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La serata di sabato si è conclusa con un concerto in piazza, la domenica, fra due plenarie si sono tenuti incontri che rilanciavano in maniera ancora più precisa l’idea che in questo mondo, di cui anche una parte della sinistra italiana è parte, possano nascere proposte credibili con cui essere nel conflitto determinato dalla crisi. La necessità di continuare a combattere il TTIP, la realizzazione di strumenti di comunicazione alternativi, la questione del debito con cui si strangolano soprattutto i paesi mediterranei, le lotte delle donne e l’urgenza di contrastare il populismo dell’estrema destra, cosa fare per rapportarsi a quanto accade nei paesi del sud del Mediterraneo e in Ucraina, come combattere ogni tipo di razzismo e come pensare il lavoro per il ventunesimo secolo.
La plenaria finale, organizzata per celebrare la vittoria di Syriza ma attenta anche a quanto pochi giorni prima era accaduto in Spagna, è stata occasione non formale per ribadire anche i punti di criticità che ancora si vivono nella Sinistra Europea. La necessità di praticare le lotte e di porsi obbiettivi ambiziosi non relegati al proprio singolo contesto statuale, quella altrettanto stringente di non pensare a modelli vincenti ed esportabili tout court ma di costruire tenendo conto delle similitudini e delle specificità di ogni singolo contesto, il bisogno di affrontare il confronto a viso aperto, senza politicismi o margini di ambiguità in una situazione in cui anche ciò che resta delle speranze che si definiscono “socialdemocratiche” sono ormai totalmente asservite al neoliberismo. Si è trattato, come nei dibattiti tematici, di una discussione franca e scevra da formalismi, a tratti anche ruvida ma importante.
Si respirava, ascoltando le persone, girando nella piazza fra un caffè e una birra, un volantino e un intervento, la voglia di costruire intelligenza collettiva, di non fermarsi a misurare le distanze che separavano ogni singola esperienza ma a volerle far comunicare e valorizzare. Un clima di fiducia contagioso che si diffondeva in un pubblico intergerenazionale, plurilingue, prodotto della frammentazione di diverse culture, quella comunista, socialista, ambientalista o semplicemente di chi si ritrova da una parte della barricata perché individuava in quel campo un referente fondamentale per la difesa dei diritti di tutte e di tutti.
Rappresentativa la presenza di Rifondazione Comunista, dal segretario Paolo Ferrero all’europarlamentare Eleonora Forenza, dalla responsabile lavoro Roberta Fantozzi al responsabile esteri Fabio Amato, fino a chi scrive. Le platee hanno riconosciuto al lavoro faticoso e duro del nostro partito una importanza enorme. Maite Mola, Vicepresidente del Partito della Sinistra Europea, nel suo intervento finale ci ha tenuto a ringraziare l’Italia per l’affermazione della lista L’Altra Europa con Tsipras di cui Rifondazione è stata ed è tuttora elemento imprescindibile. Un riconoscimento esplicitamente legato al fatto che non può esserci una Sinistra rappresentativa del vecchio continente se non rappresentata anche dall’Italia, non solo per la sua storia passata ma per quanto sta avvenendo nel presente.
Il Forum si è chiuso con un appello a sostegno di Syriza e del popolo greco, oggi più che mai punto nodale di resistenza contro una Troika che vorrebbe impedire che si propagassero gli effetti salutari delle politiche del nuovo governo. La sconfitta dell’austerity passa per Atene e quando il 20 giugno la Grecia intera si ritroverà in piazza per respingere l’attacco imposto dalle istituzioni finanziarie europee e dai lacci della Commissione, non dovrà essere lasciata da sola. E combattere l’austerità anche nel proprio paese è quello che ci chiedono anche i compagni greci. Il materiale emerso dal forum è comunque reperibile per intero su http://www.forum-des-alternatives.eu/ e http://www.european-left.org/
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Unire la sinistra o costruire il popolo? Gli ultimi 7 anni di lotta contro crisi e austerity in Europa hanno evidenziato la presenza di due strategie organizzative contrapposte, che si sono manifestate sia nel campo dei movimenti sociali che nel campo della politica di partito: l’unità a sinistra o il populismo. Queste strategie riflettono diverse “diagnosi” differenti interpretazioni della natura della presente crisi, e propongono diverse ricette organizzative. L’unità a sinistra punta su una logica di coalizione , capace di alleare vari attori sociali e politici pre-costituiti (movimenti, partiti, associazioni); il populismo invece scommette su una logica di fusione , proponendo di reintegrare quella che Emanuele Ferragina ha chiamato la “maggioranza invisibile”, i “disorganizzati”, i non garanti e i non rappresentati dentro un soggetto sociale politico unitario, che parli a nome del “popolo tutto”.
La strategia dell’unità a sinistra è quella più longeva e riconoscibile nel contesto europeo. In fondo si tratta della stessa logica che portò negli anni ’90 alla creazione di vari “partiti di coalizione” di sinistra come Izquierda Unida in Spagna, e Synaspismos in Grecia, e per certi versi Rifondazione Comunista in Italia. Formazioni sorte per unire le forze di una sinistra altrimenti destinata alla sconfitta a causa della sua proverbiale frammentazione. Ed era pure la logica di fondo del movimento anti-globalizzazione, con il suo tentativo di mettere assieme le diverse anime della “società civile globale”: sindacati, le ONG, i movimenti ambientalisti, partiti di sinistra e gruppi autonomi.
Dall’inizio della crisi economica del 2008 questa strategia ha dato vita a nuove coalizioni politiche e sociali contro l’austerità. Nel campo politico ne è esempio la creazione del Front de Gauche in Francia, che ha unito diversi partiti opposti alle politiche di austerità. Nel campo della società civile questa logica di coalizione si è vista all’opera nelle proteste di Blockupy, contro la Banca Centrale a Francoforte che ha portato assieme organizzazioni come Attac, vari sindacati tedeschi, e gruppi autonomi e anarchici, e nel contesto italiano con il tentativo di Uniti Contro la crisi nel 2011 e la recente creazione della Coalizione Sociale di Landini.
La strategia populista, che trae ispirazione dall’ondata rosa del populismo socialista latinoamericano, costituisce invece la vera novità di questo ciclo di lotta. Una strategia populista si è manifestata invece nella creazione di nuovi attori sociali e politici, che hanno cercato di dissociarsi dal tradizionale immaginario della sinistra, appellandosi a masse di cittadini atomizzati che non si riconoscono in alcun blocco sociale pre-costituito. Questa strategia si è manifestata nel contesto dei movimenti, nelle azioni degli indignados spagnoli, dei loro cugini grechi, i polites aganaktismenoi (cittadini indignati), e il modo in cui appellandosi all’insieme della cittadinanza contro “politici e banchieri” sono riusciti a portare in piazza milioni di persone, molte delle quali alla loro prima esperienza di protesta. Infine, la creazione di Podemos, con il suo tentativo di andare oltre la sinistra tradizionale spagnola e creare un soggetto politico unitario che potesse unire categorie sociali molto diverse attorno a una comune identità popolare, ha dimostrato la potenza della strategia populista e della sua logica di fusione pure nel campo della politica elettorale.
È evidente che queste due strategie sono per molti versi contrapposte. Laddove l’unità a sinistra punta a “inanellare” nuclei organizzati pre-costituiti, la logica populista ha l’ambizione di creare ex-novo una rappresentanza del popolo.
Laddove l’unità a sinistra tende a cucire assieme simboli e discorsi che rappresentano le diverse anime della sinistra frammentata – comunisti, trotzkisti, verdi, femministe, ambientalisti – la logica populista utilizza quelli che il filosofo Ernesto Laclau chiamava “significanti vuoti”, simboli unificanti, apparentemente onnicomprensivi – popolo, gente, cittadini – che vogliono interpellare la massa dei cittadini atomizzati non garanti, dei non rappresentati, dei non organizzati. Eppure esistono modalità ibride e possibili transizioni tra queste due tipologie.
L’esempio più evidente è il caso di Syriza e della sua recente trasformazione. Le radici del partito affondano in Synaspismos la coalizione della Sinistra, dei Movimenti e dell’Ecologia fondata nel 1991. Tuttavia sotto la leadership di Tsipras il partito ha operato una “svolta populista”, vista sia nel cambiamento del discorso e del linguaggio politico, sia nel contesto organizzativo. Il momento decisivo di trasformazione è stata la svolta verso “un partito unitario” (piuttosto che un partito di coalizione) celebrato nel congresso di luglio 2013, che portò alla dissoluzione ufficiali dei partiti membri. Si tratta di una mossa chiaramente ispirata dal movimento degli aganaktismenoi , e dal modo in cui hanno contribuito in aprire uno “spazio popolare” che una pura strategia di unità a sinistra non avrebbe potuto rappresentare.
Sia la strategia di unità a sinistra che la strategia populista contengono potenzialità e pericoli. La logica dell’unita a sinistra offre la possibilità di costruire un fronte relativamente ampio ma al tempo stesso omogeneo ideologicamente. Tuttavia corre il rischio classico della “sinistra-sinistra” di rinchiudersi in un angolo. La logica populista offre una strategia “pigliatutto” che risponde bene alla presente fase di crisi associativa e crisi di appartenenza. Ma al tempo stesso è molto esposta ai cambiamenti di umore dell’opinione pubblica, e alla instabilità delle emozioni collettive. In ogni caso concreto la scelta tra queste due strategie dovrebbe rispondere a una fondamentale considerazione strategica. Qual è in questa fase politica il compito più urgente e il cammino più credibile per combattere la politica d’austerità? Unire le forze di quelli che ancora si riconoscono in identità di sinistra e con livelli relativamente alti di appartenenza e rappresentanza? O dare voce alla “maggioranza invisibile” dei disorganizzati, dei non garantiti e dei non rappresentati?
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Ci troviamo in una fase in cui Renzi compiuto il lavoro sporco deve dimostrare che l’Italia può riprendersi. In realtà sappiamo tutti che continuerà la disoccupazione e i bassi salari. Però rimarrà il fascismo dipinto da democrazia dell’ex sindaco di Firenze…
Stanno usando la crisi per aumentare l’oppressione e la selezione sociale. E’ questa la sua grande funzione. Il Jobs act è la conclusione di un processo di trent’anni che porta alla distruzione delle dignità fondamentali. Nei luoghi di lavoro e nei rapporti di lavoro c’è il fascismo. La gente vive e deve vivere nella paura e nel terrore rinunciando alle sue libertà e dignità fondamentali. Mi ha colpito, pochi giorni fa su La7. Hanno fatto un servizio alla Fiat di Pomigliano. Si vedeva chiaramente che, al contrario di tempo fa quando gli operai si avvicinavano spontaneamente di fronte a una telelecamera, ora la risposta era la fuga, il travisamento. Risultato, quelli della troupe non sono riusciti ad intervistarli. Le tute blu vevano paura anche di farsi inquadrare dalle telecamere. Non eravamo a Nola, nei campi di pomodori, o a Prato davanti a una fabbrica cinese. In questa azienda c’è un clima di fascismo e mafia che impedisce ai lavoratori di parlare. Senza dire dei giovani precari e di chi è costretto a lavorare gratis. Tutte queste cose qui sono state costruite un po’ alla volta con la cultura del Jobs act e poi costituzionalizzate. Siamo all’anno zero del lavoro. E una eventuale ripresa finirà per stabilizzare questa situazione.
Se invece di farlo a Milano il corteo lo facevate a Roma Salvini veniva battuto quattro a zero…
L’abbiamo battuto lo stesso. A Roma tre volte quelli di Salvini, a Milano più o meno uguale e quindi li abbiamo batti quattro a zero. Chi tace è complice. Chi nel sindacato tace o lo trasforma in un problema di relazioni industriali è complice. Considero un errore il ritiro dello sciopero dello straordinario a Melfi. Negli anni ’50 la Fiiom in Fiat ha proclamato una marea di scioperi che facevano solo i militanti. Ma sono scioperi che sono serviti. Perché segnalavano che c’era un sindacato che non rinunciava a battersi. La forza della Fiom è stata finora quella di non aver mai piegato la testa.
Si ma oggi c’è un sindacato che non si capisce più. La Cgil fa la guerra a parole, la Fiom apre due fronti uno con il Governo e uno in Cgil…
Molta immagine e poca sostanza. Sono stato abituato nella mia storia sindacale che alle dichiarazioni corrispondono delle azioni. La Cgil ha smesso. Ha fatto lo sciopero generale e poi ha detto che la lotta non c’è più. E’ riprecipitata in un’abulia terribile. Avrei preferito essere stato smetito. Da tempo sostengo che quella dell’autunno era una fiammata di mobilitazione a cui non bisognava credere. Era una parentesi senza un progetto o una linea sindacale. La Cgil in questi 25-30 anni ha avuto due gambe: accordo con Confindustria e collateralismo con Pd. Oggi vengono meno tutte e due le cose. Semplicemente non sanno cosa fare. Bisgonerebbe avere una idea di ricostruzione generale del conflitto che i gruppi della Cgil non hanno intenzione di fare.
E per quanto rigaurda la Fiom che in questi anni ha svolto un ruolo enorme e importante il sindacato che non si arrende, ma a me pare che si sia sostanzialmente fermata. Dicono che tutto questo lavoro va investito in qualcosa, ma ci sono comportamenti troppo contraddittori. Nei sindacati contano i comportamenti concreti. Ha fatto la battaglia contro la Fiat ma fa la vetenza per il contratto nazionale insieme a quelli che stanno con Marchionne. Temo che il gruppo dirigenee della Fiom stia cadendo in quella condizione tipica, ma non è colpa loro, che ha messo in crisi tante esperienze positive nella sinistra e nel sindacato italiano, l’incoerenza. Landini esprime sentimenti popolari profondi e poi in concreto nei comportamenti quotidiani questo non c’è. Siamo passati dal fatto che quando è uscito il Jobs act il segretario della Fiom ha parlato di occupare le fabbriche e oggi vedo che fanno il contratto con Fim e Uilm. La Fiom nel 2001 non aveva fatto questa scelta. Al di là delle polemiche vedo una gran confusione.
Il QE peggiorerà o migliorerà le cose?
Il QE è una operazione di pura continuità. Non è vero che è una rottura con le politiche liberiste. Non è un caso che alla Grecia non sia concesso. La Grecia deve prima morire. Non bisogna dimenticare che ha vincoli precisi come la distruzione dei diritti del lavoro. Se l’Italia non faceva il Jobs act non lo prendeva. Vogliono ricostruire un mercato speculativo. Si continua a vendere il paese a pezzi. Dall’altro, c’è la distruzione totale dei diritti del lavoro. Se fai queste cose ti prestano i soldi. C’è un totale rapporto tra la dispersione sociale e la ripresa della speculazione. Da questo punto di vista non c’è nessuna differenza tra Draghi, Marchionne e Merkel. Chiunque pensi a delle alternative o a degli spazi progressisti o è disinformato o è complice.
Ci sarà disoccupazione e inflazione. Non è un bello scenario…
Hanno distrutto i contratti nazionali e ora fanno risalire l’inflazione. E’ lo scopo fondamtenale delle politiche liberiste. Sconcertante il dibattito sul contratto decentrato. Mi viene in mente il film degli anni sessanta “Cani perduti senza collare”. Non c’è concertazione, sono le aziende a fare le piattaforme. E chiederanno tutto e di più. Piattaforme selvagge. Tutto legato alla tentazione di ripristinare un sistema concertativo che non c’è più. Se uno vuole discutere di sindacato deve discutere come riprendere le lotte e non di relazioni sindacali.
Ross@ ha partecipato alla manifestazione di sostegno della Grecia, nell’ottica di una sinistra unitaria…
Ross@ la prossima settimana fa un convegno sull’Europa. Non si ricostruisce la sinistra senza avere una posizione su, io penso contro, l’Europa. Gli spazi politici occupati da Renzi sono enormi. Non c’è nessuno spazio per poltiche riformiste tradizionali anche con le migliori intenzioni. Su quello che è avvenuto tra Grecia ed Europa in cui la Grecia è stata abbandonata, spero che Tsipas pensi a un piano B. Se pensano di convincere la Merkel del no all’austerità vanno al disastro. La sinistra italiana deve partire da zero, ovvero dalle lotte e dai grandi temi. Siamo credo all’anno zero della sinistra. Non vedo niente in grado di presentare una vera prospettiva. Anche le liste Tsipras credo siano più un bisogono del ceto politico rimasto della sinstra radicale che un vero progetto politico. Temo che non sia così semplice, nelle regionali ci sarà caos perché non ci sarà una presenza massiccia e unitaria. Il nodo della sinistra è lo stesso del sindacato e della Fiom: non basta dire che non sei d’accordo con Renzi. Devi rompere con il Pd. E devi rompere dal Parlamento al Consiglio di quartiere. Non può essere un po’ sì e un po’ no. Syriza e Podemos presentano una rottura radicale con le esprienze precedenti.
Eppure l’occasione ci sarebbe, visto che sia il “grillismo” che il “salvinismo” non sembrano avere tutto questo filo da tessere…
L’occasione ci serebbe, è vero. A differenza di un paio di anni fa. Per sfruttarla bisogna rompere con tutte le pratiche di questi anni e rompere con il partito democratico.
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La Cgil rischia un cruciale passaggio di trasformazione interno?
Oggi la Cgil è in un pesante stato confusionale. Le roboanti dichiarazioni di guerra all’applicazione del Jobs Act sul terreno aziendale testimoniano esattamente la fine della fase di conflitto su scala generale. Non c’è alcuna strategia su come affrontare questa fase inedita, non c’è nessuna seria volontà di definire politiche contrattuali nuove. Come si riconquistano i diritti cancellati? Come si difende il lavoro nel quadro della totale ricattabilità definito dal Jobs Act? Interrogativi tanto ineludibili quanto semplicemente ignorati. Renzi esce vincitore dalla prova di forza con la Cgil, approva il suo Jobs Act e si ripulisce l’immagine con Mattarella presidente, riuscendo persino a dare un colpetto a Berlusconi per la gioia di tutti gli orfani dei bei tempi in cui si poteva addebitare tutto al caimano. Il rischio è che alla Cgil ciò sia sufficiente per abbellire la resa. Questo non vuol dire che non si riapriranno tensioni con il governo, ne che la Cgil starà ferma nei prossimi mesi. Tuttavia qualunque iniziativa, anche di lotta, che non sia preceduta da una riflessione profonda e rigorosa sulla sconfitta e su come ripartire con scelte nette e radicali serve solo a parare la mesta ritirata. Se non si rimette al centro la ricostruzione dell’opposizione sociale, se non si riafferma l’identità anticapitalista del sindacato in un nuovo rapporto di reti, di mutualismo, di riappropriazione dei bisogni negati il sindacato è destinato a accettare, più o meno passivamente, la sua lenta estinzione, la sua progressiva perdita di senso e ruolo nella vita di chi vuole rappresentare. Il doppio regime sociale che Renzi ha imposto con il Jobs Act, tra vecchi dipendenti e neoassunti senza più diritti rende bene l’idea della residualità di un sindacato, non solo la Cgil evidentemente, chiuso in un fortino con i suoi, sempre meno, vecchi iscritti.
Landini sembra proporre una formula mista nel tentativo di uscire dall’angolo, ovvero un’alleanza con la società civile. Cosa ne pensi?
Ho colto nelle dichiarazioni di Landini sul partito sociale il tentativo di una riflessione importante. Siamo nel pieno della conclamata crisi della rappresentanza sociale e politica del lavoro da cui non se ne esce con la pur necessaria radicalità formale. Pratiche, ricostruzione di senso, efficacia e rispondere ai bisogni sociali al tempo della ricattabilità del lavoro dovrebbero essere i temi di fondo su cui impegnarsi davvero. Occorre ridefinire una strategia di medio lungo periodo per riaffermare la contrattazione come uno degli strumenti dell’emancipazione progressiva dal lavoro subordinato. Ragionare di rappresentanza dentro e fuori i luoghi di lavoro in tempi in cui sarà sempre più complicato anche solo essere iscritti al sindacato visto che si può essere licenziati su due piedi. Così come il tema della riunificazione degli interessi di classe destrutturati dalla durezza della restaurazione capitalistica non è più rinviabile.
Quello che non mi convince del ragionamento di Landini è quello che manca. In primo luogo la necessaria rottura con il modello dell’accordo del 10 gennaio, quello cioè che consente la spoliazione di diritti e salario dei lavoratori. In secondo luogo servono le lotte. Senza il conflitto su larga scala, senza la ricostruzione molecolare di nuovi rapporti di forza non c’è alcun partito sociale. Non è la sommatoria di soggetti che rende l’efficacia ma la radicalità di un percorso che deve essere unificante e volano dell’iniziativa. Lo dimostra l’esperienza della Grecia. Le innumerevoli lotte dei lavoratori greci hanno sedimentato coscienza, critica di massa, rabbia e hanno permesso di provare a rappresentare sul piano politico quei bisogni. Se in Italia non c’è sinistra politica è perché non c’è stato alcun conflitto e la sinistra politica e sociale è percepita, a torto o a ragione, come parte di chi governa l’austerità non di chi si oppone ad essa. In questo senso davvero non comprendo la dichiarazione di Landini a favore dell’elezione di Mattarella. Senza una rottura con il palazzo, di cui Mattarella è parte, non c’è ricostruzione.
Mi chiedo e chiedo a Maurizio Landini se non sia giunta l’ora di rompere ogni ritrosia e indugio a lanciare una grande manifestazione contro l’austerità e in solidarietà al popolo greco. E’ stato un errore affidarsi alla presunta svolta della Camusso, ora bisogna tornare alla Fiom che promuove l’incontro di un vasto fronte sociale, a prescindere dalle scelte della Cgil. Bisogna tornare alla Fiom che lotta sul serio.
Il percorso dello sciopero sociale riprende proprio in questi giorni. Che possibilità ci sono lì?
L’originalità positiva del percorso che ha portato al 14 novembre va mantenuta, arricchita e rilanciata. Certo l’approvazione del Jobs Act pone un problema a tutte le soggettività che vogliono davvero contrastarlo e insieme ricostruire una cornice di diritti del lavoro in tutte le sue forme. Bisogna riflettere sul come dare gambe concretamente alla lotta in una fase di pesante passività sociale e di immobilismo delle grandi organizzazioni. Le mobilitazioni contro l’Expò 2015 devono divenire parte importante di questo percorso proprio nella città che diverrà simbolo del capitalismo usa e getta, del lavoro a salario zero. Siamo parte di questa bella e importante esperienza e continueremo a sostenerla insieme al resto del sindacalismo conflittuale.
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Il duplice scenario e la composizione dei partecipanti sono stati quanto mai efficaci per chiarire che a Roma sfilava un variegato popolo rappresentante fisicamente e culturalmente la sinistra, sebbene del tutto privo di un partito che interpreti e difenda le sue ragioni. Mentre a Firenze sedeva a rendere omaggio al principe un gruppo della borghesia medio-alta orientato palesemente a destra — a cominciare dal Principe stesso. Vi sono due condizioni che fanno, oggi come ieri, la differenza tra destra e sinistra.
Una è la scelta della parte sociale da cui stare: in politica, nell’economia, nella cultura.
Il che significa o sostenere che le disuguaglianze non hanno alcun peso nei rapporti sociali, o magari negare che esistano; oppure darvi il peso che moralmente e politicamente meritano, e adoperarsi per ridurle. L’altra condizione è la capacità di capire in che direzione si sta evolvendo la situazione economica e sociale del momento. Perché se non lo capisce uno sta uscendo, senza rendersene conto, dal corso della storia.
Nel caso della prima condizione la differenza tra Roma e Firenze era evidente. Alla manifestazione di Roma non c’erano (o erano poche) le persone che dovevano scegliere se stare o no dalla parte dei deboli, degli svantaggiati, delle classi inferiori di reddito, di quelli il cui destino dipende sempre da qualcun altro. Erano loro stessi, la massa dei partecipanti, a essere deboli, svantaggiati, poveri, perennemente in balia del parere e della volontà di qualcun altro. Collocati, in altre parole, al fondo delle classifiche delle disuguaglianze di reddito, di ricchezza, di potere politico ed economico; disuguaglianze il cui scandaloso aumento negli ultimi vent’anni, nel nostro paese come in altri, accompagnato dalla scomparsa del tema stesso nel discorso delle socialdemocrazie, ha fatto parlare più di uno studioso di nuovo feudalesimo.
Invece nel garage semibuio di Firenze c’erano soprattutto persone a cui l’idea di stare dalla parte dei più deboli e magari di dichiararlo appariva semplicemente repellente, o quanto meno fastidiosa, non meno che mettersi a parlare “in un mondo che è cambiato” di lotta alle disuguaglianze. Al massimo i più deboli si possono aiutare a soffrire di meno, non certo a diventare meno deboli, o a salire un gradino nella scala delle disuguaglianze, grazie a un sindacato o un partito. Per non dire che la parola “partito” significa appunto “aver preso parte” — idea demolita a Firenze dall’idea di un partito- nazione (ma l’ha detto qualcuno a Renzi che la parola “nazione” o “nazionale” figuravano tempo addietro nel nome di un paio di partiti che molti guai procurarono all’Italia e all’Europa?).
Anche per l’altra condizione non c’era confronto tra i partecipanti di piazza San Giovanni e quelli della Leopolda. Per i primi era evidente che quello che sta succedendo da parecchi anni è una “guerra dell’austerità”, per usare la dizione di un noto economista americano. Una guerra di classe in cui la destra si prefigge di distruggere le conquiste sociali degli anni 60 e 70, che furono un tentativo riuscito di sottoporre il capitalismo a una ragionevole dose di controllo democratico. Le misure imposte da Bruxelles, di cui il governo Renzi, a parte qualche battuta, è fedele esecutore, sono precisamente espressione di tale guerra o conflitto di classe, nella quale le classi dominanti hanno negli ultimi decenni conseguito una grande vittoria. Equivalente a una dolorosa sconfitta per i manifestanti romani.
A Firenze l’interpretazione predominante della crisi è stata quella canonica delle destre europee: lo stato ha un debito troppo alto, dovuto all’eccesso di spesa; il problema è il costo eccessivo del lavoro; per rilanciare la crescita bisogna ridurre le tasse alle imprese; i dettati di Bruxelles sono onerosi, ma bisogna pur mantenere gli impegni, ecc. Ciascuno di questi slogan è falso quanto dannoso — e si noti che a dirlo sono ormai dozzine di economisti, compresi perfino alcuni esponenti delle dottrine neoliberali. A parte l’interpretazione ortodossa della crisi, che non sta in piedi, chi vi aderisce non si rende conto che ci si avvicina a un momento in cui o si modificano i trattati europei e si adottano politiche economiche opposte a quelle del governo Renzi (che sono poi quelle degli ultimi tre o quattro governi, prescritte dalla Troika e da noi passivamente messe in atto), o ci si avvia ad un lungo periodo di grave recessione e di rapporti intereuropei sempre più difficili, nonché dagli esiti imprevedibili.
Un’ultima nota: a saperlo interpretare (non che ci voglia molto), la massa dei partecipanti di Roma ha lanciato un messaggio chiaro. Ha detto in sostanza “siamo tanti, non contiamo niente, vogliamo essere qualcosa”. Tempo fa, un messaggio analogo ebbe effetti rilevanti. Ignorarlo, o parlarne con disprezzo, potrebbe rivelarsi un serio errore, a destra come a sinistra
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Insomma, la sinistra sembra attardarsi verso il contrario della costruzione di una rete cooperativa che, seppur con dimensioni e protocolli parziali, dovrebbe invece essere una vocazione naturale della sua pratica politica soprattutto quando si tratta di sviluppare la transizione dall’on line all’off line (e viceversa).
Una delle barriere delle “reti di fiducia”, così bene definite da Manuel Castells, è sicuramente costituita dai linguaggi, dalle pratiche di comunicazione e dai media utilizzati. Si tratta innanzitutto di linguaggi che veicolano significati su più strati: lingua nativa, video, grafica. E poi, via via, nella lingua nativa i diversi stili e i diversi contesti in quella complessità del linguaggio verbale che nella rete appare sempre all’opera in una sorta di apparente dissipazione.
Nonostante questo, la rete è in grado di decidere, come spiega Castells, in ogni momento quale linguaggio e anche quale “grammatica” rappresentano le chiavi giuste per veicolare alcuni contenuti. E quando decreta il successo per un contenuto il moltiplicatore è a molti zeri. La capacità di far navigare un determinato contenuto è legata al saper cogliere il momento giusto, ovvero il trend, per dare slancio ai propri contenuti, scegliere cioè appropriatamente l’ottica con la quale sottoporli all’attenzione del web. Questa caratteristica si lega molto al ragionamento sull’attualità dei temi che si sviluppa in redazione. E questo rappresenta in qualche modo il fondamento del “web journalism”. Web journalism non più solo “copia e incolla” di contenuti che viaggiano nella rete ma anche il tentativo di propagarli. Come? Con quale sistemi di rete? Creando quali nodi e con quali caratteristiche?
Nel processo di scambio che avviene continuamente nel web con l’obiettivo di costruire “sensi”, ci sono “orizzontalità” che entrano in relazione e non erogatori attivi di contenuti da una parte e fruitori di informazione passivi definiti da una precisa categoria tipologica dell’audience. Questo dovrebbe allargare la pratica della produzione “massiva” di contenuti da parte della sinistra antagonista fino a modificarla verso la “costruzione di sensi”.
La struttura basata sul sito statico, e quindi sulla costruzione massiva di contenuti e della sua fruizione verticale, ha fatto ormai il suo tempo. In Rete, a grandi linee, ci sei per quello che fai nella direzione della viralità e non per quello che sei nella direzione della produzione di contenuti amorfi e autorappresentativi. L’identità, definita dal sito o dalla pagina Fb, pur dovendo rispondere al principio della coerenza, va studiata in relazione al ruolo che si vuole interpretare e agli obiettivi che si vogliono ottenere di volta in volta a secondo del contesto in cui si sta operando. Una plasticità che può essere affrontata soltanto adottando una filosofia orizzontale nella gestione dell’informazione e della comunicazione. E che ovviamente abbia, appunto, a che vedere con l’attualità di quanto accade in rete.I new media offrono una grande occasione soprattutto per la moltiplicazione di canali, linguaggi e modalità di comunicazione e informazione che rappresentano. Una rivoluzione tale che se da una parte non tocca minimamente la forza degli strumenti pregressi (volantinaggio e megafonaggio, tanto per fare qualche esempio e per intenderci) dall’altra apre una prateria praticamente sconfinata. Velocità nella risposta, contemporaneità, contestualizzazione, adeguatezza grammatica, sintesi: tutte queste caratteristiche dell’informazione e della comunicazione moderna non possono essere raggiunte con un modello verticale.
Oggi le relazioni sociali entrano a pieno titolo come facilitatori nei processi di comunicazione e informazione.
Una figura che viene parecchio trascurata dalla sinistra è il rappresentante sindacale. La sua presenza potenziale in rete avrebbe in più rispetto al mediattivista il bagaglio delle relazioni sociali, la capacità di scegliere il contesto più opportuno, l’appropriatezza del linguaggio da impiegare, la consapevolezza di muoversi all’interno di un progetto di stampo comunitario.
Intanto, i media mainstream, quelli italiani nel 99% dei casi, rappresentano plasticamente quello che Noam Chomsky chiama «la fabbrica del consenso» e vivono in osmosi con il mondo politico e le classi dirigenti da sempre spettacolarizzando qualsiasi traccia informativa e inventando sempre nuove “grammatiche”.
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Il “quorum” l’abbiamo raggiunto. Ora bisogna raggiungere il cuore. Con i fatti della scissione di Sel la lista é ancora in grado di crescere e di lavorare per radicarsi in Italia? Ci rassicurano e ci infondono coraggio e quella speranza che a volte é al lumicino, Barbara, Curzio ed Eleonora. Ma chi restituisce il sorriso, che è a mezz’asta in Rifondazione, é Alexis. Arriva in Piazza Farnese e sono ormai le 19. Sale sul palco fiero, giovane, sorridente. Ci crede così tanto che lo trasmette immediatamente alla piazza ed é tutto uno scrosciare di applausi ad ogni suo dire. Eh sì che parla nella lingua musicale degli antichi padri e non gli esce neanche un italianissimo “ciao”, ma c’é l’interprete bravissimo a tradurre in simultanea. E parla a braccio per una buona mezz’ora. Lo interrompono solo gli applausi.
Il discorso di Tsipras
«Abbiamo vinto una battaglia, non abbiamo vinto la guerra. Ci sono ancora molte battaglie importanti da combattere.Vogliono diminuire i diritti sociali, i diritti del lavoro. Questo é il progetto dell’oligarchia. Amici e amiche il successo dell’altra Europa é un impegno costante verso il popolo italiano e verso tutti i popoli del sud. Lottare per il rovesciamento dell’austerità e del memorandum. È un impegno equo e sostenibile da parte dell’Europa per un vero new deal europeo, perché l’Europa non sia più nella stagnazione. Perché si apra la possibilità di nuovi posti di lavoro ben pagati e fissi. La nuova commissione a Bruxelles continuerà a perseguire la politica distruttiva della commissione Barroso che non era al servizio dell’Europa e dei suoi cittadini, ma del dogma neoliberista della signora Merkel.
Questo establishment europeo ci fa vergognare per l’Europa di oggi
E la signora Merkel oggi ha detto che riconosce il diritto di Israele e si trova al suo fianco, hanno il diritto di uccidere nei territori palestinesi persone inermi, disarmate e bambini. L’Europa dell’Umanesimo, quella cultura delle grandi lotte non può entrare nel corpetto reazionario nel quale alcuni la vogliono stringere e fare entrare per forza. Oggi dobbiamo dire che siamo tutti Palestinesi se vogliamo essere Europei. Non possiamo non reagire quando vengono uccisi dei bambini nello stesso mare che bagna le nostre coste. Compagni e compagne, il nostro impegno é quello di mettere nel margine l’emarginazione e di riunire l’Europa che è stata divisa dal neoliberismo. Guardiamo con senso di responsabilità il risultato positivo del maggio scorso. Sappiamo che la povertà, l’emarginazione e la disoccupazione sono qui, però dopo le elezioni europee possiamo guardare al futuro con maggiore ottimismo. D’ora in poi la nostra principale priorità deve essere l’unità delle nostre forze.
Non esiste un domani senza l’unità delle forze della sinistra
S’inganna chi pensa di poter avere un futuro politico glorioso, senza coloro che ha avuto al suo fianco in questi mesi dell’esperienza dell’altra Europa. Aumentiamo quindi i nostri sforzi, aumentando i contatti con la società in ogni luogo di lavoro, in ogni zona delle nostre città. È questa la sfida. Dobbiamo riprendere i contatti con i giovani, con le donne, con i disoccupati e riacquisire la fiducia del popolo della sinistra che in questo periodo ha cercato di riempire la nostra assenza con altre scelte. Specialmente adesso che le maschere sono state gettate e che Grillo in un giorno, senza quasi che si avesse il tempo di capirlo ha deciso di essere l’alleato di Farage, della destra inglese, dimostrando che é più a destra della destra. Specialmente adesso ci vuole una sinistra forte, perché il governo Renzi mostra di voler diminuire gli spazi democratici, di voler cambiare la Costituzione.
Adesso ci vuole una risposta forte della sinistra.
Dobbiamo dimostrare che la sinistra delle grandi lotte italiane, la sinistra di Togliatti, di Berlinguer é tornata perché vuole rimanere sulla scena politica. Cittadini di Roma, qui come anche ad Atene, dobbiamo aumentare gli sforzi per bloccare il fenomeno della rinascita del fascismo. Perché ad Atene e a Roma la xenofobia e il razzismo non possano alzare la testa e perché ad Atene e a Roma organizzazioni di estrema destra come Casapound e Alba dorata non possano organizzare manifestazioni. Dobbiamo convincere le persone che non hanno lavoro e che vivono ai margini che la causa dei loro problemi non sono gli stranieri, gli immigrati, ma le politiche di austerità. Sostenere i beni comuni, sostenere il popolo, sostenere chi rischia di perdere la casa a causa dei banchieri, questo secondo noi é il compito della sinistra in questi giorni difficile della crisi. So che in questi anni della crisi sentite continuamente dire che l’Italia non deve diventare come la Grecia, ma vi voglio dire che la Grecia e l’Italia hanno tantissimi elementi in comune. Molte famiglie in Italia come in Grecia vivono sotto il livello di povertà.
Ricchi sempre più ricchi
Alcuni insistono che dobbiamo imparare bene la lezione. Dobbiamo mettere in atto la politica barbara dell’austerità, mentre sta aumentando la povertà e i poveri diventano sempre più poveri e i ricchi continuano a diventare sempre più ricchi. Dobbiamo dire che tutto questo non può continuare, dobbiamo unire le nostre voci e le nostre forze insieme a quelle di milioni di persone, perché tutto questo non lo sopporta la democrazia, non lo tollera la sinistra.
Una sinistra egemonica e radicale
Dobbiamo costruire una nuova sinistra egemonica radicale la quale non sappia solo rinunciare, ma anche vincere e costruire. Perchè noi non ci perdiamo nel cedere concessioni al blocco di potere maggioritario, ma creiamo una nuova maggioranza totale e la trasformiamo in blocco storico come lo ha concepito e analizzato Gramsci. Amici e amiche, compagni e compagne I mesi a venire sono difficili. Di fronte a noi abbiamo le forze dell’establishment che cambiano sempre per rimanere sempre le stesse,ma noi siamo la nuova forza che fa nascere la speranza nel popolo dell’Europa. Vi ringrazio molto per fare fatto a me e a Syriza l’onore di fare insieme questa lotta, continueremo a farla e state certi vinceremo».
È tutto chiaro, tutto esaltante ciò che dice Alexis e chi era in piazza ha provato l’ebbrezza di sentirsi più Italiano, più coraggioso, più Europeo, più compagno. Comunque non si é sentito solo nel credere che un’altra società è possibile, come è possibile un’altra Europa, quella di Tsipras .
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Dopo l’affermazione della lista Tsipras la sinistra, fino al Pd, è in subbuglio. Sembra una articolazione produttiva, però. Che idea ti sei fatto?
La Syriza italiana ha un modello da seguire – per esempio greco o spagnolo – oppure deve trovare una sua strada?
Diffido sempre dalla riproduzione sic et simpliciter di modelli politici di importazione. Sul breve periodo si deve trovare in Italia una nostra strada tenendo ovviamente conto degli esperimenti consolidati in diversi paesi europei dove i comunisti e la sinistra sono di nuovo i principali riferimenti dell’opposizione politica e sociale alla crisi e la gestione della Troika. Il tema è la costruzione di un fronte politico e sociale aperto in grado di essere un vero volano di sollecitazione e ricomposizione sul piano politico del confitto sociale e di classe. Un processo che sia in grado in termini concreti di rispondere all’attuale frantumazione soggettiva ed oggettiva, con una forte capacità aggregativa nella chiarezza dei contenuti, degli obiettivi e del posizionamento politico. In questo processo continuo a ritenere fondamentale l’autonomia politica ed organizzativa dei comunisti. I comunisti devono rifuggire sia dal liquidatorio superamento della forma partito in una sinistra indistinta, sia all’opposto dall’autocelebrazione settaria della loro sufficienza. Sicuramente, guardando alle esperienze maturate all’estero, dobbiamo far tesoro di una semplice lezione politica: non esistono terre di mezzo tanto in Italia quanto in Europa. Il PPE ed il PSE sono i pilastri politici della politica europea, l’alternativa va quindi costruita al di fuori di quel «cappio» politico.
Sul medio-lungo periodo va affrontato un tema assai più gravoso e complesso che interroga le sinistre e i comunisti di tutta Europa: per costruire il cambiamento, quello vero, quello che pone in discussione l’ordine esistente, bisogna porsi il problema di riorganizzare i corpi intermedi. La cosiddetta società liquida, acclamata da alcuni intellettuali assai in voga anche a sinistra, non credo infatti sia l’unico portato possibile della cosiddetta modernità, a essa non credo che i comunisti debbano politicamente soggiacere. Una società con una minore strutturazione, segnata da una scarsa partecipazione politica e non organizzata, è una società meno democratica in cui a dominare sono, in primo luogo, i gruppi editoriali espressione delle diverse componenti del capitale. Ecco io credo che a questo genere di società i comunisti e la sinistra non debbano adeguarsi, pena la sconfitta. Credo infatti vada dedicato un immenso sforzo al paziente lavoro di ricomposizione politica e sociale.
Le vicende di Sel dimostrano che con la sola arma politica non si può andare da nessuna parte, serve la mobilitazione per la costruzione del blocco sociale…
Mi pare chiaro che la sinistra e i comunisti vivono se sono espressione reale dei settori più combattivi del movimento dei lavoratori e se sono in grado di contribuire a promuovere e organizzare il conflitto.
A livello europeo quale unità si può concretamente costruire per segnare un percorso utile alla sinistra?
Il Gue ha rappresentato e può rappresentare ancora l’espressione parlamentare di una dialettica positiva tra comunisti e le diverse soggettività della sinistra anticapitalista e antiliberista in Europa. Certamente sarebbe auspicabile, ed è da ritenersi un obiettivo da raggiungere, quello della costruzione di un fronte europeo della sinistra in grado di indicare un’alternativa radicale alle UE.
Come ho detto e ripeto le terre di mezzo vanno bene nei racconti, non nella realtà. Occorre una forza che metta duramente in discussione la UE, i suoi trattati e l’architettura monetaria costruita attorno agli interessi del capitale.
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Ecco la sinistra a 5 stella. Espulsi e fuoriusciti si organizzano. In cantiere un nuovo movimento e un gruppo parlamentare al Senato. Hanno una certezza: per cambiare il Paese servono le alleanze. Con un occhio di riguardo a Sel e alla minoranza Pd. Parlano Tavolazzi, Favia, Campanella e Zaccagnini
Un documento d’intenti, un forum di discussione, una piattaforma provvisoria di voto e un gruppo di lavoro che dovrà mettere nero su bianco una bozza programmatica. Fuoriusciti ed espulsi dal Movimento 5 stelle ripartono da qui. Dall’assemblea nazionale dell’8 giugno che per la prima volta ha visto discutere nella stessa sala tutte le anime della diaspora pentastellata. Obiettivo: creare un soggetto politico capace di unificare tutti i dissidenti in tempi brevi.
Il percorso è tutt’altro che semplice. Per ora l’unico collante è il metodo, la democrazia partecipata. Le discussioni su collocazione, alleanze e simboli sono rimandate al 14 settembre, data del prossimo appuntamento nazionale. «Alcuni di noi ritengono che si debba creare una federazione mantenendo però l’identità dei singoli gruppi che compongono questo contenitore», dice Valentino Tavolazzi, consigliere comunale di Ferrara, primo degli espulsi con un click nella storia del Movimento 5 stelle. «Altri pensano che invece sia necessario sciogliere le varie sigle per confluire in un movimento nuovo». Bisogna però superare diffidenze sedimentate e accettare di cedere pezzettini di microsovranità faticosamente conquistati. L’unità d’intenti per il momento regge su fondamenta delicate. Guai a parlare di posizionamenti, dunque. Definirsi di destra o di sinistra potrebbe provocare la perdita di pezzi prima ancora di iniziare il cammino. «La contrapposizione destra-sinistra è fuorviante», spiega Tavolazzi. «A noi non interessa più una classificazione di questo genere. La differenza è tra chi è pro e chi è contro i cittadini». Una risposta non molto diversa da quella che avrebbe potuto dare Beppe Grillo, facciamo notare. «Non è vero», ribatte, «l’M5s una connotazione ce l’ha: è un movimento di centro-destra. Noi no».
Frecciate a parte, quella della collocazione non è una questione da poco, soprattutto per chi proviene da un’esperienza antipartitica. C’è chi vorrebbe creare un clone dell’M5s degrillizzato, chi vorrebbe resuscitare i Ds in versione 2.0 e chi guarda a Podemos, il movimento della sinistra radicale spagnola nato dall’esperienza degli indignados, che ha ottenuto un ottimo risultato elettorale alle europee. «Non abbiamo fretta di correre sacrificando il metodo», dichiara Giovanni Favia, consigliere regionale emiliano, altro espulso di peso dell’M5s, cacciato nel 2012 dopo un fuori onda trasmesso da Piazzapulita. «Ogni ex 5 stelle ha un percorso di elaborazione del lutto differente. Per questo, prima di definirsi politicamente, bisogna ricostruire l’abitudine a confrontarsi». Ma Favia, passato anche per una candidatura con Rivoluzione civile di Antonio Ingroia, non si nasconde dietro un dito: «Lo slogan “né di destra né di sinistra” con in mezzo il nulla è una cosa che non ci appartiene, giocheremo a carte scoperte dichiarando la nostra posizione. Per quello che ho visto io in assemblea, posso dire che l’approccio sembra di sinistra». Per evitare l’ambiguità però serve chiarezza e condivisione. Perché anche chi oggi si allea con Nigel Farage a Strasburgo fino a ieri raccoglieva le firme per i referendum sull’acqua pubblica, urlando al mondo “uno vale uno”. «Io preferisco il principio cooperativo di “uno conta uno”» dice il consigliere regionale. «Un leader non è il capo assoluto, conduce una macchina dove i passeggeri hanno scelto la destinazione. Il leader fa la qualità della guida, decide la velocità con cui i passeggeri arrivano al target».
E per raggiungere qualsiasi obiettivo servono alleanze. Su questo sono tutti d’accordo. A cominciare dai parlamentari espulsi che a breve daranno vita a un gruppo al Senato. L’obiettivo è pesare nella stagione delle riforme, offrendo ai dissidenti fuori dal Parlamento una rappresentanza. «Vogliamo poter partecipare alla conferenza dei capigruppo», dice Francesco Campanella, il senatore che guida la pattuglia ex grillina. Interlocutori privilegiati: Sel e minoranza Pd, senza preclusioni verso altre forze.
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