Enzo Bianco, sindaco di Catania, e la sua festa in stile Leopolda da. huffingtonpost.it

Il Centro Direzionale San Leone è una struttura pubblica che appare subito un po’ estranea al quartiere che lo ospita a Catania. E questa sua caratteristica ha sottolineato il tono della manifestazione Tempo del Raccolto. 34 mesi di governo a Catania tenutasi sabato scorso e voluta dal sindaco della città per fare il punto sui risultati ottenuti dalla sua amministrazione a quasi tre anni dall’insediamento.

San Leone è in Sicilia, ma per questa occasione al suo interno sembra d’essere a Firenze. Nessun palco, nessuna scrivania, solo un leggio trasparente posto alla stessa altezza della platea, per parlare a braccio, in piedi, senza creare diaframmi tra pubblico e oratore. È un format che Bianco ha ripreso al completo dalle incursioni del “rottamatore” poi Primo Ministro alla Leopolda.

Siamo a Catania, d’accordo, ma il personale politico ha imparato la lezione che è arrivata dal Nord. Gli assessori rigorosamente in completo (possibilmente blu), camicia e cravatta. Unica possibile deroga il primo bottone slacciato del colletto. La scarpa è in cuoio e lucida, il capello mai troppo lungo è sempre fresco di taglio, nessuna barba ammessa. Per le signore tailleur due prezzi, ballerina, bijoux di grosse dimensioni: gradite le meches bionde. L’adesione al look del duo Renzi-Boschi è senza riserve.

Bianco prende la parola per primo. Nella sua prolusione fa intendere subito quale sarà la tesi di fondo del convegno: nonostante la terribile situazione di dissesto lasciata in eredità dalla precedente amministrazione Stancanelli, l’eroico lavoro in atto proietta la città verso un futuro decisamente migliore. È dal suo insediamento, avvenuto nel 2013, che la giunta pone rimedio ai guai ereditati e programma interventi capaci di rendere smart la seconda città siciliana, tanto nel sociale che nelle infrastrutture. Sul maxischermo appoggiato al muro di fondo gli interventi degli oratori sono accompagnati da Power Point che snocciolano cifre a una velocità insostenibile, almeno per chi dovrebbe seguirle. Cifre e grafiche intervallati da filmati dove compaiono interviste a testimonial di diversa natura: rappresentanti di Associazioni di volontariato (non tutte), leader confindustriali della città (quasi tutti), sigle sindacali (non tutte), portavoce della Confcommercio (quasi tutti), rappresentanti dei consigli di quartiere (non tutti), parroci (pochini) e responsabili di associazioni culturali (una).

Ringraziano tutti e sempre i testimonial. Prima il sindaco e poi la giunta nel suo complesso: per “l’impegno indefesso”, “l’esempio di buona politica”, “l’ottimo lavoro di squadra”, “l’esperienza entusiasmante”… In sala ad ogni cambio di oratore si applaude, sempre e convinti: il format del resto non prevede altra possibilità di intervento.

Tra gli altri però spicca un intervento, applaudito anche questo, che stride rispetto al quadro generale che viene accreditato. La festa a inviti che il sindaco ha voluto per la sua giunta e per gli stakeholder (per i cittadini pare ci sarà un altro momento dedicato, ma non è dato sapere dove e quando) non prevede incagli. Ma quando il questore di Catania Marcello Cardona prende la parola appare chiaro che è poco propenso a magnificare i risultati ottenuti dalle forze dell’ordine, risultati che pure ci sono stati. Affianca invece Catania a Napoli, ponendo le due città ai vertici della triste classifica di chi deve fare i conti con la criminalità organizzata. E così facendo, nelle menti di chi è davvero interessato alle sorti della città apre un varco alla riflessione.

Già perché Enzo Bianco ha appena definito se stesso come un “inguaribile ottimista”. Ma forse ha peccato per difetto: è anche un “grande sognatore”. Parlano infatti di altro, rispetto alla sua analisi, i dati sullo stato di Catania tratti dall’indagine sulle “città intelligenti” condotta, in collaborazione, da ForumPA e Openpolis. Il rapporto Icity Rate 2015 che è stato reso pubblico lo scorso ottobre colloca tra le 106 città italiane studiate, Catania alla 97 posizione. In questo rapporto le città sono classificate sulla base di sette indicatori analitici. Gli indicatori elementari riguardano le performance economico-produttive; la vivibilità primaria; la qualità ambientale; i livelli di istruzione e di socialità; la mobilità; la performance amministrativa; e la legalità. Confrontando le classifiche del 2015 con quelle incluse nel rapporto 2013 si nota che di Catania sono migliorati la vivibilità primaria, i livelli di istruzione e di socialità. Non si nota alcun cambiamento significativo delle performance economico-produttive. Ma sono peggiorate invece la mobilità, la qualità ambientale e le performance amministrative. Nel complesso, dal 2013 al 2015, la città ha perso 10 posizioni. Nella classifica generale nel 2013 occupava infatti la 87° posizione.

Ma a che serve fare “i corvi”? Agli oratori del San Leone non interessa affrontare temi come lo scandalo delle partecipate, l’agonia del Teatro Stabile, il conclamato rischio dissesto della città, i guai con la Corte dei Conti acuiti dal caso della consulenza sul Piano di riequilibrio per il risanamento della casse comunali affidata ad una società legata al presidente del Collegio dei Revisori del Comune. Meglio passare al “video emozionale” conclusivo, come lo ha definito lo speaker del San Leone. Prima immagini di Catania in bianco e nero accompagnate da voce narrante teatrale. Poi l’arrivo del colore: questa volta Catania è ripresa dall’alto, da dove tutto appare bello; unico dettaglio coi piedi per terra sono i ritratti head-to-toes del sindaco. Enzo Bianco sorridente, Enzo Bianco col caschetto da ciclista, Enzo Bianco sul lungomare, nella prima giornata del mese, quando è precluso al traffico veicolare. Dal bianco e nero al cosiddetto Lungomare Liberato. Secondo Enzo Bianco e la sua Giunta è questo il ritratto della straordinaria evoluzione di Catania.

Le quote di genere due anni dopo Fonte: ingenere.it

 

In Italia la presenza femminile ai vertici delle imprese è ancora molto scarsa. In agosto, però, è entrata in vigore la legge che impone alle società quotate di riservare alle donne almeno un terzo delle posizioni in consiglio di amministrazione. Un’analisi sulle consigliere attuali suggerisce che è fondamentale una selezione attenta a competenze e qualità, piuttosto che ai legami con le imprese. E va associata a processi di formazione dei nuovi membri dei consigli. Ne potrebbero trarre benefici significativi soprattutto le società la cui governance non è ottimale.

Il Rapporto Consob On Corporate Governance of Italian listed Companies uscito nel mese di Novembre mostra che oggi il 17% dei posti di consigliere risulta ricoperto da donne (a fine 2011 erano il 7,4 per cento) e in 198 imprese (135 a fine 2011) almeno una donna siede in un consigli di amministrazione. Come si sottolinea nel rapporto, la diversità di genere è diventata una realtà diffusa: quattro consigli su cinque hanno entrambi i generi rappresentati. Questi numeri sono il risultato della legge 120/2011 (cosiddetta Golfo-Mosca) che ha introdotto in Italia l’obbligo temporaneo di rispettare un’equa rappresentanza di genere nei consigli di amministrazione e collegi sindacali delle società quotate e partecipate pubbliche. La quota di rappresentanza di genere è fissata al 20% per il primo mandato e al 33% per i successivi due.
Si tratta di una vera rivoluzione per le società italiane. La presenza di donne nei consigli di amministrazione delle società quotate è sempre stata molto bassa, ben al di sotto del 7% fino al 2011, circa un terzo di quella di paesi come la Finlandia (27%), la Svezia (25%) e la Francia (22%) [1].Come mostra la Figura 1, la legge ha accelerato un processo di lentissima evoluzione della presenza femminile nelle società quotate. Quanti anni ci sarebbero voluti per arrivare alla percentuale attuale in assenza della legge? Troppi, probabilmente Come ricordava Magda Bianco su lavoce.info “se la presenza femminile nei boards avesse dovuto continuare a crescere con il tasso medio degli ultimi anni, occorrerebbero oltre sessanta anni per raggiungere il 33% imposto dalla legge”.
Come già per altri paesi europei che hanno introdotto prima dell’Italia una legge sull’equa rappresentanza di genere, l’introduzione delle quote è stata essenziale per raggiungere una maggiore presenza femminile ai vertici delle società.

Anche se è ancora troppo presto per dare una valutazione approfondita degli effetti di questa legge, possiamo già avanzare qualche riflessione.
I consigli di amministrazione italiani sono stati per anni dominati dal potere decisionale maschile. La legge sulle quote agisce come una misura shock per scardinare questo equilibrio, consolidatosi negli anni. Si tratta di una misura temporanea, pensata come un elemento di rottura necessario in questo momento. L’idea è infatti che, una volta minato lo status quo alla radice, le quote non saranno più necessarie. La legge obbliga ad aprire le porte dei consigli ad una platea più ampia, non solo perché richiede di considerare le donne, tipicamente escluse, ma anche perché rende conveniente un ripensamento dei meccanismi di selezione per tutti, uomini e donne.L’introduzione delle donne nei consigli di amministrazione infatti si accompagna ad una selezione più accurata, in cui tutti i talenti e le competenze, maschili e femminili, hanno le stesse opportunità di emergere e ricevono la stessa valutazione. Diventa conveniente per l’azienda stessa selezionare i migliori, uomini e donne. Criteri di merito saranno applicati per selezionare le migliori donne in ingresso, e gli stessi criteri saranno applicati anche agli uomini, per la prima volta nel nostro Paese, con la conseguenza che la “qualità” media dei rappresentanti non potrà che aumentare. La governance delle società quotate italiane quindi potrà beneficiare di questa apertura ad una maggiore concorrenza.

Un secondo elemento di riflessione riguarda il l ruolo che una massa critica di donne nei consigli di amministrazione potrà avere per le decisioni dell’azienda, e sue scelte, e alla fine la sua performance. La letteratura economico-manageriale ha da tempo sottolineato i vantaggi della diversity, come elemento chiave per il successo di un’organizzazione. In un contesto eterogeneo si allargano le prospettive, si rafforza la rappresentanza di tutti gli azionisti, si raccolgono i risultati resi possibili dall’azione dei diversi stili di leadership. Studi più recenti mostrano che in un contesto eterogeneo la massa critica è importante: analizzando i verbali di 402 consigli di amministrazione e comitati di un campione selezionato di imprese israeliano, (Schwartz-Ziv, 2013) [2], mostra che le aziende con una massa critica di almeno 3 persone dello stesso genere nel consiglio di amministrazione, in particolare 3 donne, hanno una migliore performance delle altre, una maggiore probabilità di cambiare il Ceo quando la performance è bassa, oltre ad una probabilità almeno doppia di richiedere ulteriori informazioni e di prendere un’iniziativa. A livello individuale inoltre, sia gli uomini sia le donne consiglieri sono più attivi quando ci sono almeno tre donne nel consiglio. La legge sulle quote sta introducendo anche nel nostro Paese una massa critica di donne nei luoghi decisionali, che potrebbe rivelarsi decisiva in un più ampio processo di cambiamento e di miglioramento delle policy, anche nei confronti delle altre donne, e così via via autoalimentarsi.

Un terzo elemento di riflessione riguarda la composizione del gruppo di donne che sono entrate nei consigli a seguito della legge e i potenziale cambiamenti
nello “stile” manageriale. È probabile che le donne, meno legate da un legame di parentela con il controllante e con una più lunga e continuativa esperienza di lavoro, abbiano un maggiore considerazione per welfare degli impiegati. Finora ciò che emerso dalla esperienza di altri paesi che hanno un numero di elevato di donne nei boards è che le donne siano più stakeholder-oriented piuttosto che shareholder-oriented degli uomini (come nel caso della Svezia [3] riportato da Adams e altri nel 2011) e che i boards influenzati dalle quote di genere abbiano licenziato meno lavoratori (come è stato dimostrato per il caso della Norvegia [4] da Matsa e Miller nel 2013). Sempre per la Norvegia, paese pioniere nell’introduzione delle quote, un recente studio di Bertrand, Black, Lleras-Muney e Jensen [5] mostra che le quote possono avere anche effetti di ricaduta più ampi sull’intera società, per esempio contribuendo ad aumentare l’occupazione femminile.

Quando avremo disponibili un numero più ampio di dati, potremo valutare se l’introduzione delle quote nel nostro paese ha effetti positivi sulle condizioni di lavoro femminili e fare delle valutazioni accurate su tutti questi aspetti. Per ora esiste un forte contrasto tra la crescita della rappresentanza femminile nei boards e la situazione statica dell’occupazione femminile italiana, ferma ormai da anni ai livelli più bassi d’Europa, 47%, e il ranking dell’ Italia nel Global Gender Gap Index del 2013 che la vede al 97° posto per opportunità economiche.

Note
[1] Women in economic decision making in the EU, Luxemburg 2012 http://ec.europa.eu/justice/gender-equality/files/women-on-boards_en.pdf
[2] Schwartz-Ziv Martha (2013) Does the Gender of Directors matter? http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=1868033
[3] Adams, Renée B., Amir Licht e Lilach Sagiv (2011) Shareholders and Stakeholders: How Do Directors Decide?, Strategic Management Journal, 32 (12), 1331-1355.
[4] Matsa, David A. and Miller, Amalia R. (2013), A Female Style in Corporate Leadership? Evidence from Quotas, American Economic Journal: Applied Economics,vol. 5, (3) 136-196.
[5] Bertrand M., Black S., Lleras-Muney A., Jensen S., Breaking the glass ceiling: The effect of board quotas on female labor market outcomes in Norway, Slides presentate in Bocconi, Settembre 2012.

SICILIANI E RESISTENZA Relazione di Mauro Sonzini Torino, 4 novembre 2011

 

Ci sono due aspetti del rapporto Sicilia/Resistenza che a mio parere vanno indagati e approfonditi. Il primo, a tutti più noto e che trova esemplificazione nell’opera stessa di Pompeo Colajanni, è il contributo che i Siciliani offrirono alla Resistenza. Il secondo, assai meno conosciuto ma ben più intrigante, è quello che la popolazione siciliana offrì al crollo del fascismo e alla cacciata dei nazifascisti. Il primo aspetto si sviluppa nel centro-nord Italia fra 8 settembre 1943 e 25 aprile 1945, il secondo invece si svolge in Sicilia, grosso modo fra 10 giugno e 17 agosto 1943, quando i nazifascisti sono via via fatti evacuare dallo sbarco alleato in Sicilia. Non vi sono legami apparenti, al più contiguità temporale e spaziale. E’ possibile – io mi chiedo invece – che qualche correlazione vi sia?

 

Procediamo per gradi.

L’8 settembre 1943 è il giorno chiave della nostra storia civile: nessun altro giorno finora è stato così carico d’inquietanti problematiche essenziali per la nostra Nazione. L’armistizio con l’ignominiosa fuga a Brindisi del re, della corte e del governo, lascia il nostro popolo privo dello Stato, privo cioè dei vincoli che legano insieme fra loro i membri della sua società. L’ignominiosa fuga a Brindisi fa di peggio: lascia i brandelli abbandonati di questo Stato, cioè di tutti noi, nelle mani di un esercito e di una potenza straniera, quella nazista, di cui sino ad allora siam stati alleati ma nei cui confronti proprio l’armistizio si pone come palese atto di rottura: è come – mi si passi il parallelo – molestar il leone e immediatamente dopo mettergli nelle fauci la testa.

Lo Stato Italiano non c’è più. Ci son però gli Italiani, che non si sono ancor fatti – per usar il celebre enunciato risorgimentale – ma, se vogliono, possono scegliere. Non sceglier se star con o contro i nazisti. Sceglier d’esser Nazione, intendo, sceglier di costruir legami sociali e politici coi propri connazionali e, al posto dello Stato che li ha abbandonati, rendersi essi stessi Stato. Aver la lucidità di sceglierlo in quella condizione non è facile, non c’è davvero da invidiarli: pare persin poco facile a noi oggi che fruiamo del senno di poi.

Son davvero pochi gli Italiani che l’8 settembre scelgono, che sanno scegliere, che vogliono scegliere: lo fanno molti nostri soldati all’estero che, essendo compressi in un reggimento o una compagnia, restano uniti ma, essendo deboli e sguarniti come nazione, vengono subito disarmati e internati nei campi di prigionia in Germania. Oppure – peggio – vengono sterminati, come accade non solo a Cefalonia dove insieme ai suoi compagni, democraticamente, come fa una Nazione, il capitano messinese Vincenzo Saettone vota di non arrendersi ai nazisti e proseguir la Resistenza: per questo con tutti i suoi compagni merita, soprattutto in questa giornata dedicata al buono fatto dalle nostre Forze Armate, tutto il nostro ricordo e riconoscimento.

No, la stragrande parte degli Italiani sceglie d’attendere, di guardar cosa succede, di mettersi in un angolo ad aspettare. La mia non vuol esser critica, è constatazione: scegliere in quella condizione, l’ho già detto, è difficile. Si sceglie meglio se si può riflettere a fondo, soprattutto se si può accedere ad informazioni chiare e approfondite ma non è cosa di quei giorni dove tutto appare parziale e contraddittorio. Si sceglie meglio se si trova il conforto e il confronto di qualcuno di cui davvero ci si fida: in genere è la famiglia. Emerge qui evidente la sfortuna dei Siciliani: a partire dal 10 giugno le loro famiglie son state risucchiate al di là del fronte della guerra e risultano impossibili da raggiunger se non ponendo ripetutamente e scriteriatamente a repentaglio la propria incolumità. Per questo i Siciliani al centro-nord devono sceglier da soli, al più insieme ai propri compagni d’arme, neppur tutti però, solo quelli che non han potuto tornar verso casa, oppure quelli che han casa vicino. Ma questi ultimi, se vogliono, possono tornar a casa, raggiunger amici o conoscenti quasi in ogni momento, per qualsiasi evenienza. I siciliani invece non possono veder nessuno perchè subito destano sospetti e son perciò obbligati alla macchia: per questo la loro scelta è ben più impegnativa, anche perché va considerata la scarsa conoscenza del territorio, le assai diverse condizioni climatiche e sociali, l’impossibilità di trovar lecite e regolari fonti di reddito e, conseguentemente, di sostentamento. Per questo – accanto alle lodi ai partigiani siciliani – occorre obiettivamente riconoscere, in una società altamente e volutamente razzista, la propensione all’apertura e alla solidarietà da parte della popolazione settentrionale soprattutto montana.

Ma, quando ci sono, le lodi per i siciliani devono esser apertamente dichiarate. Come nel caso di Pompeo Colajanni, il comandante Barbato da Caltanissetta, che, forte di un saldissimo credo e d’un ancor più concreto agire comunista, già all’indomani dell’8 settembre sceglie la strada della Resistenza. Come nel caso di Vincenzo Modica, il comandante Petralia da Mazara del Vallo, che farà altrettanto, con la sola differenza di temere, a dichiararsi comunista, di spingersi troppo oltre, essendosi in passato già troppo compromesso con il fascismo. O come il capitano medico nativo di Palermo Giuseppe Scagliosi, responsabile sanitario della 1a divisione di Giustizia e Libertà, medaglia d’oro della Resistenza caduto in combattimento il 19 settembre 1944 a Turiny in val Vesubie in Francia. Ma fra gli alfieri della prima ora non posso tralasciare il prof. Concetto Marchesi da Catania, all’epoca rettore dell’Università di Padova e futuro membro della Costituente, che il 1° dicembre 1943, all’atto d’entrar in clandestinità per sottrarsi all’arresto, infiammò i suoi studenti con un appello che ancor oggi, alla luce della nostra attuale condizione, suona di straordinaria attualità: “Una generazione d’uomini ha distrutto la vostra giovinezza e la vostra patria. Traditi dalla frode, dalla violenza, dall’ignavia, dalla servilità criminosa, voi insieme con la gioventù operaia e contadina, dovete rifare la storia dell’Italia e costituire il popolo italiano. Non frugate nelle memorie o nei nascondigli del passato i soli responsabili d’episodi delittuosi; dietro ai sicari c’è tutta una moltitudine che quei delitti ha voluto e coperto col silenzio e la codarda rassegnazione; c’è tutta la classe dirigente italiana sospinta dall’inettitudine e dalla colpa verso la sua totale rovina. … Studenti, … per la fede che v’illumina, per lo sdegno che v’accende, non lasciate che l’oppressore disponga della vostra vita, fate risorgere i vostri battaglioni, liberate l’Italia dalla schiavitù e dall’ignominia, aggiungete al labaro della vostra Università la gloria di una nuova più grande decorazione in questa battaglia suprema per la giustizia e per la pace nel mondo”.

I dati di cui mi servo per questa prima parte della relazione, sono in gran parte frutto dello studio di una microsituazione specifica, quella delle formazioni resistenziali della val Sangone che ho avuto modo d’analizzare a fondo, ma i cui caratteri e dinamiche sono in gran parte riconoscibili in tutte le formazioni resistenziali del nord Italia. Se s’individuassero per il centro Italia lievi variazioni, per ciò che concerne i partigiani siciliani esse tuttavia deriverebbero realisticamente, più che dalla minor distanza dalla terra natale, dal progressivo avvicinamento e superamento della linea del fronte. 142 sono i partigiani siciliani attivi in val Sangone. Di loro solo 35 risultano emigrati dalla Sicilia antecedentemente alla guerra di Liberazione: ciò significa che la stragrande parte di loro si ritrova bloccata al nord per ragioni dipendenti dalla guerra. Ciononostante tra settembre e dicembre 1943 solo pochi bloccati al nord entrano nella Resistenza: la ragione credo stia nel fatto che, in assenza di forti convinzioni, i meridionali preferiscono cercarsi un quieto lavoro che consenta loro d’occultarsi in attesa di condizioni favorevoli, come a Cumiana fa un tale Peppino che fino alla Liberazione scaverà sabbia nel torrente Chisola. Forse allora non è un caso che fra i pochi a salire in montagna in questo periodo vi sia chi dalla sua ha radicati legami sociali, come il ventiduenne Alfonso Messina, nativo d’Agrigento ma da tempo emigrato a Torino con la famiglia che commercia tessuti di pregio. Alfonso è infatti parte della borghesia torinese ed è iscritto alla facoltà di legge. Contro il volere del padre, come lui dice “per un particolare incrocio di genetica, ambiente e esperienza” il 27/28 ottobre 1943 sale in montagna. Non vuol ruoli di rilievo: vive nei ranghi, per la prima volta a contatto con altre classi sociali, affidandosi con ponderazione a chi ha maggior esperienza di lui. Durante il rastrellamento del maggio 1944 un proiettile gli traverserà la gola, per una decina di giorni resisterà stoicamente salvandosi solo grazie a un’incredibile consonanza di sforzi, e a settembre, malgrado l’opposizione del padre, rientrerà in banda e vi resterà sino alla Liberazione guadagnandosi la medaglia d’argento al valore militare.

Fra gennaio e giugno 1944 è invece, oltre alla generale crescita di consapevolezza politica, il serrarsi delle maglie intorno, fra rastrellamenti nazifascisti e bandi d’arruolamento della RSI, a indurre i siciliani a entrar nella Resistenza. La consapevolezza che non v’è scampo, che è necessario schierarsi, che entrar nel gruppo e mettersi a disposizione, accresce la forza collettiva e, conseguentemente, anche le possibilità individuali di farcela, son motivazioni pratiche che spingono all’adesione chi la lotta l’ha già nel sangue, come il ventottenne pastore nicolosita Filippo Mazzaglia, nipote di Giuseppe, fondatore della locale casa del popolo e che a colpi di tegole la difese dal tetto quando i fascisti si presentarono a occuparla, o come il ventiquattrenne sancataldese Salvatore Lunetta salito a Giaveno perché lì aveva la ragazza e che in banda, entrato perché per lui la vita militare era ormai indigesta e senza sbocco, scopre l’autodisciplina: “la disciplina, per esempio, erano i problemi che tu, quando avevi da fare il tuo lavoro o il tuo turno o la tua azione, dovevi decidere, non eri obbligato a farla. Era una decisione che dovevi prender come … in famiglia”. Salvatore terminerà la Resistenza come comandante di distaccamento, poi entrerà nella polizia del Popolo, sarà assunto in R.I.V., diventerà segretario della sezione comunista della fabbrica e nel febbraio 1965 finirà licenziato nella grande epurazione per rappresaglia dei quadri operai. Filippo invece morirà fucilato il 16 maggio 1944 nella giornata della grande mattanza di Forno di Coazze. Ecco, ai siciliani, come ai meridionali, impossibilitati a raggiunger la propria, la banda partigiana appare come una nuova e grande famiglia. Al punto che, quando in azione contro il nemico qualcuno muore, come il 1° aprile 1944 a Cumiana l’agrigentino Calogero Moncada, in segno d’affetto, ancor prima che di ricordo, gli s’intitola l’intera formazione, cosa che accadrà a molti siciliani come il caltagironese Angelo Alliotta nell’Oltrepò o in Ossola ai fratelli palermitani Alfredo e Antonio Di Dio a cui presto verrà intitolata anche la sezione universitaria ANPI a Pavia. Non solo. Il comandante Giulio Nicoletta, meridionale pure lui e perciò altrettanto sensibile allo spirito di famiglia, chiede e ottiene dal comando nazista di recar il suo saluto ufficiale alla tomba di Calogero, guadagnandosi e facendo guadagnare al movimento di Liberazione rispetto, dignità e considerazione. Rispetto, dignità e considerazione che, con i loro raccapriccianti teschi, i militi della R.S.I. mai hanno cercato, né mai si son visti riconoscere e che oggi invece i loro epigoni bramano invano di fargli ottenere a mo’ di salvacondotto per una verginità d’intenti che mai hanno posseduto e che negli altri ripetutamente hanno insultato meritandosi spesso il biasimo degli stessi nazisti. Ciò mi spinge allora a dar merito anche a coloro che, imprigionati dopo l’8 settembre, internati in Germania e costretti ad arruolarsi nella R.S.I., una volta riconosciuta l’infame ruolo repubblichino, diserteranno e accorreranno fra le fila della rivolta morale della Resistenza, a volte con fortuna come il trentaduenne catanese Giovanni Vintaloro che libererà Torino con la brigata Sandro Magnone, a volte senza fortuna come il ventiquattrenne messinese Giuseppe Mondello che, confidando nella lealtà nazifascista, a dicembre 1944 accetta il bando che gli consente d’andar a lavorare come guardia al capannone Fiat a Borgonuovo di Rivoli ma viene arrestato, portato al suo battaglione SS italiano di stanza a Canzo in provincia di Como e, dopo varie malversazioni, alle 4,30 del 13 aprile 1945 fucilato assieme ad altri suoi compagni tra cui il catanese Domenico Pittari, le cui spoglie credo giacciano ancora a Canzo. Chissà se la sua famiglia ha mai saputo della sua sorte?

Certo, non tutti i siciliani premono per la prima fila. Vi è anche chi come il ventiduenne vicarese Sebastiano Canzonieri, entrato nella Resistenza già dal 19 settembre 1943 ma, innamoratosi pressochè subito d’una locale ragazza la cui famiglia lo prende sotto tutela e lo protegge risparmiandogli i terribili disagi della vita partigiana: dopo una vita insieme Sebastiano è mancato l’anno scorso, la ragazza, divenuta sua moglie, pochi mesi dopo di lui. Ma anch’egli fu una freccia in meno nell’arco nazifascista e una in più in quello resistenziale: in una storia dove anche la singola individualità ha il suo peso, anche questo ha valore. O come fu per i tanti siciliani o campani o toscani o piemontesi dell’ultima ora, pronti a salir sul carro del vincitore o magari, più semplicemente, bisognosi di più lenta maturazione o di maggior pressione da parte degli eventi.

Nella vicenda dei partigiani siciliani non si può tuttavia tralasciare la controversa pagina del ritorno. Dopo la liberazione di Torino il caterinese Carmelo Fiandacca, favorito guardiaspalle dei comandanti partigiani Guido Usseglio Mattiet e Michele Ficco della divisione GL Campana, partigiano dal temibile epiteto Carmelo il boia, dall’aspetto terrificante ma dal carattere umanissimo, dopo venti interminabili mesi di Resistenza e qualche mese da contadino rientra finalmente in famiglia a S. Caterina Villarmosa in provincia di Caltanissetta ma a ciel sereno viene raggiunto da un mandato d’arresto per la paurosa strage di Villarbasse. Ciò che Carmelo ignora è che, con notevole razzismo di ritorno, nel Torinese è stato sollevato nei suoi confronti un vero e proprio linciaggio mediatico che l’ha trasformato in ladro crudele e spaventoso, raccapricciante assassino, già in precedenza condannato a morte dai partigiani. Per sua fortuna proprio il giorno della rapina degenerata in strage, Carmelo s’è sposato al suo paese. Ciononostante viene tradotto a Torino, rinchiuso alle Nuove e solo tempo dopo liberato. Ma anche per gli altri partigiani il ritorno in Sicilia non è in genere tenero. Nelle sue forme più popolari la Resistenza è cultura del centro-nord Italia: poco d’essa trova spazio nell’immaginario siciliano. A casa, chi ha cambiato il Paese, soprattutto nel clima di restaurazione e separatismo da guerra fredda dietro cui s’agitano interessi mafiosi, pare non aver fatto nulla: il contadino isolato nelle campagne torna contadino isolato nelle campagne. Oppure emigra. Accadrà a Carmelo Fiandacca che diventerà imprenditore di scarpe in Venezuela. Accadrà persino al comandante Petralia che deciderà di tornare in Piemonte.

A qualcuno però non accade perché in quei venti mesi di Resistenza ha imparato a combattere e continuerà indefesso a combattere per quegli ideali. Il suo nome è Placido Rizzotto, da Corleone, partigiano divenuto segretario della locale Camera del Lavoro, infoibato il 10 marzo 1948 dalla mafia per le popolari battaglie a favore delle occupazioni delle terre incolte. Oppure si chiama Leonardo Speziale, da Serradifalco, partigiano protagonista di mille battaglie civili per i braccianti e le zolfare. E su questo retroterra s’innesta l’apporto d’un grande come Danilo Dolci che siciliano non è, e neppur partigiano, ma è perseguitato dal fascismo e a partire dal 1952 si trasferisce a Trappeto e a Partinico dove dà vita a grandiose lotte civili non violente. E non è forse un caso che proprio da tale retroterra in quegli stessi anni nasca un resistente straordinario come Peppino Impastato. Così come non è un caso che alla base dei successi sindacali degli anni 60 delle grandi città del nord vi siano quegli immigrati che nel sangue avevano la calda stagione delle lotte per la terra.

 

In realtà ciò che ho detto a proposito dei partigiani siciliani è ancora poco perché molto di più si potrebbe capire e dire se solo ci fosse la possibilità di poterci lavorare seriamente. Di tutti i partigiani siciliani si sa poco, di molti si sa molto poco. O persino nulla. Di Domenico Pittari ho già detto. Di Calogero Moncada si sa solo che era agrigentino. Di Cataldo Russo si sa solo che era siciliano, che s’era rifugiato a Grandubbione insieme a un altro siciliano di Villadoro di nome Vincenzo Ferrigno passato poi in val Sangone, che il 10 maggio 1944 è stato fucilato a Pinasca e la sua salma è sepolta tra i 98 protagonisti dell’Ossario dei Caduti Partigiani di Forno di Coazze. Di Sebastiano Latone, fucilato il 18 luglio 1944 a Nus in Valle d’Aosta, si può solo supporre che sia siciliano, forse nisseno. Tutti protagonisti della nostra storia verso i quali siamo debitori del nostro presente e che con esso lasciamo vergognosamente e quotidianamente tramontare nella trascuratezza e nell’oblio.

 

Ma nell’oblio e nella trascuratezza vi è da sempre un’altra importante pagina che riguarda la Sicilia. Ancora pochi giorni fa fra le mani m’è capitato un volume curato dall’ANPI zona 5 di Milano in cui si legge che in Sicilia e nel resto del Sud non vi fu Resistenza. Non è solo  dimenticanza o errore, è insulto a tutti coloro che vi misero in gioco la proprie e le altrui vite. La Resistenza in Sicilia vi fu, eccome. Certo, furono forse episodi isolati, reazioni spontanee, non collegate fra loro. La differenza con la Resistenza del centro nord è che avvenne troppo presto, non ebbe la possibilità di dar vita a una vera e propria organizzazione popolare, non vi nacquero – per intenderci – i CLN. Ma indiscutibilmente vi fu.

 

Procediamo anche qui per gradi.

Le battaglie di Stalingrado e El Alamein capovolgono totalmente lo scenario della seconda guerra mondiale trasformando gli aggressori in aggrediti. In più ci troviamo improvvisamente a far fronte allo sbarco in nord Africa dell’esercito americano che alle Midway s’era nel frattempo sbarazzato del pericolo giapponese. Rapidamente e inesorabilmente va in pezzi l’invicibile e spocchioso modello fascista, processo  già in atto da diversi anni, almeno dall’inizio degli anni ‘30 ma che nessuno ha finora voluto seriamente considerare. Men che mai Mussolini, autore il 24 giugno 1943 di quel ridicolo sketch che è il discorso del bagnasciuga: “Bisogna che non appena il nemico tenti di sbarcare sia congelato su quella linea che i marinai chiamano del “bagnasciuga”, la linea della sabbia, dove l’acqua finisce e comincia la terra. E se per avventura dovessero penetrare, bisogna che le forze di riserva, che ci sono, si precipitino sugli sbarcati annientandoli sino all’ultimo uomo. Di modo che si possa dire che hanno occupato un sol lembo della nostra patria ma rimanendo sempre in posizione orizzontale, mai verticale”. Per tutta risposta sabato 10 luglio 1943 gli angloamericani cominciano l’operazione Husky: al comando del generale Patton la VII armata statunitense sbarca tra Scoglitti e Gela mentre l’VIII armata inglese sbarca tra Pachino e Siracusa. Sono 180.000 uomini, 3700 aerei, 280 navi da guerra, 320 navi da trasporto, 2125 mezzi da sbarco: si tratta, scrive Giorgio Rochat, della più grande operazione anfibia realizzata sino ad allora. Preoccupato d’incontrar accanita resistenza da parte delle truppe naziste e italiane, Eisenhower spinge Patton ad esser molto duri e decisi ma dinanzi egli si trova una popolazione sfinita, affamata, in preda a miseria e arretratezza, conscia dell’inesorabilità di ciò che avviene. D’altronde la stessa presenza dell’esercito italiano è fonte d’imbarazzo per i Siciliani: maggior resistenza significa maggior danno per il loro territorio e maggiori danni per quei poveri ragazzi assolutamente non responsabili di tale situazione. Per questo non riservano loro molte attenzioni. Dinanzi alla manifesta inferiorità, diversi nostri ufficiali invitano le proprie truppe a attender gli eventi senza prender iniziative avventate: Felice Cordero di Pamparato, il comandante Campana della nostra Resistenza, si limita a operazioni d’artiglieria atte a tener il più possibile in stallo lo sbarco. E chi s’azzarda a sfoggiar condanne a morte per diserzione, deve far loro fuoco al posto del plotone che si rifiuta di sparare. L’accoglienza agli angloamericani è per contro calorosa ma, scrive Antonio Costanzo, “perché quegli elmetti a forma di padella significavano la fine delle privazioni e della fame. Rappresentavano anche la fine del fascismo ma era l’ultima considerazione … dato che, per prima cosa, quei soldati significavano cibo”.

La mancata difesa dell’isola produce un effetto sgretolante sul fascismo con reciproche accuse di tradimento, incompetenza e viltà tra comandi delle forze armate italiane, gerarchi fascisti e comandi nazisti, e inevitabilmente si riflettono sui rapporti tra Italia e Germania. Sempre più i nazisti intuiscono che agli Italiani la guerra non interessa più, che se la devono sbrogliar da soli e ne traggono le logiche conseguenze. Ne deriva una situazione tanto complessa quanto confusa, con tutto un carico di precarietà: a fronte della lusinga di marca angloamericana di ricchezza e abbondanza fatta di generi alimentari, sigarette, persino di ballo, avvengono razzie, furti a mano armata, violenze su donne e anziani, spacconate riservate alle truppe ubriache, che si sommano ad appropriazioni e saccheggi prodotti dal disfacimento e dalla fuga dell’esercito nazifascista. A svolger funzione mediatrice fra gli interessi degli occupanti e le esigenze della popolazione sono i militari italoamericani. E, in assenza di locali forze dell’ordine in grado di salvaguardar la vita civile, non vi è contesto migliore in cui la mafia possa infiltrarsi e radicarsi con tutto il suo potenziale di malaffare, offrendo su un piatto d’argento agli Americani ciò che a loro più serve: la quiete locale. D’altronde è noto che a tal fine settori dello Stato Americano li hanno deliberatamente contattati.

Ma non tutto va bene. Martedì 13 luglio a Piano Stella presso Acate in provincia di Ragusa soldati americani e soldati italiani in fuga passano ripetutamente dinanzi alle case, a volte in modo amichevole, a volte aggressivo: gli abitanti non sanno come comportarsi e i quadri di Mussolini vengono in fretta bruciati pur se è stato il fascismo a assegnar loro le terre. Non è chiaro cosa succeda. Un paracadutista americano, ferito, è curato da coloro che poco dopo diverranno vittime. Le camicie nere indossate per lutto sarebbero state confuse con quelle fasciste, carnagione e capigliatura chiara di alcuni locali avrebbero indotto gli americani a scambiarli con militi nazisti, vi sarebbero sospetti di sciacallaggio a carico delle vittime. Di fatto il quattordicenne Giuseppe Ciriacono assiste all’uccisione di papà Giuseppe e quattro altri contadini catturati nei pressi della loro abitazione. Poco lontano nello stesso pomeriggio altri due coloni vengono uccisi. Dubbia è anche l’uccisione di diversi prigionieri italiani all’aeroporto di Biscari. Le stragi finiscono rimosse: da un lato pesa la fatalità della situazione, dall’altro l’urgenza d’allinearsi alla posizione atlantica. Intanto pian piano procede la presa di possesso dell’isola: giovedì 15 luglio gli Alleati occupano Augusta, sabato 17 luglio entrano ad Agrigento, giovedì 22 luglio prendono Palermo.

Martedì 20 luglio un fonogramma del questore di Catania segnala: “Senza farina e senza acqua 30.000 persone che s’addensano nei malsicuri rifugi, son sottoposte giorno e notte a incessanti terrificanti bombardamenti aerei e navali che vanno trasformando la città in un cumulo di rovine. Dovunque sono imprecazioni e invocazioni perché si risparmi la totale rovina della città. A questo stato doloroso e pietoso delle cose aggiungansi le violenze dei tedeschi che non riconoscono più alcuna autorità italiana e si sentono padroni assoluti. Armi in pugno s’impossessano delle macchine maltrattando tutti e dichiarando che in caso di ritirata dalla piana di Catania e paesi etnei, lasceranno un mucchio di rovine”. Già, i nazisti: traditi dai proclami fascisti e dalla mancata resistenza italiana allo sbarco, da giovedì 22 luglio prendono a organizzarsi da soli. Il generale Hube schiera ogni forza (la 1a divisione paracadutisti, la divisione Goering, la 15a divisione corazzata Granatieri e la 26a corazzata) lungo l’Etnastellung, la linea dell’Etna, il fronte che descrive un grande arco intorno alla base dell’Etna con la sinistra che arriva alla costa jonica e la destra a quella tirrenica: natura del terreno e fronte non troppo ampio consentono resistenza prolungata e ordinato ripiegamento su Messina in vista del definitivo abbandono dell’isola. Inframmezzati ai nazisti reparti italiani continuano a combattere.

L’ennesima picconata arriva da Roma: la sbruffonata del bagnasciuga costa cara a Mussolini perchè Dino Grandi chiede al Gran Consiglio del Fascismo la restituzione dei poteri di Mussolini al re: alle ore 3 di domenica 25 luglio il suo ordine del giorno è approvato con 19 voti favorevoli, 7 contrari e due astenuti. Alle ore 17 a malincuore Mussolini, certo in cuor suo della riconferma, reca la decisione al re che invece lo informa che sarà sostituito dal maresciallo Pietro Badoglio: a fine udienza finisce pure agli arresti. Il fascismo è caduto e i nazisti sentono ancor più venir meno la terra sotto i piedi. Come già rilevato dal questore di Catania, essi non riconoscono più alcuna autorità e considerano tutto in funzione della propria salvezza se non della propria sopravvivenza. In primo luogo muli e cavalli, strumento primario di trasporto per la fuga sugli accidentati terreni delle province di Catania e Messina. Son proprio i furti di tali animali a determinar le prime forme di Resistenza siciliana e, perché no, italiana. A Mascalucia martedì 3 agosto l’ennesimo furto da parte di soldati della Wehrmacht attizza prima lo scontro coi soldati italiani, poi quattro ore di rivolta armata di decine di cittadini e militari con quattordici soldati nazisti e tre italiani morti: solo la mediazione del comando dei carabinieri estingue il fuoco della ribellione. Lo stesso giorno anche a Pedara il podestà Gaetano Scandurra si pone alla testa di un centinaio di cittadini pronti a scontrarsi coi nazisti. Ulteriori episodi si verificano mercoledì 4 agosto a S. Giovanni Galerno e giovedì 5 agosto a Belpasso e a Valverde dove soldati della divisione Goering invadono la tenuta dei monaci eremiti di S. Anna, saccheggiano la fattoria, s’impadroniscono di frutta e carne, fanno strage d’animali da cortile e da stalla e poi spingono il fattore frate Arcangelo in una grotta, e, strappato di mano il rosario, lo abbattono a colpi di pistola. Ad Adrano i nazisti della 15a divisione granatieri corazzata, in ritirata da Regalbuto a Troina lungo la valle del Simeto, seminano razzia e distruzione fra i piccoli poderi della campagna, bruciano magazzini, asportano provviste alimentari e animali da soma celati fra gli alberi: per frapporre ostacoli i contadini cominciano ad abbattere i muretti delle strade vicinali che i loro padri avevano strappato alla lava e trasformato in frutteti. Improvvisato un campo in contrada Martina, a Biancavilla i nazisti saccheggiano a piacere il paese abbandonato e le case di campagna dove però incontrano resistenza: due di loro sono uccisi dopo aver rubato bestie da soma. Tre nazisti che requiscono muli, sono uccisi a colpi di fucile a Ragalna: il comando nazista rastrella dodici ostaggi da passar per le armi ma il capitano della milizia riesce a evitare il massacro convincendoli a cercar subito la fuga piuttosto che perdersi in atti dimostrativi dato che premono alle loro calcagna i primi soldati dell’VIII Armata. Il carrista austriaco Marwan-Schlosser riferisce il commento del colonnello Heilmann: “Stamane alcuni nostri uomini son stati uccisi in agguato. Come abbiam saputo, l’azione non era dovuta a partigiani ma a proprietari d’asini e muli che avevamo sequestrato per portar in montagna i nostri rifornimenti. Alla maniera siciliana i proprietari hanno attuato la sanguinosa vendetta contro i tedeschi considerati come una famiglia, una stirpe. … In genere i siciliani non amano gli animali, piuttosto li maltrattano, ma in questi luoghi di montagna ne hanno bisogno per aiutarsi nella loro vita faticosa. Essi giudicano le confische come rapine che possono far espiare solo con la vendetta”.

Non son solo i beni siciliani a interessar ai nazisti. Anche ai siciliani possono interessar beni dell’esercito nazista, come indennizzo dell’occupazione o semplicemente come benefici a fronte della propria necessità acuita dalla guerra: mercoledì 11 agosto qualche abitante di Cesarò infligge un’imboscata o un furto ai nazisti accampati in ritirata sulla strada per Randazzo.

Alle 7.30 di giovedì 12 agosto una trentina di nazisti al comando d’un ufficiale entrano in Castiglione su alcuni autocarri e un carro armato: gli abitanti che sono sul soglio o sui balconi di casa ad attendere l’imminente arrivo degli Inglesi, credono sian di passaggio in ritirata. Ma all’ingresso scassinano senza motivo una casa, poi avanzano verso la parte alta del paese dove c’è il municipio sparando in tutte le direzioni, uccidendo e buttando bombe a caso: un albergatore è ucciso mentre apre la porta, a un uomo una bomba recide di netto la testa sul marciapiede dinanzi casa. Esigono che le porte sian spalancate e poi, puntando fucili e pistole, ammassano uomini d’ogni età in tre botteghe, una accanto all’altra. Al mattino dopo i prigionieri son caricati sui camion e portati in campagna in una vecchia fortezza adibita ad ovile: l’arciprete Giosuè Russo tenta invano la trattativa. Intorno alle ventitrè e trenta non scorgon più sentinelle e in lontananza odono le mine distruggere i ponti sulla strada che circonda il paese. Venti sono i feriti ma ben sedici sono i morti. E di stragi ce ne son altre, di cui ancora poco o nulla si sa. Sabato 14 agosto 1943 a S. Alessio Siculo vengono uccisi il parroco del paese rev. Antonio Musumeci e i coniugi Cosimo Scarcella e Lotteria Melandri. Lo stesso giorno in località Chiusa Ponte Gallo a Castanea delle Furie vengono uccisi l’appuntato Antonino Rizzo e i carabinieri Tindaro Rizzo, Antonio Caccetta, Nicolò Pino e Antonino Vacampo. Anch’essi aspettano, se non giustizia, almeno il pubblico riconoscimento del loro sacrificio.

Martedì 17 agosto finalmente le truppe nazifasciste evacuano dalla Sicilia. E mentre diviene operativa la rete fascista clandestina “Guardia ai Labari” coordinata dal principe calabrese Valerio Pignatelli, mentre s’avvicina l’8 settembre, l’inizio della Resistenza con i siciliani che daranno il proprio contributo fuori regione, questa pagina di Resistenza via via tramonta nella notte della normalizzazione voluta ed imposta.

Oggi però è un altro giorno: occorre che al più presto, attraverso approfonditi e puntuali studi e divulgazioni mirate, una nuova luce faccia prontamente riemergere quest’immenso patrimonio dimenticato di cui tutti noi Italiani non possiamo che andar fieri.

 

 

 

 

 

 

 

 

ELENCO DEI PARTIGIANI SICILIANI

ATTIVI IN VAL SANGONE

1) Corrado Agnello1           Pachino (Siracusa)

2) Corrado Agnello2           Pachino (Siracusa)

3) Salvatore Alessi              Vittoria (Ragusa)

4) Attilio Aloisi                    Palermo                                            Torino

5) Antonino Amata             S. Agata Militello (Messina)          Scalenghe (TO)

6) Ignazio Amato                 Vizzini (Catania)

7) Luigi Anselmi                 Agrigento

8) Carmelo Arena                Modica (Ragusa)

9) Alfredo Attardi               Enna

10) Riccardo Bechis             Palermo                                            Torino

11) Giovanni Bella              Comiso (Ragusa)

12) Ignazio Beluardo          Palazzolo Acreide (Siracusa)

13) Giuseppe Bianco          Vittoria (Ragusa)

14) Enzo Boccadifusco       Catania                                             Torino

15) Domenico Boggio         Palermo                                            Beinasco (To)

16) Antonio Bongiovanni   Messina                                            Avigliana (To)

17) Vincenzo Bonura          Palermo

18) Antonino Borgese         Misilmeri (Palermo)

19) Sebastiano Bucca          Barcellona Pozzo Gotto (Messina)           Giaveno

20) Giovanni Burgio           Palazzolo Acreide (Siracusa)

21) Sebastiano Canzonieri Vicari (Palermo)

22) Giacomo Cappello       Belmonte Mezzagno (Palermo)

23) Giorgio Cappello          Modica (Ragusa)

24) Giovanni Cappello       Vittoria (Ragusa)

25) Vincenzo Caravello      Monreale (Palermo)

26) Giovanni Cardaci          Marina di Ragusa (Ragusa)

27) Carmelo Catania           Acireale (Catania)

28) Giuseppe Ciaulumino Belmonte Mezzagno (Palermo)

29) Paolo Cirino                  Enna

30) Paolo Coniglio              Palermo                                            Giaveno (To)

31) Franco Cottoni               Realmonte (Agrigento)                  Torino

32) Giuseppe Crescenzio   Favara (Agrigento)

33) Orazio Di Noto             Gela (Caltanissetta)

34) Giuseppe Di Pietro      Gela (Caltanissetta)

35) Francesco Di Trapani   Palermo                                            Torino

36) Domenico Falla             Scicli (Ragusa)                                 Rosta (To)

37) Vincenzo Farina                        Mazara del Vallo (Trapani)

38) Gaetano Ferba               Palermo

39) Francesco Ferrandi       Cinisi (Palermo)

40) Angelo Ferrari               Palermo

41) Antonio Ferrigno          Mistretta (Messina)

42) Vincenzo Ferrigno        Villadoro (Enna)

43) Carmelo Fiandaca         S. Caterina Villarmosa (Caltanissetta)

44) Vincenzo Finocchiaro  Paternò (Catania)

45) Carmelo Forastieri        Palermo

46) Benedetto Gaglio          Cinisi (Palermo)

47) Rosario Gargano           Collesano (Palermo)

48) Francesco Garofalo       Pachino (Siracusa)

49) Giuseppe Garufi           S. Teresa di Riva (Messina)

50) Vito Giorlando              Alcamo (Trapani)                            Grugliasco (To)

51) Riccardo Guastella       Bivona (Agrigento)                         Torino

52) Liborio Ilardi                 Raddusa (Catania)

53) Giovanni Inserra           Roccapalumba (Palermo)              Roma

54) Calogero Internullo      Caltavuturo (Palermo)

55) Filadelfo Italia               Lentini (Siracusa)

56) Giuseppe La Bella        Riesi (Caltanissetta)

57) Remo La Rosa               Gela (Caltanissetta)                        Torino

58) Giuseppe Lanza                       Regalbuto (Enna)

59) Giovanni Leone            Naro (Agrigento)

60) Antonio Librizzi           Petralia Sottana (Palermo)

61) Giuseppe Lo Gerfo       Misilmeri (Palermo)

62) Pasquale Lo Iacono      Gela (Caltanissetta)

63) Nunzio Lodato              Niscemi (Caltanissetta)

64) Antonio Lucenti                        Sicilia

65) Salvatore Lumia                       Palma Montechiaro (Agrigento)

66) Salvatore Lunetta          S. Cataldo (Caltanissetta)

67) Rosario Macauda          Modica (Ragusa)

68) Leonardo Malatia         Termini Imerese (Palermo)

69) Gian Salvatore Mancuso         Mazzarino (Caltanissetta)

70) Francesco Maniscalco  Palermo

71) Lorenzo Marchione      Montelepre (Palermo)                    Torino

72) Carmelo Marciante       Palermo                                            Torino

73) Alberto Marino             Palermo

74) Vincenzo Marino          Marsala (Trapani)

75) Giuseppe Martorana    Giuliana (Palermo)

76) Francesco Masia            Palermo

77) Filippo Mazzaglia        Nicolosi (Catania)

78) Carmelo Merendino     Raccuja (Messina)                           S. Antonino di Susa (To)

79) Alfonso Messina           Agrigento                                         Torino

80) Antonio Messina           Ficarra (Messina)

81) Nunzio Messina                       Casteltermini (Agrigento)

82) Paolo Milazzo               Campobello di Licata (Agrigento)

83) Calogero Moncada       Agrigento

84) Giuseppe Moncada      Rosolini (Siracusa)

85) Giuseppe Mondello     Messina

86) Francesco Paolo Montalto       Palermo

87) Gaetano Montesanto    Casteldaccia (Palermo)

88) Alberto Morino             Palermo

89) Adolfo Mortellaro        S. Stefano Quisquina (Agrigento)

90) Enrico Mortellaro         S. Stefano Quisquina (Agrigento)

91) Nino Motta                    Raffadali (Agrigento)                     Torino

92) Wladimiro Motta          Raffadali (Agrigento)                     Torino

93) Antonio Muscueri        Acireale (Catania)

94) Sebastiano Musso         Palazzolo Acreide (Siracusa)        Torino

95) Cataldo Pane                 Gangi (Palermo)

96) Salvatore Paterniti        Palermo                                            Torino

97) Gaetano Pecoraro         Prizzi (Palermo)

98) Giorgio Pelligra                        Gela (Caltanissetta)

99) Angelo Perno                Riesi (Caltanissetta)

100) Giorgio Petrotta          Piana dei Greci (Palermo)

101) Riccardo Pirri              Palermo

102) Salvatore Pirrone        Palermo                                            Grugliasco (To)

103) Salvatore Piticchio      Palagonia (Catania)

104) Domenico Pittari         Catania

105) Santo Pittera                Trecastagne (Catania)

106) Carmelo Pluchino       Modica (Ragusa)

107) Giuseppe Pollara        Prizzi (Palermo)                              Torino

108) Giuseppe Prestipino  Basilicò (Messina)

109) Pietro Riccobono        Montelepre (Palermo)                    Grugliasco (To)

110) Carmelo Ricotta          Costanturo (Palermo)

111) Giuseppe Rini             Caccamo (Palermo)                        Avigliana (To)

112) Domenico Rosa           Ispica (Ragusa)

113) Giuseppe Rozzini       Erice (Trapani)

114) Vito Ruisi                     Palermo

115) Cataldo Russo             (Sicilia)

116) Paolo Saccuzzo           Lentini (Siracusa)

117) Antonio Saitta              Maletto (Catania)

118) Francesco Santapaola Catania                                             S. Antonino (To)

119) Michele Sardo             Caltanissetta                                    Torino

120) Orazio Scandura         Acireale (Catania)

121) Carmelo Scuderi         Novara di Sicilia (Messina)

122) Francesco Seminara    Gangi (Palermo)

123) Francesco Seminara    Gangi (Palermo)

124) Angelo Seminato        Piazza Armerina (Enna)                 Torino

125) Paolo Sessa                  Pachino (Siracusa)                          Torino

126) Sebastiano Simone      Scordia (Catania)

127) Giuseppe Sorci                       Bagheria (Palermo)

128) Giuseppe Sparacio     Carini (Palermo)

129) Biagio Strano               Misilmeri (Palermo)

130) Gaetano Stuppia         Mazzarino (Caltanissetta)

131) Leonardo Tornabene Palermo                                            Piossasco (To)

132) Francesco Torre           Milazzo (Messina)

133) Salvatore Valuit          S. Stefano Quisquina (Agrigento)

134) Vincenzo Vinci                       Mazzarino (Caltanissetta)              Orbassano (To)

135) Giovanni Vintaloro    Catania

136) Antonino Viola           Castelvetrano (Trapani)

137) Michele Viola              Grammichele (Catania)

138) Antonino Virzì                        Cesarò (Messina)

139) Salvatore Vitale           Castel di Iudica (Messina)

140) Cristoforo Vivacqua   Ravanusa (Agrigento)

141) Francesco Zoè             Mistretta (Messina)

142) Emanuele Zuppardi  Gela (Caltanissetta)

Catania, 2-3-4 luglio: ANPI Catania aderisce alla “Festa in Corso”, organizzata dal Comitato Antico Corso. Si invita a partecipare

manifesto ing def (1)

Comitato Popolare  Antico Corso

                                                               Catania

Festa….in corso

2 –  3 –  4  luglio

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