Intervista ad Aldo Milani, Coordinatore nazionale del SiCobas da. resistenze.org


A cura di Michele Michelino | nuovaunita.info

febbraio 2017

Dalla rivista nuova unità, periodico comunista di politica e cultura

La provocazione e la trappola ordita da Levoni e dalla questura di Modena contro il Sicobas e il suo coordinatore nazionale crolla sotto la mobilitazione dei lavoratori.

Il 26 gennaio, durante una trattativa sindacale a Modena, viene arrestato in diretta per “estorsione” Aldo Milani, coordinatore nazionale del Sicobas. Come prova dell’infamante accusa di aver intascato bustarelle in cambio della pace sociale, la questura fa trasmettere su tutte le tv uno spezzone di pochi secondi, senza audio, in cui si vede uno scambio fra Levoni, grosso industriale delle carni, e un uomo in giacca e cravatta seduto a fianco di Milani (un certo Piccinini, consulente di Levoni) che prende una busta e dopo averla intascata fa il segno delle manette. La trappola scatta e Milani viene arrestato. Subito le edizioni dei giornali on line alimentano la macchina del fango riportando con grande enfasi la notizia dell’arresto di due sindacalisti del Sicobas, facendo apparire il consulente del padrone come un iscritto al Sicobas

Appena si sparge la notizia dell’arresto di Aldo Milani, centinaia di “facchini” aderenti al Sicobas scendono in sciopero contro il tentativo di criminalizzazione del loro coordinatore nazionale e del sindacato, e nelle ore successive centinaia di lavoratori della logistica, insieme a altri proletari e compagni solidali con lui, assediano il carcere di Modena, dove è rinchiuso Milani. Subito arrivano attestati di solidarietà (pochi per la verità) a Milani e al Sicobas da parte di altre organizzazioni, mentre alcuni sindacati, compresi quelli di base, per opportunismo o paura si dissociano dal Sicobas prendendo per buone le accuse della questura, e altri dubbiosi delle dichiarazioni della questura aspettano di vedere come finirà per prendere posizione.

Il giorno dopo il suo arresto, il 27 gennaio, la montatura si sgonfia e Aldo Milani viene scarcerato.

Ad attenderlo all’uscita del carcere centinaia di lavoratori e compagni. Per conoscere meglio i fatti riportiamo l’intervista di Aldo a nuova unità.

Domanda:  Dopo i fatti che ti hanno visto finire in galera e la montatura sul tuo arresto, molti si sono chiesti “ma come hanno fatto a farti cadere nella trappola? Come l’hanno preparata?”

AM: Rispondo agli sciocchi perché qualcuno ha detto “o è un coglione o è uno che ha accettato di essere corrotto”. Io non sono un corrotto e non sono un coglione. La vicenda si è svolta in questi termini: noi avevamo in corso una vertenza non con i Levoni, ma con la Bellentani un’azienda sempre del settore delle carni, dove questo Piccinini (quello della bustarella) concorre con altri due fornitori per questa azienda.

Precedentemente, al nostro coordinatore in luogo era stata presentato Piccinini come un “lavoratore buono”; io invece in un’assemblea generale dissi che Piccinini non era poi tanto buono perché era già stato condannato ad  1 anno e 8 mesi in seguito a denunce fatte da noi e il suo capo era stato condannato a 7 anni e 8 mesi. Quindi la mia posizione su questo signore era abbastanza chiara. Questo signore, essendo  venuto a sapere dai delegati che mi ero espresso in questi termini, mi scrisse una mail dicendo che lui era cambiato dopo questa esperienza fatta 4 anni prima, e che aveva messo in piedi un’associazione di sostegno ai bambini siriani colpiti dalla guerra, che non era un eroe ma che, in piccolo, anche lui faceva delle cose.

In seguito si fece vivo perché c’era un problema che riguardava questo appalto (la Bellentani). Non vinse lui l’appalto, vinse l’altra cooperativa e facemmo l’accordo con l’altra cooperativa, il migliore accordo in assoluto. Migliore in termine qualitativo, perché per quarant’anni tutti i lavoratori delle carni che erano presenti sul territorio non hanno mai avuto un accordo specifico degli alimentaristi. Fino a quel momento c’erano stati accordi che riguardavano le pulizie e altri temi, ma che non riguardavano il lavoro specifico.

In varie riunioni in Prefettura, a cui ho partecipato io e altri nostri  compagni, anche l’ispettore dell’Ispettorato del Lavoro ha sempre sostenuto che si trattava dell’accordo più giusto, quello degli alimentaristi. Però non l’hanno mai applicato. Ma l’accordo c’era, ottenuto grazie agli scioperi del 90% dei lavoratori dell’azienda che ogni giorno hanno scioperato. Avevamo raggiunto il risultato e questo, secondo noi, è stato l’elemento dirompente.

Dato che Piccinini concorreva anche per l’appalto alla Levoni, dove erano stati licenziati 55 operai della cooperativa precedente. Per questo i lavoratori, non io, gli chiesero se, nel caso l’avesse vinto, avrebbe assunto i licenziati. Piccinini disse di si, ma chiese che anche i lavoratori facessero un po’ di pressioni con Levoni perché lui ricevesse l’appalto. Noi rispondemmo che Levoni non voleva parlare con noi, che si rifiutava di incontrare i lavoratori, che facesse lui pressione per ottenere almeno un incontro con i lavoratori.  I Levoni sostennero che l’incontro l’avrebbero fatto informalmente solo con me, Aldo Milani, in quanto coordinatore nazionale del SiCobas, perché con gli altri operai che stavano scioperando il clima era troppo teso. Inoltre avevano visto dei video e mi consideravano una persona “seria”.

Io andai a questo incontro il pomeriggio, quello in cui mi hanno arrestato anche se io non dovevo andarci perché nello stesso orario avevo un incontro alla Fercam di Parma. Fu Piccinini ad insistere perché ci fossi in quanto (secondo lui) più autorevole nell’indicare alcuni passaggi, prima che si incontrassero i legali nei primi giorni di febbraio. Allora Non sapevo che al mattino, quando gli operai avevano circondato la macchina dei Levoni, questo impaurito, aveva detto ai lavoratori che si sarebbe incontrato con me nel pomeriggio.

Io non sono mai intervenuto a Modena ma, vista l’assenza di rapporti sindacali col padrone che non voleva vedere gli altri operatori del Sicobas, decisi di andare, dopo aver frettolosamente discusso, appena informato, con i lavoratori una serie di passaggi. Il nostro errore, se così si può dire, è stato di non essere abbastanza informati delle soluzioni possibili dal punto di vista sindacale, al di là della questione fondamentale dei licenziati. Inoltre c’era in ballo una somma cospicua dal punto di vista economico per le vertenze legali che avevamo fatto, con una prima udienza favorevole ai lavoratori. C’era anche aperto il problema dei lavoratori licenziati che, non avendo pagato la cooperativa i contributi, non potevano avere neanche la NASPI (1).

ln un primo incontro il 12 dicembre, avevo prospettato un accordo se si rispettavano certe questioni.
Allora chiesi due cose. Dal momento che c’erano due vertenze contrattuali, perché non unirle invece che andare davanti a un giudice una prima volta, e poi dopo un mese una seconda volta davanti allo stesso giudice per due cause simili che potevano essere unificate. Quindi chiesi che i rispettivi avvocati si incontrassero per unificare le due cause. Il nostro obiettivo è di arrivare a una soluzione, perché secondo quanto dicevano i  lavoratori si continuava a lavorare, mentre i Levoni sostenevano il contrario.

Levoni , nel frattempo, aveva spostato la scarnificazione della carne e il 20% lo faceva venire dalla Spagna, giustificando così i 55 licenziamenti avvenuti in due reparti. La carne trattata, però, risultava carne italiana. Ho fatto presente che questo è illegale, e che noi  avremmo tutelato i lavoratori, facendo anche delle denunce;  tuttavia, se nel frattempo Levoni avesse aperto altri reparti, noi proponevamo di fare una graduatoria in modo da assumere per primi gli operai licenziati. Inoltre avevo chiesto un esodo, un incentivo di almeno 12 mensilità più la Naspi che per averla i lavoratori, Levoni doveva versare ancora tre mensilità per ogni lavoratore, circa 100 mila euro, perché la cooperativa non aveva versato questi tre mesi di contributi.

Altro problema di cui abbiamo discusso: dato che la cooperativa non aveva pagato i contributi e quindi i licenziati non avevano diritto alla NASPI, abbiamo chiesto a Levoni che pagassero loro i 3 mesi necessari per usufruirne. Questo il primo incontro, dopo il quale, senza che io ne sapessi niente, il signor Levoni nomina suo consulente Piccinini, e gli da 10.000 euro in quanto tale, che lui registra nella contabilità della sua azienda. Tutto regolare ….. soldi dati al suo consulente. In più gli affida la gestione di una cooperativa in quel di Udine per conto della Levoni. Ecco instaurato il rapporto tra Levoni e Piccinini.

D.:  Ti hanno fatto l’accusa infamante di aver preso delle bustarelle, e subito tutti i media – giornali TV ecc. – hanno dato grande risalto alla notizia trasmettendo però solo le immagini registrate dello scambio di buste tra Levoni e Piccinini ma non il sonoro. Eppure il giorno dopo, quando il giudice, dopo aver ascoltato anche il sonoro ti ha scarcerato, solo in pochissimi hanno pubblicato un trafiletto per darne conto, gli altri hanno bellamente ignorato il fatto. I lavoratori del SiCobas e pochi compagni solidali (noi di nuova unità tra quelli) hanno denunciato subito che la trappola non era solo un attacco a te, ma anche un segnale e un attacco a tutto il movimento anticapitalista che si muove fuori dalle “compatibilità” del sistema.

Sapevi che i tuoi compagni erano scesi subito in lotta per la tua scarcerazione? Come giudichi la loro risposta? Cosa pensi del fatto che tanti, troppi sindacati e organizzazioni varie – per opportunismo? per convenienza? – si sono “bevuti” subito le veline della questura? Quali altri provvedimenti ha preso la magistratura contro di te?

AM: Si, immaginavo che i miei compagni avessero capito la trappola che mi avevano teso e pensavo che avrebbero reagito all’attacco all’organizzazione. Adesso, dopo la scarcerazione per mancanza di indizi, ho fatto ricorso rispetto alla privazione della libertà di movimento  impostami dalla Procura, che oggi mi impedisce di muovermi da Milano. Questa è una misura punitiva. Ad esempio, per andare dal mio avvocato a Bologna, mi hanno dato 4 ore tra andata e ritorno. Il mio avvocato, ritiene che – viste tutte le carte – ho il 90% di possibilità di essere completamente scagionato e quindi poi di essere libero di muovermi su tutto il territorio nazionale fino al processo, che comunque ci sarà. Io ritengo invece, al contrario, che al 90% non succederà così, nonostante che la provocazione abbia avuto caratteristiche molto maldestre e provinciali, per come è stata fatta e poi gestita. Non è tanto un problema di prove, ritengo che vogliano cercare di limitare l’attività del sindacato e questo comporterà, secondo me, che andranno fino in fondo su questa linea.

Il motivo è che noi siamo andati a rimestare sul serio nella merda. Nella regione i DS hanno i nervi scoperti. Perché Modena rappresenta il centro in cui sono presenti tutti i settori industriali, dalla carne (5.000 dipendenti che ci lavorano), ai mattoni, alle porcellane, ai metalmeccanici ecc. All’interno di questi settori, nei mesi precedenti, ci sono state almeno una ventina di scioperi – anche della CGIL – nel settore delle carni,  e non hanno concesso né a noi  né a loro il contratto di categoria.

Ma noi siamo riusciti a entrare all’interno della Levoni, con 200 iscritti su 200 lavoratori. E’ chiaro che per loro questo significava mettere in discussione una questione che non è soltanto il rapporto operai/ padroni/ stato. Lì c’è tutta l’organizzazione capitalistica, che va dall’impiegato comunale al consigliere comunale, al consigliere regionale, al parlamentare o al poliziotto ecc.  Tutto è strettamente legato a questa organizzazione e gestione dell’ex PCI, ora PD, che oggi sta scricchiolando. Questi accordi stanno cominciando a mettere in discussione questo assetto e si tratta di  cose ottenute con un solo modo: la lotta.

D.:  Oltre al tuo arresto, ci sono stati altri provvedimenti repressivi contro altri lavoratori del SiCobas?

AM: Si da tutte le parti. Stando arrivando denunce, che cercano di colpirci non solo dal punto di vista legale, ma anche finanziario ed  economico. Abbiamo una denuncia per cui  dovremmo pagare 200.000 euro alla CALT per uno sciopero che abbiamo fatto; 70 denunce a Piacenza  per la CEVA  e altre ancora. Oltre ai provvedimenti penali verso l’organizzazione, stanno colpendo personalmente ogni  lavoratore che ha partecipato ad una lotta. Tre giorni dopo che sono uscito dal carcere, all’Interporto di Bologna è stata fatta una riunione del cosiddetto “tavolo della legalità”, per combattere  mafia e camorra. Ma l’Emilia Romagna è piena di mafiosi e camorristi proprio in questo settore. A questo “tavolo della legalità” è stato formulato un accordo nei fatti  tra padroni, questurini e sindacati confederali CGIL-CISL-UIL, per arrivare ad una posizione comune di denuncia da parte dei confederali di quelle azioni che loro ritengono violente, illegali. I padroni sostengono inoltre che – dato che uno sciopero fatto alla DHL arreca danni a tutto l’interporto – le denunce vanno fatte non solo là dove concretamente si sciopera, ma anche da parte di tutti gli altri settori “danneggiati”. Denunce non solo contro l’organizzazione sindacale, ma anche segnalazioni alla DIGOS – come se ogni fornitore disponesse di una sua polizia “privata” – di tutti i lavoratori individuati come agitatori. Nel dispositivo della mia denuncia si sostiene che io manderei in giro degli agitatori a fare gli scioperi e quindi andrei successivamente a chiedere eventualmente la parte economica . Questa è la loro tesi: dimostrare che lo sciopero è un’estorsione. Lottare per il salario e per i diritti, per i padroni è un’estorsione. In realtà è il diritto di sciopero che vogliono  mettere in discussione

D.:  Il capitalismo acuisce la concorrenza fra lavoratori e scompone la classe operaia, mette operai disoccupati contro gli occupati, i precari contro quelli a lavoro fisso, i dipendenti pubblici contro i privati. Nelle lotte economiche e sindacali dei lavoratori della logistica, invece, si assiste a fenomeni di ricomposizione di classe, fra operai/e italiani e stranieri e, nonostante le difficoltà e la repressione padronale e dello stato, quest’unità di classe ha prodotto anche dei risultati nella lotta contro lo sfruttamento capitalista e per ripristinare i diritti umani. In queste lotte i lavoratori hanno scioperato e manifestato in modo più o meno cosciente, riconoscendosi come appartenenti alla stessa classe. Tu come vedi il discorso della solidarietà di classe? Si può estendere dalle cooperative agli altri settori operai e proletari?

AM: Io credo che avvenga anche per linee sociali. Prendiamo l’esempio di Modena:  nella media azienda il 40% è formato da immigrati, e così è anche nella metallurgia, nella chimica, ecc. L’esperienza che si fa non viene tramandata soltanto attraverso il volantino o l’intervento dell’organizzazione sindacale o politica, ma avviene attraverso la conoscenza di quel tipo di lotte e quindi si diffonde. Almeno per quanto riguarda l’area del Nord, avviene così un processo di allargamento della lotta.

Inoltre c’è un elemento che molte vediamo solo sul piano statistico e mai dal punto di vista dai processi che mette in moto realmente. La crisi ha messo in movimento situazioni particolari.

Facciamo un esempio: la DM di Bologna, 40 lavoratori che lavoravano in cooperativa, in due anni sono stati messi fuori dal processo lavorativo. Lo stesso nel settore metalmeccanico, ci siamo trovati di fronte a lavoratori iscritti alla FIOM che ci contrastavano e non permettevano – alleati al loro padrone – che lì noi facessimo assemblee nella loro fabbrica. Un anno e mezzo dopo, gli stessi lavoratori della FIOM vengono a iscriversi al SiCobas perché buttati fuori dall’azienda: c’è la crisi e il loro sindacato non ha saputo dare la risposta adeguata per contrastare questo processo .

Certamente la crisi fa sì che oggettivamente avvengono queste cose, si creano  condizioni più favorevoli,  ma ci vuole anche l’aspetto soggettivo, la capacità di interpretare – anche se con molte difficoltà – questi processi .

Un’organizzazione come la nostra ha questa caratteristica e, potenzialmente, è già un’organizzazione “internazionalista” perché è formata anche da operai che provengono da varie situazioni, ma è incapace di proiettarsi su un piano nazionale . Quindi non è che non ci sia ideologicamente la volontà di unificare, c’è però la formazione dei quadri che sono molto legati all’aspetto aziendalistico-territoriale. Ecco perché bisogna fare un salto di qualità.

Noi vediamo in queste lotte, almeno dove siamo presenti, a Bologna e in altri luoghi, che  abbiamo almeno 15/ 20 lavoratori immigrati che sono loro stessi gli operatori sindacali in queste situazioni, nel senso che cominciano a formarsi dei quadri che hanno un’idea molto più ampia di quella che è una visione solo aziendale. Io stesso, in tutte le riunioni, ho sempre calcato non solo sugli aspetti aziendali o contrattuali, ma che facevamo lotte contro il capitalismo nelle sue varie forme, semplicemente, non in maniera ideologica,  ma per far vedere quello che realmente è.

D.:  Oggi viviamo in un momento in cui la lotta di classe è latente. La mancanza di un’organizzazione di classe (politica e sindacale) fa sì che gli stessi operai non riescano più a riconoscersi come appartenenti alla stessa classe sociale. Ormai anche nel lessico comune non si parla più di padroni, ma di datori di lavoro; non più di operai e proletari, ma di risorse umane;  si parla sempre più di società civile, di battaglie per la parità di genere, di diritti dei “cittadini” in generale. Le lotte dei “facchini”, dei lavoratori della logistica, ripropongono con forza il protagonismo della classe operaia. Tuttavia, anche le lotte economiche vincenti (sempre più rare) riportano di attualità il problema del rapporto fra lotta economica e lotta politica.

In parte hai già risposto, affermando che si sta formando con fatica un’avanguardia, ma questo fenomeno avviene in tutto il SiCobas?

AM: Questo sta da sempre nella mia concezione teorica, ma praticamente sta avvenendo anche nel SiCobas.

Certo, io non voglio sentirmi napoleone, ma credo di aver avuto un ruolo in questa direzione.

In ogni caso l’oggettività spinge anche in questa direzione e ci sono  settori di lavoratori che non si accontentano più di andare a dire “il facchino non ha paura” nello scontro con la polizia e il capitale, ma cominciano a porsi il problema di come mai un’azienda, dopo che si è raggiunto il miglior contratto possibile, viene chiusa.

Cominciano a riconoscere che questo è il capitalismo, e quindi a porsi il problema di come battersi contro questa forza. Hanno magari meno legami col passato e più una tradizione di lotta, che magari va strutturata e organizzata meglio. Per me l’ultima manifestazione, quella del 4 febbraio, è stata meravigliosa come risultato finale ma ha dimostrato anche un caos organizzativo e la nostra incapacità a gestire quel tipo di processo. Si è avviato spontaneamente, anche come risultato di una serie di esperienze già fatte e quindi un po’ più strutturate.

Non dico che non serve un’organizzazione ma, fondamentalmente, non puoi pensare di dare solamente parole d’ordine ideologiche. Bisogna organizzarli, strutturarli. Mentre ero in carcere, l’avvocatessa mi ha detto che i compagni domandavano chi doveva gestire questa situazione da fuori. Io ho dato subito l’indicazione per un compagno, perché era quello più capace di muoversi, e lei quando è uscita, dopo il colloquio in carcere, ai compagni ha detto: “voi sapete cosa fare”.

D.:  L’esperienza dimostra che chi lotta può vincere o perdere, ma può pagare  anche di persona come nel tuo caso. Tuttavia, da quello che dici, la lotta sta facendo crescere in alcuni anche la consapevolezza che non si tratta solo di rivendicare diritti e salario, ma anche di battersi contro il sistema del lavoro salariato che continua a riprodurre gli operai come schiavi e i padroni come sfruttatori. Questo significa che la necessità dell’organizzazione politica cominciano a porsela anche alcuni lavoratori?

AM: Si, io credo che il sindacato non debba più avere semplicemente le stesse caratteristiche del passato, anche per un fatto oggettivo. Secondo me, in Italia non si è prodotto un Partito Comunista in grado di poter interpretare le esperienza più genuine dei lavoratori ed è chiaro che chi si avvicina alla lotta – anche solo sul piano economico – deborda sul piano politico. Non dice più “questo è sindacale e questo è politico” ma necessariamente sperimenta che è lo Stato che interviene direttamente, non sono solo le forze tradizionali in campo. Il problema è che l’articolazione di questa battaglia politica deve stare, per come la penso io, in un concetto leninista, nella visione di un partito e di un’organizzazione.

Io penso –  ne avevo parlato anche con te – che dovremmo riprendere questo  tema,  che avevamo lasciato per problemi che si erano posti dal punto di vista anche organizzativo, causati anche dal passaggio dallo SlaiCobas al SiCobas, a forme anche ibride (“non è proprio il partito e non è proprio il sindacato”). Ma penso anche che, se si comincia a discutere su cosa fare, tra comunisti e avanguardie operaie ci si può organizzare. Il problema dei lavoratori comunisti è all’ordine del giorno.

(8 febbraio 2017)

Note

1) La riforma degli ammortizzatori sociali introdotta con il Jobs Act, ha previsto, per chi perde involontariamente il lavoro a partire dal 1° maggio dello scorso anno una nuova indennità di disoccupazione 2017: NASpI, Asdi, Dis-Coll e ricollocamento:

La NASpI 2017 è il sussidio di disoccupazione universale che sostituisce dal 1° maggio scorso l’assegno unico di disoccupazione introdotto dalla Riforma Fornero. Tale indennità, prevede nuove modalità di calcolo che influiscono sia sulla misura stessa del beneficio che sulla sua durata. La NASpI è un assegno che spetta ai lavoratori in disoccupazione involontaria, quindi chiunque perde il lavoro a partire dal 1° maggio scorso, ha diritto ad un assegno di disoccupazione se ha lavorato almeno 3 mesi.

Fonte: help consumatoriAutore: redazione Caporalato, il caso dell’agro pontino: i braccianti sikh hanno cominciato a denunciare. Intervista a Marco Omizzolo, sociologo e presidente di “In Migrazione”

Sfruttati per lavorare come schiavi. Tantissime ore al giorno, con una paga misera, pochi diritti, una fatica immane da sopportare che ha portato qualcuno a doparsi, ad assumere oppio, metamfetamine, antispastici per reggere il dolore alle mani e alla schiena. A denunciare le condizioni di sfruttamento lavorativo dei braccianti sikh nell’agro pontino è da anni la cooperativa In Migrazione, che nel tempo si è conquistata la fiducia dei lavoratori indiani. Oggi In Migrazione continua a lavorare con i braccianti, fa consulenza legale gratuita, si scontra con quanti nell’agro pontino vorrebbero continuare a operare nel buio e nel grigio di uno sfruttamento lavorativo diventato sistema. E invece qualcosa sta cambiando, e molto: ad aprile del 2016 i braccianti sono scesi in piazza in un primo grande sciopero. Hanno cominciato a denunciare caporali e sfruttatori. È cambiata la legge.

Merito anche di Marco Omizzolo, sociologo e presidente di In Migrazione. Da anni lavora con i sikh che popolano le campagne di quel territorio che va da Sabaudia a San Felice Circeo, da Terracina ai campi dell’agro pontino con tutta la sua produzione ortofrutticola. Una produzione legata a doppio giro con fenomeni radicati di sfruttamento lavorativo, denunciati a più riprese da Omizzolo, che s’è guadagnato ormai una buona collezione di minacce da parte di chi vorrebbe lucrare ancora sullo sfruttamento dei lavoratori. Omizzolo sui campi c’è stato, “infiltrato” con i sikh nell’inferno del caporalato. Così lo raccontava qualche tempo fa: “Braccianti che dovevano obbedire, senza discutere. Uomini con le mani callose e sporche di terra, la schiena piegata per 10, 12 e a volte anche 14 ore al giorno per raccogliere pomodori, cocomeri, ravanelli o insalata. Il tutto per circa 20-30 euro al giorno. Accade ogni giorno nelle campagne del pontino.

In provincia di Latina si contano circa 30mila punjabi, in prevalenza residenti nei Comuni costieri a spiccata vocazione agricola. Uomini, oggi sempre più anche donne, costretti a coltivare e a raccogliere gli ortaggi che poi prendono le autostrade della Grande distribuzione Organizzata, filiera sporca responsabile di tanta parte dello sfruttamento lavorativo, per finire nei piatti dei cittadini-consumatori di tutta Europa”. Ma le cose stanno cambiando e anche se il lavoro da fare per sradicare questi fenomeni è molto – in provincia di Latina ci sono circa 9 mila aziende agricole e almeno il 15% ricorre al caporalato – non si è più all’anno zero.

Tu denunci da anni lo sfruttamento lavorativo degli indiani nell’agro pontino, costretti a lavorare in condizioni al limite dello schiavismo. Insieme all’associazione In Migrazione, hai scoperto l’assunzione di sostanze dopanti per sopportare la fatica. Dalla vostra denuncia del 2014 è cambiato qualcosa?
Come In Migrazione siamo stati i primi a occuparci della questione. E per questo siamo stati minacciati. Abbiamo ottenuti risultati non risolutivi ma importanti. Uno è stato il primo e più importanti sciopero dei braccianti indiani in Italia, organizzato a Latina il 18 aprile 2016: in duemila lavoratori e lavoratrici sono scesi in piazza e sotto la Prefettura, in un giorno lavorativo, hanno manifestato contro caporalato, sfruttamento, tratta internazionale, per chiedere libertà, giustizia e rispetto del contratto di lavoro. Altro straordinario risultato è rappresentato, dallo sciopero in poi, da una serie di vertenze che si sono aperte contro i datori di lavoro, quelli stessi che pretendevano di essere chiamati padroni dai lavoratori, che sono stati denunciati e portati in tribunale. Ora per la prima volta nella storia giudiziaria della provincia di Latina alla sbarra ci sono quei padroni, imprenditori agricoli e caporali, protagonisti del sistema di sfruttamento. Come In Migrazione ci siamo costituiti parte civile nei processi. Altro risultato straordinario è la consapevolezza dei lavoratori e il fatto che ora nessuno potrà dire che lo sfruttamento, il caporalato e la tratta in provincia di Latina non esistano. Il fenomeno esiste ed è diffuso e drammatico. Poi c’è la nuova legge contro il caporalato, la legge 199/2016, frutto di queste battaglie. Una nuova legge, votata quasi all’unanimità, che rappresenta davvero un passo in avanti. Non risolutivo, certo, ma è un passo in avanti che finalmente imputa una responsabilità penale anche al datore di lavoro. Con la legge precedente poteva essere denunciato solo il caporale, mentre la nuova norma mette fra gli imputati anche il datore del lavoro, e prevede il sequestro e la confisca dell’azienda quando questi esercita attraverso il caporale un potere di ricatto e vessatorio verso i lavoratori e li impiega in condizione di particolare e grave sfruttamento lavorativo. Esattamente come avviene in provincia di Latina, ovviamente non in tutte le aziende, e come accade in altre parti d’Italia. Non abbiamo vinto la battaglia, c’è da costruire un altro tipo di welfare e un sistema contrattuale migliori. Ma non siamo più all’anno zero.

Qual è la responsabilità della grande distribuzione organizzata in questo tipo di pratiche lavorative? Tu hai parlato di “schiavi di questo capitalismo”…
La Grande distribuzione organizzata ha un ruolo centrale nello sfruttamento. Diversi dossier come quello di Filiera Sporca dimostrano la capacità della Gdo di condizionare il mercato dell’ortofrutta e il mercato del lavoro che ne consegue, perché riesce a imporre i prezzi ai produttori, che avendo pochi margini di guadagno soffocano le retribuzioni di lavoratori e lavoratrici. Un altro elemento centrale è la penetrazione delle mafie in provincia di Latina. E questo porta al ruolo centrale del mercato ortofrutticolo di Fondi, un grande hub nel quale bisognerebbe indagare in modo serio rispetto a una serie di traffici che condizionano le politiche del mercato e le condizioni di lavoro nei campi agricoli.

Nel libro “La quinta mafia” (Radici future, 2016) denunci la penetrazione delle mafie a Latina e provincia come fenomeno sottovalutato. Tutto si tiene?
Il caporalato e la tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo nel Pontino stanno dando vita a una proto-mafia, a un sistema molto simile a quello mafioso, che sfocia nella cancellazione dei diritti, nello sfruttamento, nella subordinazione, nei casi più estremi anche nella riduzione in schiavitù. Probabilmente non ha collegamenti diretti con le mafie tradizionali però ne utilizza la stessa logica e la stessa metodologia. Esiste poi un intervento diretto delle mafie nella produzione ortofrutticola attraverso i mercati ortofrutticoli, e alcune aziende sono state già sequestrate, come l’intervento fatto contro il clan Moccia a Latina. Ormai a Latina parliamo di radicamento delle mafie, insieme a una certa classe di professionisti che sono fondamentali perché le mafie riescano a organizzarsi. Caporalato e tratta internazionale non sono stati gestiti direttamente dalle mafie tradizionali ma sono diventate esse stesse qualcosa di simile alle mafie, appunto una proto-mafia.

C’è qualcosa che il cittadino-consumatore può fare per sapere di non comprare prodotti basati sullo sfruttamento lavorativo?
C’è qualcosa che i cittadini possono fare e c’è qualcosa che la politica può fare. La politica può rendere trasparente la filiera, può investire nell’etichetta narrante, può dare maggiori informazioni. E lo Stato può entrare nelle campagne scardinando il sistema di reclutamento. I cittadini possono informarsi, possono acquisire una coscienza civile radicata e così orientare i propri consumi verso i prodotti che vengono da una filiera chiara e pulita. E possono iniziare a mettere in campo una serie di comportamenti “politici” nell’accezione più alta del termine, evitando di comprare prodotti da quelle aziende e da quella Gdo che non è chiara nei confronti delle filiera produttiva. Il cittadino ha un ruolo centrale: poiché ultima parte della filiera, se orienta la sua capacità di consumo verso prodotti etici non solo dal punto di vista ambientale ma anche sociale, aiuta il contrasto alle agromafie.

Cosa hai in programma per il futuro con In Migrazione?
Continuiamo a girare per le campagne e raccogliamo storie. Nel corso degli ultimi mesi io personalmente, in modo anche pericoloso, ho girato con un avvocato facendo avvocato di strada e consulenza legale di strada, informando i lavoratori dei loro diritti e aiutandoli nelle pratiche giudiziarie – naturalmente gratuitamente – facendo capire che si può denunciare il caporale e il datore di lavoro. Da febbraio abbiamo fatto più di cento vertenze di lavoro con lavoratori indiani, in alcuni casi denunce nei confronti dei caporali, in altri verso soggetti che avevano fatto della debolezza dei lavoratori un oggetto di business. Naturalmente la denuncia avviene solo se il lavoratore ci racconta. E questo è frutto di un grande rapporto di fiducia che si è costruito negli anni con In Migrazione.

Autore: fabrizio salvatori Grande distribuzione, dopo le coop anche Carrefour dichiara centinaia di esuberi. Già pronti gli scioperi da. controlacrisi.org

Nell’incontro nazionale tra le Organizzazioni sindacali di categoria e il Gruppo Carrefour Italia, la Multinazionale ha annunciato una ristrutturazione che coinvolgera’ 500 lavoratori considerati in esubero. Per gli ipermercati di Borgomanero e Trofarello (in Piemonte) e Pontecagnano (in Campania) e’ prevista la chiusura.
Le argomentazioni dell’impresa hanno portato a evidenziare rilevanti problematiche sugli andamenti aziendali, quali il fatturato, il
costo del lavoro e la redditivita’ dell’anno. Gli ipermercati risultano particolarmente penalizzati. “Le informazioni fornite dall’impresa- dice Paolo Andreani della segreteria nazionale della UILTuCS- risultano tuttavia generiche e improvvisate. La multinazionale francese ancora una volta fa pagare ai lavoratori il conto delle politiche aziendali sbagliate. Scelte commerciali e organizzative votate alla liberalizzazione totale degli orari (h24) all’utilizzo dei Voucher e alle terziarizzazioni, che non hanno portato risultati tangibili”.

La delegazione sindacale unitaria presente all’incontro ha proclamato lo stato di agitazione e l’astensione dal lavoro di tutto il Gruppo da effettuarsi nelle giornate di venerdi’ 27 e sabato 28 con le modalita’ da definirsi a livello territoriale.

Fonte: il manifestoAutore: Antonio Sciotto La Cgil sull’articolo 18 ora ricorre alla Corte europea

La decisione della Consulta di bocciare il quesito sull’articolo 18 non sembra arrivare inattesa alla Cgil: alla conferenza stampa di Susanna Camusso, indetta alle 15,30 poco dopo la sentenza, erano già esposti i manifesti limitati ai voucher e appalti, «Con 2 Sì libera il lavoro». Ovviamente nei file di Corso d’Italia c’era anche l’altra locandina – «identica, cambiava solo il numero: un 3», ha spiegato la segretaria – ma alla fine quel poster non verrà mai stampato. Eppure il sindacato non si arrende, e annuncia che anche sull’articolo 18 «la battaglia continua, attraverso la contrattazione» e «con un ricorso alla Corte europea» già al vaglio dei suoi giuristi.LA CGIL ATTENDE le motivazioni della Consulta, ma Camusso ribadisce che la formulazione del quesito «era rispettosa dell’articolo 75 della Costituzione», e mette in evidenza piuttosto «il dibattito molto intenso degli ultimi giorni, con una pressione quotidiana senza precedenti su come si sarebbe dovuto decidere». E subito dopo, il riferimento diretto all’esecutivo guidato da Paolo Gentiloni: «È stato dato per scontato che l’intervento del governo attraverso l’Avvocatura dello Stato fosse dovuto, mentre invece non lo era: è stata una scelta politica».

Il governo insomma – che per stessa dichiarazione del premier Gentiloni si pone in piena continuità di quello Renzi, autore del Jobs Act che ha messo in soffitta l’articolo 18 – ha fatto una vera e propria campagna di pressione per evitare il suffragio dei cittadini sul tema dei licenziamenti.

NODO CHE COMUNQUE la Cgil non intende abbandonare: «Perché per noi – spiega la segretaria Camusso ai giornalisti – il tema della libertà sul luogo di lavoro resta fondamentale. E tu la puoi esercitare solo se sei tutelato rispetto ai licenziamenti senza giustificato motivo. Tra l’altro, non si capisce perché un comportamento illegittimo in qualsiasi campo venga sanzionato, mentre si dovrebbe ritenere accettabile solo nelle relazioni con le imprese. Quindi proseguiremo ad affermare questo principio, sia con la contrattazione, come abbiamo già fatto in diversi casi, sia con un possibile ricorso alla Corte europea».

Ma intanto, sui voucher e sugli appalti, «la campagna referendaria è già iniziata», ha spiegato Camusso, e «da oggi in poi chiederemo ogni giorno al governo di fissare una data per la consultazione». Quanto a possibili correzioni sui ticket lavoro per via parlamentare – unico modo per evitare il pronunciamento popolare – la Cgil «valuterà con attenzione ogni proposta, ma se le premesse sono quelle che abbiamo sentito finora, ovvero piccoli correttivi, non ci siamo». Perché la nuova eventuale legge «deve soddisfare l’intento dei proponenti».

POI LA POLEMICA con il presidente dell’Inps Tito Boeri, che aveva attaccato la Cgil accusandola di «ipocrisia» per l’uso dei voucher allo Spi emiliano. «Abbiamo appreso dall’Inps che la Cgil usa 750 mila euro di voucher, e la Cisl 1,5 milioni. A parte il fatto che sono equivalenti a tre persone e mezzo che lavorano ogni anno a tempo pieno contro i 160 milioni staccati nel 2016, ci preoccupa la trasparenza applicata a noi mentre c’è opacità sui grandi utilizzatori: abbiamo chiesto a Boeri i dati ma non ce li ha mai forniti». Se insomma l’Inps si imbarca in una polemica politica pubblicando i numeri relativi a Cgil e Cisl, perché non dà quelli su McDonald’s o altri colossi che ricorrono ai voucher?

La segretaria Cgil smentisce un altro dato che circola sui voucher, ovvero che essi siano «marginali»: «Secondo le cifre ufficiali, dal 2003 abbiamo avuto una crescita del 27 mila per cento, straordinaria e unica nel suo genere – spiega – E poi, dai pochi numeri forniti dall’Inps riguardo al 2015, sappiamo che per la media di età di 59,8 anni sono stati riscossi solo lo 0,5%, mentre ben 88 milioni hanno riguardato la fascia di età media di 35,9 anni».

QUELLA FASCIA , cioè, «che dovrebbe avere un’occupazione stabile, per potersi dare una prospettiva di vita». Il voucher, al contrario, «sostituisce il lavoro stabile, e per questo è uno strumento malato, da eliminare». Il nuovo strumento che dovrebbe regolare secondo la Cgil le prestazioni accessorie, al contrario, «dovrebbe presupporre sempre sempre l’esistenza di un contratto di lavoro».

Proposte che, ricorda Camusso, sono contenute nella «Carta dei diritti universali del lavoro», testo che verrà discusso a breve con tutti i partiti: ma non con Pd e Lega, unici che per ora non hanno risposto all’invito del sindacato.

INFINE GLI APPALTI : «Riguardano milioni di persone – ha concluso Camusso – E spesso le cooperative o aziende spariscono senza pagare stipendi e contributi. Il referendum chiede di estendere la responsabilità in solido all’impresa appaltante».

Camusso: «Due sì per liberare il lavoro»  da: rassegnastampa.it

Fonte: il manifestoAutore: Luigi Ferrajoli Lavoro. Tre referendum sul fondamento costituzionale della Repubblica

Il giudizio che domani sarà emesso dalla Corte costituzionale sull’ammissibilità dei tre referendum sul lavoro sarà una delle pronunce più importanti della storia repubblicana. Esso investe le garanzie del lavoro, cioè del valore supremo sul quale, come dice l’articolo 1 della Costituzione, si fonda la Repubblica.Sul piano giuridico l’ammissibilità è assolutamente pacifica. Nel dibattito di questi giorni sono state avanzate due obiezioni al referendum più importante, quello contro i licenziamenti arbitrari: il quesito avrebbe un contenuto eterogeneo e un carattere propositivo anziché abrogativo.

Obiezioni infondate.

E’ pur vero che il quesito investe più testi di legge: non solo il decreto legislativo n. 23 del 4 marzo 2015 sul cosiddetto Jobs Act, ma anche l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori nella parte in cui limita alle imprese con più di 15 dipendenti la garanzia reale della reintegrazione del lavoratore ingiustamente licenziato, richiedendone l’estensione anche alle imprese con più di 5 dipendenti. Ma il contenuto del quesito è perfettamente omogeneo, dato che riguarda unicamente disposizioni che limitano l’applicabilità della garanzia reale introdotta dall’art. 18 dello Statuto. Per talune di queste ulteriori disposizioni la richiesta di abrogazione è addirittura obbligata, dato che si tratta di norme connesse e per così dire conseguenti a quelle su cui principalmente verte il referendum.

Quanto al supposto carattere propositivo che così assumerebbe il referendum, si tratta di un tratto distintivo di gran parte dei referendum abrogativi, che ovviamente finiscono per introdurre una disciplina del tutto nuova rispetto a quella abrogata. Nel caso dell’art. 18 viene semplicemente abrogato il limite numerico dei 15 dipendenti che le imprese devono avere perché la garanzia reale sia ad esse applicabile, con il risultato che a tutte le imprese viene esteso il limite di 5 dipendenti che il vecchio art. 18 prevedeva per le sole imprese agricole. Ben altre abrogazioni manipolative sono state ammesse in passato.

Addirittura, con i referendum abrogativi di Mario Segni del 1993, si produssero la trasformazione del nostro sistema elettorale da proporzionale in maggioritario e il cosiddetto passaggio dalla prima alla seconda Repubblica.

Sulla questione, del resto, la Corte costituzionale si è già pronunciata. Entrambe queste obiezioni furono dichiarate infondate dalla sua sentenza n. 41 del 2003, che ammise un referendum sull’estensione dell’articolo 18 di portata innovativa e propositiva ancor più ampia di quella proposta dalla richiesta attuale.

Il quesito di allora riguardava non due, ma tre leggi: parti dell’art. 18 dello Statuto del 1970, ma anche parti delle leggi n. 108 del 1990 e n. 604 del 1966. Soprattutto, inoltre, esso proponeva la soppressione integrale dei limiti numerici previsti dall’art. 18 per la reintegrazione dei lavoratori illegittimamente licenziati, la cui garanzia veniva così estesa anche all’unico dipendente che fosse licenziato senza giusta causa. Quel referendum, approvato dall’86,74% dei votanti, non raggiunse il quorum.

Ma esso fu ammesso dalla Corte Costituzionale, che riconobbe l’omogeneità, la chiarezza e l’univocità del quesito, certamente minori di quelle del quesito oggi proposto: «Il referendum», dichiarò la Corte, «è rivolto in primo luogo all’estensione della garanzia reale contro i licenziamenti ingiustificati ai lavoratori che attualmente, in conseguenza dei limiti numerici sopra ricordati, godono esclusivamente della garanzia obbligatoria» consistente nel pagamento di un’indennità in denaro.

Ebbene, non si vede come la Corte, di fronte a un quesito di portata addirittura più limitata, possa oggi cambiare la sua stessa giurisprudenza senza esorbitare dalle sue competenze con una pronuncia politica ben più che giurisdizionale.

La Corte, infatti, non ha il potere di sindacare il merito del quesito referendario. Deve solo accertare due condizioni: che le norme oggetto del quesito non appartengano alle materie per le quali l’art. 75 della Costituzione esclude il ricorso al referendum abrogativo (le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia, di indulto e di ratifica dei trattati internazionali) e che il quesito abbia un contenuto chiaro, univoco e omogeneo come è esemplarmente quello oggi in discussione. Il giudizio di ammissibilità deve insomma riguardare soltanto questi requisiti della richiesta di referendum, se non vuole risolversi in un’indebita limitazione della sovranità popolare, in ordine oltre tutto a una questione di fondo come è la garanzia della stabilità del lavoro.

Sono dunque questi due principi supremi stabiliti dal primo articolo della nostra Costituzione – il lavoro su cui si fonda la Repubblica e la sovranità appartenente al popolo – che il giudizio della Corte sull’ammissibilità di questo referendum è tenuta a rispettare.

E’ anzitutto in questione, con la garanzia reale della reintegrazione del lavoratore ingiustamente licenziato, la migliore e più rilevante attuazione dell’art. 1 della Costituzione che fa del lavoro il fondamento della Repubblica.

Non si tratta, infatti, di una qualsiasi garanzia. Si tratta di un principio che, in conformità anche con gli artt. 4 e 35 della Costituzione e con l’art. 30 della Carta dei diritti dell’Unione Europea, ha cambiato radicalmente la natura del lavoro, non più trattabile come una merce, ma trasformato in un valore non monetizzabile. Il referendum in discussione intende difendere questo valore su cui si fonda la Repubblica, affidando tale difesa al voto degli elettori, cioè all’esercizio diretto della sovranità popolare.

Di qui l’importanza del giudizio di domani. La sostituzione, operata dalle norme sottoposte al referendum, della garanzia reale della reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore licenziato senza giusto motivo con la garanzia patrimoniale del pagamento di una somma di denaro ha annullato la dignità del lavoro, trasformando il lavoratore da persona in cosa, dotata non già di un valore intrinseco ma di un valore monetario.

Si ricordi la massima di Emanuele Kant: ciò che ha dignità non ha prezzo, ciò che ha prezzo non ha dignità.

Nel momento in cui si dà un prezzo all’ingiusto licenziamento, cioè alla persona di cui il datore di lavoro intende sbarazzarsi come se fosse una macchina invecchiata, si toglie dignità al lavoro e alla persona del lavoratore trasformandoli in merci.

E’ questa operazione, non meno dell’assurda mercificazione e precarizzazione del lavoro attuata con i voucher, che i referendum chiedono di sopprimere. A tutela non solo del lavoro e dei lavoratori, ma della stessa identità democratica della nostra Repubblica.

Sarebbe grave se la Corte, massimo organo di garanzia dei valori costituzionali, respingesse anche uno solo di questi referendum che proprio quei due valori supremi della nostra Costituzione – il lavoro e la sovranità popolare – intendono affermare.

Fonte: il manifestoAutore: Andrea Fabozzi Jobs Act. Partita doppia alla Corte costituzionale

La Corte costituzionale è più che mai al centro delle vicende politiche italiane, ma questa volta è difficile per tutti accusare i giudici delle leggi di supplenza o indebita ingerenza. Tanto per cominciare perché la Consulta è chiamata a pronunciarsi a stretto giro (domani e il 24 gennaio) su due prodotti del riformismo precipitoso di marca renziana: il Jobs act, varato dal governo senza tener conto delle osservazioni delle commissioni parlamentari, e la legge elettorale, imposta alla camera con tre voti di fiducia. E poi travolta dalla vittoria del No al referendum costituzionale.
Proprio il parlamento e i partiti da oltre due mesi trascurano il dovere di scegliere un nuovo giudice costituzionale – Frigo si è dimesso a novembre – e, curiosamente, le camere cominceranno lentamente a occuparsene proprio domani pomeriggio, con una seduta convocata qualche ora dopo la camera di consiglio della Corte sui referendum Cgil. La seduta parlamentare produrrà una fumata nera e anche la decisione del 24 gennaio sull’Italicum sarà presa da una Consulta incompleta, 14 componenti e non 15, con la teorica possibilità di un pareggio – in questo caso il voto del presidente Grossi pesa per due. Il giudice mancante spetterebbe a Forza Italia (come l’uscente Frigo) che è già stata penalizzata dall’ultima tornata di nomine parlamentari, ma Renzi quando ha avuto bisogno del sostegno dei giuristi alla sua riforma costituzionale non ha lesinato promesse; l’esito non può dirsi scontato.Nella Corte che dovrà decidere domattina dell’ammissibilità dei tre referendum abrogativi proposti dalla Cgil, sono stati da tempo individuati due schieramenti. Esclusivamente però sul referendum più «pesante», quello per il ripristino dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, affidato alla relatrice Silvana Sciarra considerata favorevole all’ammissione, mentre contrari sarebbero i giudici nominati dalle supreme magistrature e soprattutto l’ex presidente del Consiglio Giuliano Amato. Ci sono argomenti per ognuna delle due tesi; se certamente pesa il precedente del 2003 quando la Consulta ammise un referendum (proposto da Rifondazione comunista) che estendeva l’applicazione dell’articolo 18 senza limiti di dimensione dell’azienda, dunque in misura più larga dell’attuale proposta Cgil, è vero che proprio l’individuazione di un tetto (cinque dipendenti come nel quesito avanzato adesso del sindacato) può essere valutata come finalità «propositiva», inammissibile, del referendum. Nessun dubbio invece sull’ammissibilità degli altri due referendum, quello sull’abolizione dei voucher (relatore il giuslavorista di area cattolica Prosperetti) e quello sulla responsabilità solidale in materia di appalti (relatore il magistrato civilista di Cassazione Morelli).

Naturalmente nelle valutazioni politiche, non estranee al lavoro dei giudici costituzionali, la decisione di domani si lega a quella attesissima del 24 gennaio. Perché se l’ammissione del referendum sull’articolo 18 potrebbe essere vista come un’accelerazione verso le elezioni anticipate, una bocciatura minima o massima dell’Italicum potrebbe confermare o smentire questa tendenza. In caso di ammissione, infatti, il governo non potrebbe aspettare oltre la metà di febbraio per convocare le urne referendarie tra metà aprile e metà giugno. A quel punto, secondo il noto assunto sfuggito al ministro del lavoro Poletti, per evitare una nuova sconfitta referendaria, il Pd renziano non avrebbe altro mezzo che lo scioglimento anticipato delle camere (per legge il referendum viene rinviato di un anno).
Avendo già sperimentato l’inerzia del governo Gentiloni, Renzi potrebbe cioè sperare nell’azzardo. Avrebbe però bisogno di una seconda sentenza favorevole della Consulta, una bocciatura assai limitata dell’Italicum, che tenesse in vita il sistema elettorale maggioritario cancellando solo le pluricandidature bloccate e il ballottaggio. A quel punto il sistema uscito dall Consulta potrebbe essere abbastanza velocemente esteso al senato, come già chiedono di fare i 5 Stelle. Magari approfittando del lavoro di «armonizzazione» tra le due camere per riportare il premio di maggioranza in testa alle coalizioni, com’è adesso previsto per il senato.

Referendum jobs act, durissima lettera di risposta della Cgil alle parole di Staino. E sulla decisione della Consulta la temperatura sale L’Huffington Post  |  Di Nicola Corda

La risposta della Cgil è durissima, quasi feroce. La “bomba” sganciata dall’Unità, dalla penna del suo direttore Staino che ha lanciato un durissimo j’accuse contro la segretaria della Cgil Susanna Camusso, al timone di un sindacato che avrebbe dimenticato gli insegnamenti di predecessori come Luciano Lama e Bruno Trentin, non poteva rimanere senza replica.

Il sindacato di Corso d’Italia, dopo un frenetico giro di telefonate, ha deciso di replicare con una lettera al giornale del Pd. Che già dai firmatari indica la “pesantezza” del concetto che si vuole esprimere. In calce compaiono le firme di tutti i componenti della segreteria nazionale. Più quelle di tutti i segretari di categoria. L’autografo mancante è uno solo: quello della Camusso. Una risposta unanime, collegiale, a quello che viene derubricato ad attacco personale. Ed è proprio quello del rifiuto del metodo personalistico di Staino il primo dei tre punti intorno a cui ruota la missiva. Il secondo, se si vuole, è ancora più pesante. E indica nel livore del direttore de L’Unità l’unico contributo alla discussione sulle politiche del lavoro. Staino, terzo punto, parli nel merito, offra soluzioni. In caso contrario l’interlocuzione non ha luogo di essere.

Mancano pochi giorni alla decisione della Corte Costituzionale sui referendum sul jobs act e la temperatura politica sale vertiginosamente. L’11 gennaio il giorno clou che rischia di trasformarsi (dopo il referendum costituzionale) in un nuovo conto alla rovescia per la fine della legislatura. E segnerebbe, in caso di vittoria dei Sì, lo smembramento definitivo dei provvedimenti simbolo dell’era Renzi. Senza contare che l’ammissione dei quesiti proposti dalla Cgil diventerebbero la scusa per accelerare lo scioglimento delle Camere ed evitare così una consultazione piuttosto insidiosa. Ma nonostante la decisione sia prettamente giuridica, le ricadute politiche non sono certo ignorate dai giudici della Consulta.

Sarebbe più opportuno un “dialogo con il Parlamento” e non un ripetitivo attacco al governo di turno, senza offrire al contempo un progetto, una prospettiva e una conseguente azione politica”, aveva scritto il direttore dell’Unità, accusando la Cgil di “rimanere sulle barricate aspettando che cambi il governo”. Nello stesso giorno in cui anche la Cisl scarica il sindacato di Corso Italia e nonostante in tanti invochino la strada che eviti lo scontro finale a sinistra e nel Pd, la tensione è alle stelle. L’Unità non è un giornale qualsiasi e nella minoranza Dem è il senatore Federico Fornaro a esprimere “tristezza” per l’attacco frontale. “Ci saremmo aspettati di leggere certe frasi su altri quotidiani”, dice l’esponente della minoranza interna che considera l’attacco “tutto personale e non in linea con la storia del giornale”. In sintesi ritorna quel “fuoco amico” indirizzato verso Bersani e ad altri esponenti della sinistra del Pd che sembra essere diventato lo stile dell’Unità”.

A dare una mano al governo che a tutti i costi vuole disinnescare la pericolosissima mina è arrivata anche Annamaria Furlan. In un’intervista all’Huffpost, la segretaria della Cisl liquida senza troppe sfumature la consultazione proposta dalla collega: “Il referendum non è lo strumento migliore per parlare di legislazione del lavoro, sui voucher si proceda con un intervento legislativo. Quando le imprese sono in crisi non c’è articolo 18 che valga”. Un accerchiamento dal quale la Cgil, che in questi giorni ha intrapreso la linea della prudenza comunicativa, ritenuta la più efficace per non caricare troppo la decisione della Consulta, non poteva non uscire.

Ma la maggioranza del Pd tira dritta. Filippo Taddei, responsabile Economia del Pd, ribadisce la linea: “Le modifiche non si fanno per evitare il referendum, ma per migliorare la norma, se necessario”. Specifica che sta a cuore anche al governo, e che persegue sempre la via Parlamentare e il conseguente venir meno delle urne

Qualunque sia la motivazione, dietro lo scontro, il merito dei referendum sui quali anche parte della sinistra sembra voler perseguire la strada parlamentare. “A partire dal quesito sui voucher, bisogna andare incontro alle richieste dei proponenti” è la linea della minoranza che sollecita maggioranza e governo a mandare avanti le proposte della commissione lavoro della Camera che ha già avviato il lavoro. “Le forze politiche facciano il loro mestiere mentre la Corte Costituzionale sta facendo il suo” spiega ancora Fornaro disponibile alla correzione “senza furberie legislative o pressioni improprie sui giudici” utili solo a neutralizzare i referendum. Nella sostanza, un ritorno alla legge Biagi dove gli stessi voucher erano previsti ma limitati agli stagionali in agricoltura, un settore dove oggi i buoni lavoro sono solo l’un per cento del totale.

Il peso dei 121,5 milioni di voucher venduti nei primi dieci mesi del 2016 rischia poi di ricadere anche sulla mozione di sfiducia che pende sul ministro del Lavoro Poletti, presentata dalla Lega, M5S e Sinistra Italiana. La scivolata del ministro (sulla possibilità che il referendum potesse essere evitato grazie allo scioglimento anticipato delle Camere) scatenò le dure reazioni della sinistra Pd che senza una marcia indietro sui voucher ha minacciato di non sostenerlo.

Martedì Poletti è atteso in Senato per un’informativa sulla vicenda mentre la sfiducia personale non è stata ancora calendarizzata. Un voto che in apparenza non vede rischi per la maggioranza ma che potrebbe diventare un altro elemento di pressione per i giudici della Corte che il giorno dopo dovranno esprimersi sull’ammissibilità dei tre referendum della Cgil.

Sergio Staino contro Susanna Camusso: “Nulla da condividere con Lama e Trentin” da: huffngitonpost.it

Pubblicato: 07/01/2017 12:32 CET Aggiornato: 07/01/2017 12

“Penso con molto dolore che tu ormai non hai quasi nulla da condividere con loro”. Così Sergio Staino attacca Susanna Camusso, mettendola a confronto con due grandi leader sindacali: Luciano Lama e Bruno Trentin. “Sono parole forti, lo so, sincere e poco diplomatiche, ma credo che sia l’unico modo per far riflettere te e i dirigenti sindacali che condividono questa tua linea”, ha scritto Staino in un editoriale sull’Unità. “Lama e Trentin, come molti altri sindacalisti del passato, hanno sempre guardato ai lavoratori come protagonisti della crescita sociale ed economica del paese, li hanno sempre individuati come potenziale classe dirigente”, sottolinea. “Bisognava educarli, farli crescere, dar loro la capacità di sentirsi attori principi della costruzione della democrazia, eliminando tutte quelle forme di ribellismo sterile e fine a se stesso che la lezione storica marxista liquidava con l’aggettivo «sottoproletario». Solo in questo senso il sindacato avrebbe potuto svolgere il suo ruolo di interlocutore del Parlamento e del Governo, alternando il dialogo alla lotta per i propri diritti”. “Purtroppo – prosegue Staino – nella tua azione e nel tuo pensiero, Susanna, io non ritrovo questo obiettivo così alto e così doveroso per un sindacato che abbia la voglia di migliorare la condizione del mondo del lavoro in una democrazia avanzata qual è la nostra.

Ormai la tua azione è solo un continuo, ripetitivo attacco al governo di turno, senza offrire al contempo un progetto, una prospettiva e una conseguente azione politica. Un sindacato non può rimanere sulle barricate a tempo indeterminato aspettando che si cambi il governo. È un’attesa sterile. Tu devi imparare a confrontarti con la politica, a dialogare, a contrattare, tenendo il sindacato lontano dalle singole strategie dei partiti. Con questo atteggiamento e sotto la tua direzione la Cgil sta correndo il rischio, terribile, di diventare una vociante folla indifferenziata, senza più alcuna connotazione di classe e soprattutto di una classe responsabile nei confronti della società e delle sue istituzioni democratiche. È successo così con la discesa in campo a fianco del «No» nel referendum sulla riforma costituzionale dove non hai lasciato libertà di scelta agli iscritti e sta succedendo così adesso con il referendum da te voluto sul Jobs Act. È molto probabile che anche questo secondo referendum ti vedrà vincitrice, ma a quale prezzo?

Autore: fabrizio salvatori “Gli operai sono stati uccisi due volte, dai padroni e dai giudici da: controlacrisi.org

Tutti assolti con formula piena i nove ex manager di Pirelli accusati a Milano di omicidio colposo e lesioni gravissime, per i 28 casi di operai morti o ammalati a causa dell’amianto, dopo aver lavorato negli stabilimenti milanesi dell’azienda tra gli anni ’70 e
’80. Lo ha deciso il giudice della quinta sezione penale del Tribunale, Annamaria Gatto.

In tribunale uno striscione: “Gli operai sono stati uccisi due volte, dai padroni e dai giudici”. Molto duro il commento della Cgil: “La sentenza Pirelli Bis è un vero e proprio calcio al diritto alla salute, un brutto messaggio al mondo del lavoro. Mentre altrove si pone il problema amianto, vedi l’ultima decisione del governo canadese, in Italia si torna indietro e passa il principio per cui, in nome del capitale, è permesso fare tutto, persino mettere in pericolo vite umane e provocare la loro morte rimanendo impuniti. Noi non ci fermeremo, intendiamo continuare a lottare per la giustizia, nel rispetto di chi subisce i danni provocati e di chi per amianto è morto”, commenta Claudio Iannilli, responsabile amianto della Cgil