
Le riforme costituzionali e di riassetto del sistema di rappresentanza parlamentare stanno tenendo il banco della discussione politica da molti mesi, per non parlare di anni. Il dibattito tra le varie organizzazioni politiche è molto serrato circa l’elettività del Senato e l’immunità dei suoi futuri senatori, cioè i rappresentanti delle regioni, un po’ come – nei fatti – è il Bundesrat tedesco.
L’altro dibattito è quello sulla legge elettorale: dopo la sentenza 1/2014 della Corte Costituzionale che eliminava gli elementi di incostituzionalità del ‘porcellum’, il Parlamento sta cercando di mettere in piedi una nuova legge elettorale. Del quadro politico che si è andato a formare, di riforme costituzionali, di rappresentanza e partecipazione popolare ne abbiamo parlato con Fabrizio Cassella, costituzionalista e rettore dell’Università della Val d’Aosta.
Di riforme costituzionali e di superamento del bicameralismo se ne parla da anni. Dopo molto tempo, però, pare si sia arrivati ad una strettoia che, pur essendo tale, sembra decisiva. Il tavolo Pd/M5S, però, salta, nonostante le riprese da entrambe le parti. Qual è, secondo lei, l’istantanea del quadro politico attuale?
È una situazione di corsa verso una meta non ben identificata. Mi pare che la velocità di Renzi sia indubbia quanto anche, però, per alcuni versi immotivata, se si stanno a vedere gli obiettivi. Mi spiego: le riforme costituzionali, per definizione, hanno un significato se sono condivise. Questi continui strappi, queste accelerazioni continue, fanno sì che si aumenti la resistenza. Per definizione nei confronti delle riforme costituzionali, si sviluppa resistenza. Questo, peraltro, è un aspetto virtuoso del sistema cioè quello del cercare di riflettere prima di abbandonare una strada e di intraprenderne un’altra.
Questa resistenza, però, inizia ad essere sempre più stimolata da questi stop&go continui. Il rischio che io vedo, francamente, è che alle riforme ci si arrivi ma che esse poi siano solo rappresentative di un refrain.
Come dire: ‘le abbiamo fatte’ senza porsi la domanda del ‘ma in cosa consistono?’.
Ormai ‘le riforme’ sembrano quasi un mantra: nella trasmissione ‘In Onda’ di qualche giorno fa, trasmessa dall’emittente La7, era presente Catricalà che, interpellato, affermava criticamente: ‘Va bene tutto, ma per ora si sono scritte solo delle copertine, non ancora i contenuti’.
In realtà, comunque, non pongo la questione su un piano critico, è ovvio che chi affronta la questione delle riforme corre rischi enormi. Quindi, tanto di cappello a chi ha deciso di farne un punto d’orgoglio. Come cittadino, certo, va bene se si fanno ma bisogna vedere il contenuto delle stesse, non tanto sul piano ‘è meglio un Senato piuttosto che un altro’ o ‘meglio una legge elettorale piuttosto che un’altra’ ma sul fatto che l’obiettivo finale a cui si tende, e che ora mi pare sia un po’ confuso, sia poi effettivamente raggiunto.
Già nella nostra precedente intervista del 14 ottobre 2013, parlavamo di superamento del bicameralismo perfetto e di ipotesi del Senato delle regioni e delle autonomie. Ora, il superamento del bicameralismo perfetto si traduce, nella proposta del Partito democratico, in un Senato non elettivo.
Lei che idea si è fatto a riguardo, anche come esponente di un’autonomia come quella Valdostana?
Ci sono due aspetti diversi: le competenze e la composizione. Sulle competenze, quindi sul superamento del bicameralismo perfetto, cioè, riduzione dei tempi della complessità e dell’incertezza del contenuto nella formazione delle leggi, questo va nel senso della semplificazione.
E, inoltre, della formazione di un processo decisionale più efficiente. È chiaro che il prezzo è quello della composizione di interessi più ampi: se riduco l’ambito dove viene assunta la decisione e riduco i tempi lascio fuori qualcosa in termini di condivisione, di considerazione di interessi contrapposti et cetera. Però, probabilmente, questa è un’esigenza sentita e che io vedo soprattutto dal punto di vista della certezza dei contenuti, cioè: il problema grosso del nostro bicameralismo perfetto è sintetizzato dal fatto che un disegno di legge parte con ottimi propositi – e con un drafting legislativo, anche funzionale al raggiungimento di essi – ma che alla fine arriva ad essere un documento finale che ha tenuto conto di tutto che, però, non corrisponde più all’obiettivo iniziale. O non è più funzionale al raggiungimento di quegli obiettivi. E questa è una degenerazione del sistema che va corretta. Per quanto riguarda la composizione vige un dibattito più serrato: da parte di alcuni colleghi, ad esempio, c’è l’opinione che è la Nazione che deve essere rappresentata attraverso le sue componenti e che non può essere altrimenti, ovvero, devono essere i cittadini che eleggono i componenti del Senato.
E’ vero, ma dall’altra parte c’è anche, come dire, il modello ‘lato sensu’ federalista, cioè dove i rappresentati non sono i cittadini ‘uti singuli’ ma le comunità territoriali.
Che l’attuale disegno di legge, che pare che la prossima settimana arrivi in aula, corrisponda questo secondo modello, sì corrisponde. Ma nel senso che c’è lo strumento. Il problema è che, a monte, ci sono i territori da rappresentare? Non lo dico col dubbio che ci siano comunità con una propria cultura, storia, tradizioni, costumi, perché quello è fuori da ogni dubbio. Il problema è se queste comunità si percepiscono loro stesse come un elemento di unità, certamente composito, ma che si riconoscono in una matrice unitaria da fare in modo da sedersi in una Camera assieme ad altri rappresentanti territoriali per portarvi le istanze del proprio in quella sede. Forse questa omogeneità dei territori non c’è. In fin dei conti continuiamo a basarci sull’idea che la nostra ripartizione territoriale è regionale… la nostra storia è comunale.
Non crede, però, a proposito di quello che ha detto circa il superamento del bicameralismo perfetto, che ci sia una strozzatura della rappresentatività?
Mi spiego: nei giorni scorsi Renzi ha dichiarato come sia più rappresentativo un consigliere regionale che ha preso milioni di voti che non, testualmente, «un Mineo o un Minzolini».
Se si volesse andare nello specifico, per la verità, neanche i deputati li ha scelti nessuno, secondo il ragionamento renziano, date le liste bloccate.
Quindi la questione delle preferenze della legge elettorale, estremamente connessa con la riforma costituzionale, è un tema che, secondo lei, si può ridurre in una tempesta in un bicchier d’acqua o è qualcosa di più ampio?
Concettualmente il problema è più ampio. Dopodiché, però, bisogna cercare di far coincidere le concezioni della rappresentanza nella loro ‘più che bicentenaria’ elaborazione dottrinale con l’applicazione pratica. A me pare che oggi noi siamo arrivati ad una concezione della rappresentanza molto strumentale, cioè, si ha necessità di uno strumento per poter attribuire alla volontà di tutti la decisione di pochi. Oggi però la mano è più calcata. Costruisco un’assemblea ma essa, in realtà, è il portato di una serie di partiti con le loro liste (domani, forse, se passa la riforma del Senato, gli ambiti territoriali, le regioni eccetera) ma non ha nulla a che fare con il rapporto tra mandanti/mandatari, elettori/eletti, rappresentanti/rappresentati.
Cioè, il rappresentante, il deputato, che torna nel suo collegio, che ‘porta la notizia’ dalla Capitale, si confronta con le esigenze del territorio e della comunità, si rende portavoce di un’istanza, è antistorica: faceva parte della concezione di Edmund Burke in un contesto completamente diverso.
Oggi, secondo me, ci siamo ridotti all’essenza minima: cioè, io ho bisogno di poter fare in modo che una decisione sia imputabile a tutti.
Per fare questo si cerca nel modo più vicino alla tradizione, cioè l’elezione, oppure vado anche all’estremo opposto, cioè il sorteggio, come teorizzato da costituzionalisti francesi contemporanei. Tutto sommato, noi oggi siamo diventati, come opinione pubblica un po’ protestanti, noi che abbiamo una cultura cattolica.
Perché? Perché cerchiamo di introdurre il controllo della collettività rispetto all’operato, che è un controllo che normalmente, però, nei paesi veramente a cultura prestante, cioè dove il protestantesimo ha influenzato la cultura politica, il controllo è preventivo.
Basti pensare all’atteggiamento degli americani per cui se si ha solo un’ombra moralmente percepita come ‘non pulita’, non ci si può candidare.
In Italia, da questo punto di vista, siamo fortemente cattolici perché stiamo a sentire le promesse di questo o quell’esponente politico ma, a posteriori, diventiamo un po’ protestanti dicendo ‘quel rappresentante X ha tradito la fiducia’.
Si cerca di creare una sorta di controllo rispetto al codice morale della collettività che viene elaborato volta per volta, situazione per situazione e, in quel momento lì, conta poco qual è la tua investitura.
Fino ad ora, l’investitura di tutti i soggetti che riempiono le pagine della cronaca più bieca, cioè quella dello sperpero del denaro pubblico, è un’investitura elettiva che è passata attraverso delle fasi elettorali. Poi, certo, nell’ultima fase della vita repubblicana, queste fasi elettorali sono state tali per cui non c’è più stato il voto sulla persona ma sui listini, quindi andando ad attenuale il rapporto elettore/eletto.
A tal proposito, in questi giorni si fa un gran parlare di immunità, riguardo quello che dovrà essere il ‘Bundesrat’ italiano. I consigli regionali, però, sono stati i più grandi ‘contenitori di scandali’, tra corruzione et similia. Penso al Lazio, all’Abruzzo, al Veneto, alla Sardegna, alla Campania, al Piemonte. Quella dell’immunità per i Senatori/Consiglieri regionali non rischia di essere un’arma a doppio taglio?
Vista così di pancia, come ognuno di noi la vede, è sacrosanto. Se si vuole vederla in una prospettiva più lunga, ci si dovrebbe chiedere ‘posso, oggi, rinunciare ad una garanzia (oggi sfruttata) per un futuro nel quale si ammetterà che, effettivamente, l’esigenza di tenere sufficientemente protetta la rappresentanza politica da un esercizio improprio delle funzioni giurisdizionali, soprattutto quelle inquisitorie?’.
Mi è perfettamente chiaro che è contrario alla sensazione di qualunque cittadino, ma forse anche del buon senso!
Però, dal punto di vista delle soluzioni tecniche è un po’ quando il medico dice ‘guardi quest’intervento è da fare’, nonostante il paziente si senta benissimo. Il problema non è l’imminenza dello stato ottimale di salute del paziente, quanto la malattia che potrebbe degenerare a lungo andare nel tempo, quindi il dottore farà in modo che l’operazione si realizzi nel più breve tempo possibile.
Questo fatto dell’immunità la si prenda quasi come una medicina amara in questo senso.
Un po’ come il proemio della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso… («Così a l’egro fanciul porgiamo aspersi di soavi licor gli orli del vaso: succhi amari ingannato intanto ei beve, e da l’inganno suo vita riceve»)
Esatto, proprio così!
C’è anche un tema che riguarda la partecipazione popolare, in tutto questo, però. In un periodo di astensione fortissima in termini elettorali, di populismi, c’è una forte richiesta di partecipazione politica. Non crede che il Senato non eletto andrebbe a restringere questa ‘pulsione’ partecipativa, così come sarà per le leggi di iniziativa popolare? E’ una medicina amara anche questa?
No, non è una medicina amara. I temi sono due: l’iniziativa popolare, in questo caso legislativa, e l’altro è l’elezione dei componenti della seconda Camera. Partendo dal secondo tema, l’elezione dei componenti della seconda Camera fanno il paio col discorso che facevamo prima, cioè: che cos’è che è ‘rappresentato’? Sono rappresentati i cittadini singolarmente, cioè quelli legittimano che con il voto il ruolo, o sono rappresentate delle comunità maggiormente organizzate? Che poi, magari, non le percepiamo come tali, ma l’obiettivo non è quello di non rendere rappresentativa la seconda Camera, ma renderla rappresentativa di altro.
Oggi noi abbiamo le due Camere che rappresentano lo stesso soggetto: il ‘rappresentato’ è uguale. Si potrebbe cercare la differenza tra l’elettorato attivo e passivo ma lo vedo più come un escamotage per ricercarne una qualche forma di differenziazione che non la sostanza effettiva.
Si tratterebbe, in questo caso, di cambiare il ‘rappresentato’: le comunità organizzate ce le ho dentro il Senato mentre, la Nazione (come dicevamo prima) e il ‘singolo’ alla Camera. Il Presidente di Regione che va al Senato, però, è stato eletto dalla sua comunità, quindi non va lì in forza di un mandato dall’alto, va lì in quanto esponente scelto dai cittadini di una comunità territoriale. Va al Senato per rappresentare la comunità territoriale nella sua omogeneità, per quanto lo possa essere. Il problema è se l’organizzazione di queste comunità sia oggi rispondente al sentire comune e al governo territorio. Quindi torneremmo al discorso che stavo facendo prima, la rappresentanza comunale.
Tra il dire che il soggetto rappresentato è diverso e dire che non c’è rappresentanza, secondo me, c’è un passaggio in mezzo. La rappresentanza c’è ma è di altro, non degli stessi soggetti che sono rappresentati alla Camera.
Sulle firme per le leggi d’iniziativa popolare, effettivamente, sono un po’ più critico. È vero che i lavori Parlamentari sono intasati da ogni genere di iniziativa, però non sono quelle di iniziativa popolare quelle che creano problemi.
E infatti quest’innalzamento del numero delle firme potrebbe essere percepito non molto bene dall’opinione pubblica.
Sembra essere un provvedimento senza ‘ratio’ che rischia di suonare come uno sfregio della partecipazione.