dal dramma creato nel nostro paese per colpa degli Stati Uniti in quel momento, senza nessun altro obiettivo che frenare il rischio di sviluppi sociali limitati, che avrebbero potuto incoraggiare cambiamenti radicali futuri nella proprietà yankee in cui era stata convertita Cuba, si generò la nostra Rivoluzione Socialista.

La Seconda Guerra Mondiale, terminata nel 1945, ha consolidato il potere degli Stati Uniti come principale potenza economica e militare, ed ha convertito questo paese- cui territorio era distante dai campi di battaglia- nel più poderoso del pianeta.

La schiacciante vittoria del 1959, possiamo affermarlo senza ombra di sciovinismo, si è trasformata in esempio di quello che una piccola nazione, lottando per sé stessa, può fare anche per gli altri.

I paesi latinoamericani, con un minimo di eccezioni rispettabili, si sono lanciati sulle briciole offerte dagli Stati Uniti; per esempio, la quota degli zuccherifici di Cuba che durante quasi un secolo e mezzo ha mantenuto il nostro paese nei suoi anni critici, è stata ripartita tra produttori ansiosi di mercati nel mondo.

L’illustre generale nordamericano che presiedeva allora gli USA, Dwight D. Eisenhower, aveva diretto le truppe coalizzate nella guerra, e nonostante contassero con mezzi poderosi, hanno liberato solo una piccola parte dell’Europa occupata dai nazisti. Il sostituto del presidente Roosevelt, Harry S. Truman, risultò essere il conservatore tradizionale che normalmente assume tali responsabilità politiche negli Stati Uniti negli anni difficili.

L’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche- che ha costituito fino alla fine dello scorso XX secolo, la più grandiosa nazione della storia nella lotta contro lo sfruttamento spietato degli esseri umani- è stata sciolta e sostituita da una Federazione che ha ridotto la superficie di quel gran Stato multinazionale di circa cinque milioni 500 mila chilometri quadrati.

Un qualcosa, tuttavia, non hanno potuto scioglierlo: lo spirito eroico del popolo russo, che unito ai suoi fratelli del resto dell’URSS, è stato capace di preservare una forza tanto poderosa che insieme alla Repubblica Popolare Cina e paesi come Brasile, India e Sudafrica, costituiscono un gruppo col potere necessario per frenare il tentativo della nuova colonizzazione del pianeta.

Due esempi illustrativi di queste realtà li viviamo nella Repubblica Popolare dell’Angola. Cuba, come molti altri paesi socialisti e movimenti di liberazione, ha collaborato con lei e con altri che lottavano contro il dominio portoghese in Africa. Questo si esercitava in forma amministrativa diretta con l’appoggio dei suoi alleati.

La solidarietà con Angola era uno dei punti essenziali del Movimento dei Paesi Non Allineati e del Campo Socialista. L’indipendenza di questo paese è diventata inevitabile ed era accettata per la comunità mondiale.

Lo Stato razzista del Sudafrica ed il Governo corrotto dell’antico Congo Belga, con l’appoggio degli alleati europei, si preparavano accuratamente per la conquista e la ripartizione dell’Angola.

Cuba, che cooperava con la lotta di questo paese da anni, ha ricevuto la richiesta di Agostinho Neto per l’allenamento delle sue forze armate che, installate a Luanda, la capitale del paese, dovevano essere pronte per la sua presa di possesso ufficialmente stabilita l’11 novembre 1975.

I sovietici, fedeli ai loro compromessi, avevano inviato attrezzature militari ed aspettavano solo il giorno dell’indipendenza per inviare gli istruttori. Cuba, da parte sua, aveva accordato l’invio degli istruttori sollecitati da Neto.

Il regime razzista del Sudafrica, condannato e disprezzato dall’opinione mondiale, decide di anticipare i suoi piani ed invia forze motorizzate in veicoli blindati, dotati di artiglieria potente che, dopo un avanzamento di centinaia di chilometri a partire dalla sua frontiera, ha attaccato il primo accampamento di allenamento, dove vari istruttori cubani sono morti in resistenza.

Dopo vari giorni di combattimenti sostenuti dagli istruttori valorosi insieme agli angolani, sono riusciti a fermare l’avanzamento dei sudafricani verso Luanda, la capitale dell’Angola dove era stato inviato per via aerea un battaglione di Truppe Speciali del Ministero dell’Interno, trasportato da L’Avana nei vecchi aeroplani Britannia della nostra linea aerea.

Così è cominciata quella lotta epica in quel paese dell’Africa nera, tiranneggiato dai razzisti bianchi, il paese in cui battaglioni di fanteria motorizzata e brigate di carri armati, artiglieria blindata e mezzi adeguati di lotta, hanno respinto le forze razziste del Sudafrica e li hanno obbligati a retrocedere fino alla loro stessa frontiera, da dove erano partiti.

Non è stato solo l’anno 1975 la tappa più pericolosa di questa guerra. Il momento è accaduto, approssimativamente 12 anni più tardi, nel sud dell’Angola.

Così quello che sembrava la fine dell’avventura razzista nel sud dell’Angola era solo il principio, ma almeno avevano potuto comprendere che le forze rivoluzionarie di cubani bianchi, mulatti e negri, insieme ai soldati angolani, erano capaci di fare inghiottire la polvere della sconfitta ai razzisti suppostamente invincibili. Forse si sono fidati troppo della loro tecnologia, delle loro ricchezze e dell’appoggio dell’impero dominante.

Benché non fosse mai stata la nostra intenzione, l’atteggiamento sovrano del nostro paese non smetteva di avere contraddizioni con la stessa URSS, che aveva fatto tanto per noi in giorni realmente difficili, quando il taglio delle somministrazioni di combustibile a Cuba da parte degli Stati Uniti c’avrebbe portato ad un prolungato e costoso conflitto con la poderosa potenza del Nord.

Sparito questo pericolo o no, il dilemma era decidersi ad essere liberi o rassegnarsi ad essere schiavi del poderoso impero vicino.

In questa situazione tanto complicata come l’accesso dell’Angola all’indipendenza, in lotta frontale contro il neocolonialismo, era impossibile che non sorgessero differenze in alcuni aspetti dai quali potevano derivare conseguenze gravi per gli obiettivi tracciati, che nel caso di Cuba, come parte in questa lotta, aveva il diritto ed il dovere di condurla al successo.

Ogni volta che secondo noi qualsiasi aspetto della nostra politica internazionale poteva scontrarsi con la politica strategica dell’URSS, facevamo tutto il possibile per evitarlo. Gli obiettivi comuni esigevano a tutti il rispetto dei meriti e delle esperienze di ognuno di loro.

La modestia non è incompatibile con l’analisi seria della complessità e dell’importanza di ogni situazione, benché nella nostra politica siamo sempre stati molto esigenti con tutto quello che si riferiva alla solidarietà con l’Unione Sovietica.

In momenti decisivi della lotta in Angola contro l’imperialismo ed il razzismo si è prodotta una di quelle contraddizioni che è derivata dalla nostra partecipazione diretta in quella contesa e dal fatto che le nostre forze non solo lottavano, ma istruivano anche ogni anno migliaia di combattenti angolani, che appoggiavamo nella loro lotta contro le forze pro yankee e pro razziste del Sudafrica.

Un militare sovietico era l’assessore del governo e pianificava l’impiego delle forze angolane. Ci differenziavamo, tuttavia, in un punto che era sicuramente importante: la frequenza reiterata con cui si difendeva il criterio erroneo di usare in questo paese le truppe angolane meglio allenate a quasi mille cinquecento chilometri di distanza da Luanda, la capitale, per la concezione propria di un altro tipo di guerra, per nulla simile a quella di carattere sovversivo e guerrigliera dei controrivoluzionari angolani.
In realtà non esisteva una capitale dell’UNITA, né Savimbi aveva un punto dove resistere, si trattava di un’esca del Sudafrica razzista che serviva solo per attrarre lì le migliori e più armate truppe angolane per vincerle a suo capriccio. Pertanto ci siamo opposti a questo concetto che si è applicato più di una volta, fino all’ultimo quando ci hanno chiesto di vincere il nemico con le nostre proprie forze, fatto che ha dato luogo alla battaglia di Cuito Cuanavale.

Dirò che questo prolungato confronto militare contro l’esercito sudafricano si è prodotto a causa dell’ultima offensiva contro la supposta “capitale di Savimbi”, in un angolo lontano della frontiera dell’Angola, del Sudafrica e della Namibia occupata, fino a dove le coraggiose forze angolane, partendo da Cuito Cuanavale, antica base militare disattivata della NATO, benché ben equipaggiate con i più nuovi carri blindati, carri armati ed altri mezzi di combattimento, iniziavano la loro marcia di centinaia di chilometri verso la supposta capitale controrivoluzionaria.

I nostri audaci piloti di combattimento li appoggiavano coi Mig-23 quando stavano ancora dentro il loro raggio di azione.

Quando oltrepassavano questi limiti, il nemico colpiva fortemente i valorosi soldati delle FAPLA con i loro aeroplani di combattimento, la loro artiglieria pesante e le loro forze terrestri ben equipaggiate, causando morti e feriti abbondanti. Ma questa volta si dirigevano, nella loro persecuzione delle brigate angolane colpite, verso l’antica base militare della NATO.

Le unità angolane retrocedevano in un fronte di vari chilometri di larghezza, con brecce di chilometri di separazione tra di loro. Data la gravità delle perdite ed il pericolo che poteva derivare da queste, quasi sicuramente si sarebbe prodotto il sollecito abituale di aiuto da parte del Presidente dell’Angola affinché ricorresse all’appoggio cubano, e così è accaduto.

La risposta sicura, questa volta è stata che tale sollecito si sarebbe accettato solo se tutte le forze e tutti i mezzi di combattimento angolani nel Fronte Meridionale si sottomettessero al comando militare cubano. Il risultato immediato è stato che si accettava questa condizione.

Velocemente, si sono mobilitate le forze in funzione della battaglia di Cuito Cuanavale, dove gli invasori sudafricani e le loro armi sofisticate si schiantarono contro le unità blindate, l’artiglieria convenzionale ed i Mig-23 diretti dai piloti audaci della nostra aviazione. L’artiglieria, carri armati ed altri mezzi angolani ubicati in quel punto, che non avevano personale, sono stati attivati per il combattimento da personale cubano.

I carri armati angolani che non potevano vincere l’ostacolo dell’abbondante fiume Queve nella loro ritirata, ad est dell’antica base della NATO, il cui ponte era stato distrutto settimane prima da un aeroplano sudafricano senza pilota, carico di esplosivi, sono stati interrati e circondati da mine antiuomo ed anticarro.

Le truppe sudafricane che avanzavano si sono imbattute a poca distanza con una barriera insormontabile contro la quale si schiantarono. In questo modo, con perdite minime e condizioni vantaggiose, le forze sudafricane sono state sconfitte in modo contundente in quel territorio angolano.

Ma la lotta non si era conclusa, l’imperialismo con la complicità di Israele aveva trasformato Sudafrica in un paese nucleare. Al nostro esercito, toccava per la seconda volta, il rischio di trasformarsi in un bersaglio di questa arma.

Ma questo punto, con tutti gli elementi di giudizio pertinenti, si sta elaborando e forse si potrà scrivere nei mesi venturi.

Che eventi sono successi ieri sera che hanno dato luogo a questa lunga analisi? Due fatti, secondo me, di trascendenza speciale:

La partenza della prima Brigata Medica Cubana verso l’Africa a lottare contro l’Ebola.

Il brutale assassinio a Caracas, in Venezuela, del giovane deputato rivoluzionario Robert Serra.

Entrambi i fatti riflettono lo spirito eroico e la capacità dei processi rivoluzionari che si stanno svolgendo nella Patria di Josè Martì e nella culla della libertà dell’America, il Venezuela eroico di Simon Bolivar e Hugo Chavez.

Quante lezioni sorprendenti rinchiudono questi avvenimenti! Incontro appena le parole per esprimere il valore morale di questi fatti, successi quasi simultaneamente.

Non si può assolutamente credere che il crimine del giovane deputato venezuelano sia opera della casualità.

Sarebbe troppo incredibile, e così simile alle pratiche dei peggiori organismi yankee di intelligenza, che la vera casualità fosse che il ripugnante fatto non sia stato realizzato intenzionalmente, ancora di più quando si adatta assolutamente a quanto previsto ed annunciato dai nemici della Rivoluzione Venezuelana.

Ad ogni modo, mi sembra assolutamente corretta la posizione delle autorità venezuelane di esporre la necessità di investigare accuratamente il carattere del crimine. Il popolo, ciò nonostante, espressa commosso la sua profonda convinzione sulla natura del brutale fatto di sangue.

L’invio della prima Brigata Medica a Sierra Leone, indicato come uno dei punti di maggiore presenza dell’epidemia crudele di Ebola, è un esempio del quale un paese può inorgoglirsi, perché non è possibile raggiungere in questo istante un seggio di maggiore onore e gloria.

Se nessuno ha avuto il minore dubbio che le centinaia di migliaia di combattenti che sono andati in Angola ed in altri paesi dell’Africa o dell’America, hanno prestato all’umanità un esempio che non potrà mai cancellarsi dalla storia umana, avrebbe ancora meno dubbi che l’azione eroica dell’esercito dei camici bianchi occuperà un alto posto di onore in questa storia.

Non saranno i fabbricanti di armi letali quelli che raggiungeranno un onore così meritato. Magari l’esempio dei cubani che vanno in Africa potrà anche invogliare la mente ed il cuore di altri medici nel mondo, specialmente di quelli che possiedono più risorse, pratichino una qualsiasi religione, o la convinzione più profonda del dovere della solidarietà umana.

È molto duro il compito di quelli che vanno al combattimento contro l’Ebola e per la sopravvivenza di altri esseri umani, anche a rischio della loro stessa vita. Non per questo dobbiamo smettere di fare tutto il possibile per garantire, a quelli che compiono quei doveri, la massima sicurezza nei compiti che svolgano e nelle misure da prendere per proteggerli e proteggere il nostro stesso popolo, da questa o da altre malattie ed epidemie.

Il personale che va in Africa sta proteggendo anche quelli che rimangono qui, perché il fatto peggiore che può succedere è che tale epidemia od altre peggiori si estendano nel nostro continente, o nel seno del popolo di qualsiasi paese del mondo, dove un bambino, una madre od un essere umano possano morire. Ci sono medici sufficienti nel pianeta affinché nessuno debba morire per mancanza di assistenza. È quello che desidero comunicare.

Onore e gloria per i nostri valorosi combattenti per la salute e per la vita!

Onor e gloria per il giovane rivoluzionario venezuelano Robert Serra insieme alla compagna Maria Herrera!

Queste idee le ho scritte il 2 ottobre quando ho saputo entrambe le notizie, ma ho preferito aspettare un giorno in più affinché l’opinione internazionale si informasse bene ed ho chiesto a Granma che le pubblicasse il sabato.

Fidel Castro Ruz
2 ottobre 2014 

 

Dichiarazione del Comitato greco per la Distensione Internazionale e la Pace (EEDYE) sull’Iraq da:www.resistenze.org – osservatorio – lotta per la pace – 23-06-14 – n. 504

Comitato greco per la Distensione Internazionale e la Pace (EEDYE) | solidnet.org
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

19/06/2014

In Iraq è in corso una crisi sanguinosa: ne è vittima il suo popolo. Dall’aperta invasione imperialista degli Stati Uniti e dei suoi volenterosi alleati del 2003, centinaia di migliaia di iracheni sono morti, sono stati feriti o sfollati, per non parlare della demolizione dei monumenti dell’antica civiltà mesopotamica, della distruzione delle infrastrutture e di intere città.

L’intervento imperialista nel 2003 venne giustificato con il pretesto delle armi di distruzione di massa, che non furono mai trovate. Saddam Hussein, una volta uomo degli Stati Uniti, è stato giustiziato, mentre il controllo del petrolio è passato agli Stati Uniti e alle sue multinazionali. L’installazione a Baghdad di un regime gradito a Washington e alla NATO non ha risolto naturalmente nessuno dei problemi. Il paese diviso in “tre parti”, secondo il vecchio “divide et impera”, voluto in vista del controllo geostrategico della regione, ha portato a nuovi conflitti tribali e religiosi.

E’ un’ipocrisia rimpiangere oggi la perdita di vite umane in Iraq senza menzionare l’occupazione in corso da parte degli Stati Uniti e le tragiche conseguenze per il popolo iracheno.

A tutt’oggi in Iraq è dispiegato un esercito mercenario che controlla tra l’altro i giacimenti di petrolio e gli oleodotti. Il recente avvicinamento della portaerei Usa G.Bush alla regione creerà solo nuove tensioni e promesse di guerra. Un altro guerrafondaio, Tony Blair, già parla di nuovi lanci missilistici contro obiettivi in Iraq.

Per il Comitato greco per la Distensione Internazionale e la Pace, EEDYE, e il movimento pacifista e antimperialista in Grecia, è chiaro che i problemi non possono essere risolti da chi ne è stato sostanzialmente l’artefice. Gli imperialisti statunitensi e della NATO, da un lato, i gruppi estremisti religiosi d’altra parte, non possono portare pace e prosperità al popolo iracheno. Sono le due facce della stessa medaglia. Puntano alla manipolazione e all’intimidazioni del popolo, mentre avanza il piano imperialista per il “Grande Medio Oriente”, con il sostegno degli Stati Uniti, della NATO e dell’UE.

Il governo greco, che presiede il semestre dell’Unione europea, è responsabile di quanto sopra, non solo perché non si oppose ai piani imperialisti, ma li sostiene apertamente, come ha fatto nei casi delle sanzioni contro la Siria, l’Iran e l’intervento in Ucraina.

Il tormentato popolo iracheno ha tutto l’interesse di organizzare la sua lotta contro le forze nazionali e straniere che lo vogliono in ginocchio, che lo intendono strumento dei conflitti religiosi ed etnici; il popolo iracheno può diventare così padrone del proprio paese e della ricchezza che produce.

La Segretaria di EEDYE

18/06/2014