Dalla Chiesa, il Generale ucciso dallo Stato da: antimafia duemila

lodato dalla chiesa bnLe lapidi non dicono tutto
di Saverio Lodato
Carlo Alberto dalla Chiesa? Chi era costui? Perché venne assassinato? Cosa rappresentò davvero il suo sacrificio? Ne valse la pena? Chi glielo fece fare? Gli italiani fecero tesoro del suo insegnamento? Le lapidi invecchiano. E più di tanto non possono dire.
Le lapidi, per loro natura, sono avare di parole e di atmosfere, laconiche, quasi dispettose in quell’ indicare appena un nome e qualche data.
Il tempo scorre.
La Sicilia e l’Italia sono assai lontane da quelle di allora.
E qualche giorno fa, Rita, una dei tre figli di Dalla Chiesa, ha lamentato su Facebook che la lapide in ricordo del sacrificio di suo padre si trovava in stato di abbandono. Il sindaco della città, Leoluca Orlando, l’ha fatta subito sistemare e ripulire, restituendo così decoro a un luogo di passaggio obbligato nel centro di Palermo che però, è questo il punto, non è mai diventato effettivo luogo di raccoglimento e di memoria.
A Palermo, di Carlo Alberto dalla Chiesa resta un pallidissimo ricordo.

I giovani non conoscono la sua storia, non sanno che con quella strage in via Carini si raggiunse per la prima volta il vertice di un’escalation di violenze criminali che negli anni a venire avrebbe avuto innumerevoli repliche; credono, in buona sostanza, che il vero inizio della lotta alla mafia sia da collocare dieci anni più tardi, con i sacrifici di Falcone e Borsellino e le relative stragi. Altrimenti non si capirebbe perché gli anniversari dell’agguato che il 3 settembre 1982 costò la vita al “carabiniere” Dalla Chiesa e alla sua giovane moglie, la crocerossina Emanuela Setti Carraro, si rincorrano mesti, poco partecipati, poco appetibili per la grancassa dei media che ormai, 33 anni dopo, ha altro cui pensare.
Eppure c’è qualcosa di particolarmente sinistro che accomuna la strage di via Carini e quella di Capaci, ed è il fatto che in entrambi i casi venne aperto il fuoco anche contro le mogli di un carabiniere e di un magistrato, in dispregio del vecchio adagio mafioso che imponeva di non coinvolgere donne e bambini nei regolamenti di conti: il binomio Dalla Chiesa – Setti Carraro anticipò infatti di dieci anni esatti il binomio Falcone – Morvillo (binomio, questo, che resterà, a dispetto della separazione cimiteriale dei poveri resti di entrambi, per decisione dettata dal desiderio irrefrenabile di “occhio di mondo” di Maria, una delle sorelle di Falcone).
Sebbene, dopo quegli eventi, una valanga di cadaveri, altrettanto “illustri”, eccellentissimi, piegò la Sicilia, quella modalità d’esecuzione non si ripeté mai più.
Si trattò di un caso? Del capriccio delle coincidenze della storia? Dalla Chiesa non poteva essere ucciso da solo? Falcone non poteva essere ucciso da solo?
Decenni di inchieste, e di opinioni, ci hanno spiegato che no, non potevano essere uccisi da soli, perché il monito doveva apparire gigantesco, assumere valenza quasi biblica, affinché i vivi non raccogliessero mai più l’esempio di Dalla Chiesa e di Falcone. Ci è sempre sembrata una tesi parente stretta dell’affermazione che dice : “cosa fatta capo ha”. In altre parole, non ci aiuta a capire chi fu il mandante. E perché la “regola” fu infranta?
Perché – è la domanda che resta – questo trattamento fu riservato solo a loro? E’ una domanda che forse può tornarci utile oggi, a poche ore dal giorno dell’anniversario.
Andiamo ai fatti. Dalla Chiesa, da vivo, nei suoi “cento giorni” di missione in terra di Sicilia, non fu mai amato dai palermitani. Fu irriso, vilipeso, ostacolato. Non godeva di buona stampa. Venne percepito, lui piemontese, lui alto graduato dell’ Arma, lui castigamatti delle brigate rosse, lui che aveva indagato sulla esecuzione di Aldo Moro, lui che parlava ad alta voce nella città di atavici silenzi, lui che “andava sull’uomo”, come si direbbe calcisticamente, rendendo la vita difficoltosa ai rappresentanti dei potentati economici, affaristici, politici e istituzionali siciliani, fu percepito, dicevamo, come un corpo estraneo. Simpatie zero, o poco più, perfino da parte della società civile.
Perché? Basterà ricordare che, in quel momento, le fila del potere democristiano erano in mano a un signore elegantemente vestito di nero che rispondeva al nome di Giulio Andreotti. E che la sua corrente, quei bravi ragazzi altrimenti detti gli “andreottiani di Sicilia”, aveva a Palermo la sua casa madre, la sede centrale della ditta.
E che l’economia siciliana, invece, era rappresentata dai cugini Nino e Ignazio Salvo, dal potentato dei Cassina, dai quattro “cavalieri catanesi” del lavoro, i Costanzo, i Rendo, i Finocchiaro , i Graci, mentre, su tutti, incombeva l’ombra nera di Vito Ciancimino, allora nel fiore dei suoi anni delinquenziali.
A tutti costoro, nessuno escluso, sin dal primo giorno del suo insediamento, Dalla Chiesa dichiarò una guerra aperta e senza esclusione di colpi. Nei fatti, ancor prima che a parole. E non dimentichiamo, a completamento del quadro, il famigerato “clan dei corleonesi”, vecchia conoscenza del generale che, proprio in quel di Corleone, decenni prima aveva mosso i suoi primi passi investigativi.
A peggiorare le cose, poi, ci stava tutto quanto era già accaduto “prima” del suo arrivo.
Erano stati assassinati il capo della squadra mobile di Palermo, Boris Giuliano, il giudice Cesare Terranova, il presidente della regione siciliana, Pier Santi Mattarella, il capitano della compagnia dei carabinieri di Monreale, Emanuele Basile, il procuratore capo di Palermo, Gaetano Costa, il primario di chirurgia vascolare dell’“Ospedale Civico” di Palermo, Sebastiano Bosio, l’imprenditore Pietro Pisa, il segretario del PCI siciliano, Pio La Torre.
Dalla Chiesa, insomma, si ritrovò paracadutato, anche per sua nobilissima richiesta, nel cratere di un vulcano in piena attività.
Infine, un’ altra cosa che va ricordata, ma di incommensurabile portata se si vuol capire cosa accadde 33 anni fa, è che a Roma Dalla Chiesa venne insignito del titolo di “prefetto”, ma i poteri effettivi di prefetto chiamato a fronteggiare la mafia nella tana del lupo, non gli vennero mai concessi. E nonostante lui stesso li rivendicasse platealmente.
C’è un altro, chiamiamolo così, dettaglio: Dalla Chiesa non ebbe alcuna remora a far sapere all’ uomo in nero, Giulio Andreotti, che avrebbe dato filo da torcere proprio alla sua corrente siciliana in quanto fortemente sospettata di collusione con le cosche mafiose. Il tutto, nero su bianco, in una lettera a Giovanni Spadolini, presidente del consiglio in quel momento. La misura fu presto colma.
Me ne parlò apertamente ai primi di agosto del 1982, un mese prima della sua morte.
Lo incontrai, per un’intervista che pubblicai sul quotidiano “L’Unità” in ricordo del procuratore Gaetano Costa che lui aveva conosciuto, a Villa Whitaker , nella sede della Prefettura di Palermo. In quello scorcio di anno, giusto per ricordare, le vittime di mafia a Palermo erano già ottantadue.
Dalla Chiesa era solo. Parlava come una persona consapevole ormai della propria solitudine. Non aveva attorno, pur essendo il prefetto di una Palermo in guerra, alcun segretario, alcun collaboratore, neanche un passacarte.
Chi incarnava, in quel momento, lo Stato?
Lui, in tutta la sua solitudine? In tutta la sua determinazione, la sua tenacia, la sua lucidità di analisi e di giudizio che lo spinse addirittura a prevedere, in quell’intervista, che stava per manifestarsi il pentitismo fra le fila dei mafiosi? O la pletora di tutti quelli che volevano la sua fine e che quel giorno scelsero di restare nell’ombra? Che ne studiavano silenziosamente le mosse, per riferire diligentemente e in tempo reale agli interlocutori di quei “poteri romani” che facevano il doppio gioco?
Dalla Chiesa – è questo che vogliamo dire – si sentiva di essere lo Stato, di rappresentarlo, di servirlo. In questo, proprio come Falcone. E ne aveva ben donde, visto il suo smagliante curriculum di uomo al servizio della legge. Ma c’era il piccolo particolare che lo Stato, quello autentico, quello che lo aveva spedito in Sicilia a tamburo battente, quando la temperatura criminale si era eccessivamente surriscaldata, in cuor suo lo voleva morto.
In questo, proprio come Falcone e Borsellino.
Non fu un caso che mentre le forze dell’ordine si precipitarono fra ululati di sirene e lampeggianti nel luogo dell’eccidio, in via Carini, dove oltre a Dalla Chiesa ed Emanuela morì il fedele autista, l’agente Domenico Russo, ombre furtive entrarono in Prefettura, violarono la cassaforte del generale, fecero sparire per sempre i documenti più scottanti che lui stesso aveva raccolto durante i suoi “cento giorni” a Palermo. E che raccoglievano nomi, cognomi e indirizzi della Sicilia criminale di allora.
Storia questa, sia detto per inciso, che si sarebbe ripetuta con i diari di Falcone e l’agenda rossa di Paolo Borsellino. Sul luogo dell’agguato, poi, comparve la scritta: “qui è morta la speranza dei siciliani onesti”. Parole preveggenti di quanto sarebbe accaduto in epoca successiva.
Ora forse, 33 anni dopo, sarebbe giunto il momento di dire che Carlo Alberto dalla Chiesa venne assassinato dalla tenaglia congiunta dello Stato-Mafia e della Mafia-Stato che avevano tutto l’interesse, a Roma come a Palermo, di vederlo morto.
Troppo a lungo, infatti, è durata la stucchevole bagatella che ha fatto da colonna sonora in questi decenni di un Carlo Alberto dalla Chiesa “ucciso dalla mafia”.
La mafia, certo, fece la sua parte. Ma quella strage rappresentò molto di più.
Fu il tentativo disperato di ristabilire un ordine delle cose che vedeva tutti i potenti a braccetto, e che per ciò non poteva contemplare figure esemplari, schegge impazzite, personalità istituzionali “fuori rotta” e che entravano inevitabilmente in rotta di collisione con le istituzioni romane.
Il regista collettivo della strage di Via Carini incluse nel copione anche l’eliminazione di Emanuela Setti Carraro per far capire che non sarebbero stati tollerati altri ammutinamenti. Ecco perché non venne più rispettato il vecchio adagio mafioso. Erano diventati altri i comprimari.
Dieci anni dopo la storia si ripropose?
Il regista collettivo di Capaci e via D’Amelio fu costretto a ripetersi.
Con l’uccisione di Francesca Morvillo e l’ecatombe di via D’Amelio.
E’ giusto e legittimo tirare a lucido le lapidi.
Ma forse non dovrebbe bastare alla nostra coscienza di oggi. Sarebbe molto meglio, per esempio, cercare di capire perché allo Stato di oggi, 33 anni dopo via Carini, o 23 anni dopo Capaci e Via D’Amelio, dia un fastidio così profondo il processo che si celebra a Palermo sulla Trattativa Stato-Mafia.
E sarebbe bene che chi queste cose le conosce, avendo avuto la disgrazia umana di doverle attraversare, spendesse qualche parola di sostegno per tutti quei magistrati palermitani che stanno in prima fila in profondo isolamento proprio perché ormai hanno capito tutto quello che c’era da capire. E che, in maniera sacrosanta, vorrebbero poter provare in dibattimento.
Soprattutto per evitare che altre lapidi, con il trascorrere del tempo, abbiano poi bisogno di un frettoloso restauro.

saverio.lodato@virgilio.it

Spet­ta­colo infinito. Ancora stragi di migranti nel Mediterraneo Fonte: Il Manifesto Autore: Tommaso Di Francesco

Quanti morti oggi? Intanto lo spet­ta­tore mass­me­dia­tico, di fronte alle stragi di migranti nel Medi­ter­ra­neo e — sco­prono adesso — nel cuore d’Europa dalla rotta bal­ca­nica, gira pagina o cam­bia canale per­ché è il solito spet­ta­colo, estre­miz­zato «solo» dal numero delle vit­time che cre­sce ogni giorno di più.

Così, para­dos­sal­mente, men­tre aumenta la tra­ge­dia si dilata la pas­si­vità e l’abitudine alla noti­zia. Del resto sem­pre più acco­mu­nata ad un pro­gramma seriale e rac­con­tata con le moda­lità del rea­lity: ogni canale tv ormai si prende in con­se­gna sotto le tele­ca­mere siglate la sua fami­glia di pro­fu­ghi, la segue fin dove la vuole seguire e poi tanti auguri (senza dire che la mag­gior parte dei dispe­rati non arri­verà a desti­na­zione e allora le tele­ca­mere saranno spente). Sem­bra addi­rit­tura giornalismo-verità, invece altro non è che la macra­bra rie­di­zione di un rea­lity, di un «asso nella mano» gior­na­li­stico. Certo si può per­fino avere l’illusione, guar­dando o rac­con­tando, che quel fram­mento di noti­zia o di imma­gine, siano il solo soste­gno imma­gi­na­rio che pos­siamo dare, almeno in assenza di un inter­vento reale del potere poli­tico che non fa nulla o peg­gio, alle­stendo respin­gi­menti, restrin­gendo diritti d’asilo, sele­zio­nando, anche per nazio­na­lità, pro­fu­ghi sicuri (dalle guerre) e quelli insi­curi (dalla fame), ester­na­liz­zando l’accoglienza in nuovi uni­versi con­cen­tra­zio­nari, cioè tanti campi di con­ce­tra­mento nel Sud del mondo, pre­pa­rando nuove avven­ture belliche.

Ma non è un rea­lity quello che accade sotto i nostri occhi stan­chi. Qui è stra­volto lo stesso prin­ci­pio di realtà e il gior­na­li­smo fin qui rea­liz­zato — tan­to­meno quello embed­ded — non può bastare. Siamo di fronte ad una svolta epo­cale che si con­suma nella tra­ge­dia di cen­ti­naia e cen­ti­naia di milioni di esseri umani, i nuovi dan­nati della terra, in fuga da guerre e mise­ria. E lo spet­ta­colo a lieto fine non c’è. C’è solo la pas­si­vità dila­gante. Da che deriva? Dal sem­plice fatto che ha vinto l’ideologia della guerra uma­ni­ta­ria che, tra gli altri cri­mi­nali effetti col­la­te­rali, non solo assume la guerra come merito ma can­cella le respon­sa­bi­lità dei risul­tati disastrosi.

Invece è nostra la respon­sa­bi­lità di que­sto esodo. Fug­gono dalle nostre guerre e dalla nostra ridu­zione in mise­ria di paesi in realtà ric­chis­simi di mate­rie prime e terra.

Non siamo di fronte a cata­cli­smi natu­rali, sui quali peral­tro comin­ciamo ad indi­vi­duare anche respon­sa­bi­lità spe­ci­fi­che. Per­ché le guerre ame­ri­cane ed euro­pee, deva­stando tre paesi cen­trali dell’area nor­da­fri­cana e medio­rien­tale, nell’ordine tem­po­rale, Iraq, Libia e Siria (senza dimen­ti­care la Soma­lia diven­tata sim­bolo dell’attuale bal­ca­niz­za­zione del mondo) ha pro­vo­cato la can­cel­la­zione di almeno tre società fino ad allora inte­grate, con una con­vi­venza etnico-religiosa mil­le­na­ria; oltre ad atti­vare il pro­ta­go­ni­smo jiha­di­sta, adesso nemico giu­rato ma alleato, finan­ziato e adde­strato in un primo tempo dell’Occidente con­tro regimi e despoti fin lì, anche loro, alleati dell’Occidente e dei suoi equi­li­bri inter­na­zio­nali, alla fine spre­muti e occu­pati mili­tar­mente. Se non si afferma la con­vin­zione che la respon­sa­bi­lità è delle guerre degli Stati uniti e dell’Europa, nes­suno sen­tirà dav­vero il biso­gno di inter­ve­nire a ripa­rare o almeno a rac­co­gliere i cocci.

Vale allora la pena ricor­dare che sono un milione e 300mila le vit­time di alcune delle «nostre» guerre al ter­rore dopo l’11 set­tem­bre 2001 in Afgha­ni­stan, Iraq e Paki­stan, secondo i dati del pre­sti­gioso «Inter­na­tio­nal Phy­si­cian for the Pre­ven­tion of Nuclear War», orga­ni­smo Nobel per la pace negli anni ’80. Un rap­porto per difetto che esclude le guerre più recenti, la Libia, la Siria, l’ultima di Gaza. Che la terza guerra mon­diale non sia già comin­ciata? È una vera ecatombe.

Ora non con­tenti di tutto que­sto pre­pa­riamo con il governo Renzi e per bocca del gri­gio Gen­ti­loni e dell’annunciatrice Ue Moghe­rini, dimen­ti­chi dei risul­tati dell’ultima del 2011, una nuova guerra in Libia «con l’appoggio Onu» e «con­tro gli sca­fi­sti» con tanto di pre­vi­sione di «effetti col­la­te­rali che pos­sono coin­vol­gere inno­centi». Il tutto per finan­ziare da lon­tano nuovi campi di con­cen­tra­mento, come già con Ghed­dafi e poi con il governo degli insorti di Jibril. A que­sto serve l’impegno ambi­guo della diplo­ma­zia ita­liana per­ché nasca l’improbabile governo uni­ta­rio libico per un paese diviso ormai in quat­tro fazioni e con L’Isis all’offensiva. Dimen­ti­cando altresì che l’ultima guerra oltre ai pro­fu­ghi di oggi pro­dusse subito la fuga di due milioni di lavo­ra­tori sub­sa­ha­riani, afri­cani e asia­tici che lì lavo­ra­vano e che ancora vagano nell’area. Ecco dun­que che l’ideologia della «guerra uma­ni­ta­ria» pro­se­gue il suo corso quasi in auto­ma­tico. È così vero che in pieno fer­ra­go­sto il Cor­riere della Sera — la cui sto­ria guer­ra­fon­daia sarebbe da stu­diare a scuola — ha sen­tito il dovere di sco­mo­dare il punto di vista cri­tico di Ser­gio Romano. Anche lui — che resta comun­que «il miglior fab­bro» — alla fine, con mille e ragio­ne­voli riserve, con­viene che «sì la guerra si può fare»: soprat­tutto per­ché in gioco c’è l’approvvigionamento del petro­lio dell’Eni. I conti tor­nano. Ma se la guerra deve essere «uma­ni­ta­ria» che cos’è dun­que la disu­ma­nità che abbiamo pro­dotto e che muore affo­gata o chiusa nei Tir come carne da macello ava­riata men­tre in cam­mino tenta di ridi­se­gnare, abbat­tere, sor­pas­sare le nuove fron­tiere e muri del Vec­chis­simo continente?

Qui forse le ragioni dell’assuefazione gene­rale. Resta insop­por­ta­bile la pas­si­vità di chi si con­si­dera alter­na­tivo e di sini­stra. Chi lavora per un mondo di liberi ed eguali si tra­sformi in cor­ri­doio uma­ni­ta­rio, pre­pari l’accoglienza, attivi il soste­gno, diventi cam­mi­nante, defi­ni­sca la sua sede orga­niz­za­tiva final­mente euro­pea tra Lam­pe­dusa, i porti del Sud, Ven­ti­mi­glia, Calais, Melilla e la fron­tiera unghe­rese da abbat­tere. il mani­fe­sto ha lan­ciato in piena estate il dibat­tito che con­si­de­riamo neces­sa­rio se non deci­sivo C’è vita a sini­stra? Spe­riamo di non tro­varla solo a chiacchiere.

“Dramma migranti prodotto da guerre, saccheggi e austerità”. Settimana di mobilitazioni dal 17 al 24 ottobre

Una ‘settimana nazionale di Azioni’, dal 17 al 24 ottobre,a favore del popolo dei migranti. “Oltre che il Mar Mediterraneo è l’Europa con le sue frontiere, luoghi militarizzati e simboli dell’illusione di poter fermare le persone in fuga, ad essere un vero cimitero, volutamente e scientificamente orchestrato”,dice Aboubakar Soumahoro, portavoce della Coalizione Internazionale Sans-papiers, Rifugiati e Richiedenti asilo (Cispm) e membro dell’Esecutivo nazionale Usb. “L’Unione Europea, con l’assenso dei suoi stati membri, di fronte a questi morti ormai diventati parte integrante del suo stesso funzionamento conferma di essere una istituzione malata, priva di anima e morale”, attacca Soumahoro.
“Non si può parlare del più grande esodo migratorio dalla fine della seconda guerra mondiale – spiega – e contemporaneamente tenere in piedi le cause di questi movimenti di persone, come le guerre, le politiche del Fmi, i saccheggi delle terre. La produzione e vendita delle armi è poi parte integrante del Pil in Europa, in Asia e negli Usa, da cui viene lo stimolo diretto ed indiretto delle guerre”.”Continuare a sventolare la costruzione degli hot spots, i Centri di registrazione che sono la reincarnazione dei Centri di Identificazione ed Espulsioni, o la revisione del Regolamento Dublino III come soluzione al crimine in corso – prosegue Cispm-, equivale all’ammissione che i migranti siano una sottospecie di esseri umani. Quindi, soggetti ad ogni forma di oppressione e privazione di dignità”.
“Oggi più che mai siamo chiamati, in primis i migranti diretti interessati, a mettere in campo una vasta risposta in termini di mobilitazione generale di piazza contro l’orrore e il crimine in corso. Lanciamo dunque l’invito a una mobilitazione nazionale, che potrà coinvolgere tutte le associazioni, i movimenti e le forze sociali e politiche che lottano per i diritti e la dignità delle persone”.
“Intanto abbiamo avviato la macchina organizzativa della ‘Settimana nazionale di Azioni’, da tenersi dal 17 al 24 ottobre, con assemblee nelle città e nelle campagne di lavoratori e non solo”, conclude Soumahoro.

Acqua, entro il 2040 allarme operativo per 33 Stati. Ma in Siria la situazione è già drammatica Autore: fabio sebastiani da: controlacrisi.org

Sos acqua: nei prossimi anni lo stress idrico continuerà a crescere. Un rapporto del World Resources Institute (Wri), che ha misurato la domanda e la disponibilità di acqua in 167 Paesi, ha pronosticato che entro il 2040 33 Stati dovranno confrontarsi con uno stress idrico ‘estremamente alto’. A livello globale, per la maggior parte del secolo scorso, il consumo idrico è cresciuto più del doppio rispetto al tasso di crescita della popolazione, e sempre più regioni stanno raggiungendo il limite entro cui possono essere forniti servizi idrici affidabili. Oggi l’agricoltura utilizza il 70% di tutti i prelievi di acqua dolce del mondo e fino al 95% in diversi Paesi in via di sviluppo. Ovviamente, parliamo delle grandi multinazionali della soia, del caffé e dei mangimi per bovini e suini: tutte produzioni che hanno un altissimo consumo di acqua.

La Fao, non a caso, ha da poco inaugurato un portale per accentrare i dati sull’andamento delle disponibilità idriche. L’obiettivo del nuovo portale dati – spiega la Fao – è quello di raccogliere e analizzare le informazioni satellitari che possono essere utilizzate per migliorare la produttività della terra e dell’acqua e aumentare la sostenibilità dei sistemi agricoli. Tutte le informazioni saranno a disposizione di tutti paesi e di tutti gli utenti che ne avranno bisogno.
La nuova banca dati sarà sviluppata su tre scale spaziali: a livello continentale su tutto il territorio dell’Africa e del Vicino Oriente, a livello di paese e di bacini fluviali e a livello di sistemi d’irrigazione. La Fao assisterà i paesi nel monitoraggio dei terreni e della produttività idrica, individuandone le lacune e proponendo soluzioni per ridurre queste lacune e contribuire a un aumento sostenibile della produzione agricola.Entro il 2025, saranno 1,8 miliardi le persone che vivranno in Paesi o regioni con scarsità d’acqua ‘assoluta’, e due terzi della popolazione mondiale potrebbero essere in condizioni di ‘stress’. E di questi Paesi, avvertono i ricercatori, ben 14 si trovano nell’area mediorientale, con gravi rischi sull’instabilità dell’area. I ricercatori sottolineano come la scarsità di acqua abbia probabilmente contribuito alle rivolte scoppiate in Siria e sfociate poi nella guerra civile. Il calo delle risorse idriche, spiegano gli autori del rapporto, è stato tra i fattori che hanno costretto 1,5 milioni di persone, in maggioranza agricoltori e pastori, a lasciare le loro terre per trasferirsi nelle aree urbane aumentando così la destabilizzazione generale del Paese. L’acqua, scrivono ancora i ricercatori, ha inoltre giocato un ruolo importante nel lungo conflitto tra Israele e i Territori palestinesi.
Ma la scarsità di risorse idriche, sottolineano i ricercatori, si farà sentire anche in altre parti del mondo. Cile, Estonia, Namibia e Botswana potrebbero sperimentare un forte aumento dello stress idrico nei prossimi 35 anni, con ripercussioni su imprese, aziende agricole e intere comunità.
Anche le superpotenze globali come Usa, Cina e India non sono immuni dai rischi: il livello di stress idrico, pur rimanendo costante a livello nazionale, potrebbe aumentare tra il 40% e il 70% in alcune aree, come il sudovest degli Stati Uniti o la provincia cinese di Ningxia.
Nel documento sulla scarsità di risorse idriche in Siria, l’Unicef poco tempo fa sosteneva che la situazione è particolarmente drammatica nella città di Aleppo, nel nord del paese, dove quest’anno è stata tagliata l’acqua alla popolazione per 18 volte. “I rubinetti sono rimasti asciutti per oltre un mese in alcune zone della città”, si afferma nel rapporto, nel quale si accusano le parti in conflitto di “usare l’acqua per ottenere vantaggi politici e militari”.

Renzi l’iperberlusconiano da: micromega

 

Questo articolo può essere ripreso anche integralmente, purché preceduto (preceduto) dalla dicitura “riprendiamo dal sito http://www.micromega.net” e fatto seguire dalla dicitura “copyright © Paolo Flores d’Arcais”

di Paolo Flores d’Arcais

Se si trattasse di omosessualità diremmo che è stato un coming out. Ma trattandosi di un cattolico praticante, ed essendosi svolta in una location che più cattolica non si può, il meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, è d’uopo invece parlare di CONFESSIONE. Matteo Renzi ha confessato pubblicamente: di essere la prosecuzione del berlusconismo con altri mezzi, anzi di essere la realizzazione del berlusconismo adeguata ai tempi, cioè alla non implementazione del berlusconismo con i mezzi di Berlusconi (l’intermezzo dei governi-nullità Monti e Letta non merita menzione: de minimis non curat praetor).

Confessione solenne, coram populo e urbi et orbi, che non a caso uno dei bracci armati del berlusconismo, le falangi devote di CL e del cattolicesimo di Mammona, ha salutato canonizzando il nuovo leader post Pd a punto di riferimento.

Che la confessione ci sia stata, e inequivocabile, si dimostra per tabulas. Nell’immediato dopoguerra, quando il regime di Mussolini è spazzato via dalla vittoria della Resistenza nell’ambito della vittoria militare alleata (Roosevelt Churchill Stalin), dopo la Liberazione cui fa seguito la Repubblica e la sua Costituzione (firmatari il comunista Terracini e il democristiano De Gasperi, giurista di riferimento l’azionista Calamandrei), i fascisti che vogliono combattere la Rottura e trovare i mezzi efficaci per ristabilire una Continuità non sono i rottami nostalgici di Salò ma quanti predicano l’ideologia delle non ideologie: oltre sia il fascismo che l’antifascismo.

Così Renzi col berlusconismo e l’antiberlusconismo, papale papale. Ovviamente senza la tragedia del fascismo, i morti i torturati gli incarcerati gli esiliati … il berlusconismo non è stato il fascismo [“Fascismo e berlusconismo”, MicroMega 1/2011] è stato “l’equivalente funzionale e postmoderno del fascismo” (ivi) e il renzismo ne costituisce l’apoteosi effettiva (come già analiticamente dimostrato in “Sinistra e parresia”, MicroMega 8/14).

In realtà, quando dice che ci si deve liberare del berlusconismo e dell’antiberlusconismo Renzi ha di mira solo quest’ultimo, non c’è un solo elemento del berlusconismo che non abbia fatto proprio e non stia realizzando: giustizia, informazione, lavoro, riforma istituzionale, i quattro capisaldi della lobotomizzazione della democrazia (già in crisi da decenni di partitocrazia) tentata dal Cavaliere per antonomasia poi Criminale qualificato. Lobotomizzazione che implica la distruzione di tutti i contrappesi che fanno della democrazia liberale un sistema di governo limitato: magistratura autonoma, informazione indipendente, sindacati rappresentativi e forti, impossibilità di occupare a maggioranza le istituzioni di garanzia.

Di fronte a questa realizzazione del berlusconismo ha però poco senso indignarsi. È addirittura offensivo e vergognoso se a farlo sono quanti propiziarono o subirono le stagioni dell’inciucio (si pecca egualmente per atti e per omissioni, e più che mai per viltà). Non dimentichiamo che la “sinistra” di establishment è stata al governo quasi otto anni in questi ultimi venti, che pure chiamiamo giustamente “ventennio berlusconiano”, visto che tali governi niente hanno fatto “di sinistra” (il governo Prodi col suo pessimo ministro della giustizia si segnalò per una persecuzione contro “Mani pulite” da far invidia al precedente governo Berlusconi).

I pochi che invece parlarono di regime, come era doveroso vista che si trattava di una verità fattuale, e che poi pochi non erano (oltre un milione a san Giovanni a Roma il 14 settembre del 2002 in una indimenticabile “festa di protesta”, ad esempio), benché da trovare col lanternino tra intellettuali e altri “opinion maker”, anziché piegarsi nella nostalgia dovrebbero provare a capire perché quelle straordinarie energie che suscitarono e catalizzarono nella società civile non hanno trovato espressione politica. Espressione politica adeguata, che il 25% di voti al Movimento 5 Stelle è ancora l’onda lunga di quella stagione di lotta, dai girotondi ai popoli viola alle manifestazioni contro il bavaglio ai se non ora quando, ma un’onda che non metterà palafitte e dunque non sarà mai alternativa (benché in mancanza di essa resti il solo voto possibile del non piegarsi e non mollare).

Questa riflessione abbiamo già avviato per tempo, nel numero 1/14 (dialogo con Rodotà) e nel numero 8/14 (Sinistra e Parresia), ma bisognerà tornarci, soprattutto dopo l’articolo di Rodotà su Repubblica del 25 agosto, che giustamente si scaglia contro “il risveglio tardivo dei critici di Renzi”, ricordando che “in politica i tempi contano per chi agisce e per chi discute” e “non basta fare la buona battaglia, bisogna farla al momento giusto”. Bisognerà tornarci, e presto, perché riguarda tutti noi che abbiamo combattuto Berlusconi e che quella alternativa non abbiamo saputo o voluto costruire, o addirittura abbiamo distrutto alternative in cantiere, malgrado ci siano state offerte parecchie occasioni, anche nei due o tre anni più recenti.

(29 agosto 2015)

Roma, nove anni fa i fascisti ammazzarono Renato Biagetti. Sabato “Renoize” a parco Schuster da: controlacrisi.org

In ricordo della morte di Renato Biagetti pubblichiamo il testo della ricostruzione della vicenda pubblicato dai compagni che in questi anni hanno portato avanti la battaglia antifascista. #ionondimentico: a San Paolo,intanto, torna il festival dedicato a Renato Biagetti. Sabato 29 agosto, a parco Schuster, sarà organizzato la giornata evento Renoize 2015.Quando, alla fine di agosto del 2006, i giornali romani aprirono le pagine di cronaca dando la notizia dell’arresto dei due “balordi” che, la notte tra il 26 e il 27, avevano ucciso a coltellate un ragazzo sul lungomare di Focene, il lettore distratto sarebbe passato oltre credendo di avere a che fare con la solita rissa tra ubriachi: un gruppo di giovani sovraeccitati dalla droga e dall’alcol che litigano nel parcheggio di una discoteca arrivando prima a riempirsi di botte e poi ad ammazzarsi tra di loro. Dei fatali esiti di una «rissa tra balordi», parlavano anche i commenti forniti a corredo della notizia: articoli scritti in punta di penna ma terribilmente preoccupati di specificare come la politica, con quel fattaccio, non avesse nulla a che fare: essendo la conflittualità sociale soltanto un brutto sogno vissuto negli anni Settanta e, oggi come oggi, completamente dimenticato.

La precisazione, apparentemente inutile (e quindi sospetta), si rendeva necessaria non appena, tra le righe dei quotidiani impegnati ad analizzare l’accaduto, emergeva la biografia della vittima: Renato Biagetti, ventisei anni, fresco di laurea in ingegneria, tecnico del suono e grande appassionato di musica reggae. La notte tra il 26 e 27 agosto del 2006, era stato proprio l’amore per i ritmi afrogiamaicani a spingere Renato a mettersi in macchina insieme a Laura, la fidanzata, e a Paolo, il suo migliore amico, per spostarsi da Grotta Perfetta, dove viveva ed era nato, per arrivare fino al «Buena Onda» di Focene: una dance hall sulla sabbia ricavata all’interno di uno stabilimento che, di notte, dà spazio ai seguaci delle good vibrations come, di giorno, ospita i romani dediti al surf.
Con il caldo torrido che affligge una Roma ancora semideserta, è naturale spingersi sul litorale per trovare un po’ di refrigerio: Renato, Laura e Paolo, al Buena Onda, restano finché, intorno alle cinque del mattino, la luce tremolante delle stelle annuncia la fine della tregua concessa dal sole prima di un nuovo giorno. È in questo momento, mentre Renato e Paolo si siedono su un muretto e Laura recupera la macchina dal parcheggio, che un’automobile si affianca ai ragazzi. A bordo, il volto di due completi sconosciuti. Persone anonime che, abbassando i finestrini, si mettono a gridare: «E finita la festa? Sì? Allora ritornatevene a Roma, merde!».
Più che di un insulto, si tratta di una vera e propria dichiarazione di guerra. Nell’abitacolo della vettura degli aggressori, insieme ai lampi sinistri degli occhi, scintillano le lame. È a colpi di coltelli, infatti, che una volta scesi dalla macchina gli aggressori si avventano sui ragazzi. Paolo viene colpito e anche Laura è presa a pugni. Renato Biagetti, in modo particolare, è raggiunto al corpo da otto fendenti micidiali. Chi lo ha ridotto in quello stato scappa tentando di dileguarsi mentre, a soccorrere Renato, restano Laura e Paolo, ancora insieme al fidanzato e all’amico quando, d’urgenza, il ragazzo viene ricoverato in ospedale. Qui Renato riesce ancora a fornire a un carabiniere, giunto al suo capezzale, la sua ricostruzione dei fatti ma, purtroppo, sono proprio queste le sue ultime parole. Le profonde lesioni che ha subito fuori dal Buena Onda risultano fatali e, intorno a mezzogiorno, provocano la morte di Renato.*

Mentre Renato veniva accoltellato sulla spiaggia, diversi testimoni vedono i ragazzi che infieriscono con i coltelli e, quando gli aggressori scappano con la macchina, annotano il numero di targa e il modello della vettura. Stranamente questi riferimenti non consentono affatto ai carabinieri di mettere immediatamente le mani sugli assassini così gli aggressori riescono a far perdere le loro tracce risultando irreperibili per almeno tre giorni.
In questo lasso di tempo, ad ascoltare le testimonianze di Paolo e Laura, più che i giornalisti ci sono i compagni del centro sociale Acrobax: uno spazio pubblico autogestito ricavato all’interno delle pertinenze dell’ex cinodromo di Ponte Marconi; in questo momento, forse l’unico punto di riferimento per chi, alla resa dei conti, capisce come la morte di Renato Biagetti non sia certo frutto di una rissa ma, al contrario, l’esito di una crudele aggressione. È proprio un comunicato emesso dall’Acrobax a quarantotto ore dalla morte di Renato, infatti, a cui si deve il primo tentativo di arginare la disinformazione che sta piovendo sul cadavere del ragazzo assassinato:

“Non si è trattato di una rissa tra balordi all’uscita di una delle discoteche del litorale ma di uno dei tanti episodi che si iscrive dentro un clima sociale, politico e culturale determinato dalle destre in Italia. Non sappiamo chi sono questi delinquenti ma queste pratiche ci ricordano da vicino le tante aggressioni agli spazi sociali e alle persone che li attraversano che si sono ripetute a Roma e altrove”.

Parole che trovano una triste conferma nel momento in cui chi ha colpito Renato viene finalmente arrestato. Si tratta di due ragazzi di diciannove e sedici anni: Vittorio Emiliani, nativo di Focene, e G.A., ancora minorenne, originario di Nola. E se non bastassero le modalità squadristiche con cui i due hanno consumato la loro aggressione; se non fosse sufficiente sottolineare il pregiudizio che grava sullo stabilimento dove Renato ha trovato la morte, considerato a Focene un «ritrovo di zecche»; se non servisse parlare dell’impegno profuso da Renato in tutte le iniziative in cui la musica veicolava messaggi antirazzisti, antifascisti e antisessisti; se tutto questo non consente ancora di accedere alla dimensione politica da cui è scaturito l’omicidio di Biagetti, allora non resta che sollevare la maglietta di Vittorio Emiliani per mostrare a tutti la croce celtica che il ragazzo esibisce sul braccio, tatuata.

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Emiliani ha ucciso, eppure avere un morto sulla coscienza non basta a fargli ammettere le colpe di cui si è macchiato: «C’è stata la lite, questo lo ricordiamo – ammette di fronte ai carabinieri – ci siamo anche picchiati, ma non ricordiamo della coltellata che ha ucciso il ragazzo».
Gli inquirenti non insistono e mettono a verbale le dichiarazioni di Emiliani. Effettivamente la sua memoria deve funzionare davvero male visto che la «coltellata che ha ucciso il ragazzo» di cui parla non è stata soltanto una ma addirittura otto. Un aggravante di assoluto rilievo che non tarda ad emergere quando sul cadavere di Renato viene disposta una regolare autopsia. Osservando le ferite sul corpo di Biagetti, il patologo descrive bene l’efferatezza con cui sono state usate le lame:

“Due coltellate ebbero a raggiungere il bersaglio tangenzialmente alla superficie cutanea; due penetrarono a livello del gomito e dell’avambraccio di sinistra e, pertanto, possono essere interpretati come colpi limitati dall’azione di difesa, perché altrimenti diretti al cuore; due vibrate in rapida successione penetrarono la regione sovra iliaca sinistra; due attinsero l’emitorace sinistro e penetrarono profondamente nel torace producendo lesioni viscerali”.

L’arma del delitto, su indicazione dello stesso Vittorio Emiliani, viene ritrovata seppellita nei giardinetti di Focene. Secondo Paolo e Laura, anche il ragazzo minorenne che era con Emiliani ha partecipato all’aggressione armato di coltello: d’altronde come avrebbe potuto, il solo Emiliano, vedersela con Paolo e Laura riuscendo, nello stesso tempo, a vibrare otto fendenti contro Renato?

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Il caso di Renato Biagetti è particolarmente tragico ma tutt’altro che isolato. Un dossier compilato dopo la morte del giovane tecnico del suono, non a caso, raccoglie informazioni riguardanti ben 134 aggressioni a sfondo razzista, omofobo e fascista compiute a Roma e nel Lazio tra il 2004 e l’estate del 2006. Una lettura assolutamente sconsolante, anche se limitata a una piccola scelta di episodi avvenuti nei primi mesi dell’anno in cui è stato ucciso Renato:

8 gennaio (Indymedia). Compagno aggredito da tre naziskin alle quattro del pomeriggio vicino San Giovanni in Laterano. Davanti alla fermata della metropolitana viene notato e uno di loro gli tira una testata in pieno volto che gli rompe il setto nasale, poi lo prende a calci.
[…] 13 gennaio (Indymedia). Intorno alle 3 e 30, dopo aver partecipato a un’iniziativa, tre ragazzi e una ragazza usciti dal centro sociale La Torre vengono aggrediti da parte di una decina di fascisti armati di bastoni e a volto coperto. Le ferite riportate dai quattro ragazzi hanno richiesto cure ospedaliere.
21 gennaio (Lazio.net). Dopo palesi intimidazioni, in un’imboscata viene aggredito e picchiato sotto casa da quattro fascisti con i caschi sul volto un redattore di Lazio.net, voce antirazzista e antifascista del tifo laziale.
22 gennaio (Indymedia). Due skin antirazzisti vengono accoltellati (alla gamba e al gluteo) alle 3 e 30 all’uscita del c.s. Ricomincio dal Faro dopo un concerto. I due o tre accoltellatori fanno parte di una banda di venti fascisti che scappano all’arrivo dei compagni attirati dalle urla.
28 gennaio (Indymedia). A Casal Bertone, nella notte, un gruppo di sette-otto fascisti armati di mazze aggredisce due giovani compagni del circolo prc. I due compagni, seriamente feriti, vengono soccorsi da alcuni cittadini. […]
14 marzo («la Repubblica»). Alle 19 e 30, alla sezione Aurelio dei Democratici di sinistra, viene trovata sullo zerbino una busta contenente cinque proiettili inesplosi e un foglio con il seguente testo: «Non fermerete le nostre idee. Adesso dovete tremare. Voi la stella a cinque punte, noi cinque proiettili. 10, 100, 1000 livornesi bruciati. Roma non è Milano. Fini boia, Rutelli infame, Veltroni boia».
[…] 7 aprile («l’Unità»). Fascisti, con la vernice nera e con una “z” sola, imbrattano la bacheca della sezione ds dell’Alberone: «Vi ammaziamo – firmato – Forza nuova». Poi attaccano i manifesti «Vota Alessandra Mussolini»”.

Dal momento che non riguardano persone morte, simili notizie fanno fatica ad essere divulgate e, se finiscono sui giornali, molto difficilmente superano la dimensione del classico trafiletto. Diluite negli spazi in genere riservati a reati come furti e rapine, le informazioni sulla violenza politica diventano difficilmente distinguibili da quelle sulla criminalità comune, generando lo stesso tipo di attitudine che, all’ennesima potenza, esplode nel corso del processo agli assassini di Renato: l’attitudine a negare, insieme alle idee, anche la dignità della vittima. Perché morire nel corso di una rissa tra balordi non è assolutamente uguale a essere uccisi in virtù di un’aggressione subita a causa della propria differenza morale ed esistenziale.
Eppure, da questo punto di vista, neppure il processo ha reso giustizia alla dinamica dei fatti di Focene. Vittorio Emiliani è stato riconosciuto colpevole di omicidio volontario e condannato a scontare quindici anni di reclusione. Una pena simile a quella inflitta al suo complice minorenne, condannato a quattordici anni e otto mesi. Nella motivazioni della sentenza, però, riaffiora lo spettro della «rissa tra balordi» senza alcuna allusione alla matrice politica dell’agguato: degno corollario di un dibattimento in cui gli osservatori non hanno potuto fare a meno di sottolineare alcune circostanze a dir poco strane. La deposizione che, poco prima di morire, Renato rende al carabiniere arrivato a sentirlo all’ospedale Grassi, per esempio, non venne verbalizzata dal militare: come mai?
Si tratta ancora di una dimenticanza o questa singolare perdita di memoria può essere ricollegata alle decisioni con cui i giudici impediscono sia all’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia sia al comune di Roma di costituirsi parte civile nel corso del processo?
Renato Biagetti, come affermano gli avvocati della famiglia: «È stato colpito barbaramente con otto coltellate in un’aggressione caratterizzata da inaudita ferocia, conseguenza di un violento sentimento di avversione verso il comportamento, le scelte e lo stile di vita di Renato e dei suoi amici».
Ed è proprio in questo «violento sentimento di avversione verso il comportamento, le scelte e lo stile di vita» che si iscrivono i modi della violenza politica contemporanea. Nascondere la testa sotto la sabbia e negare l’insorgenza di una simile questione, da questo punto di vista, impedisce la nascita di un dibattito collettivo in grado di arginare un problema tutt’altro che superato. Succede così, nel secondo anniversario della morte di Renato, che il concerto indetto al Parco Schuster per commemorare il ragazzo, venga «festeggiato» da una nuova aggressione condotta a colpi di coltello. Ancora una volta, alle quattro del mattino, un piccolo gruppo di ragazzi che avevano aderito all’iniziativa viene circondato da dieci estremisti di destra mentre torna alla propria automobile. L’agguato, per fortuna, non provoca nuovi morti ma lascia sull’asfalto un ragazzo di ventisette anni con profonde lacerazioni alle coscia e altri due giovani con ferite causate da armi da taglio e da catene. Questa volta nessuno ha il coraggio di dire che «la politica non c’entra» eppure, confinata in qualche trafiletto, la notizia finisce soffocata nel marasma della cronaca, una ferita aperta nel cuore di una città tutt’altro che pacificata.

Sanità, Cgil: “Chiudere ginecologia al San Camillo di Roma sarebbe fare un regalo ai privati” Sanità, Cgil: “Chiudere ginecologia al San Camillo di Roma sarebbe fare un regalo ai privati” da: controlacrisi.org

La chiusura della Ginecologia dell’ospedale San Camillo di Roma sarebbe un regalo a privati e significherebbe meno garanzie per i diritti delle donne nel Lazio. Enrico Gregorini, segretario generale della Fp Cgil Roma Centro Ovest Litoranea, commentando le voci “sempre più insistenti” di una possibile chiusura del Reparto di chirurgia ginecologica dell’Are materno-infantile del nosocomio capitolino, “che si occupa anche di patologie oncologiche, mette in guardia dai rischi concreti della privatizzazione strisciante e ricordo che il polo rappresenta un è Hub regionale con più di 1.500 interventi nel 2014 e con una lista operatoria che prevede attese di mesi”. Dopo la chiusura del reparto per il periodo estivo, trapelano notizie – dice il sindacalista – “sulla possibile mancata riapertura per la carenza di ginecologi ed ostetriche (meno 40%). Nell’Area materno-infantile si effettuano circa 3.500 parti all’anno, 10.000 sono gli accessi al Pronto soccorso ginecologico ostetrico (di cui il 40% necessita di ricovero), più di 8.500 le prestazioni ambulatoriali”. L’ospedale è punto di riferimento regionale anche per le interruzioni di gravidanza, “con una mole di prestazioni tale da conferire al San Camillo il primato regionale per le prestazioni d alta sensibilità sociale”.

L’agonia delle università del Sud da: il manifesto.it

Né soldi, né studenti. E 700 ricercatori verso il Nord . In quattro anni il Sud perde 281 punti di organico, il Centro 60 mentre il Nord ne guadagna 341 con un privilegio particolare per la Lombardia, per le cosiddette università speciali come il S.Anna di Pisa, l’Imt di Lucca, l’università per stranieri di Siena e immancabilmente l’università del ministro in carica

I recenti dati Svi­mez andreb­bero letti alla luce dell’Anagrafe del Miur sulle imma­tri­co­la­zioni all’Università, radi­cal­mente scese con punte altis­sime al Sud (45 mila iscritti in meno in 10 anni) in favore a tratti degli ate­nei del Nord. Si rende evi­dente come la crisi eco­no­mica e sociale del Sud sia aggra­vata dalla costante fuga dei gio­vani e dalla loro rinun­cia a con­ce­pire la for­ma­zione come un’opportunità. Que­sti dati hanno costretto il pre­si­dente del con­si­glio ad aprire una “rifles­sione” nel Pd e nella mag­gio­ranza sulle poli­ti­che per il Sud, anche se al momento non esi­ste una delega per nes­sun mini­stro o sot­to­se­gre­ta­rio su que­sti temi.

Natu­ral­mente col­pi­sce che ciò avvenga dopo aver sot­tratto le risorse dei fondi strut­tu­rali per finan­ziare gli sgravi sulle nuove assun­zioni. L’esito della rifles­sione sul Mez­zo­giorno viene comu­ni­cato dal piro­tec­nico pre­si­dente del con­si­glio con il solito annun­cio di inve­sti­menti con­dito dalla reto­rica stan­tia del Sud che si piange addosso. Guar­dando al Sud attra­verso la lente dell’Università vediamo, quindi, con mag­gior chia­rezza che non di disin­te­resse si tratta ma di pia­ni­fi­cato abbandono.

Dal 2008 in avanti, il sistema uni­ver­si­ta­rio ita­liano ha visto com­ples­si­va­mente una sot­tra­zione di 1,5 mld di euro a cui si è accom­pa­gnata la legge 240/2010 neces­sa­ria a legit­ti­mare i tagli pia­ni­fi­cati. Que­ste scelte hanno avuto effetti dram­ma­tici sull’offerta for­ma­tiva, inde­bo­lito la capa­cità di ricerca, cro­ni­ciz­zato il ricorso al lavoro pre­ca­rio pre­giu­di­cando la fun­zione pub­blica e la mis­sione isti­tu­zio­nale dell’Università pro­prio in una par­ti­co­lare con­giun­tura che avrebbe richie­sto la sua com­pleta rea­liz­za­zione. Si tratta, del resto, di misure che si ispi­rano a prin­cipi affatto ori­gi­nali. E’ l’onda lunga di quel pro­cesso neo­li­be­rale di ristrut­tu­ra­zione delle agen­zie for­ma­tive e più in gene­rale dei set­tori pub­blici tor­nato di gran moda nel nostro paese. L’esito di que­ste poli­ti­che è sotto gli occhi di tutti: l’Italia si col­loca ben al di sotto della media euro­pea per finan­zia­menti all’Università, per numero di stu­denti iscritti e lau­reati, per numero di ricer­ca­tori e dot­tori di ricerca in rap­porto alla popolazione.

La nostra Uni­ver­sità vive, quindi, uno stato di emer­genza com­ples­siva, ma in que­sto qua­dro risulta altret­tanto evi­dente che in alcune zone del paese, il Sud in par­ti­co­lare, que­sta situa­zione è par­ti­co­lar­mente grave. La ragione risiede nelle diverse con­di­zioni di par­tenza degli ate­nei del Sud ma soprat­tutto a causa degli indi­ca­tori di valu­ta­zione uti­liz­zati per lo stan­zia­mento delle poche risorse dispo­ni­bili che hanno note­vol­mente sfa­vo­rito gli ate­nei meri­dio­nali. In sostanza in que­sti anni di ridu­zione costante delle risorse si è veri­fi­cato un pro­cesso di redi­stri­bu­zione delle stesse a svan­tag­gio della mag­gio­ranza degli ate­nei del Sud.

Con­si­de­riamo ad esem­pio il caso dei punti orga­nico (Po), che riguar­dano diret­ta­mente la pos­si­bi­lità di un ate­neo di assu­mere e cioè di ricam­biare e rin­gio­va­nire la pro­pria classe docente. In que­sti anni le poli­ti­che pre­miali hanno pesan­te­mente sfa­vo­rito gli ate­nei meri­dio­nali. Solo quest’anno lo stacco di Po tra ate­nei del Cen­tro Nord e del Sud è di 18 punti per­cen­tuali (cal­co­lati rispetto alla distri­bu­zione che si avrebbe se il tetto mas­simo fosse sta­bi­lito a livello di ate­neo e non di sistema).

Caso emble­ma­tico è quello della Sici­lia che perde ben 29 punti orga­nico e della Cam­pa­nia che si asse­sta a –19. Si sta veri­fi­cando un ridi­men­sio­na­mento selet­tivo del sistema uni­ver­si­ta­rio che sot­to­stà alla pre­cisa logica di con­cen­tra­mento delle risorse in pochi ate­nei. Que­sto ha por­tato ad una assurda com­pe­ti­zione per l’accaparramento dei pochi finan­zia­menti dispo­ni­bili in cui il meri­dione resta comun­que affos­sato. Come det­ta­glia­ta­mente riporta Benia­mino Cap­pel­letti Mon­tano su “Roars” «quasi 700 ricer­ca­tori pre­le­vati dagli orga­nici delle uni­ver­sità del Centro-Sud e tra­sfe­riti d’ufficio negli ate­nei del Nord-Italia nel corso di soli quat­tro anni»: all’indomani dell’assegnazione 2015, que­sto è il tra­vaso com­ples­sivo pro­dotto dai per­versi mec­ca­ni­smi dei punti orga­nico”. Com­ples­si­va­mente in 4 anni il Sud perde 281 punti orga­nico, il Cen­tro 60 men­tre il Nord ne gua­da­gna 341 con un pri­vi­le­gio par­ti­co­lare per la Lom­bar­dia e per le cosid­dette uni­ver­sità spe­ciali come il S. Anna di Pisa, L’Imt di Lucca, l’Università per stra­nieri di Siena e imman­ca­bil­mente l’Università del mini­stro in carica.

L’assunto da cui par­tono i difen­sori di que­ste poli­ti­che è noto: biso­gna soste­nere le eccel­lenze. Un approc­cio pri­mi­tivo ai pro­blemi del nostro sistema di istru­zione e ricerca che nasconde la coper­tura di inte­ressi con­cen­trati in alcune aree geo­gra­fi­che ben loca­liz­zate. Soprat­tutto un approc­cio misti­fi­cante per­ché l’assegnazione dei punti orga­nico pre­scinde ampia­mente da qua­lun­que valu­ta­zione sulla qua­lità della ricerca o della didat­tica ma si basa su para­me­tri di carat­tere esclu­si­va­mente patri­mo­niale e finan­zia­rio peral­tro pre­miando chi aumenta le tasse agli stu­denti sfo­rando il tetto mas­simo pre­vi­sto dalla legge.

La pena­liz­za­zione degli ate­nei del Sud, e non solo, si intrec­cia, infatti anche con il pro­gres­sivo inde­bo­li­mento di molte disci­pline che in quelle Uni­ver­sità van­tano scuole impor­tanti. Col­pi­sce coloro che lavo­rano e col­pi­sce soprat­tutto gli studenti.

Sacri­fi­care, come sta già avve­nendo, un sistema uni­ver­si­ta­rio dif­fuso con una qua­lità media ele­vata signi­fica rinun­ciare ad una rete uni­ver­si­ta­ria che rap­pre­senta una fon­da­men­tale infra­strut­tura a van­tag­gio di una idea astratta di eccel­lenza com­ple­ta­mente scol­le­gata dai biso­gni reali delle per­sone e del paese.
Le ideo­lo­gie che sosten­gono il verbo dell’eccellenza die­tro cui cer­cano di celare il carat­tere essen­zial­mente clas­si­sta di ogni policy sug­ge­rita e poi appli­cata negli ultimi anni al sistema dell’istruzione si nutrono gene­ral­mente del con­tri­buto, tra­sver­sale, di molti media.

a ultimo Il Fatto Quo­ti­diano il cui vice­di­ret­tore si chiede, se sia «dav­vero utile sus­si­diare pesan­te­mente uni­ver­sità che pro­du­cono disoc­cu­pati e for­mano per­sone che nes­suno sente il biso­gno di assu­mere o retri­buire ade­gua­ta­mente». Si rife­ri­sce alle facoltà uma­ni­sti­che che non offri­reb­bero grandi oppor­tu­nità occu­pa­zio­nali, com­por­tando, comun­que, retri­bu­zioni basse per i pochi for­tu­nati che tro­vano lavoro. Come se il pro­blema fos­sero le scelte degli stu­denti e non una domanda da parte delle imprese ita­liane di qua­li­fi­che basse e medio basse con­se­guenza di una spe­cia­liz­za­zione pro­dut­tiva sem­pre più ina­de­guata. Come se il pro­blema non fosse una poli­tica di defla­zione sala­riale che ha con­tri­buto ad aggra­vare la crisi in cui ci troviamo.

Dal nostro punto di vista la ricetta è esat­ta­mente l’opposto: ser­vono più ricer­ca­tori, più offerta uni­ver­si­ta­ria e rifiuto delle cate­go­rie sui­cide di ade­gua­mento alla domanda del mer­cato e di eccel­lenza.
Serve costruire un sistema uni­ver­si­ta­rio nazio­nale non com­pe­ti­tivo ma coo­pe­ra­tivo, par­tendo dalle aree ter­ri­to­riali dove mag­giore è il ritardo nello svi­luppo attra­verso la crea­zione di reti reali tra gli ate­nei per rea­liz­zare una offerta didat­tica inte­grata. In un ter­ri­to­rio come quello ita­liano carat­te­riz­zato da forti ritardi e dif­fe­renze al suo interno l’Università deve rap­pre­sen­tare la pos­si­bi­lità di riscatto. In par­ti­co­lare per le aree eco­no­mi­ca­mente più deboli e messa nelle con­di­zioni di assol­vere alle sue mol­te­plici mis­sioni. Didat­tica di qua­lità, ricerca di fron­tiera e appli­cata, inno­va­zione tec­no­lo­gica, crea­zione di oppor­tu­nità di impiego anche attra­verso per­corsi di for­ma­zione per­ma­nente, qua­li­fi­ca­zione del tes­suto pro­dut­tivo ma soprat­tutto pos­si­bi­lità di scelte con­sa­pe­voli per un numero sem­pre mag­giore di persone.

Sono indi­spen­sa­bili finan­zia­menti, supe­ra­mento dell’idea di pre­mia­lità, qua­li­fi­ca­zione dell’offerta for­ma­tiva, costru­zione di un vero sistema di diritto allo stu­dio, nuove assun­zioni par­tendo dai pre­cari che con­sen­tono alla mac­china ancora di funzionare.

* Segre­ta­rio nazio­nale Flc-Cgil, ** Coor­di­na­tore stu­denti uni­ver­si­tari Link

Ucraina, gli Usa se ne fregano degli sforzi di distensione e schierano gli F-22 Raptor Autore: fabio sebastiani da: controlacrisi.org

Ieri si è tenuto un vertice a Berlino sull’Ucraina. Merkel, Hollande e Poroscenko si sono sbracciati nell’inviare messaggi di distensione a Mosca. La Merkel ha addirittura annunciato che potrebbe tenersi un vertice a quattro con Putin. Ma è difficile immaginare una soluzione della crisi senza un avallo americano, che appare sempre piu’ complicato nella gia’ accesa campagna elettorale per la Casa Bianca: non a caso, l’altro ieri Lavrov ha assicurato che Mosca e’ pronta al disgelo se continueranno ad arrivare segnali, finora ”non molto chiari”.

E i segnali hanno confermato l’allarme. La Us Air Force ha deciso di schierare per la prima volta in Europa il loro fiore all’occhiello, il caccia di ultima generazione invisibile ai radar, l’F-22 Raptor. La misura e’ stata adottata nell’ambito del sostegno garantito dagli Usa ai Paesi membri della Nato in Europa dell’Est. Ad annunciarlo è stato il viceministro della Difesa, responsabile per la Us Air Force, Deborah James, senza fornire particolari sul numero dei caccia stealth da superiorita’ aerea inviati in Europa, ne’ su quale sara’ la loro base.
L’F-22 Raptor, coprodotto da Lockheed-Martin e da Boeing, e’ entrato in servizo nel 2005 e ne sono stati prodotti (fino al 2012) solo 187 esemplari, contro i 339 inizialmente previsti. Il taglio e’ dovuto al loro alto costo unitario pari a 361 milioni di dollari ed anche al fatto che non esisteva e non esiste ancora un possibile rivale dell’F-22. La Russia e la Cina stanno sviluppando un caccia simile all’F-22 (rispettivamente il Sukhoi T-50, per Mosca e lo Shenyang J-31 ed il Chengdu J-20 per Pechino) ma sono ancora al livello di prototipo mentre l’F-22 e’ operativo e sta gia’ partecipando ai raid aerei contro Isis in Siria ed Iraq.
L’F-22 e’ cosi sofisticato che a differenza dei suoi predecessori, come l’F-15 e l’F-16 o il successivo F-35 Jsf, ne e’ stata vietata la vendita alla’estero.
Tra le sue caratteristiche principali: e’ in grado di raggiungere velocita’ prossime a due volte la velocita’ del suono (Mach 2) senza ricorrere ai postbruciatori (che lo renderebbero termicamemente rilevabile ai sensori di calore); cela in alloggiamenti interni tutte le armi, missili e bombe, riducendo la traccia radar quella di una palla da tennis. Infine e’ dotato di sistema di ‘vettorizzazione’ della spinta: gli ugelli di scarico dei due motori possono inclinarsi di 40 gradi in verticale consentendo al jet di compiere virate strettissime.

La via italiana al fascismo trasversale. Intervento di Franco Astengo da: controlacrisi.org

Qualche settimana fa mi era capitato di suscitare un minimo di dibattito sostenendo la tesi dell’impossibilità della sinistra a governare, almeno in questa fase, e della necessità di attrezzarci per una lunga fase di opposizione: la vicenda greca conferma, se mai ce ne fosse bisogno, questa tesi avvalorata anche dai trasformismi imperanti in altre situazioni europee, a partire da quella italiana.Oggi, riferendomi sempre alla situazione italiana, mi permetto di sollevare in forma irrituale un’altra questione che ritengo decisiva, almeno sul piano dell’analisi: quella della presenza di una sorta di “fascismo trasversale” che informa la realtà delle maggiori forze politiche del nostro Paese, la maggioranza del PD raccolta attorno al personalismo di Renzi, il Movimento 5 Stelle e la Lega Nord.

In precedenza all’entrare nel merito di questa affermazione, che molti troveranno perlomeno “inusuale”, deve comunque essere rilevato come l’insieme della situazione politica sia condizionato dal suffragarsi di due fallimenti di vasta portata e di forte incidenza, non solo sull’attualità ma anche sul futuro: il fallimento della cosiddetta ipotesi “federalista” che l’allora centrosinistra aveva mutuato allo scopo di inseguire presunti successi elettorali della Lega Nord, da realizzarsi sulla base di impulsi – alla fine – meramente razzisti, e al riguardo della quale l’intero sistema politico si è dimostrato del tutto incapace di costruire un nuovo assetto di relazioni istituzionali tra centro e periferia. Le Regioni si sono così palesate come un voracissimo centro di potere di spesa e di diffusione di nomine di stampo clientelare: un luogo nel quale si è ulteriormente accentuato il già evidente degrado morale imperante nel ceto politico.

Il secondo fallimento è quello dell’Unione Europea.

Sarebbe troppo lungo e complicato descrivere gli elementi che hanno determinato questo fatto sul piano delle dinamiche economico – politiche a livello globale, a partire dallo sviluppo inaudito del processo di finanziarizzazione speculativa dell’economia, dell’affermarsi di una concezione di privilegio per la costruzione di borghesie “compradore” nei paesi a sviluppo emergente (un fenomeno che oggi mostra la corda, a partire dalla crisi cinese), dal pronunciarsi con evidenza – in particolare nella fase nella quale gli USA hanno recitato la parte dell’unica superpotenza – di fenomeni bellici che stanno all’origine degli apparentemente inarrestabili fenomeni migratori, del trasferimento del primato della politica a quello dell’economia, dalla perdita di ruolo degli organismi sovranazionali a partire dall’ONU e dal suo Consiglio di Sicurezza.

Nella sostanza appare ormai del tutto inadeguata e lontana dalla realtà l’analisi di un Unione Europea afflitta da un “deficit di democrazia” che andrebbe colmato attraverso un ritorno alla “politica”.

Un progetto del tutto utopico perché ormai l’Unione Europea è da considerarsi fallita e chi la difende ancora ha degli interessi poco chiari da mantenere, oppure lo fa per una stanca ripetitività della propria incapacità di aggiornamento dell’analisi e per non smentire anni di rituale propaganda.

All’interno di questo quadro così sommariamente descritto si è sviluppato quel fenomeno di una sorta di “fascismo trasversale” cui accennavo all’inizio e che interessa, principalmente, i tre maggiori soggetti politici operanti in questo momento in Italia.

Come si è formato e realizzato, allora, questo fascismo trasversale?

In modo assolutamente irrituale e del tutto diverso dal fascismo del ventennio, eppure appartenente a quelle categorie del “sovversivismo delle classi dirigenti” e della “biografia di una nazione” a suo tempo analizzate da Gramsci e Togliatti.

Biografia di una nazione che ci accorgiamo adesso non essere stata modificata appieno neppure dalla Resistenza.

PdR (Partito di Renzi, secondo la definizione di Ilvo Diamanti), M5S e Lega Nord sono trasversalmente accomunati, nel loro esistere, da una volontà di potere assoluto non corrispondente ad alcuna matrice di carattere teorico sul piano storico – filosofico e di riferimento a precise categorie sociali in nome delle quali approntare un progetto di società.

Tutto questo nel PdR, nel M5S, nell’attuale Lega Nord (molto diversa da quella originaria fondata da Umberto Bossi e naufragata nei diamanti della Tanzania) non esiste: esiste soltanto la volontà del potere assoluto in quanto totale, lottando per acquisirlo semplicemente allo scopo di sostituirsi ad altri.

“Cerchio magico” su “Cerchio magico”.

In questo modo il “fascismo trasversale” (da non confondere con il “fascismo universale” di Ruggero Zangrandi”) si afferma in questi soggetti: non c’è alcun principio da difendere, nessuna distinzione tra destra e sinistra, nessun modello da modificare seguendo tutti – sul piano economico e sociale – quello del liberismo tachteriano imposto dalla Commissione di Bruxelles e dalla BCE attraverso lettere e memorandum (che cos’era, se non questo la lettera di Draghi e Trichet dell’estate 2011, o il memorandum imposto alla Grecia nell’estate 2015 e accettato , com’era facilmente prevedibile, dal governo Tsipras?).

Esiste soltanto il potere da esercitarsi per il potere, senza opposizione politica e confronto con corpi intermedi (sia pure di ispirazione corporativa): per far questo, tra l’altro, si escogitano anche operazioni di puro svuotamento delle istituzioni, di ri-centralizzazione dello Stato (del cui significato si è persa conoscenza ed esistenza) e sistemi elettorali ancor più truffaldini della stessa legge Acerbo che inaugurò la lunga stagione della dittatura (1924).

Fuori da questo quadro di fascismo trasversale si muove poco o nulla: Forza Italia legata ancora a un’idea populistica di “rassemblemant” di difesa dei ceti privilegiati del consumo individualistico in omaggio alla sua matrice pubblicitaria; la minoranza del PD e le aree circostanti (Manifesto, SeL, “c’è vita a sinistra”) pallidamente legate a una qualche ipotesi movimentista da “beni comuni” ma del tutto sconcertate, ormai da più di 20 anni, dall’indeterminatezza politica sulla base della quale fu sciolto il PCI. Un’indeterminatezza mortale dovuta dall’abbraccio con il canto della sirena della “governabilità” e dello “sblocco del sistema politico”.

Mi rendo ben conto di aver offerto il solito quadro d’analisi che forse molti condividono (almeno in parte) e di non essere riuscito a elaborare una proposta per il futuro.

Ciò risulta, almeno a mio giudizio, impossibile perché non si riesce, all’interno del quadro italiano in una visione internazionalista sia pure di tipo “classico”, a suscitare un movimento e una capacità critica consistente da rivolgere in direzione della costruzione di un’adeguata soggettività politica fondata sulla contraddizione principale dello sfruttamento: certo, ci sarebbe poi, da analizzare e da concretizzare in un progetto politico il rapporto tra la contraddizione principale e quelle definite post-materialiste (ambiente, genere) e ancora con la realtà mutata di quella che definivamo sovrastruttura (in particolare sul ruolo delle istituzioni, dell’informazione, dei nuovi meccanismi nella formazione di massa del consenso).

Il freno vero alla possibilità di descrivere un’ipotesi rivolta al futuro deriva però dalla constatazione, amara, dell’assenza di volontà politica verso la costruzione di un soggetto posto sul piano teorico e su quello pratico nel solco di un discorso di “continuità/innovazione” con la complessa storia del movimento operaio italiano e del ruolo da questo avuto nel quadro europeo.