E’ uscito per i tipi di Jaca Book l’ultimo libro di Giorgio Cremaschi, “Lavoratori come farfalle”. Il libro ha un sottotitolo che è tutto un programma: “La resa del più forte sindacato d’Europa”. Gianni Marchetto, ex operaio Fiat e sindacalista della Fiom, propone alcune riflessioni a margine. L’occasione, insomma, per fare il punto sulla sconfitta dell’80 nell’ottica, però, di una valorizzazione del punto di vista dei lavoratori.
Caro Giorgio, vorrei dirlo in premessa: FINALMENTE… una ricostruzione di questi ultimi anni, sulla quale vale la spesa riflettere. E io lo faccio, grazie a te, tentando un “controcanto”. In fondo in fondo anche la tua ricostruzione è un po’ un controcanto: fatto di lotte, manifestazioni non sempre comprese (quando non osteggiate) dai gruppi dirigenti delle centrali sindacali, compresa la CGIL. E mi pare manchi nella tua ricostruzione l’intreccio tra le lotte, le manifestazioni, l’atteggiamento dei gruppi dirigenti e… gli accordi, i contratti, le leggi e LA LORO GESTIONE.
Tu parti dagli anni ’80, il decennio della ritirata sindacale e lo individui come il decennio nel quale, accanto ad una crisi molto seria dell’apparato produttivo del nostro paese e dell’offensiva del padronato (italiano e internazionale), è maturata una linea sindacale perdente e dove è cresciuto un gruppo dirigente votato al “male minore”. Male minore che ci ha portato al “male” attuale.
Gli anni ’70: gli anni d’oro del movimento operaio italiano
Io invece parto dagli anni ’70, perché è (anche) lì che bisogna saper cogliere i prodromi della sconfitta dell’80. Con il biennio del ’68 e ’69 si afferma nel nostro paese un movimento partecipato, che incentiva non solo la partecipazione diffusa ma anche il protagonismo degli uomini e delle donne più curiosi e intraprendenti e questo per tutti gli anni ‘70. Un movimento che mette in discussione quanto di “leninismo” era ancora presente nelle varie formazioni del movimento operaio (partiti, sindacati, gruppi) attraverso la pratica della “validazione consensuale”: rendere valido una qualsiasi questione con il consenso, pratica quanto mai complicata e controversa perché ha a che fare con le teste di uomini e donne in carne ed ossa, con le loro aspirazioni individuali, con le loro ambizioni, e un eccetera sconfinato. Quando dico “leninismo” non intendo quella pratica di necessaria disciplina che un gruppo sindacale o politico deve avere per ottenere dei risultati, ovvero di studio attento della realtà, ma quanto di deleterio e fallimentare (vedi la fine del “socialismo reale”) era presente nella “dottrina del leninismo”: ovvero il “come ti educo il pupo”, la stracca abitudine di indottrinare la gente, quasi che le teste di costoro fossero delle vasche vuote in attesa di essere riempite dal verbo dei “sapienti” (leggi, i dirigenti di partito e di sindacato). Infatti la contesa fu aspra tra coloro i quali tentavano di uscire da questo “leninismo” e coloro i quali lo difendevano aspramente nei loro comportamenti quotidiani. Chi vinse? Alla fine della fiera vinsero i “leninisti”, sia nelle formazioni politiche sia nei sindacati.
Quando vinsero i “leninisti”? paradossalmente quando attraverso i voti (in aumento) le formazioni di sinistra ebbero più potere nei luoghi di rappresentanza a tutti livelli: dai comuni, alle province, alle regioni, al parlamento. Nei sindacati quando la maggioranza dei sindacalisti (e anche una buona parte di delegati) si “ubriacarono” delle loro conquiste… lasciandole sulla carta, spendendo pochissimo tempo nella pratica della gestione di accordi, contratti e leggi, finendo così di stufare una buona parte di lavoratori e “insegnando” a decine e decine di imprenditori che tanto valeva firmare degli accordi se poi rimanevano sulla carta…
Perché vinsero i “leninisti”? perché nella gestione quotidiana del “potere” il modello vincente fu quello dominante: più produttività = più comando (sia nella fabbrica che nella società). Vedi ad esempio la conclusione della crisi produttiva alla FIAT nel 1980 (con i 35 giorni) e vedi il fenomeno del craxismo in Italia. In pratica si affermò il modello attuale che vuole maggiore EFFICIENZA a scapito della partecipazione democratica.
Perché noi perdemmo? (noi sta per quelli della “validazione consensuale”).
- 1° perché non ci fu abbastanza scavo teorico sul tema della produttività e sulla efficienza/efficacia: bisognava affermare un ben altro binomio PIU’ PRODUTTIVITA’ = PIU’ DEMOCRAZIA (una sfida innanzi tutto per noi). Termini i quali nella cultura del movimento operaio sono sempre stati concepiti come antinomie. Bisognava quindi affermare un altro criterio di produttività: fare il massimo con il minimo sforzo (in una qualsiasi azienda) e fare il massimo con il minimo di spesa nella società (quindi affermando nella pratica democratica il valore delle priorità in maniera partecipata e il bilancio anch’esso in maniera partecipata).
- 2° perché la pratica della “validazione consensuale” esige una ferrea disciplina (questa sì leninista), nel senso che occorre essere determinati nel praticarla e coerenti nelle risultanze. Io per esempio fui un “cantore” delle sue virtù, molto meno nella pratica quotidiana. Mi facevo prendere dalla fretta, dal fastidio di ascoltare tutti, di trovare una sintesi unitaria, ecc. quando tra pochi c’era la possibilità di decidere (male, visti i risultati odierni).
I pochi e i molti…
I pochi (le nostre “avanguardie”) sempre prese dalle lotte e poco dalla gestione degli accordi, contratti e leggi e i molti (una buona metà tra i lavoratori) che sul finire degli anni ’70, (caso FIAT) non portavano mai a casa un mese intero, dovuto dalla perdurante crisi produttiva della FIAT, e quindi della CIG, (vedi i bidoni di auto non vendute che affollavano i piazzali) e dei ricorrenti scioperi nelle officine, non sempre compresi dai lavoratori. Per non dire il fossato che si venne ad aprire dalle competenze di parecchi gruppi dirigenti di fabbrica sui problemi della “prestazione di lavoro” e la crassa ignoranza che caratterizzava in modo crescente i gruppi dirigenti dei sindacati sui problemi della condizione concreta dei lavoratori.
Per non dire il “ciucco” preso dal maggiore nostro dirigente di allora: Bruno Trentin che nei fatti attraverso una escalation dei contratti di allora nella pratica andava affermando “il salto dell’asticella”: ergo se ad un accordo o contratto non pienamente gestito come si rispondeva? “alzando l’asticella”! quasi che ad uno che non riesce a saltare un metro possa saltare un metro e dieci! Vedi per tutte la “1° parte dei CCNL”! e avanti popolo.
Gli anni ’80: gli anni della ritirata
Sono gli anni del riflusso, anni di resistenza di ristretti gruppi dirigenti di fabbrica contro gli effetti della crisi produttiva, contro la voglia di rifarsi la bocca da parte del padronato rispetto a tutti gli anni ’70. Contro il cedimento di CISL e UIL (vedi la scala mobile). La cosa, almeno per me, che ancora adesso non trova risposta è la completa sordità dei gruppi dirigenti rispetto ad un fatto democratico che venne del tutto sospeso per oltre un decennio: la rielezione delle “rappresentanze unitarie” dei lavoratori in tutti i luoghi di lavoro. E sì che avevamo a che fare con una intera generazione educata, cresciuta nella pratica democratica delle elezioni dei propri rappresentanti, nel ruolo delle assemblee dei lavoratori. Quanto meno la si poteva tentare: una parte dei Delegati eletti alla maniera degli anni ’70, una parte eletti su liste e se gli altri sindacati non ci stavano lo doveva promuovere lo stesso la CGIL per i propri Delegati. Era una contraddizione, certo, però positiva. E a ciascuno dei compiti predefiniti. Non se ne fece niente, abituando i quadri di fabbrica a far da sé in molti casi in maniera “divisiva” (così si dice adesso).
Gli anni ’90: gli anni della concertazione
Devo dire che sei il primo che parla criticamente della strategia della “codeterminazione” dei suoi aspetti positivi (tutti teorici e sulla carta) e dei suoi effetti negativi avvenuti là dove questa si affermò, vedi nei grandi gruppi tipo la FIAT, Zanussi, ecc. mi pare (e pareva a me allora) una strategia impostata in un periodo di sconfitta dei lavoratori e dei loro sindacati, a fronte del fatto di una imprenditoria poco avvezza al rispetto delle regole. In molti casi si tramutò in “collaborazionismo”. Parlo per diretta esperienza avendo io fatto una esperienza per ca. 2 anni in una “Commissione di partecipazione nazionale” del gruppo FIAT (su Salute e Sicurezza). Ho girato, a spese della FIAT mezza Europa, ma se qualcuno mi domanda se questa mia attività ha prodotto un infortunio in meno o migliorato un tantino di più la salute dei lavoratori? …
Contro il perbenismo e il moderatismo, malattie senili del comunismo
Mi pare che anche tu fai riferimento al concetto di “rassegnazione”. Ivar Oddone negli anni ’70 mi diede da leggere un libro: “Piani e struttura del comportamento”, un saggio di marca americana dei primi anni ’60, edito dalla Boringhieri, scritto a tre mani da Miller, Gallanter e Phribam (un antropologo, uno psicologo e un linguista) che così argomentava: “nei comportamenti degli uomini ci sono alcune costanti che durano da millenni. Ovviamente cambiando i contesti, cambiano le forme nelle quali tali comportamenti si manifestano. Davanti ad un modello consolidato (la famiglia, la tribù, lo schiavismo, il capitalismo, il socialismo, il liberismo, il fordismo, il taylorismo, più o meno applicato o modificato: essenzialmente caratterizzato dal rapporto tra chi pensa e chi esegue) cosa ci si aspetta dal comportamento di un individuo? che si integri nel modello esistente accettandolo come dato di “natura” o che all’opposto si ribelli a tale modello e (si badi bene) nel caso della ribellione è bene che ciò si manifesti in maniera esplicita per poter procedere nella successiva selezione o per mettere in pratica quelle politiche (del personale in fabbrica o del potere costituito fuori) atte a rendere innocua la ribellione stessa, attraverso la blandizie (la corruzione) o attraverso la repressione”.Diventa chiaro che “integrazione-ribellione” sono le due facce di una unica medaglia: lasciano il tutto così com’è. Solamente due generazioni sono uscite in avanti da questa antinomia: la generazione che fece la resistenza e quella del ’68 e ’69 che emancipò una giusta ribellione in una stagione molto lunga di “diritti e potere”: gli anni ’70.
Il principio di realtà
Siccome vengo da una lunga militanza, ho il ricordo nei primi anni ’60 del principio di realtà affermato da uno come Togliatti, e ciò era giusto, per non sbarellare nel velleitarismo. Solo che il nostro non si faceva imprigionare da questo, partiva dalla conoscenza concreta della realtà NELLE COSE, NEGLI UOMINI E NEI MODELLI per affermare una volontà di cambiamento che non disdegnava gli OBIETTIVI PIU’ UTOPICI (IL SOCIALISMO), quindi la capacità di parlare non solo al cervello, ma anche al cuore di donne e uomini, specie se giovani. Intanto però la realtà va squadernata e trovo quanto mai curioso che non si faccia nessun riferimento all’andamento della struttura manifatturiera e dei servizi nei vari documenti del recente congresso della CGIL. Così come ai dati occupazionali. Così come alla presenza o meno in questa fase di crisi di “aziende esemplari” [in dieci anni dal 2001 al 2011, ndc].
1. La stragrande maggioranza di queste aziende sono di piccole dimensioni e i proprietari sono relativamente giovani, quasi tutti pieni di intraprendenza. Dentro ci sta’ di tutto: dalla genialità, alla professionalità, al rispetto delle regole, alla ignoranza più crassa, al lavoro sottopagato, in nero, alla evasione fiscale e contributiva, fino agli odierni “forconi”. Li accumuna, nel periodo attuale, la stessa condizione: tutti con “la bocca alla canna del gas”. Quando vanno in banca trovano degli strozzini, mentre invece per le aziende grandi (magari con i debiti) c’è la manica larga;
Domanda: è da qui che verranno le “magnifiche sorti” di un rinnovato capitalismo sgravato finalmente dai lacci dell’art. 18? A me non pare, perché: 1° sono da sempre nell’area non tutelata dall’art. 18 – 2° il mercato di riferimento è sostanzialmente quello nazionale dove la domanda è più che stagnante (non c’è il quattrino che gira, la gente non compera, per cui…) – 3° se avessero dei soldi da investire per fare innovazione (sui prodotti, sulle tecnologie, ecc.), basta vedere il capitale sociale di queste imprese: RIDICOLO. Ci sarebbero delle chance, ma soldi non ci sono e le banche non ne danno;
2. Una minoranza di medie e grandi aziende, affermate da anni, però con imprenditori avanti con l’età, che non hanno più voglia di rischiare (l’hanno già fatto in gioventù), ora la villa c’è, la pelliccia per la moglie pure, i figli sono sistemati e i profitti sono remunerati non con la ricerca di produttività (quindi innovazione ecc.) ma con l’abbassamento del costo del lavoro, le esternalizzazioni, la delocalizzazione, la precarietà, e un eccetera sconfinato.
Quando un numero crescente di queste imprese sono in mano alla mafia e alla malavita.
Queste imprese (ormai da parecchi anni) sono nei fatti un terziario delle grandi manifatture della Germania. Domanda: è da qui che verranno le “magnifiche sorti” di un rinnovato capitalismo sgravato finalmente dai lacci dell’art. 18? Anche qui io ho miei dubbi. Ancorché facciano ricorso alla libertà di licenziare (specie attraverso la “pulizia etnica”: inidonei, invalidi, anziani, donne in maternità, ecc.), sostituendoli con gioventù precaria, non ci sarà nessun aumento di occupazione, quanto meno di sostituzione e come sempre accade nella sostituzione si realizza sempre un “risparmio” di mano d’opera. D’altra parte in queste imprese nel 2013 sono avvenuti ca. 100.000 licenziamenti (attribuiti a varie cause) e nessun incremento di occupazione.
Ci sarà senz’altro un incremento dei profitti, dovuti all’estensione del lavoro precario e parecchio “addomesticato”, senza tutele.
Quindi, l’attuale imprenditoria per ignoranza, ignavia, e con la filosofia di “farsi ricco in fretta”, ci sta’ portando allo sfracello.
Stessa cosa per i comuni (in provincia di Torino)
In provincia di Torino vi sono 315 comuni per un totale di 2.302.353 abitanti con 1.050.370 famiglie. Con tutta probabilità ci saranno dei comuni amministrati da cialtroni così come da persone probe, democratiche, ecc. cosa conosce delle “esperienze esemplari” la CGIL e lo SPI? Bisogna, quindi, oltre alla conoscenza della realtà, avere anche la capacità di fare “sognare” la propria gente, specie nell’attuale fase, se non si vuole lasciarla nella rassegnazione e nello scoramento, e i più sfortunati negli incubi, prede della rassegnazione e o del qualunquismo. Domanda: specie nella maggioranza della CGIL pare che sia questo il tratto distintivo? A me non pare proprio, quasi tutti come sono impegnati a giustificare l’esistente e una parte persino la forza politica di riferimento.
Il che mi porta a osservare (in maniera sconsolata) un altro fenomeno, descritto in una frase di A. Gramsci: “la classe operaia porta con sé tutti i difetti della borghesia che la comanda”. Spero di sbagliarmi…
Si può ripartire? SI!
Il che non vuol dire che tutta questa nostra borghesia sia di tal fatta. Quel tanto che stando al libro di A. Calabrò (Orgoglio Industriale, Ed. Mondadori) questi ci dice che nel 2008 su ca. 4milioni di aziende manifatturiere, ce ne sono 4.600 (lui le chiama “multinazionali tascabili”) che forse ci tireranno fuori dalla crisi. Domanda: chi le conosce, cosa fanno e cosa fa lì il sindacato (posto che ci sia)? Domanda successiva: è una bestemmia pensare di poter costruire a sinistra (a partire dai sindacati) un archivio di queste aziende per portarle all’onore del mondo, per tentare di farle mettere in contraddizione con il resto delle imprese? Per tentare una sorta di “alleanza dialettica” con il movimento dei lavoratori. Non fosse altro perché in questo campo vi sono senz’altro le possibilità di un “conflitto” più avanzato e non solo sulla difensiva. O no? A meno che lo sport preferito nei sindacati e nella sinistra sia quello “di continuare a mettere il lievito sulla merda”.
La ri-partenza e una autocritica
A patto però di essere consapevoli di tre questioni:
- la 1° ha bisogno di una salutare autocritica di tutti coloro i quali furono i protagonisti di quella stagione, nel senso di vedere i limiti di quella esperienza che grosso modo si può così definire: diventammo tutti quanti dei “bravi poliziotti” e chi come il sottoscritto si misurò con i problemi della prestazione di lavoro finì nel fare il “guardiano del 133 di rendimento” (è la misura massima stabilita per lo sfruttamento di una persona).
- La 2° quella di riconoscere che avevamo (chi più, chi meno) delegato al solo inquadramento unico la “carriera dell’operaio”, oscurando invece quanto dall’esperienza operaia e quindi quanto dalla sua “competenza professionale allargata” poteva venire, offrendo invece delle ipotesi di maggiore professionalità a nuovi modi di lavoro (le isole e quant’altro), ovvero quello di riconoscere che all’operaio intraprendente restavano aperte due strade: la 1° diventare talmente bravo da passare dall’altra parte (senza nessun giudizio moralistico, passare dalla parte di coloro i quali in una fabbrica hanno il compito di costruire delle Istruzioni per gli Esecutori) ovvero 2° strada, diventare talmente bravo e passare a fare il sindacalista! La 3° è quella di essere approdati a livello della migliore liberal democrazia, ergo: i lavoratori devono avere il diritto di esprimere i loro giudizi, specie con il voto sugli accordi e sui contratti (la libertà di opinione). A me pare che a questa concezione (del tutto giusta) occorra affiancare una strategia che si fondi sulla “democrazia cognitiva” (al cambio svizzero: mettere nella bagna i lavoratori).
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