Le Regioni e i tagli alla sanità. Ecco perché prevedo un conflitto sociale e il conto rischia di pagarlo il PD da:quotidianosanità.it

Nell’ultima intervista il presidente Chiamparino afferma che i risparmi derivanti dalla lotta agli sprechi resteranno in sanità. Difficile credergli dopo quanto accaduto con l’ultima intesa che ha tagliato 2,3 miliardi al Ssn

07 SET – Caro Chiamparino, signor presidente, non se ne abbia a male se le dico che la sua intervista sulla sanità mi ha lasciato perplesso. Noi del settore  probabilmente, come dice lei, saremmo tutti  dei “dietrologi” ma lei, mi creda, dà l’impressione di uno che o ci fa o ci è.

A leggere le sue  dichiarazioni  sulla sanità, ma soprattutto  valutando la vicenda “Patto per la salute” che lei ha capitanato dalla firma in poi, si è incerti  se considerarla uno sprovveduto o uno  stratega tanto raffinato da essere  imperscrutabile ai più, me compreso. Ma come può pensare, dopo che voi Regioni  vi siete autoridotti il FSN di 2.300 mld  che  la sanità possa credere alle sue interviste?  E soprattutto ora che  il governo, nonostante le rassicurazioni di Gelli,  sta pensando a  tagliare la spesa  sanitaria  per  finanziare la riduzione della pressione fiscale? Lei  oggi,  praticamente, ci viene a dire che quei soldi   li rivuole indietro cioè che il  Governo  le deve dare  3 mld per il 2016 “perché consentono di sostenere la sanità” e come  contropartita  si dichiara disponibile a “tagliare sugli sprechi” (sic) ma a condizione che i risparmi realizzati  restino nel settore.

Ma scusi Chiamparino ma si rende conto di quello che dice? Cioè lei l’istituzione, più chiacchierata della nostra  Repubblica  chiede  al santo un miracolo non  solo senza  che da parte sua  vi sia neanche il  minimo  ravvedimento  ma tentando addirittura di fregarlo. Le ricordo che gli “sprechi” come li chiama lei siete voi a farli. Dopo tutti gli abusi che avete consumato ai danni della sanità pubblica, ci spieghi la  ragione  per la quale meritereste di essere rifinanziati ? Dica lei, che era indicato  tra i candidati  alla presidenza della Repubblica, come si può dare credito a chi  si è mostrato incapace di governare creando con le proprie incapacità delle incompatibilità tra diritti e risorse tutt’altro che irresolubili?

Noi non facciamo “dietrologia” siamo solo disincantati quanto basta per non credere né ai miracoli né ai venditori di fumo.

Tant’è che le ricordo che tra i primi ho sostenuto che:
·         il vostro Patto per la salute,  sarebbe stato un “pacco”… e così è stato
·         il comma 566 fortemente voluto da voi regioni  sarebbe stato inconcludente …e così è stato
·         le vostre leggi di riordino  regionale avrebbero avuto pesanti conseguenze   sulle tutele dei cittadini…e così è.
Ho anche anticipato:
·         gli esiti dell’applicazione  dei costi standard che voi cavalcate ammesso che riusciate  a calcolarli
·         le conseguenze immorali che si avranno  con la vostra burocratica idea  di “appropriatezza” quella che io chiamo  “medicina  amministrata
·         le ricadute  che si avranno a seguito della riduzione scriteriata delle aziende sanitarie  sulle organizzazioni  territoriali, sull’ integrazione tra servizi  sull’idea decentrata di governo  della salute .

Un anno fa, poi, le dedicai un articolo (QS 1 settembre 2014). In quell’articolo indicavo tre  problemi da risolvere:
·         il vostro discredito quali istituzioni  di governo testimoniato dalla riforma del titolo V quindi la perdita secca del vostro  potere contrattuale nei confronti del governo;
·         il paese che fatica a crescere e la sanità che per il governo diventa sempre più  insostenibile, per cui non bastando  più le politiche marginaliste, si dà il via alle politiche di  definanziamento  per  privatizzare il sistema;
·         la mancanza di una contro prospettiva e di un pensiero riformatore cioè il navigare da parte vostra  a vista  di finanziaria in finanziaria.

A fronte di questi problemi, e leggendo la sua ultima intervista,  mi è venuto  da sorridere quando lei parla di riforme. Una riforma è tale se cambia il mondo in meglio, rendendolo più giusto, più civile, più governabile, più ricco per tutti. Ma se cambia il mondo in peggio è una controriforma. Voi regioni davanti ai problemi della sanità, l’unica cosa che sapete fare è tagliare, togliere, comprimere, immiserire, sfruttare chi lavora. Compossibilità per voi è una parola  esoterica.

Voi al massimo siete in grado di smontare il sistema sanitario che avete trovato e che altri hanno concepito e fatto per voi, ma in nessun caso siete in grado di reinventarlo. Per questo non considero credibile chi pensa  di “tagliare  gli sprechi” (sic) a sistema invariante. Fino ad ora voi Regioni avete tagliato  in tutti i modi, soprattutto sul lavoro, ma a sprechi invarianti compreso i vostri lauti stipendi e le vostre guarentigie. E non sembra proprio venirvi in mente  che si potrebbe riformare per davvero l’idea ormai vecchia di tutela  e dedurne un altro genere di sistema pubblico a base universalista, e un’altra organizzazione dei servizi, del lavoro, delle professioni, a spesa economicamente compossibile.

Lo ripeto, l’unica cosa  che le Regioni pensano di fare è di fregare il santo mentre gli chiede il miracolo. Ma il santo, come ha dimostrato con l’intesa sui tagli lineari di questa estate, non si farà fregare. La profezia questa volta è fin troppo facile: per il 2016 ci beccheremo altri definanziamenti camuffati da risparmi che, quali tagli, ridurranno  sostanzialmente il FSN a sistema   invariante.

Cioè  l’intero sistema sanitario sarà come se  fosse sottoposto anticipatamente  ad un forzato piano di rientro dagli sprechi ma senza che gli sprechi veri siano rimossi. E’ il gioco del macellaio scemo che per fare lo spezzatino si taglia prima  le dita, poi la mano, il braccio fino a essere  parte  dello spezzatino. Ma tutto questo fino a quando potrà durare?

A esaminare le posizioni pubbliche dei sindacati tutti, delle associazioni e delle società scientifiche, degli ordini  e dei collegi (segnalo  le dichiarazioni  della Fnomceo in QS 29 luglio 2015, e l’articolo della presidente dell’Ipasvi, in QS 3 settembre 2015 e ricordo che medici e infermieri insieme sono circa l’80% degli addetti ai lavori), direi  che l’insofferenza di tutta la sanità verso le incapacità e gli abusi delle Regioni  e del Governo, si sta facendo sempre più forte.

Così forte che altre due  profezie sono possibili:
·         sulla sanità  è probabile che presto si apra un conflitto sociale
·         sarà il Pd in prima persona a pagarne le conseguenze elettorali.

Ormai in sanità le politiche contro riformatrici, al di là dei personaggi e delle tante  istituzioni coinvolte, sono tutte di fatto riconducibili  al PD. E questo forse spiega l’ansia rassicuratrice dell’onorevole Gelli.  Evidentemente anche a lui capiterà ogni giorno in qualsiasi occasione di incontrare gente della sanità che dice che non voterà più PD. Ma staremo a vedere.

Ivan Cavicchi

Referendum greco: pesa il silenzio assordante degli intellettuali europei da: il manifesto

C’è un aureo testo di Kant che torna alla mente in que­ste ore in cui si con­suma l’attacco finale alla Gre­cia demo­cra­tica da parte dei cani da guar­dia dell’Europa oli­gar­chica, della finanza inter­na­zio­nale e del Nuovo ordine colo­niale a cen­tra­lità franco-tedesca. Nel 1784, l’autore della Cri­tica della ragione pura, già cele­ber­rimo in tutto il con­ti­nente, rispon­deva alla domanda sull’essenza dell’illuminismo. La indi­vi­duava nella scelta dell’autonomia; nella deci­sione con­sa­pe­vole e non priva di rischi di «uscire da una mino­rità della quale si è responsabili».

Inten­deva dire che affi­darsi alla guida di un tutore che per noi sce­glie e deli­bera è umi­liante ben­ché comodo. Che la libertà è affa­sci­nante ma il più delle volte peri­co­losa. E che l’insegnamento fon­da­men­tale del movi­mento dei Lumi che di lì a poco avrebbe por­tato i fran­cesi a sol­le­varsi con­tro l’autocrazia dell’antico regime con­si­ste pro­prio in que­sto: nel con­si­de­rare l’esercizio dell’autonomia indi­vi­duale e col­let­tiva un inde­ro­ga­bile dovere morale e poli­tico. Un fatto di dignità. Essere uomini signi­fica in primo luogo deci­dere per sé e rispon­dere delle pro­prie scelte. Rifiu­tarsi di vivere sotto il giogo di qual­siasi potere impo­sto con la vio­lenza delle armi o della super­sti­zione, del denaro o del conformismo.

Sono tra­scorsi oltre due secoli densi di sto­ria. Il mondo è cam­biato. Ma nes­suno direbbe che quelle di Kant sono con­si­de­ra­zioni arcai­che, ina­datte al nostro tempo. Siamo tutti pronti a sot­to­scri­verle. Rifor­mu­late con parole meno alate, le ripe­tiamo ogni qual­volta ragio­niamo sui prin­cipi demo­cra­tici ai quali vor­remmo si ispi­ras­sero le nostre società. Eppure che suc­cede quando i nodi ven­gono al pet­tine e la dignità di tutto un popolo è messa dav­vero in discus­sione, quando un intero paese è posto di fronte al bivio tra mino­rità e autonomia?

Anche se tele­vi­sioni e gior­nali di tutto il mondo fanno a gara per nascon­dere la realtà descri­vendo i greci come un gregge di bugiardi paras­siti (e atten­zione: vale per i greci oggi quel che ci si pre­para a dire domani sul conto di spa­gnoli, por­to­ghesi e ita­liani, sudici d’Europa), è abba­stanza chiaro il motivo per cui Ue, Bce e Fmi hanno deciso di sca­te­nare la guerra con­tro la Gre­cia. I soldi (pochi) sono più che altro un pre­te­sto. La sostanza è il modello sociale che deve prevalere.

I cre­di­tori vogliono essere certi che a pagare il «risa­na­mento» e la per­ma­nenza nell’eurozona sia la grande massa pro­le­ta­riz­zata dei lavo­ra­tori dipen­denti, costretti a vivere sta­bil­mente in mise­ria e in schia­vitù. Se a pagare fos­sero i grandi capi­tali, i conti tor­ne­reb­bero ugual­mente. E solo così l’economia greca potrebbe per dav­vero risa­narsi. Ma il prezzo poli­tico sarebbe esor­bi­tante, tale da vani­fi­care quanto è stato sin qui fatto, per mezzo della crisi, al fine di «rifor­mare» i paesi euro­pei e con­for­marli final­mente al modello neo­li­be­rale di «società aperta».

La par­tita è quindi squi­si­ta­mente poli­tica. Se non c’è di mezzo tanto un pro­blema di ragio­ne­ria quanto una que­stione poli­tica di prima gran­dezza – il modello sociale, appunto: i cri­teri base dell’allocazione delle risorse – allora è sacro­santa la pre­tesa del governo greco che a deci­dere se obbe­dire o meno ai dik­tat della troika sia il popolo che dovrà pagare le con­se­guenze delle deci­sioni assunte in sede euro­pea. È un fatto ele­men­tare di demo­cra­zia. Che però spo­sta il con­flitto sul ter­reno, cru­ciale e deci­sivo, della legit­ti­ma­zione dell’Europa unita: uno spo­sta­mento del tutto inaccettabile.

Non c’è da sor­pren­dersi se pro­prio la deci­sione di Tsi­pras di andare al refe­ren­dum popo­lare abbia fatto sal­tare il banco. L’Europa – que­sta Europa dei tec­no­crati e degli spe­cu­la­tori – può accet­tare molte dero­ghe. Può tol­le­rare gravi infra­zioni alle regole finan­zia­rie, come ha dimo­strato pro­prio nei con­fronti di Fran­cia e Ger­ma­nia. Può anche fati­co­sa­mente chiu­dere un occhio su qual­che misura tesa a ridurre l’iniquità delle cosid­dette riforme strut­tu­rali che i paesi sono chia­mati a rea­liz­zare per con­for­marsi al modello sociale prescritto.

Ma sulla que­stione delle que­stioni – la sovra­nità – non si tran­sige. Nes­suno può rimet­tere in discus­sione il fatto che in Europa i pre­sunti «popoli sovrani» non hanno voce in capi­tolo sul pro­prio destino. Fin­ché si scherza, magari fin­gendo di avere un par­la­mento euro­peo, bene. Ma guai ad aprire una brec­cia sulla costi­tu­zione dispo­tica dell’Unione, che è il suo fon­da­mento ma anche, a guar­dar bene, il suo tal­lone d’Achille.

Se que­sto è vero, allora un silen­zio pesa assor­dante men­tre le cro­na­che docu­men­tano le bat­tute finali di quest’ultima guerra inte­stina del vec­chio con­ti­nente. Dove sono finiti i «grandi intel­let­tuali», quelli che lo spi­rito del tempo desi­gna a pro­pri por­ta­voce, coloro la cui sapienza e sag­gezza reca l’onore e l’onere di indi­care la retta via quando il cam­mino si ingar­bu­glia? Non se ne vede l’ombra. Tutto su que­sto fronte tace, come se si trat­tasse di baz­ze­cole. Eppure c’è ancora qual­che sedi­cente filo­sofo, qual­che sto­rico, qual­che giu­ri­sta o socio­logo in Europa. C’è chi si atteg­gia a inter­prete auten­tico della crisi e sforna a ripe­ti­zione libri che discu­tono di Europa e di demo­cra­zia. Forse che, per tor­nare al vec­chio Kant, ciò che vale in teo­ria non serve a nulla in pratica?

Ci si domanda che farebbe oggi un novello Zola (o un nuovo Sar­tre) di fronte alla pre­po­tenza e alla viltà di quest’Europa. Eppure non occor­rono gesti eroici per ricor­dare che esi­stono diritti invio­la­bili, per chia­rire che nes­suna ragione al mondo con­sente di sca­ra­ven­tare un popolo nell’indigenza e nella dispe­ra­zione, per ram­men­tare che in que­sta par­tita torti e ragioni sono, come sem­pre, ripar­titi fra tutte le parti in causa. Niente. Silen­zio. A sbrai­tare è solo chi può per­met­tersi di svol­gere due parti in com­me­dia, il ruolo dell’accusatore e quello del giu­dice. Quanto all’imputato, stiamo molto attenti. Nati a Palermo o a Sivi­glia, a Milano o a Lisbona, siamo tutti quanti greci anche noi.

Pepe Mujica, cent’anni di moltitudine Fonte: Il ManifestoAutore: Geraldina Colotti

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Avrebbe dovuto essere una visita pri­vata: alla ricerca dei suoi tra­scorsi liguri a Favaro, dove sono nati i nonni. Ma l’agenda dell’ex pre­si­dente uru­gua­yano José Alberto Mujica Cor­dano si è riem­pita subito. E “Pepe” ha avuto ben pochi momenti per godersi l’alternanza di sole e piog­gia di que­sti ultimi giorni, insieme alla moglie Lucia Topo­lan­sky. Una cop­pia inos­si­da­bile di diri­genti poli­tici dai tra­scorsi guer­ri­glieri, rima­sti insieme dai tempi in cui i Tupa­ma­ros ispi­ra­vano il cuore dei gio­vani, nel Nove­cento delle grandi speranze.

Il Movi­mento di libe­ra­zione nazio­nale Tupa­ma­ros è stato un’organizzazione di guer­ri­glia urbana di orien­ta­mento marxista-leninista che ha agito in Uru­guay tra gli anni ’60 e ’70. Fon­da­tori e diri­genti — da Raul Sen­dic a Mujica, a Topo­lan­sky a Mau­ri­cio Rosen­cof — hanno pagato con lun­ghi anni di car­cere, ostaggi del regime mili­tare che ha oppresso il paese a par­tire dal golpe del 1973, e che ha con­cluso il suo ciclo nel 1984, con l’elezione del mode­rato Julio Maria Sanguinetti.

A Livorno, Pepe ha rice­vuto la cit­ta­di­nanza ono­ra­ria dal sin­daco pen­ta­stel­lato Filippo Noga­rin: «Per­ché la sua atti­vità tesa alla pro­mo­zione e all’affermazione dei prin­cipi della demo­cra­zia e dello svi­luppo eco­no­mico non è mai stata scissa dall’attenzione verso i più deboli, e per lo stile umile che ha saputo man­te­nere rico­prendo la mas­sima carica dello stato».

Mujica devolve infatti il 90% del pro­prio sti­pen­dio ai poveri e vive in modo fru­gale. Lui ha rin­gra­ziato la città dicen­dosi «cit­ta­dino del mondo» e ha offerto uno dei suoi discorsi diretti e pro­fondi che arri­vano al noc­ciolo senza affi­darsi al gergo.

Lo abbiamo incon­trato a Roma, nella resi­denza dell’ambasciatore dell’Uruguay in Ita­lia, insieme a Lucia Topo­lan­sky e a Cri­stina Guar­nieri, della casa edi­trice Eir, infa­ti­ca­bile orga­niz­za­trice dei suoi incon­tri a Roma.

Che idea si è fatto di que­sta Europa, dell’Italia, della Spa­gna in odore di cam­bia­menti e della Gre­cia ricat­tata dai poteri forti?

All’origine vi sono pro­blemi che tra­scen­dono le sca­denze elet­to­rali. I pro­blemi dell’Europa riflet­tono le con­trad­di­zioni di que­sto sistema che col­pi­sce i set­tori più deboli. C’è una crisi della domanda per­ché la gente con­ti­nua a con­su­mare una infi­nità di cose inu­tili, e al con­tempo una enorme fetta di mondo pieno di povertà che non abbiamo il corag­gio di incor­po­rare: il mondo ricco non ha suf­fi­ciente gene­ro­sità soli­dale per incor­po­rarla nella civi­liz­za­zione. Spre­chiamo un’infinità di pre­ziose risorse per­ché il mondo ricco possa con­su­mare cose inu­tili o fri­vole. E invece non diamo acqua, scuole, case ai più poveri. E anzi respin­giamo i bar­coni che arri­vano nel Medi­ter­ra­neo, o magari pen­siamo di affon­darli, impe­diamo il pas­sag­gio dei migranti mes­si­cani alla fron­tiera nor­da­me­ri­cana. Li invi­tiamo a par­te­ci­pare a una civi­liz­za­zione che poi non gli dà il posto pro­messo. E’ come se ti dices­sero: vedi quanto è bello? Ma non è per tutti.… Allo stesso tempo sca­te­niamo pro­blemi su scala pla­ne­ta­ria per­ché non pos­siamo gover­narci: ci governa il mer­cato. Il mondo è glo­ba­liz­zato ma non ha un governo mon­diale all’altezza dell’intelligenza scien­ti­fica rag­giunta, che con­sen­ti­rebbe un’organizzazione gene­rale e una equa distri­bu­zione delle risorse. Siamo in preda a un caos che sta por­tando al limite la natura: per via di una ecces­siva con­cen­tra­zione della ric­chezza. Ti sem­bra pos­si­bile che un mani­polo di bei tomi detenga quel che serve al 40% dell’umanità?

E in che dire­zione ci si dovrebbe muo­vere per inver­tire la tendenza?

Dob­biamo impa­rare a muo­verci per il governo della spe­cie e non solo in base agli inte­ressi dei paesi, dei sin­goli stati, con la con­sa­pe­vo­lezza che siamo respon­sa­bili di un pia­neta, di una bar­chetta che sta andando alla deriva nell’universo. Biso­gna avere chiaro che non gover­nano le per­sone, ma gli inte­ressi del grande capi­tale finan­zia­rio e i suoi ricatti. Abbiamo un’arma più vicina del Palazzo d’Inverno su cui agire, qual­cosa di più vicino e potente: le nostre menti e le nostre coscienze. C’è una rivo­lu­zione pos­si­bile nella testa di ognuno per costruire una nuova uma­nità. Dob­biamo agire per­ché ognuno sia cosciente che il mer­cato ci toglie la libertà. Non cam­biamo il mondo se non cam­biamo noi stessi. Per tanto tempo abbiamo seguito una linea trac­ciata: abbiamo pen­sato che bastasse pren­dere il potere, cam­biare i rap­porti di pro­prietà e di distri­bu­zione per cam­biare l’umanità. Invece, quel che è suc­cesso in Unione sovie­tica ha dimo­strato che le cose sono molto più com­pli­cate. Oggi dob­biamo pun­tare di più sulla cul­tura. Non dob­biamo agire per coman­dare ma per­ché le per­sone diven­tino padrone di loro stesse.

L’America latina sta cam­biando in fretta, e sulla base di governi socia­li­sti o pro­gres­si­sti che spo­stano i rap­porti di potere a favore delle classi popolari.

… Sta cam­biando un poco, ci vuole tempo. Dob­biamo svi­lup­pare intel­li­genza nella gente, i ritorni indie­tro sono sem­pre pos­si­bili, l’interventismo esterno è sem­pre latente. Le basi mili­tari Usa sono sem­pre attive in Ame­rica latina. Obama è un pre­si­dente pri­gio­niero, ostag­gio del com­plesso militare-industriale. Non gli hanno per­messo di fare niente. I nostri amici, negli Stati uniti, pur­troppo non si tro­vano nelle fab­bri­che, ma nelle uni­ver­sità, è così dai tempi del Viet­nam. Il meglio degli Sati uniti si trova nel mondo intel­let­tuale, il peg­gio nelle ban­che e sui ban­chi del par­la­mento, ma non biso­gna fare di ogni erba un fascio.

Lei ha deciso di pren­dersi alcuni pri­gio­nieri di Guan­ta­namo, men­tre con­ti­nua l’avanzata dell’Isis.

Sai com’è, no? Solo chi è stato tanto tempo in car­cere come noi può capire… Oggi invece si pensa di risol­vere i pro­blemi dell’umanità e i pro­pri costruendo più car­ceri, chie­dendo più car­cere e più bombe. Noi, un pic­colo paese, abbiamo indi­cato che si può pren­dere un’altra strada. A cosa sta por­tanto la bal­ca­niz­za­zione del mondo? Hai visto come hanno ridotto la Libia: una bar­ba­rie. Io non voglio difen­dere Ghed­dafi, ma almeno prima c’era uno stato ordi­nato, ora c’è un disa­stro… Sono stato negli Stati uniti. C’è gente in car­cere da 34 anni senza mai aver ver­sato una goc­cia di san­gue, solo per aver riven­di­cato l’indipendenza del pro­prio paese come il por­to­ri­cano Oscar Lopez. Ma agli Stati uniti inte­ressa di più la libertà di un altro Lopez…

Il gol­pi­sta venezuelano?

Pre­ci­sa­mente…

A pro­po­sito di peri­coli e di ritorni indie­tro. Lei ha dichia­rato a suo tempo: «Abbiamo biso­gno del Mer­co­sur come del pane». Ora, invece, il suo suc­ces­sore, Tabaré Vaz­quez dice che biso­gna «fles­si­bi­liz­zare» il Mer­co­sur. Sta striz­zando l’occhio alle alleanze pro­po­ste dagli Usa? In diverse occa­sioni lei non ha lesi­nato cri­ti­che alla nuova gestione.

…Penso di no, che non si saranno ritorni indie­tro. Il fatto è che oggi il Mer­co­sur è un po’ pro­vato, non avanza, non fa le cose che si era pre­fisso. Soprat­tutto, Bra­sile a Argen­tina non hanno tro­vato un’intesa, quindi ora abbiamo il pro­blema di diver­si­fi­care le rela­zioni. La pre­senza della Cina è sem­pre più forte, da diversi anni que­sto ha por­tato risul­tati posi­tivi, ma dob­biamo fare atten­zione, prima par­la­vamo di dipen­denze, di debito, il pro­blema della sovra­nità va visto da diverse prospettive.

Tutti, in Ame­rica latina, la vogliono come media­tore dei con­flitti: il governo colom­biano e la guer­ri­glia mar­xi­sta, la Boli­via nel con­ten­zioso con il Cile. E lei accetta. ..

La guerra preme dap­per­tutto, i con­flitti facil­mente emer­gono, lo svi­luppo delle nuove tec­no­lo­gie com­plica lo sce­na­rio. Eppure sap­piamo di essere inter­di­pen­denti, il pro­gresso e la tec­nica non pos­sono ipo­te­care la con­vi­venza, il vivere in con­sessi umani. Dob­biamo impa­rare a vivere con le dif­fe­renze, tro­vare un altro modo di comu­ni­care, siamo di fronte a un altro mondo in cui gli stati nazione e le forme tra­di­zio­nali della poli­tica non rie­scono a dare rispo­ste ade­guate. Si sono sca­te­nate forze di cui non tro­viamo più le bri­glie, a par­tire da quelle del capi­tale finan­zia­rio e degli “avvol­toi” che si avven­tano sulle prede quando cer­cano la pro­pria sovra­nità. Però mi fa più paura quel che non suc­cede di quel che suc­cede… Per esem­pio, c’è molta gio­ventù disoc­cu­pata, che ora si sta ras­se­gnando a vivere col red­dito minimo, che si sta addor­men­tando… e non lotta.

“Le persone prima dei profitti”. Contro il Ttip il 18 mobilitazione mondiale! | Autore: fabio sebastiani da: controlacrisi.org

Il 18 aprile il mondo si mobilita contro TTIP e trattati di libero scambio In Italia decine di iniziative, centinaia in Europa e negli USA. Saranno 200 nel nostro Paese, migliaia in tutto il mondo. Le organizzazioni in difesa dell’ambiente e della società civile si troveranno nelle piazze di più continenti, per esigere il blocco degli accordi internazionali sul commercio e gli investimenti. L’Europa e l’Italia, insieme agli Stati Uniti, chiederanno l’arresto delle trattative sul TTIP.
“Le persone e il pianeta prima dei profitti” è lo slogan dell’iniziativa che mira innanzitutto al TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership), che gli Stati Uniti stanno discutendo in sostanziale segreto con l’Unione Europea. L’accordo prevede l’abbattimento di tutte le barriere non tariffarie al commercio, ossia normative e regolamenti a protezione di beni comuni e servizi pubblici, che le grandi compagnie multinazionali che spingono per la chiusura dell’accordo ambiscono a monetizzare. In cambio di un abbassamento degli standard qualitativi, nonostante le promesse dei promotori, gli studi più ottimistici prevedono nel caso improbabile in cui tutte le condizioni fossero soddisfatte un aumento del PIL europeo appena dello 0.5%, a partire dal 2027. Quelli meno ottimistici, una perdita di posti di lavoro in UE di minimo 600 mila unità.

Stime che non tengono conto dell’aleatorietà delle ipotesi, considerato che solo per l’Italia e per le sue politiche economiche degli ultimi anni, recenti studi della CGIL hanno mostrato scostamenti tra l’ipotizzato e il reale di più del 14%.
Per la Campagna Stop TTIP Italia parteciperanno sono previste circa 30 iniziative in tutto il Paese. Vi saranno manifestazioni e flash mob nelle grandi città – da Roma a Milano, da Torino a Napoli, fino a Firenze – e in molti centri minori.

L’intenzione dei due blocchi, USA e UE, è convergere su una bozza di accordo entro quest’anno, ma la forza dell’opposizione sociale e la richiesta di maggiore trasparenza sta rallentando le decisioni. Una parte del Parlamento Europeo si è detta contraria a un’armonizzazione delle normative con quelle degli Stati Uniti, perché i rischi sono troppo alti e il processo irreversibile. Inoltre, oltre un milione e 700 mila cittadini europei hanno sottoscritto la petizione per chiedere alla Commissione l’immediato arresto delle trattative sul TTIP. Una raccolta di firme che prosegue intercettando il crescente consenso dell’opinione pubblica sul tema, con l’intento di tagliare il traguardo dei 2 milioni ad ottobre.
Sulo Ttip, la Cgil – come la Ces e il sindacato americano – hanno già espresso chiaramente le loro posizioni volte ad evitare l’ulteriore compressione della democrazia – grazie a “cooperazione regolatoria” e meccanismi di disputa investitori/stati – così come a vedere compressi i diritti ambientali, sociali e del lavoro e gli stessi livelli occupazionali generali e/o settoriali. La Commissione Europea – su mandato del Consiglio Europeo, cioè dei governi dell’Unione – è molto attiva sul piano dei trattati commerciali e di investimento e, accanto al negoziato TTIP, sta conducendo altri importanti e pericolosi negoziati bilaterali (come quello sugli investimenti con la Cina) o plurilaterali, come quello TISA sui servizi, mentre ha appena siglato l’accordo CETA con il Canada (“cavallo di troia” per il TTIP) che dovrà essere tra breve posto alla ratifica di Consiglio e Parlamento europei.

L’appello alla mobilitazione cade mentre – a livello mondiale – il WTO sta proseguendo i negoziati “tecnici” applicativi dell’accordo sulle “Trade Facilitations” raggiunto a Bali, come preludio per il proseguimento del Doha Round avviato nel 2001, e i paesi “più avanzati” stanno spingendo per la definizione di “nuove regole” globali, attraverso accordi bilaterali o plurilaterali

Dalle ragazze americane che rinnegano il femminismo alle donne che in Turchia non dovrebbero più ridere, e poi il dramma della mamma in affitto tailandese, la bambina nigeriana kamikaze a 10 anni …da: Prima Prima Pagina Donne (28 luglio – 3 agosto 2014)

Dalla rete: Società e Attualità

Prima Prima Pagina Donne (28 luglio – 3 agosto 2014)

Dalle ragazze americane che rinnegano il femminismo alle donne che in Turchia non dovrebbero più ridere, e poi il dramma della mamma in affitto tailandese, la bambina nigeriana kamikaze a 10 anni …

inserito da Paola Ortensi

Prima Pagina Donne 31 (28 luglio – 3 agosto 2014)
In questa settimana che congiunge luglio e agosto – dunque il cuore dell’estate, quest’anno, in verità, simile ad un pazzo autunno – le notizie si mescolano tra idee di donne, idee per le donne e fatti ed eventi a protagonismo femminile. Da una parte fa parlare la presa di posizione di giovani ragazze americane che affermano che il femminismo delle loro madri è superato, e si apre un interessante confronto in occidente, da altra parte in Turchia il vice Primo Ministro esorta le donne a non ridere più perché atteggiamento sconveniente, ottenendo come risposta una valanga di immagini che dilagano sui media di tutto il mondo, di donne turche in primis ma di donne di gran parte del mondo che ridono affermando il loro pieno diritto a farlo. E così mentre le idee danno il segno della contraddizione dei tempi e di come anche per le donne serva ragionare tenendo conto dei problemi femminili a 360° gradi nel pianeta, fatti quotidiani fanno notizia. La mamma del grande corridore Pantani ottiene dopo circa 10 anni la soddisfazione di vedere riaprire il caso di suo figlio; lei ha sempre sostenuto che non si fosse ucciso nell’albergo dove fu trovato ma fosse stato ucciso. La riapertura del caso è un primo passo verso la ricerca della verità.
E per rimanere agli avvenimenti legati al ruolo di una mamma, amplissimo è lo spazio, giustamente dedicato dalla stampa, alla vicenda della giovane mamma tailandese che da madre in affitto per una coppia australiana ha partorito due gemelli, ma di questi la coppia australiana ha preso solo la bambina perché il maschietto è malato e non lo hanno voluto. La notizia di “problematiche “ ne ha messe molte in evidenza ma a fianco ad emozioni e moralità davvero diverse. Chi ha pagato per una madre in affitto ha scelto come fosse un oggetto commerciale quella figlia bella e sana, senza esitazione, lasciando l’altro al suo destino qualunque fosse. La giovane tailandese ventunenne, povera mamma in affitto, con altri due bambini ha sentito il gemellino malato come un bimbo suo che non poteva abbandonare. Il mondo generosamente aiuta la mamma povera e piena di sentimento ma il problema svelato rimane in tutta la sua gravità. E ancora parlando di madri, chi sarà quella della bambina di dieci anni che nella Nigeria del nord è stata fortunatamente fermata, prima che esplodesse come Kamikaze, avendo le cariche di esplosivo pronte sotto il suo ampio vestito? E’, questa, una creatura rapita da Boko Haram? O quale può essere la sua tragica storia? E il suo futuro come potrà trovare un destino degno? Mentre attorno a noi il mondo è in subbuglio su tante frontiere, in Italia il confronto politico è caldissimo in quanto la discussione per la riforma del Senato della Repubblica è in pieno svolgimento e protagonista in questo difficile dibattito troviamo in prima fila la Ministra Maria Elena Boschi,  titolare del disegno di legge insieme al Presidente del Consiglio Matteo Renzi, che contemporaneamente rispetto ai molti fronti su cui è impegnato stringe i tempi scrivendo a Jean Claud Juncker chiedendo che Federica Mogherini sia scelta quale futura Ministra degli Esteri della Comunità Europea. Un Europa che ci auguriamo sia quanto prima definitivamente a pieno regime con i suoi organismi politici per dare nel modo più efficiente il proprio contributo diplomatico su eventi drammatici come quanto avviene fra Israele e la Palestina di Hamas, in libia, Irak, Ucraina, per citare i focolai più drammatici. Rimanendo in Italia e dando informazione sul seguito di alcune notizie date in altri resoconti passati di PPD (Prima Pagina donne) c’è da compiacersi su due risultati direi positivi. E’ stato riconosciuto dalla cassazione come il Viminale debba risarcire la Sig ra Shalabayeva che non poteva essere estradata, la notte del 27/12/ 2013 ma aveva diritto d’asilo politico. Notizia di natura assai diversa ma comunque di soddisfazione per lo sviluppo avvenuto la “decisione” della Signora Angiola Armellini proprietaria di centinaia di appartamenti a Roma di pagare 50 milioni al fisco, precedentemente evasi. Sempre a Roma Giovanna Marinelli, nuova Assessora alla Cultura della Capitale sembra stia portando a una soluzione il futuro del teatro Valle con il consenso di chi oramai da due anni lo ha gestito come bene comune, garantendone la vita. Terminando, un pensiero obbligato alle donne di Gaza avvolte nel dolore e nella disperazione per chi non c’è più e per chi lotta senza più casa, senza sapere dove ripararsi, senza sapere come rifarsi un futuro per sè, i propri figli, la propria famiglia e i propri famigliari.
ortensipaola@tiscali.it

Non solo spread e fiscal compact, il Vietnam iracheno e l’Europa | Fonte: il manifesto | Autore: Lucia Annunziata

IRAQ-UNREST-ARMY-EXECUTION

Le due maggiori società petrolifere americana e inglese, cioè Exxon e Bp, stanno lasciando precipitosamente i loro pozzi petroliferi in Iraq. Stanno cioè lasciando tutto quello per cui avevano voluto, fin dal 1990, la guerra contro Bagdad. Per dirla in termini crudi, crudi come il petrolio di cui si tratta, gli americani e gli inglesi lasciano “il bottino iracheno” pagato con un così alto prezzo in termini di vite e di sconvolgimento politico mondiale. Il precipitoso abbandono fa venire in mente un’altra altrettanto precipitosa partenza, quella degli elicotteri che prendevano quota dal tetto dell’ambasciata americana di Saigon. La somiglianza tra i due eventi è tutt’altro che emotiva: in Iraq si sta consumando in questi giorni il secondo Vietnam americano. Con l’eccezione che questo secondo non è solo americano, ma di tutti noi che a queste guerre abbiamo partecipato. Ora che si avvicina una nuova fase altrettanto drammatica, possiamo fare qualcosa come cittadini e paese, o non ci resta che, come sempre, restare alla finestra?

Segnalo la cosa non per entrare nel gioco delle responsabilità già avviato nel dibattito delle due nazioni che sono state l’asse principale di quella guerra. Se quello che succede oggi sia il frutto della mancanza di visione dei due Bush, della aggressività dei neocon, della vigliaccheria di Blair o del tentennare di Obama. Indipendentemente dal segno politico dei leader che in questi anni hanno guidato i paesi occidentali, e da quello che ognuno di noi cittadini ne abbia pensato (per quel che mi riguarda ho la coscienza posto – ho scritto un libro dal titolo inequivocabile “No” per spiegare la mia posizione ) le due guerre per la conquista di Bagdad sono state un evento epocale che ha ridisegnato la mappa del mondo. La conquista dell’Iraq doveva essere – nella idea dei suoi architetti – la costruzione nel cuore del Medio Oriente della Grande Stabilità , una piattaforma militare occidentale di dimensioni mai prima immaginate, da cui finalmente tenere in riga Iran, Arabia Saudita, Siria, Libano, palestinesi, curdi, e, perché no, anche Israele, e altri stati alleati come Turchia, Egitto e tutti i vari principati del Golfo. Un enorme sforzo, certo, ma che l’Occidente si sarebbe ampiamente ripagato sottraendo il petrolio alle volatili mani di amici e nemici, guadagnandosi così una infinita pace futura.

Invece non c’è stata nessuna quadratura del cerchio. Sono stati decenni di uno smottamento di confini, etnie, religioni, razze, poteri che si è consumato negli anni con l’effetto di una malattia a contagio lento ma inarrestabile, cui nessuno è riuscito a sottrarsi. Decenni di altre guerre, allargatesi a tutti i paesi dell’area, dalla Libia alle rivolte delle primavere arabe represse con sangue, carri armati e torture. Decenni di morti di civili e soldati occidentali di ogni nazionalità religione, inclusi italiani; di attentati mai visti prima, come quello alle Torri Gemelle, appunto; della espulsione di milioni di persone dalle proprie terre, riversatesi in una gigantesca ondata migratoria sulle nostre spiagge. Decenni di nuove radicalizzazioni religiose, di rotture fra stati e razze.

Ma, quel che più conta, sono stati decenni di un progressivo logoramento della coscienza del nostro mondo, di nuovi dilemmi etici e tanti peccati commessi da noi occidentali, torture, rapimenti, illegalità, violazione dei diritti civili e umani, conditi dalla inevitabilità di quella crescita della indifferenza, di quell’indurirsi dei cuori che rimane l’unico luogo in cui possiamo rifugiarci se non vogliamo impazzire.

Sono rimasta dunque sorpresa, lo confesso, che il Consiglio Supremo di Difesa presieduto dal presidente Giorgio Napolitano riunitosi in queste ore abbia colto questo senso della emergenza, del pericolo in cui tutti ci troviamo. Una nota finale dopo la riunione parla senza mezzi termini di “una situazione internazionale che mostra preoccupanti segni di peggioramento”. L’elenco che fa di questo nuovo bilico in cui ci troviamo va dall’Ucraina al Sub-Sahara passando per tutto il Medioriente.

Sono rimasta sorpresa perché non è molto facile in Italia infrangere la ossessione del nostro ombelico. Quella che con un errore ottico continuiamo a definire “politica estera” continua a non abitare da noi. Anche ora che il paese vuole cambiar verso, il nostro rapporto con il mondo sembra sempre rimanere lo stesso – di diniego, di rassegnazione, di timore a osare. Come se l’Italia fosse il solito fanciullino che non abita il mondo, o, peggio, come se l’Italia continuasse ad essere il solito yes man di ogni grande o piccola potenza che passa.

Questo è il punto in cui siamo oggi, e questo è quello che voglio segnalare con queste righe. Non mi interessa oggi avviare un ennesimo dibattito sulle responsabilità del dove siamo. Mi interesserebbe molto di più capire se si può fare qualcosa, magari anche piccola.

La prima credo sia avere un nuovo tipo di “discorso pubblico” – nei media, nei giornali, nelle televisioni, ma soprattutto nell’intervento del governo – che avvicini il mondo al paese, alla vigilia di nuove destabilizzazioni. Cosa sta succedendo esattamente in Iraq, in Medio Oriente, cosa produrrà nelle nostre vite? L’Italia ha bisogno di sapere che paese è, di elaborare una nuova idea di se stessa, che vada al di là dei consolatori stereotipi del made in Italy e del paese del turismo e dei tesori artistici. Ha bisogno di una nuova idea della propria posizione nel mondo, che combini business, partecipazione, e rilevanza geopolitica.

Non possiamo avviare il semestre europeo, e non possiamo decorosamente presentarci sulla platea mondiale con la pretesa di essere oggi la nazione capofila del cambiamento in Europa, se non abbiamo da dire qualcosa, oltre che sullo spread e il fiscal compact, su quello che il nostro paese vuole fare in tempi di pace e di guerra.

È morto il poliziotto della lotta alle ecomafie. Ucciso dai veleni | Fonte: Il Manifesto | Autore: Andrea Palladino

Eccola qui. Due anni di lavoro, di inter­cet­ta­zioni, di ana­lisi. Tutto finito in un cas­setto». Roberto Man­cini la sua infor­ma­tiva di 239 pagine sui traf­fici di rifiuti la con­ser­vava con una cura quasi mania­cale. Nella scri­va­nia del suo uffi­cio al com­mis­sa­riato San Lorenzo di Roma il volume aveva un posto d’onore, nel cas­setto sem­pre a por­tata di mano. La sua vita, in fondo, era lì, in quell’indagine che i suoi supe­riori e la magi­stra­tura hanno per un decen­nio evi­tato di leg­gere. Sapeva anche che in quelle pagine c’era la sua fine, l’origine del tumore al san­gue che lo ha ucciso ieri mat­tina, dopo un tra­pianto ten­tato come ultima spe­ranza di soprav­vi­venza. Sco­rie, veleni, scarti delle indu­strie del nord che per decenni sono finite inter­rate nelle terre del caser­tano e del basso Lazio, tra le case dei con­ta­dini e gli orti di quella che una volta chia­ma­vano Cam­pa­nia felix. Un fiume di rifiuti che sem­bra non finire mai.

Era pre­ciso come un chi­rurgo il vice com­mis­sa­rio Roberto Man­cini: per due anni ha ascol­tato le parole di Cipriano Chia­nese, l’avvocato-imprenditore di Parete (in pro­vin­cia di Caserta), anno­tando i nomi delle società, rileg­gendo la docu­men­ta­zione inter­cet­tata, incro­ciando con cura i dati. Dieci anni prima che il nome Gomorra diven­tasse un libro di suc­cesso, aveva rac­con­tato — da poli­ziotto all’antica — il mondo dei trafficanti.

«Qual­cuno mi deri­deva — rac­con­tava — alcuni col­le­ghi mi face­vano tro­vare i model­lini di camion della mon­nezza sulla scri­va­nia». Eppure quella sua inda­gine avrebbe potuto fer­mare quello che per i magi­strati napo­le­tani è oggi un disa­stro ambien­tale, in grado di con­ta­mi­nare forse migliaia di ettari di terre.Quell’inchiesta è costata la vita a Roberto Man­cini. Il con­tatto con i rifiuti sver­sati nelle terre cam­pane gli ha pro­vo­cato un lin­foma Hod­g­kin, risul­tato fatale. Nel 1997 — una volta con­clusa l’indagine su Cipriano Chia­nese — era stato nomi­nato con­su­lente della com­mis­sione par­la­men­tare d’inchiesta sui rifiuti, gui­data da Mas­simo Sca­lia. Fino al 2001 aveva con­ti­nuato a seguire le tracce dei veleni, visi­tando siti e aree con­ta­mi­nate. Qual­che mese dopo sco­pre la malat­tia. Il rico­no­sci­mento che ha avuto dallo Stato — dopo anni di bat­ta­glie — è stato di appena 5.000 euro. Nulla è arri­vato invece dalla Camera dei depu­tati, che pure lo aveva visto lavo­rare come con­su­lente in un ruolo ad alto rischio per quat­tro anni. Lo scorso anno aveva avviato una dif­fi­cile causa con l’amministrazione di Mon­te­ci­to­rio, che si è rifiu­tata di rico­no­scere una qual­siasi forma di risar­ci­mento. Solo nei giorni scorsi l’ufficio di pre­si­denza della Camera aveva messo in discus­sione la que­stione, su pres­sione di una rac­colta firme di change.org.

Man­cini alla fine è morto, senza rice­vere una rispo­sta posi­tiva. Ora la pre­si­dente Laura Bol­drini assi­cura «che la Camera saprà essere vicina come è giu­sto alla sua famiglia».

La scossa democratica | Fonte: il manifesto | Autore: Jacopo Rosatelli

Intervista a Gustavo Zagrebelsky . «Contro antieuropeisti e mercatisti, la terza via è la Lista Tsipras. Per tornare alla civiltà, alla cultura del Vecchio Continente. Per riaccendere la corrente dell’Europarlamento»

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«Siamo in un momento cru­ciale. Cia­scuno dia il con­tri­buto che è nelle sue pos­si­bi­lità». Gustavo Zagre­bel­sky, ex pre­si­dente della Corte costi­tu­zio­nale, giu­ri­sta e intel­let­tuale di fama, guarda con molto inte­resse all’iniziativa che fa capo ad Ale­xis Tsi­pras, in vista delle pros­sime ele­zioni euro­pee: «C’è biso­gno di un sus­sulto di con­sa­pe­vo­lezza. E c’è poco tempo: dedi­chia­molo a spie­gare per­ché l’Europa ha biso­gno di una scossa e a chia­rirne i con­te­nuti da pre­sen­tare agli elettori».

Pro­fes­sore, lei sostiene che que­sta scossa può venire sol­tanto da un’affermazione del pro­getto che incarna il 39enne lea­der della sini­stra greca. Perché?
Pre­scin­diamo un momento dai nomi, guar­diamo prima al qua­dro d’insieme. Alle ele­zioni di mag­gio si affron­te­ranno due masto­donti: da una parte, gli anti­eu­ro­pei­sti, che sono tali in nome della rea­zione all’Europa della finanza che sta influendo pesan­te­mente sulle libertà demo­cra­ti­che dei Paesi in dif­fi­coltà; dall’altra, l’Europa degli inte­ressi della finanza incar­nati dagli Stati forti che impon­gono la loro legge ai deboli. I primi vogliono il ritorno alle sovra­nità chiuse, al nazio­na­li­smo. Gli altri vogliono il man­te­ni­mento dello sta­tus quo . Di fronte a que­sti due giganti, c’è una terza pos­si­bi­lità, rap­pre­sen­tata dall’iniziativa di Tsi­pras: è il recu­pero dell’idea di Europa dei padri fon­da­tori, che pen­sa­vano che l’integrazione eco­no­mica fosse solo il primo passo verso una piena inte­gra­zione poli­tica. Inol­tre, essendo un lea­der greco, la figura di Tsi­pras ha anche un aspetto sim­bo­lico, sia per­ché lì stanno le ori­gini della nostra civiltà, sia per la situa­zione in cui attual­mente versa quel Paese: non so se ci ren­diamo conto che qual­che mese fa ha chiuso l’Università di Atene.

Lei esclude, dun­que, che un simile ruolo di rot­tura pos­sano gio­carlo i socia­li­sti gui­dati dal tede­sco Mar­tin Schulz…
Non lo escludo affatto. Temo, però, che se si con­fron­te­ranno le due forze di cui dicevo — nazio­na­li­sti e «mer­ca­ti­sti» — alla fine la social­de­mo­cra­zia farà blocco con i con­ser­va­tori, nella logica delle lar­ghe intese, per far fronte al nemico comune. Sarebbe la para­lisi. So bene che quest’iniziativa della lista Tsi­pras è accu­sata di essere l’ennesimo ten­ta­tivo mino­ri­ta­rio, set­ta­rio, che fa il gioco di altri… Ma ormai non se ne può più di que­sto modo di ragio­nare. Penso che la que­stione Europa non si esau­ri­sca nell’allentamento del vin­colo del 3% deficit/pil o simili: c’è ben altro in gioco. Inten­dia­moci: met­tere in discus­sione i rigidi vin­coli finan­ziari, come dicono di voler fare i socia­li­sti, è pro­pe­deu­tico alle neces­sa­rie poli­ti­che di svi­luppo, ma è pur sem­pre un aggiu­sta­mento all’interno della logica che attual­mente regge l’Ue. Noi vogliamo riap­pro­priarci dell’idea dei padri fon­da­tori, che non si limi­tava alla dimen­sione mer­can­tile, ma mirava a un’idea politico-culturale: l’Europa come punto di rife­ri­mento per il mondo, basato sulle sue acqui­si­zioni civili e sociali. E se ciò potesse esi­stere, sarebbe anche un ele­mento d’equilibrio nei rap­porti inter­na­zio­nali: una dimen­sione total­mente estra­nea all’Ue di oggi, che non gioca alcun ruolo nella scena mon­diale e che non fa nulla affin­ché, ad esem­pio, i diritti sociali siano rico­no­sciuti anche nei Paesi di nuova indu­stria­liz­za­zione. Ma per farlo, dovrebbe prima esi­stere come entità poli­tica: per me, la lista Tsi­pras, scon­tran­dosi con gli inte­ressi delle nazio­na­lità chiuse e con quelli dei mer­cati glo­bali de-regolati, è un pro­getto che ha come primo obbiet­tivo costruire l’Europa come auten­tico spa­zio poli­tico demo­cra­tico. Siamo per­sino ancora «al di qua» di una divi­sione fra destra e sinistra.

Anche lei con­di­vide, come i pro­mo­tori dell’appello per la lista Tsi­pras, la neces­sità di cam­biare i trat­tati, magari attra­verso un pro­cesso costi­tuente. Sbaglio?
No, non sba­glia. Que­sto è ciò che dicono giu­sta­mente il movi­mento fede­ra­li­sta e, in gene­rale, tutti gli euro­pei­sti più avver­titi. Siamo in un momento in cui o si pone seria­mente il tema della demo­cra­tiz­za­zione delle isti­tu­zioni euro­pee o andremo incon­tro a un pro­gres­sivo depe­ri­mento dell’idea di Europa unita».

A pro­po­sito del pro­cesso costi­tuente non sarebbe come fare una costi­tu­zione senza popolo, senza un demos europeo…
Anche secondo me non si può fare una costi­tu­zione senza un popolo euro­peo, che attual­mente ancora non c’è. Ma ciò non signi­fica che abbiano ragione coloro che sosten­gono l’ipotesi «fun­zio­na­li­sta». Senza un popolo, c’è solo l’oligarchia. Senza demo­cra­zia, c’è solo la tec­no­cra­zia. Non può reg­gere l’Ue senza una sorta di «patriot­ti­smo» euro­peo, legato alla nostra con­sa­pe­vo­lezza orgo­gliosa di quella parte della sto­ria dell’Europa che ha gene­rato tol­le­ranza, diritti civili e sociali, uguale dignità degli esseri umani, amore per scienze e arte, pro­te­zione per i deboli, rifiuto di quel dar­wi­ni­smo sociale che, sotto forma di iper­li­be­ri­smo, sta inva­dendo il mondo. Una sto­ria fatta anche dalle sue cul­ture poli­ti­che: illu­mi­ni­smo, socia­li­smo e soli­da­ri­smo cri­stiano. Oggi, pur­troppo, c’è un impe­di­mento ogget­tivo alla pos­si­bi­lità di una costi­tu­zione euro­pea: l’indisponibilità alla soli­da­rietà fra Paesi. E se non c’è dispo­ni­bi­lità dei forti a con­di­vi­dere la fra­gi­lità dei deboli, non c’è costi­tu­zione che tenga.

Pensa che la Carta dei diritti fon­da­men­tali di Nizza sia una leva per aprire delle con­trad­di­zioni all’interno del diritto comu­ni­ta­rio vigente?
Quella Carta doveva essere la base di tutto, per­ché fon­dava la cit­ta­di­nanza euro­pea. È stata cri­ti­cata per essere sbi­lan­ciata sul piano dei diritti indi­vi­duali rispetto a quelli sociali, ma il pro­blema è che non è mai entrata dav­vero nel «san­gue» che cir­cola nella Ue: è vigente, ma è anche effet­tiva? Deci­sa­mente più «viva» è la Con­ven­zione euro­pea dei diritti umani, quella su cui vigila la Corte di Stra­sburgo. Va detto, tut­ta­via, che il ter­reno pura­mente giu­ri­dico è impor­tante, ma non è quello deter­mi­nante: di fronte alla bufera finan­zia­ria, il mondo del diritto non può fare molto. Ha biso­gno di essere ali­men­tato dal basso, dalla par­te­ci­pa­zione, dal fatto che «si avverta» che le carte e le corti hanno un ruolo. In ogni caso, biso­gna cer­ta­mente insi­stere sul fatto che una realtà come la troika (Com­mis­sione, Bce e Fondo mone­ta­rio, ndr ) non ha alcun fon­da­mento giu­ri­dico: in base a cosa vanno a con­trol­lare i conti dei Paesi come la Gre­cia? Non c’è né legit­ti­mità né lega­lità. Eppure, i suoi con­trolli e responsi con­ta­bili con­tano molto di più dell’Europarlamento, e pos­sono addi­rit­tura aprire la strada al fal­li­mento degli stati. Un tema, quello del fal­li­mento, su cui occorre porre molto di più l’attenzione.

In che senso?
Fino a qual­che tempo fa, l’accostamento stato-fallimento sarebbe apparso un’aberrazione: lo Stato non poteva fal­lire. Se oggi non respin­giamo que­sto acco­sta­mento è per­ché accet­tiamo senza accor­ger­cene la degra­da­zione dello Stato a società com­mer­ciale. Ma non può essere così, è una con­trad­di­zione in ter­mini: lo Stato è un’altra cosa. Noi non pos­siamo par­te­ci­pare a un’istituzione come la Ue se essa pre­vede, tra i suoi stru­menti, il fal­li­mento dei suoi mem­bri: uno stru­mento capace di annul­larne le isti­tu­zioni demo­cra­ti­che. Da costi­tu­zio­na­li­sta, osservo che l’adesione dell’Italia alla Ue si fonda sull’art.11 della nostra Costi­tu­zione, che dice che si può limi­tare la sovra­nità a favore di isti­tu­zioni sovra­na­zio­nali, ma a con­di­zione che esse ser­vano la pace e la giu­sti­zia tra i popoli. Se ser­vono non a que­sti, ma ad altri scopi, che si fa? Diciamo: con la lista Tsi­pras ci si impe­gna per scon­fig­gere i due masto­donti di cui dicevo prima, essendo aperti a ogni pos­si­bile col­la­bo­ra­zione per una Europa di pace e di giustizia.

C’è chi ha cri­ti­cato l’idea di que­sta lista per­ché sarebbe ostile ai par­titi, quasi il frutto di una sorta di gril­li­smo da intel­let­tuali. Come risponde?
Io credo al ruolo inso­sti­tui­bile dei par­titi, e penso che la poli­tica — come inse­gna Max Weber — debba essere anche una pro­fes­sione. Se ci guar­diamo attorno, però, dob­biamo dire che in Ita­lia non sem­pre ciò che si chiama «par­tito poli­tico», è dav­vero «poli­tico». Abbiamo idea di che cosa deve essere la poli­tica? Die­tro la lista Tsi­pras, per come la vedo io, c’è invece un’idea pie­na­mente poli­tica di orga­niz­za­zione di biso­gni, inte­ressi e pro­spet­tive: mi auguro che que­sta espe­rienza possa ser­vire a moti­vare una parte di elet­to­rato che non va più a votare, sce­glie il Movi­mento 5Stelle o è delusa del par­tito cui finora ha dato il suo voto. Una parte sem­pre più grande di popo­la­zione, che — non credo ci sia nem­meno biso­gno di dirlo — è com­po­sta di molte per­sone di valore, di una parte buona di società.

Insegnare il mondo senza capirlo | Fonte: Il Manifesto | Autore: Giuseppe Aragno

 

E’un tiro al pic­cione e non è que­stione di colore poli­tico. Come si parla di scuola e di inse­gnanti, tutti hanno un colpo da spa­rare, anche chi a scuola ci vive. Per­sino in una rifles­sione sen­sata ti puoi imbat­tere in un attacco gene­rico e super­fi­ciale. La scuola, sostiene Giu­seppe Mon­te­sano, scrit­tore e docente, «deve dire […]chi è Pla­tone, non può non dirlo, e non solo per­ché sta scritto nel misero pro­gramma mini­ste­riale, ma per­ché è il suo unico com­pito, la sua unica chance, deve spie­gare la geo­gra­fia astro­no­mica, i ter­re­moti, i pia­neti, le cose ele­men­tari e impor­tanti della cul­tura. Però si tratta di un punto di par­tenza, quando invece è con­si­de­rato il punto di arrivo, diven­tando così una stu­pida gab­bia, e non un gri­mal­dello per aprire la gab­bia. Que­sto non suc­cede solo per­ché molti inse­gnanti sono pigri, ripe­ti­tivi, figli di que­sta società e quindi uguali agli alunni, ma anche per­ché gli alunni ado­le­scenti hanno sì una grande poten­zia­lità, che gli inse­gnanti, adulti, in genere non hanno più, ma que­sta ener­gia spesso non sanno nem­meno di averla e non sanno che pos­sono usarla per sapere e capire il mondo: tutto gli inse­gna, dalla scuola alla fami­glia alla società, che il mondo devono solo accet­tarlo senza capirlo».

Gli inse­gnanti sono figli di que­sta società, scrive Mon­te­sano. E’ pro­prio così o si tratta di una banale gene­ra­liz­za­zione? Si inse­gna per qua­ranta anni; in ser­vi­zio ci sono, quindi, docenti nati negli anni Cin­quanta, che si sono for­mati quando la repub­blica era gio­va­nis­sima: anni Sessanta-Settanta. C’è chi è nato invece quando altri docenti com­ple­ta­vano gli studi o ini­zia­vano la car­riera e ha comin­ciato a inse­gnare negli anni Novanta. L’Italia era pro­fon­da­mente cam­biata. E c’è anche una terza gene­ra­zione, i più gio­vani, quelli entrati da pochis­simi anni. Anche qui le dif­fe­renze sono enormi e non sono figli di società uguali tra loro. Se poi società sta per epoca della sto­ria e indica in senso lato un mondo, un «tempo» con le sue carat­te­ri­sti­che gene­rali e la sua cul­tura, beh, que­sto è acca­duto e acca­drà sem­pre e nes­suno potrà evi­tarlo, ma le dif­fe­renza esi­stono ugualmente.

Gli sto­rici del Nove­cento non hanno inter­pre­tato i fatti della sto­ria tutti allo stesso modo e nes­suno si azzar­de­rebbe a soste­nere che gli arti­sti, diven­tati «adulti», per­dono la crea­ti­vità. Non si capi­sce per­ché, invece, i docenti peg­gio­rano con gli anni e lavo­rano tutti allo stesso modo. Si tratta di un’affermazione che non è solo gene­rica e super­fi­ciale, ma deci­sa­mente defor­mante, per­ché induce a riflet­tere su uno ste­reo­tipo di docente, un inse­gnante che non esi­ste, non sui docenti in carne ed ossa. Stesso discorso per la scuola, che, secondo Mon­te­sano, inse­gne­rebbe ad accet­tare il mondo senza capirlo. E’ un’affermazione molto par­zial­mente vera e somi­glia male­det­ta­mente a un luogo comune. Che la scuola sia figlia di un «tempo della sto­ria» è vero. Vero è anche, però, che in una società chiusa e repres­siva come quella russa della seconda metà dell’Ottocento, quando una riforma di carat­tere demo­cra­tico aprì le porte della for­ma­zione a tutti, anche ai figli dei con­ta­dini, i docenti «pro­gres­si­sti» tira­rono su la gene­ra­zione di rivo­lu­zio­nari che scar­dinò l’impero.

Nel Sud bor­bo­nico, dopo il 1848, le scuole pri­vate libere, come quella di De Sanc­tis, furono tutte chiuse: erano una minac­cia per l’ordine costi­tuito e la for­ma­zione fu affi­data al clero. Per non dire dell’Italia risor­gi­men­tale, che non fu mai larga di mani­che con la scuola — troppo alfa­beto fa male alla salute — ma si ritrovò coi mae­stri socia­li­sti che face­vano guerra all’analfabetismo nono­stante gli sti­pendi da fame.

Non c’è dub­bio, la scuola è figlia di un tempo sto­rico, ma dav­vero è pen­sa­bile che quo­ti­dia­na­mente tutti gli inse­gnanti si met­tano all’opera per con­vin­cere gli stu­denti che il mondo migliore è quello che hanno e devono accet­tarlo? E’ cre­di­bile che essi vadano a scuola per fare dei nostri ragazzi degli utili idioti, ras­se­gnati, imbot­titi di nozioni e inca­paci di capire? Tutti gli inse­gnanti, in tutte le nostre scuole? Le cose non stanno così. Ogni scuola, in realtà, è una sorta di repub­blica a sé, una col­let­ti­vità con carat­teri distinti, con inse­gnanti pigri, inse­gnanti attivi, lavo­ra­tori solerti, menti aperte e gente chiusa e ottusa. All’interno di ognuna delle nostre isti­tu­zioni sco­la­sti­che ci sono mani­poli di docenti che hanno un’idea eman­ci­pa­trice della for­ma­zione. Biso­gna stare attenti alle sem­pli­fi­ca­zioni. Esse hanno una valenza divul­ga­tiva, un impatto molto con­di­zio­nante e spesso sono dan­nose. Gene­ra­liz­zare vuol dire cogliere i carat­teri gene­rali e per­dere quelli par­ti­co­lari. I det­ta­gli, però, non sem­pre sono dati secon­dari e spesso sono deci­sivi per dise­gnare un pro­filo. Quando si dice tota­li­ta­ri­smo, per esem­pio, si rie­sce a met­tere age­vol­mente assieme fasci­smo, nazi­smo e bol­sce­vi­smo. Chiun­que si metta a guar­dar bene, però, si accorge che è un imbro­glio. Tre dit­ta­ture, certo, ma l’Italia fasci­sta non è la Ger­ma­nia nazi­sta e soprat­tutto nazi­smo, fasci­smo e bol­sce­vi­smo sono tre pia­neti lon­tani e pro­fon­da­mente diversi tra loro.

E’ vero, un inse­gnante deve dire chi era Pla­tone, ma è vero anche che non può farlo senza pas­sare per Socrate, senza indurre cioè a rifiu­tare un mondo che non si è capito.

Madiba, nei commenti dal mondo la liturgia del “santo subito”, per stracciare i suoi insegnamenti Autore: fabio sebastiani

 

Numerosi i messaggi di cordoglio che sono giunti al Sud Africa da tutte le parti del mondo. Non c’è paese che si sia sottratto alla liturgia del post mortem disegnando una immagine di Madiba, per molti versi, inarrivabile. “Santo subito”, sembra un po’ lo slogan esemplificativo delle varie dichiarazioni ai quattro angoli del pianeta. Gli Usa, in particolare, con Obama in prima fila, che si è addirittura commosso “indiretta” nel ricordare il presidente del Sudafrica. Peccato che l’Anc sia stata sdoganata dalla lista delle organizzazioni terroristiche soltanto pochi anni fa. Da oggi in Usa verranno messe le bandiere a mezz’asta fino al 9 dicembre. In una fase in cui l’occidente costruisce muri sempre più poderosi, reinventando imperialismo e colonialismo, l’insegnamento di Mandela, nonostante tutti gli riconoscano di aver compiuto un mezzo miracolo nell’unificare il Sud Africa, è un insegnamento da archiviare in fretta e furia. Il paese ha perso il proprio padre”, dice Desmond Tutuche ha ricordato Mandela nel corso di una messa celebrata a Citta’ del Capo: i sudafricani dovrebbero fare a Mandela il regalo di un paese unito, ha dichiarato l’arcivescovo anglicano ed ex attivista anti-apartheid, Premio Nobel per la pace, nel corso della cerimonia cui hanno preso parte centinaia di persone. Numerosi giornali sudafricani sottolineano il ruolo di Mandela nella fine del regime dell’apartheid e nel ritorno del Sudafrica alla democrazia, nel 1994: “Sapeva che la riconciliazione era possibile e, cosa fondamentale, possedeva la forza di carattere che gli permetteva di accettare il fatto che un compromesso era altrettanto essenziale della fermezza nei negoziati”, scrive in un editoriale il Business Day. “Il suo ritiro dopo un solo mandato ha costituito un messaggio molto forte all’Africa intera, sottolineando come i principi della democrazia fossero più importanti di qualsiasi persona” prosegue il quotidiano, che – guardando alle elezioni politiche del 2014 – diffida i partiti dallo “sfruttare l’emozione provocata da questa perdita per il Paese per appuntarsi delle vittorie politiche facili ma che possono portare allo scontro”.A ricordare il suo passato antimperialista è il presidente cubano Raul Castro, che in un messaggio via twitter lo ricorda come “il compagno Mandela”, “per il suo esempio, la grandezza della sua opera e la fermezza delle sue convinzioni alla lotta
all’apartheid”.Il Venezuela ha proclamato tre giorni di lutto nazionale, mentre il Dalai Lama ha espresso “profonda tristezza” per un uomo di “coraggio e di principi e dalla integrita’ inconstestabile”. In un comunicato diffuso sulla sua pagina web, il leader spirituale dei tibetani in esilio ha onorato “un grande amico” per il quale nutriva ammirazione e rispetto. “Con la sua morte – ha detto – il mondo ha perso un grande leader, la cui determinazione ha giocato un ruolo fondamentale nell’assicurare la pace e la riconciliazione”.
Anche Pechino ha reso omaggio a Mandela, “amico fedele del popolo cinese”, “uomo di Stato celebre in tutto il mondo”. “Il popolo cinese ricorderà il suo rimarchevole apporto alle relazioni tra la Cina e il Sudafrica e per la causa del genere umano”, ha scritto il presidente Xi Jinping in un messaggio di cordoglio indirizzato all’omologo Jacob Zuma.

Infine, il ministro italiano Kyenge. “Era una luce, una guida per il suo Paese e mi colpiva il suo sorriso eterno, nonostante le difficolta’ e i soprusi subiti- ha detto – la sua lotta per la non violenza e’ stata per me una fonte di ispirazione, quindi questa notizia e’ molto triste. Ma sono sicura che rimarra’ per sempre un punto di riferimento”.