DALLE FOIBE ALL’ESODO: LA MEMORIA “NEGATA”
Volentieri ho accettato l’invito dell’ANPI a porgere questa testimonianza, visto che la storia del confine orientale è la storia della mia famiglia, o almeno della metà di essa, essendo io figlia di un profugo giuliano e visto che di questa storia complicata e dolorosa, si è nutrita la mia infanzia.
Lungi dal tentare una lezione di Storia Moderna (per mia formazione antichista,non saprei da dove cominciare), vorrei invece far uso in questa sede dell’”invenzione” di manzoniana memoria, guidarvi cioè a ritrovare tra le pieghe della grande storia, l’umano patire dei piccoli, di tutti coloro che della storia dei grandi furono le vittime.
Questa commemorazione, d’altronde, come “I Promessi Sposi”, parte da una storia d’amore:
quella di mia nonna, istriana, che sposa un giovane siciliano.
Ci pare importante premettere al nostro racconto una breve storia della penisola istriana.
Gli abitanti dell’Istria, gli Istri, pirati e navigatori, assoggettati dai Romani nel 178 a. C., durante le invasioni barbariche di Unni e Ostrogoti, rimasero a gravitare nell’ambito dell’impero bizantino, come dimostra la Basilica eufrasiana di Parenzo .
A partire dal 1092, l’Istria entrò fa parte della marca di Enrico I di Baviera, mentre sulla coste si affermano città autonome che si appoggiano a Venezia in funzione antitedesca.
Nell’interno, già a partire dal VII secolo, esistevano piccoli stanziamenti Slavi, che la Serenissima utilizzò come forza lavoro nella malsana campagna interna.
Venezia rimase nella regione fino al famoso trattato di Campoformio, con cui fu ceduta all’Austria. Il Congresso di Vienna assegnò l’Istria all’Austria definitivamente.
Gli Istriani, di lingua veneta, anzi paleoveneta, parteciparono vivacemente al Risorgimento e contrastarono la volontà dell’Austria di favorire l’elemento slavo per accendere rivalità tra Slavi e Italiani che, invece, per motivi economici, avevano forte volontà d’intesa.
Ancora nei primi del Novecento, l’epoca in cui nasce mia nonna, l’Austria costringe i paesi sottomessi a frequentare scuole tedesche, a usare il tedesco come lingua ufficiale, a cantare l’odiato inno asburgico (“serbi Iddio dell’Austria il regno, sia d’Asburgo Imperator…”), così mio bisnonno che si era laureato a Vienna, per non usare il tedesco, aveva scritto la tesi di laurea in Latino e più tardi manderà mia nonna in collegio a Siena per imparare quello che si diceva l’italiano più puro d’Italia.
Forti erano i sentimenti irredentisti alla vigilia del primo conflitto mondiale: le ragazzine infilavano, con finta innocenza, nastrini bianchi, rossi e verdi fra i capelli, cesti di margherite, in onore della regina sabauda, adornavano feste e banchetti.
Durante la guerra 1915/18 sappiamo dell’eroismo di tanti istriani che si accecarono col curaro, o si buttarono giù dai dirupi fracassandosi tutte le ossa per non combattere con l’Austria contro l’Italia.
Dopo la vittoria, l’Istria, compresi 300.000 Slavi dell’interno, fu incorporata all’Italia.
Fu allora che a tanti neonati fu imposto il nome Vittoria o Italia o addirittura Trento e Trieste e che tante ragazze triestine ed Istriane si legarono o sposarono militari dell’esercito italiano.
Mia nonna sedicenne, corteggiata da un ufficialetto siciliano ventitreenne era invidiatissima dalle amiche perché un siciliano era considerato “molto” italiano.
Trieste, all’inizio del Novecento era porto franco, città cosmopolita, piena di banche e assicurazioni, ricchissima, elegantissima… la Sicilia corrispondente è pressappoco quella dei Malavoglia!
Mia nonna comunque, dopo tre anni di amore epistolare, contro il parere della sua famiglia e, paradossalmente, anche di quella di lui (… una moglie del continente: tutte donne perdute!), sposa l’ufficialetto siciliano, studente in legge, fresco segretario del Comune di Troina e, traversando in treno l’Italia intera, va a vivere là: senz’acqua corrente e senza luce elettrica
Fu un grande amore di cui mai si pentì: a noi nipoti raccontava che a Troina si davano grandi feste da ballo e che le facevano fare da madrina a molti battesimi in segno di accoglienza e simpatia.
Però, durante le giornate di nebbia, si asciugava le lacrime perché pensava con nostalgia al mare di Parenzo dove viveva suo padre.
Non appena i figli divengono grandicelli, poiché a Troina mancano le scuole superiori, il marito che ama molto la moglie e stima i parenti di lei, chiede il trasferimento per il Comune di Capodistria, l’ottiene e la famiglia si trasferisce: i figli possono frequentare il prestigioso Liceo “Claudio Combi” di quella città.
Siamo nel 1936, in piena età fascista.
Diciamo che l’Istria aveva conosciuto la “Marcia su Roma”, prima della stessa Roma: il 13 luglio 1920, l’avvocato fiorentino Giunta, in un comizio a Trieste, infiamma la folla. Sorgono in piazza dei tafferugli e ci scappa il morto che viene imputato a elementi slavi; Giunta allora incita una rappresaglia: cinquecento persone si dirigono verso il Norodni Dom, sede delle principali organizzazioni commerciali degli sloveni, non più incolti agricoltori, ma valenti e facoltosi imprenditori (è per questo che danno fastidio) e sede del prestigioso albergo Balcan contro cui lanciano alcune bombe incendiarie, impedendo ai pompieri di intervenire (andò bruciato l’intero edificio, due ospiti si gettarono dal terzo piano).
Stessa cosa, con varie altre scuse, successe alla Casa del Popolo di Pola e a quella di Pisino.
“Il fascismo di confine, con carattere peculiare quello dell’antislavismo interno ed esterno (ostilità contro il regno di Yugoslavia) causò in cumulo di sofferenze alle popolazioni slovene e croate, senza raggiungere il fine della cancellazione dell’identità nazionale di quelle popolazioni che risultano demograficamente stabili negli anni trenta, anche se decapitate degli strati sociali superiori e intellettuali.
Il Fascismo si proponeva la nazionalizzazione di quelle terre con il processo di assimilazione degli Slavi alla lingua e alla cultura italiana, privandoli delle scuole e delle organizzazioni (partiti, circoli culturali,associazioni sportive, giornali, riviste…) e… dove non arriva lo Stato, arrivano gli squadristi: nel 1936, a Gorizia si può morire per aver diretto un coro di Natale in lingua slovena (capita al compositore Aloiz Bratuz che viene costretto a bere olio lubrificante fino sa morirne), mentre un bimbetto di Pisino viene escluso da “tutte le scuole del regno” per essere stato sorpreso in piazza a contare in croato i numeri del gioco della campana.
Lo slavo, usato nelle funzioni pastorali di tutte le diocesi, provoca contrasti con la chiesa: il vescovo di Trieste Fogar abbandona la diocesi. Viene avviata l’italianizzazione dei toponimi e, d’ufficio, quella dei cognomi; si vieta di imporre anche nomi di battesimo slavi, ritenuti “ridicoli”.
L’ Italia era poi più esosa dell’Austria dal punto di vista fiscale, scompaginò le cooperative e i commerci, determinando il ritorno a una campagna tradizionalmente poco fertile e dunque alla povertà. Fu condotta una severa epurazione della pubblica amministrazione : ferrovieri, insegnanti, professionisti di lingua slava furono radiati dagli albi, così come furono allontanati i sacerdoti, dunque i punti di riferimento delle comunità slave. 100.000 croati e sloveni emigrarono verso la Yugoslavia o l’America Latina, mentre non tardarono a costituirsi movimenti clandestini slavi con con un programma di lotta antifascista, talvolta collegati a quelli italiani in esilio.
La guerra: in un primo momento si avverte come nelle altre regioni italiane: si spera di dividere coi Tedeschi i rapidi frutti della vittoria senonchè le leggi razziali si dimostrano particolarmente repressive a Trieste deve esiste una numerosa e ricca comunità ebraica.
Con l’attacco e l’invasione della Yugoslavia nel 1941 la regione diviene avamposto di guerra; le persecuzioni contro Sloveni e Croati sono terribili: interi paesi sono deportati nei campi di concentramento (Arbe, Gonars in provincia di Udine, ma anche Renicci in provincia di Arezzo Cairo Montenotte in provincia di Savona e molti altri), dove morirono tra settemila e undicimila persone, mentre nel 1942 viene creato l’Ipettorato Speciale di Polizia per la Venezia Giulia che si macchia di efferrati delitti nei confronti degli antifascisti.
Dopo l’8 settembre, nello sbandamento generale, a Pisino, culla della croaticità istriana, i Croati insorgono e fanno proclami di annessione dell’Istria alla Yugoslavia, proclami che l’AVNO, supremo movimento di liberazione yugoslavo accetta.
Cominciano gli arresti: si arrestano squadristi e gerarchi fascisti e chiunque ricordasse l’amministrazione italiana, odiosa per il suo fiscalismo, per le prevaricazioni e i metodi polizieschi; i connotati politici ed etnici si saldano a quelli sociali e di classe: nelle campagne se la prendono coi possidenti italiani che da secoli erano contrapposti a coloni e mezzadri croati. Tra i fermati ci sono anche professionisti, ceto dominante delle varie comunità e non mancano contadini e qualche casalinga, vittime di antichi e recenti odi paesani.
Gli arrestati vengono concentrati a Pisino dove si celebrano processi assai sommari che si concludono quasi sempre con la condanna a morte, l’esecuzione spesso collettiva dei condannati, talvolta sull’orlo di una foiba, secondo una pratica particolarmente atta a suscitare orrore (il nome stesso della foiba sembra evocare il phobos greco, la paura ancestrale) pratica che i Fascisti avevano sperimentato già a partire dal 1932 nei confronti dei loro oppositori politici.
La distruzione dei catasti da parte di contadini croati, i linciaggi, le violenze, ci restituiscono il clima di una selvaggia rivolta contadina, con commistione di odi politici, familiari e di interessi, senza ancora un preciso disegno di sostituire il potere italiano con quello slavo” (R. PUPO)
Come viveva la mia famiglia in quel periodo?
Mio nonno è già morto sul fronte balcanico; mio padre ha vent’anni: studia all’Università Orientale di Napoli che è stata violentemente bombardata dagli anglo-americani, è da poco tornato in Istria con un viaggio rovinoso, mentre la madre che non aveva notizie, credeva che fosse morto come l’amata sorella Dolores, rimasta uccisa durante un bombardamento, mentre tornava a casa in treno dall’ Abbruzzo dove era stata a trovare il fratello veterinario.
L’amato notaio Pillat, il patriarca di casa, è morto di crepacuore a causa di questi lutti.
Mia nonna ha 39 anni: è orfana, vedova, con tre ragazzi poco più che adolescenti.
Il figlio di mezzo, che ora vive a Bologna e ha integrato in numerose telefonate i miei ricordi d’infanzia, in vista di questa mia conversazione, ha 16 anni e frequenta il liceo, il fratello minore ha 12 anni, è abbastanza scavezzacollo e va girando per ogni dove, incurante dei pericoli della situazione.
Prima dell’armistizio, mio padre ha ricevuto la chiamata dell’esercito italiano, ancora comandato, seppur a brandelli, dal generale Graziani; l’alternativa per i ragazzi è iscriversi nell’esercito della neonata RSI, che in Istria corrisponde alla Decima Mas del Principe Borghese.
Gli zii di mio padre che sono i Conti di Albona, conoscendo personalmente il principe, hanno iscritto i loro figli nell’esercito repubblichino e fanno pressioni perché anche mio padre si iscriva, ma egli rifiuta.
Anche il fratello di mezzo, che pure ne avrebbe l’età, rifiuta di iscriversi alla RSI: per tutta risposta non gli viene consegnata la pagella finale del Quinto ginnasio dove, giusto giusto, era stato uno fra gli studenti migliori ( Mio zio completerà gli studi allo “Spedalieri” di Catania e quando io vi insegnai, sbirciando in vecchi registri, trovai questa pagella che, evidentemente, era stata spedita da Capodistria per via d’ufficio e gliela fotocopiai, suscitando una gran commozione).
Intanto i Tedeschi che, cominciano a non fidarsi più degli antichi alleati Fascisti, occupano tutta l’Istria, costituendovi una “Zona di operazioni litorale adriatico” che mettono sotto il controllo del Gauleiter (comandante supremo) Reiner. Costui, vecchio ammiraglio di marina, crea una mobilitazione di massa per il servizio obbligatorio del lavoro: con la scusa di procedere a lavori di fortificazione, mobilita migliaia di uomini per impedire una loro adesione al movimento partigiano.
I tedeschi occupano le case dei civili ( mia nonna è costretta ad ospitare due giovani graduati) e fanno continue retate, girando di casa in casa; i ragazzi si nascondono nelle soffitte e dentro le canne dei camini per non essere presi. I renitenti sono considerati disertori e vengono deportati.
A Trieste, nella Risiera di San Saba viene creato un campo di detenzione, dotato di forno crematorio ( realizzato da specialisti che hanno lavorato nei campi placchi) dove vennero gassate più di 5ooo persone.
In una di queste retate, i Tedeschi entrano al Liceo Combi , prelevano 200 studenti del triennio, tra cui mio zio e li portano sulle montagne sopra Capodistria a tritare pietre (vi rimarranno cinque mesi). Gli davano un giorno di permesso ogni 45 e consentivano alle madri di andarli a trovare. Mi stupivo, da bambina, quando mia nonna raccontava che queste madri passavano dal Liceo e, dopo aver percorso vari chilometri di strada di montagna, assieme a pochi generi alimentare, portavano ai figli i compiti assegnati dai professori, perché non perdessero l’anno scolastico.
Per sottrarsi ai bandi, molti si iscrivono al servizio civile o si arruolano nelle formazioni partigiane o quelle cattoliche di Don Marzai, o quelle slovene e croate che si congiungono fraternamente a quelle di Tito in Yugoslavia.
Mio padre, che negli anni del liceo aveva fatto parte di un gruppo speleologico che compiva escursioni nel territorio circostante Capodistria, riceve dai vecchi amici che fanno ora parte della brigata partigiana Garibaldi-Trieste, l’invito a raggiungerli in montagna. Rimane con loro vari mesi, condividendone la causa e occupandosi con dedizione dell’ospedalizzazione dei malati e dei feriti (mia nonna diceva…una specie di INPS”). Ottiene infine un lasciapassare e, ricongiuntosi col fratello, scappa in treno verso la Sicilia dove arriva 15 giorni dopo e vi trova la casa bombardata..
“Intanto nella primavera del 1945, avviene, da parte americana, lo sfondamento della linea gotica; prima che arrivassero gli Americani, ai primi di maggio, le unità regolari dell’esercito yugoslavo e i partigiani del 9° corpo d’armata occupano la Venezia Giulia, accolgono la resa di Salò e dei Tedeschi. Marciano per le strade, si assiepano nelle piazze, ballano ossessivamente giorno e notte il loro Kolo (una danza popolare balcanica simile al sirtaki); alcuni militari, quasi in segno di rispetto e amicizia, entrano in casa di mia nonna, le uccidono, praticamente nel salotto, i due occupanti tedeschi , e si sostituiscono baldanzosamente a loro.
Cominciano da parte yugoslava gli arresti, l’internamento dei prigionieri, le deportazioni, più per una colpa collettiva che individuale: essere nazisti, o aver fatto parte dell’RSI, essere riconosciuti come spie o aguzzini fascisti (membri dell’Ispettorato Speciale per la Venezia Giulia); la repressione si abbatte più sulle categorie che sugli individui, più sui pesci piccoli, facilmente riconoscibili nei villaggi e nelle cittadine, che sui pesci grossi che sono riusciti a gettare la camicia nera alle ortiche, e tocca, come indicato nei cartelloni della mostra, anche la Guardia civica, la Guardia di Finanza e la Forestale che certamente non erano state persecutorie; inoltre l’uso della delazione, triste eredità del periodo nazifascista, dimostr anche che le motivazioni politiche potevano facilmente sfociare in regolamenti di conti personali.
Il clima era quello di “resa dei conti” nei confronti degli avversari etnici e politici, più che nel 1943, accentuato dall’uso onnicomprensivo del termine “fascista” per qualificare tutti gli oppositori al nuovo progetto politico, uso che si era potuto radicare grazie all’impegno nel saldare i due termini Italiani=Fascisti, profuso da Mussolini nel ventennio del regime.
Di fronte alla repressione e alla nuova ondata di infoibamenti, le autorità alleate mantengono un atteggiamento prudente: un ridimensionamento delle ambizioni yugoslave non può passare attraverso lo scontro armato con l’esercito di Tito, d’altro canto, Stalin, interessato ai paesi dell’Est non vuole certo aprire un contenzioso con gli Usa per appoggiare Tito, per cui costui, abbandonato da Stalin e pressato dagli anglo-americani, alla fine, è costretto ad accettare la linea di confine proposta dal generale Morgan che prevede la divisione della Venezia Giulia in due zone di occupazione, definite Zona A che comprende Trieste, Gorizia e l’enclave di Pola, e Zona B che comprende Fiume, l’Istria e la isole del Quarnaro.
Alla fine, il trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947 assegnerà tutto il territorio istriano alla Yugoslavia.
Gli Yugoslavi cercano di costituire con la comunità italiana una “fratellanza italo-slava”, sperano cioè di poter inserire nel nuovo stato gli Italiani “onesti e buoni”, filosocialisti, che possono essere utili per le loro competenze professionali, solo che questi Italiani non devono solo essere antifascisti, ma devono anche accettare le pesanti conseguenze del trattato di pace, non devono cioè desiderare che il loro territorio sia annesso politicamente all’Italia.
Il trattato di pace prevede che gli Istriani rimasti nelle aree passate alla Yugoslavia possano optare per la cittadinanza italiana e trasferirsi nella penisola, ottenendo un certificato che attesti il loro stato di profughi e garantisca eventuali aiuti da parte del governo italiano.
Il ricorso all’opzione fu massiccio: secondo Pupo-Spazzali, il 99% a Piunguente, il 90% a Orsera e Parenzo, l’85% a Pisino che pure era la culla della croaticità in Istria.
Colpì particolarmente e commosse l’opinione pubblica il caso di Pola i cui abitanti, sentendosi letteralmente accerchiati dentro il territorio yugoslavo decisero di abbandonare in massa la città, salpando sul “Toscana”, una nave-ospedale, restituita all’Italia alla fine del conflitto (diap. 16) che con viaggi successivi, dal 3 al 20 marzo 1947, traghettò a Venezia 30.000 profughi e che è diventata il simbolo di quello che gli Istriani chiamarono “esodo”, accostandolo a quello biblico degli Ebrei.
Per il Governo di Belgrado, le opzioni rappresentano una minaccia di tracollo economico della regione, svuotata del ceto produttivo. Dopo averla favorita con la loro violenza, a trattato firmato, cercarono di bloccarla con la lentezza nell’espletamento delle pratiche di espatrio, con i ritardi nella distribuzione della modulistica, con la limitazione del bagaglio e della valuta che ogni profugo può portare con sé, sino allo smarrimento pilotato della documentazione” (da PUPO).
Mia nonna rimane per tutto il 1947 a Capodistria, sperando che la città venga inclusa nel “territorio libero” che pare gli alleati vogliano creare a Trieste. Alla fine, spaventata dalle difficoltà burocratiche che il governo yugoslavo solleva per la partenza degli Italiani, temendo di rimanere imprigionata in Yugoslavia, separata dal figli maggiori che già da due anni sono in Sicilia, decide di avvalersi del diritto di opzione. La decisione le costò moltissimo; diceva di sentirsi impazzire; non riuscendo a comunicare coi figli, si recò, lei religiosissima, persino da una medium, quasi ad obbligare il marito a partecipare della sua scelta. Contatta il capo partigiano di Capodistria che è una donna, tal Nevenka Maticevitch, sua compagna di scuola alle elementari; le chiede di poter salvare i suoi mobili e gli effetti personali. Nevenka conosce il bisnonno che è stato il notaio dei minatori di Albona coi quali parlava volentieri in croato, conosce mio nonno che al Comune di Capodistria, da Siciliano, senza alcuna prevenzione etnica aveva aiutato, per quanto poteva, i contadini italiani, come quelli croati, per cui si mostra disponibile e le concede un lasciapassare per lei, il figlio e, cosa non proprio comune, anche per la mobilia.
Per farla breve, mia nonna parte su un carro bestiame col figlio minore, coi mobili paterni che abbiamo ancora e casa e che recano sul dorso il timbro di lasciapassare in lingua croata. Alla stazione di Bologna, dove la Crocerossa ha allestito un pranzo caldo per rifocillare i profughi, i ferrovieri impediscono ai vagoni di fermarsi, tacciando gli Istriani di essere fascisti che non hanno voluto accettare la profferta di fratellanza di Tito.
La poverina arriva in Sicilia con le caviglie tumefatte dal viaggio, va a vivere in campagna, perché la casa è bombardata, ma ritrova i figli, i parenti del marito, gli amici, gli affetti.
Gli altri 250.000 o 300.000 profughi che non hanno parenti o amici che li ospitino in Italia, sono accolti in 109 campi profughi, (distribuiti lungo tutta la penisola), che sono scuole, caserme, vecchi ospedali dove si ricava uno spazio per una famiglia tramezzando con coperte o pezzi di cartone locali più ampi.
“Essere profughi –dice Marina Brugna- significa essere circondati da sguardi mesti, occhi umidi, voci balbettanti per l’emozione, indossare per giorni lo stesso vestito, parlare sottovoce per non disturbare. Il campo è la tua etichetta, la tua diversità, che ritrovi nell’imbarazzo con cui ti guardano quelli che vivono fuori”.
I profughi ricevono un magro sussidio dal Governo, sono sfamati da organizzazioni umanitarie, si arrangiano con lavoretti saltuari e precari, ci sono quelli che, interrogati dal datore di lavoro, negano di stare in un campo profughi e si inventano un indirizzo con tanto di via e numero civico.
Visto che questa “testimonianza” si è aperta con una storia d’amore, vorrei concluderla con un’altra storia d’amore.
Il fratello più piccolo di mio padre che a Capodistria aveva frequentato tutte le scuole elementari e medie, in Sicilia non riesce a socializzare, appare sempre scontroso e triste finchè, ormai universitario, viene spinto dalla madre, alquanto preoccupata, ad andare a trovare i famosi cugini Scampicchio che si sono sistemati a Monfalcone, vicino Trieste (siamo verso il 1953-54).
Invece egli approfitta del viaggio per visitare numerosi campi profughi (affollati dall’ultima ondata di esuli, quelli che hanno lasciato l’Istria quando il trattato di Osimo ha assegnato Trieste all’Italia, uccidendo ogni residua speranza che la zona B possa tornare italiana)
Cerca disperatamente una sua fidanzatina istriana, Isolana, il cui sguardo, il cui sorriso, i cui occhi evidentemente in nessuna siciliana ha ritrovato.
Dopo indagini affannose (i due avevano assolutamente perso i contatti) attraverso un passa parola, la ritrova nel campo di Marina di Massa e, conseguita poco dopo la Laurea e ottenuto un posto di lavoro, la sposa. A casa parlano ancora solo istriano!!
Perché sessant’anni di silenzio?
Nessuno aveva interesse a parlare: la Destra perché aveva voluto la guerra, perché col suo atteggiamento (fiscalismo, italianizzazione forzata, esecuzioni, torture, incendi di villaggi e molti altri crimini nei confronti della popolazione civile) aveva fomentato l’odio etnico. Dunque anche le foibe.
La Sinistra, alla guida del paese, non vuole denunciare il suo ruolo marginale nella liberazione dell’Istria rispetto a Tito, né vuole sminuire il fascino di questa figura a cui l’occidente guarda come interlocutore prezioso in quanto leader di un paese non allineato.
Tacere sulla foibe, ridurre a memoria locale l’esodo, è la risposta più immediata per non nominare il duro trattato di pace che è stato imposto all’Italia come paese che ha scatenato la guerra sconvolgendo l’Europa con un enorme massacro: l’Italia è di fatto un paese sconfitto, ha perso la guerra ed è stata mutilata nel suo territorio, nonostante una parte degli Italiani abbiano partecipato generosamente con gli alleati a cacciare i Nazifascisti.
Oltretutto, Belgrado reclama i criminali di guerra italiani, responsabili degli eccidi di cui abbiamo detto.
Una memoria “condivisa”
C’è un più o meno larvato disegno della destra oggi al Governo di appropriarsi della tragedia delle foibe e commemorarla.
Tito aveva combattuto una sua sanguinosa guerra di liberazione, è ovvio che volesse sedere al tavolo dei vincitori e ottenere dei vantaggi territoriali… che gli Italiani risultassero una minoranza, poteva tornargli utile, ma non si trattò di un genocidio etnico, di un’azione studiata a tavolino nei minimi particolari: le foibe non sono Auschwitz, non sono Treblinca e neppure San Saba.
Appropriarsene per avere dei propri martiri da contrapporre magari a quelli della Fosse Ardeatine è sbagliato, si fa un torto ai profughi ancora viventi che furono certamente nazionalisti, nel senso che volevano un’Istria italiana, ma che certamente non furono tutti fascisti.
Non rimettiamoli su quel treno cui non fu permesso di fermarsi a Bologna!
“Faccian li Ghibellin, faccian lor arte
sotto altro segno…”
Dopo sessant’anni di silenzio, i morti delle foibe, i profughi giuliani e dalmati, vittime tutti di quella tragedia che fu la guerra, hanno il diritto a una memoria “super partes”,che non significa assolvere tutti, né confondere i valori per i quali si è combattuto, ma esplorare la storia con maturità e responsabilità.
Vorrei concludere con le parole di mia zia, profuga da Isola d’Istria che avevamo invitato qui oggi, ma che dopo anni e anni in cui ha cercato di rimuovere gli eventi di cui è stata vittima, non si è sentita di farli riaffiorare per potergli dare ordine e riferirli in quest’incontro.
“Ormai gli anziani di allora se ne andati e noi che portiamo in fondo all’anima le tracce di quella tragedia, vogliamo non dimenticare, ma tenere il ricordo come un qualcosa di strettamente personale, sempre sperando che un fatto così tragico sia considerato storia nazionale e rispettato da tutti!”.
Catania, 10/2/2010.
Mercedes Turco
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