Intervista al partigiano “Santino” di Giulia Congiu

DSC07816

 

 

DSC06917
Nome cognome, nome di battaglia e data di nascita.
Serranò Santo, nome di battaglia “Santino”, nasce a Siracusa il 29 Aprile 1923
Cosa faceva prima di unirsi alla resistenza?
Ero nella marina militare.
Quando se unito alla resistenza?
Mi sono unito alla resistenza dopo il ’43, quando il Re d’Italia Vittorio Emanuele ci abbandonò. I motivi per il quale mi sono unito alla resistenza sono tanti, in particolare, perché i fascisti abusavano del loro potere, ho visto bruciare un paese senza motivo alcuno.
Però la goccia che fece traboccare il vaso fu durante una disputa mi incontrai con un fascista, che non faceva altro che insultarmi additandomi come siciliano, dopo distinte provocazioni e insulti reagì e fui denunziato, per tal motivo fui costretto a scappare in montagna. Grazie ad un amico che mi aiutò, mi unì alla terza compagnia della brigata “Giustizia e libertà”, IV zona operativa, del battaglione Antonio Cintoli.
Quale furono le prime impressioni della sua brigata?
Le prime impressioni della mia brigata; era un gruppo di circa 20 ragazzi pressoché ventenni che combattevano per un ideale, per una patria che voleva essere libera, con diritto alla parola e senza paura.
Il comandante della brigata era Guerrieri Amelio (un eroe) fu promosso a medaglia d’argento, un ragazzo che all’epoca aveva appena 23 anni, fu una persona squisita sia come carattere che come coraggio. Il suo coraggio ci salvò a tutti.
Quale erano le tattiche che utilizzavate durante gli scontri con i fascisti/nazisti?
Lo stare in guerra quando non si hanno i giusti armamenti è molto difficile, avevamo molto poco per combattere i fascisti e i tedeschi, tutto era questione di tempistica.
Facevamo attacchi mirati a caserme fasciste, più che altro per infastidire e indebolire il più possibile il nemico. la tattica che utilizzavamo era più che altro “pizzica e fuggi”.
Quale fu la battaglia più importante a cui partecipasti?
Fu la battaglia che si ebbe tra noi partigiani ( che eravamo circa un migliaio) e le forze nazifasciste (che erano circa 20.000) nella zona del Monte Gottero (Liguria), più che battaglia fu un rastrellamento di massa per annichilire le brigate partigiane prima della primavera.
Tutto iniziò il 20 Gennaio del 1945, mi ricordo che nonostante il tempo piuttosto sereno, il freddo era pungente e ogni tanto venivamo accolti da forti nevicate. Iniziò il rastrellamento con i tedeschi che cercarono di circondarci venendo dal Emilia Romagna, dalla Toscana e dalla Liguria circondando tutta la IV zona operativa (estenzione della provincia de La Spezia).
Il comandante generale era il colonnello Fontana, un ex ufficiale dell’esercito, era lui che dirigeva tutti; non riuscimmo inizialmente a contrastare l’attacco nemico soprattutto con l’artiglieria che avevamo, motivo per il quale facevamo degli intrattenimenti mirati dando tempo alle altre forze di riunirsi. Ci riunimmo a Monte Gottero e ci fu dato l’ordine di sganciarci.
Partimmo nella notte del 20 Gennaio in direzione di Valeriano, li per evitare i tedeschi che ormai ci avevano circondati, dovemmo attraversare il fiume gelato, riuscimmo a passare in mezzo senza essere visti, eravamo così vicini che sentivamo parlare tedesco. Nel passaggio del fiume molti soffrirono e fu li che il comandante fece almeno cinque volte avanti e indietro portandosi addosso i compagni che non ce la facevano.
Finimmo a Valeriano, li sul posto fummo circondati dai nazifascisti, per uno che ci fece la spia, e fummo investiti da un’ulteriore battaglia.
Per evitare di combattere in paese, tentammo la strada dei campi e adottammo la tattica del fuoco continuo per poter far fronte alle file nemiche che avevano circondato l’intero paese. Io fui scoperto e scappai, mentre scappavo sentivo i fischi delle pallottole di mitragliatrice che mi sfiorvano, a quel punto mi trovai nella strada principale; pioveva in modo quasi torrenziale e incontrai due signorine che casualmente avevano tre ombrelli, mi guardarono in faccia e mi chiesero se fossi partigiano, io acconsentii, mi presero a braccetto e mi diedero l’altro ombrello, facendomi passare inosservato per il paese, li mi fermai in una famiglia che mi accolse fino alla fine del rastrellamento.
Questo rastrellamento lo abbiamo superato grazie al coraggio di Amelio (il nostro comandante di brigata) però li, abbiamo perso diversi compagni (“Nino” Morini Giuseppe, Maggiani Silvio, “Vitto”, Valeri Aldino detto Lino, Trovato e “Sergio”).
Cosa succedeva alle famiglie che vi accoglievano o vi aiutavano?
Le famiglie che ci aiutavano erano continuamente a rischio, perchè venivano trucidati nelle piazze principali, venivano bruciate le case, donne e uomini portati al carcere e seviziati, non c’erano dubbi. C’erano altri che per 5000 lire vendevano il proprio vicino, di queste spie ce n’erano parecchi, che però dopo la liberazione furono tutti presi e gli vennero rapati i capelli.
Avete avuto contatti con infiltrati interni alla vostra brigata?
Nella nostra brigata non avevamo infiltrati, però fummo denuncianti sia nella battaglia del 25 gennaio a Valeriano e a me mi fecero la spia due donne, che salirono sulle montagne con la scusa che cercavano castagne, nel successivo rastrellamento cercavano a uno che si chiamava “santino”.
Queste due donne me le incontrai dopo la guerra, e mi offrirono di tutto però mi rifiutai. Anche perché a tutti quelli che avevano fatto la spia gli venivano rasati i capelli e successivament gli venne fatta amnistia.
Cosa è stato per lei la vigilia del 25 aprile? nel posto giusto please
La vigilia del 25 Aprile siamo scesi dai monti in direzione di Valeriano, dove ci fu un’unica battaglia, dove combatté solo un ex alpino che aveva la mitraglia e sparò solo lui noi lo assistevamo, ci fu solo un morto, un tedesco mentre gli altri scapparono.
Avendo vissuto la dittatura ne vede un possibile ritorno?
Io vedo la probabilità, anche perché purtroppo l’egoismo di chi ci sta al governo è esagerato, fanno quello che vogliono, però il problema è che chi ne paga un’altra volta le conseguenze è il popolo che soffre e deve poi ricominciare d’accapo ed è quello che subisce e fa sacrifici.
Crede quindi che la guerra si sia risolta nei migliori dei modi?
Si è risolta perché tutte le cose si risolvono, ma in realtà i tempi di pace servono per dar spazio a chi sta al potere per pensare a una nuova guerra. Noi dalla guerra qualcosa abbiamo ottenuto, ma ci sono paesi che nonostante la guerra, la dittatura non è stata sconfitta, terminò solo negli anni 70 e parliamo di paesi europei, senza andare troppo lontano, come nel caso della Spagna.
De Gaspari andò in America e si presentò a nome della resistenza, inizialmente gli inglesi e gli americani, sfruttavano la resistenza, si ci fornivano di armi e anche qualche provvigione, però non erano tanto entusiasti fu successivamente quando iniziarono a far parte attiva della resistenza che fecero valere la loro voce. E fu proprio De Gaspari che ottenne da parte degli americani il riconoscimento dei partigiani.
Che messaggio può dare ai giovani?
Di stare attenti e svegli, la politica la devono fare i giovani, ma la devono saper fare, non devono vendersi per qualche spicciolo. Noi quando combattevamo eravamo poco più che ventenni e lottavamo per un ideale, per la libertà per la democrazia, abbiamo combattuto tanto per il voto, abbiamo fatto tanti sacrifici per il voto, il voto non ha prezzo.

 

DSC07814 DSC07815 DSC07817 DSC07821 DSC07825

Da Beppe Grillo a Roberto Fiore: mezzo meet up di Vibo Valentia passa a Forza Nuova da: il manifesto

Il sin­daco di Comac­chio, pre­veg­gente, lo aveva detto, una volta messo alla porta del movi­mento diret­ta­mente da Beppe Grillo: «E’ in atto una deriva fasci­sta del 5 stelle. E’ Grillo a dover essere espulso per que­sto». Qual­cuno deve averlo preso alla let­tera. Anzi, più di qual­cuno. Visto che si tratta di mezzo Meet-up, quello di Vibo Valen­tia. A par­tire dal suo fon­da­tore Edoardo Ven­tra. Che diventa, da un giorno all’altro, com­mis­sa­rio pro­vin­ciale di Forza nuova.

E’ la segre­te­ria regio­nale di Fn ad annun­ciare la nascita nella pro­vin­cia vibo­nese di un pro­prio «nucleo mili­tante» in cui viene nomi­nato, diret­ta­mente dai diri­genti nazio­nali, come com­mis­sa­rio poli­tico Ven­tra. A cui «è stato affi­dato il com­pito di orga­niz­zare il par­tito in tutta la pro­vin­cia di Vibo. La carica di com­mis­sa­rio avrà durata di sei mesi al ter­mine del quale si pro­ce­derà con la crea­zione della fede­ra­zione pro­vin­ciale che sul ter­ri­to­rio sarà strut­tu­rata ed orga­niz­zata con cari­che e nomine come pre­vi­sto dal nostro sta­tuto. A lui e a tutti gli ormai ex atti­vi­sti M5S vanno i migliori auguri di buon lavoro. Grande sod­di­sfa­zione viene espressa dal segre­ta­rio nazio­nale Roberto Fiore».

In che cosa con­si­sta il «lavoro» poli­tico di Forza nuova è roba nota. Appena due set­ti­mane fa un cen­ti­naio di mili­tanti sco­raz­za­vano libe­ra­mente per Cro­tone (senza che il sin­daco Pd facesse nulla per impe­dirlo) al grido: «Via i clan­de­stini. L’Italia agli ita­liani» e altre ame­nità del genere. D’altronde che nella pan­cia del 5 stelle alber­ghino rigur­giti xeno­fobi ed idee di destra è altret­tanto noto­rio. Basta farsi un giro in rete e dare uno sguardo ai com­menti sulle spa­rate di Grillo in tema di immi­gra­zione. Il movi­mento è spac­cato in due. Da una parte, quelli più a sini­stra, irri­tati dai toni «modello Farage» del capo.

Ven­tra ha così spie­gato in rete la sua ade­sione a Fn : «Molti poli­tici non hanno nulla di ono­re­vole per­ché non ono­rano con le loro azioni le cari­che pub­bli­che che rico­prono, sono inde­gni degli ita­liani one­sti Per que­sto motivo gli ita­liani one­sti hanno il dovere di orga­niz­zarsi. Ade­rire, ade­rire, ade­rire». Qua­lun­qui­smo abbor­rac­ciato e pil­lole di popu­li­smo di pro­vin­cia. Che fa il paio con il finale della nota con cui Fn comu­nica la fuo­riu­scita dei gril­lini: «La coe­renza con la quale Fn affronta da sem­pre tema­ti­che quali il blocco dell’immigrazione,il ritorno alla piena sovra­nità poli­tica, eco­no­mica e mone­ta­ria e la lotta con­tro i veri spre­chi, a comin­ciare dall’abolizione delle regioni, dà i suoi frutti; molto pre­sto, infatti, daremo noti­zia di altre impor­tanti ade­sioni in varie parti d’Italia.

Chi è dav­vero ani­mato da spi­rito rivo­lu­zio­na­rio sce­glie sem­pre più Fn come unica, radi­cale, valida alter­na­tiva al sistema par­ti­to­cra­tico asser­vito alla grande finanza inter­na­zio­nale». Se cam­bias­simo le sigle e al posto di Forza nuova ci fosse scritto M5S, par­rebbe un comu­ni­cato scritto da Grillo. Invece è ver­gato da Roberto Fiore.

Barcellona: l’Antimafia indagherà su collusioni tra Cosa Nostra, politica, magistratura e servizi da: l’ora quotidiano

“Il nostro compito – dice Rosy Bindi – è quello di fare verità e giustizia su delle vicende in cui delle persone perbene sono state prima uccise e poi coperte dal fango della diffamazione. La Commissione, pur non avendo i poteri della magistratura, ha il dovere di indagare a fondo su certe storie torbide”.

di Luciano Mirone

29 ottobre 2014

Se la presidente della Commissione nazionale antimafia Rosy Bindi si spinge a dire che “la morte di Attilio Manca, tutto sembra tranne che un suicidio per overdose”‘,  se dice che la Commissione ha intenzione di sentire parecchia gente per risolvere questo caso, se dice che – in seguito alle dichiarazioni rese da Cettina Merlino Parmaliana, vedova del professore universitario Adolfo Parmaliana – la Commissione svolgerà una inchiesta sull’ex Procuratore generale della Corte d’Appello di Messina, Antonio Franco Cassata (autore di un dossier anonimo pieno di veleni sulla figura di Parmaliana, scritto quando il docente universitario era già morto), se dice che le dichiarazioni del nuovo pentito di mafia Carmelo D’Amico sull’omicidio del giornalista Beppe Alfano, portano alla latitanza di Nitto Santapaola in quella città, evidentemente la politica  – dalla maggioranza all’opposizione – pare seriamente intenzionata a squarciare il velo sul “Caso Barcellona”, uno dei casi di collusioni fra mafia, politica, parte della magistratura e servizi segreti deviati più clamorosi degli ultimi decenni. E anche se in situazioni come queste la prudenza è d’obbligo, forse, per quanto concerne la soluzione di alcune morti eccellenti, potremmo essere a una svolta.

“Il nostro compito – dice Rosy Bindi – è quello di fare verità e giustizia su delle vicende in cui delle persone perbene sono state prima uccise e poi coperte dal fango della diffamazione. La Commissione  antimafia, pur non avendo i poteri della magistratura, ha il dovere di indagare a fondo su certe storie torbide”. Seppure con linguaggio pacato, la Bindi va giù duro e non usa mezze misure, specie quando fa il nome del boss Rosario Cattafi, oggi al 41 bis, “vero stratega”, secondo le ultime risultanze processuali, del connubio fra la Cosa nostra barcellonese e i servizi segreti deviati. Da qui il passo per parlare dell’urologo barcellonese Attilio Manca  e del giornalista Beppe Alfano è breve.

Si tratta di due nomi risuonati spesso tra le volte novecentesche della Prefettura di Messina, dove lunedì e martedì la Commissione antimafia ha ascoltato numerose persone, fra cui i familiari delle vittime di mafia, i Procuratori della Repubblica di Messina, di Barcellona e di Patti, i comandanti dei carabinieri, della polizia e della guardia di finanza, le associazioni delle Società civile e le associazioni anti racket.

“Spesso da queste parti – prosegue la presidente dell’Antimafia nazionale – le istituzioni devono svolgere il loro compito con estrema difficoltà: basti pensare che a Barcellona ben quattro Pubblici ministeri stanno per lasciare la sede vacante”. Da un altro lato – seguita l’on. Bindi – noto invece un risveglio straordinario della Società civile che lascia ben sperare”.

Sulla stessa lunghezza d’onda il vice presidente della Commissione antimafia Claudio Fava: “Ci sono segnali positivi e altri preoccupanti, a Messina come a Barcellona. Fra i segnali positivi bisogna ricordare l’ottima qualità del lavoro svolto dalle Procure di Barcellona e di Messina, e dell’Ufficio delle misure di prevenzione del Tribunale di Messina, una quantità e una qualità di beni sequestrati alla mafia pari al valore di due miliardi. Fra i segnali negativi il fatto che Barcellona continua a essere una delle capitali italiane della mafia. Se vogliamo fare un’equazione, possiamo dire che Barcellona sta a Messina come Corleone sta a Palermo, anzi Barcellona, in questi anni, è andata all’assalto di Palermo. Un altro segnale preoccupante è la presenza della massoneria in certi settori delle istituzioni”.

E sulle “morti eccellenti” cosa dice il vice presidente dell’Antimafia nazionale?
“Sono assolutamente d’accordo con le parole della collega Bindi. Nel caso Manca di tutto si può parlare tranne che di suicidio. Ci sembra una conclusione non adeguata ai fatti acclarato. L’ufficio di presidenza domani deciderà se ascoltare il procuratore della Repubblica di Viterbo, insieme a tante altre persone, mentre sulla morte di Beppe Alfano credo che la Procura della Repubblica di Barcellona, alla luce delle nuove dichiarazioni del collaboratore di giustizia Carmelo D’Amico, sia intenzionata a chiedere la riapertura del processo”.

On. Fava, ritiene inverosimile che la morte di Attilio Manca possa essere collegata all’operazione di cancro alla prostata che Bernardo Provenzano subì a Marsiglia nel 2003?
Non lo ritengo affatto inverosimile: mi sembra, anzi, che nell’inchiesta di Viterbo ci siano alcune opacità che devono essere assolutamente chiarite.

La prima guerra mondiale – Le operazioni militari (agosto 1914-novembre 1917) da: www.resistenze.org – cultura e memoria resistenti – storia – 23-10-14 – n. 517

Accademia delle Scienze dell’URSS | Storia universale vol. VII, Teti Editore, Milano, 1975

Capitolo XXVI – Parte prima

Le contraddizioni imperialistiche, che si erano andate accumulando per decenni, portarono al grandioso scontro dei due blocchi politico-militari. Il materiale combustibile nella politica internazionale era talmente abbondante, che la fiamma della guerra accesasi alla fine del luglio 1914 fra l’Austria e la Serbia si diffuse nel corso di qualche giorno su tutta l’Europa e poi, seguitando a crescere, abbracciò tutto il mondo.

1. L’Inizio della guerra. Il fallimento della II Internazionale

La trasformazione del conflitto in guerra mondiale

Nonostante il fatto che i piani dello Stato Maggiore tedesco prevedessero l’apertura delle ostilità, in primo luogo, contro la Francia, il governo della Germania decise di dichiarare prima guerra alla Russia al fine d’ingannare le masse utilizzando la parola d’ordine della lotta contro lo zarismo russo. I circoli di governo della Germania sapevano che la Francia sarebbe intervenuta immediatamente a fianco della Russia e questo avrebbe dato all’esercito tedesco la possibilità di assestare il primo colpo in occidente, secondo il piano Schlieffen.

La sera del 1° agosto 1914 l’ambasciatore tedesco a Pietroburgo, conte Pourtalès, si presentò al ministro degli affari esteri Sazonov per portare la risposta all’ultimatum che esigeva la revoca della mobilitazione russa. Avendo ricevuto un rifiuto, Pourtalès consegne a Sazonov la nota con la dichiarazione di guerra. Così, con l’intervento di due grandi potenze imperialistiche – la Germania e la Russia – aveva inizio la prima guerra mondiale.

In risposta alla mobilitazione generale della Germania, la medesima decisione venne presa anche dalla Francia. Il governo francese però non voleva assumersi l’iniziativa della dichiarazione di guerra e voleva scaricarne la responsabilità sulla Germania.

Il giorno della presentazione dell’ultimatum alla Russia, il governo tedesco richiese alla Francia di rimanere neutrale in caso di una guerra russo-tedesca. Contemporaneamente essa preparò il testo della dichiarazione di guerra alla Francia, nella quale si faceva riferimento al fatto che aerei militari francesi avevano sorvolato il territorio tedesco (in seguito il governo tedesco dovette riconoscere che nessuno. aveva visto tali aerei).

La Germania dichiaro guerra alla Francia il 3 agosto, ma già il 2 agosto, aveva inoltrato al governo belga una richiesta-ultimatum di lasciar passare attraverso il Belgio le truppe tedesche verso il confine della Francia. Il governo belga respinse l’ultimatum e si rivolse per aiuto a Londra. Il governo inglese decise di utilizzare questo appello come pretesto per l’intervento nella guerra. “L’agitazione a Londra cresce di ora in ora”, così telegrafava il 3 agosto a Pietroburgo l’ambasciatore russo in Inghilterra. Il giorno dopo la Gran Bretagna inviava alla Germania un ultimatum con la richiesta di non violare la neutralità del Belgio: il termine dell’ultimatum inglese scadeva alle ore 11 della sera, ora di Londra. Alle 11 e 20 minuti il Primo Lord dell’Ammiragliato Winston Churchill comunicò ad una seduta del gabinetto di avere inviato in tutti i mari ed oceani un messaggio radio che ordinava alle navi da guerra inglesi di aprire le ostilità contro la Germania.

Dopo l’inizio della guerra, dichiararono la propria neutralità la Bulgaria, la Grecia, la Svezia, la Norvegia, la Danimarca, l’Olanda, la Spagna, il Portogallo ed anche l’Italia e la Romania, che erano alleate delle potenze centrali. Tra i paesi non europei si dichiararono neutrali gli Stati Uniti e vari Stati dell’Asia e dell’America Latina. La dichiarazione di neutralità però non significava assolutamente che tutti questi paesi avessero l’intenzione di rimanere fuori della guerra.

La borghesia di molti paesi neutrali aspirava a partecipare alla guerra contando di realizzare in questo modo le proprie pretese territoriali. D’altro canto le potenze belligeranti ritenevano che l’intervento di nuovi Stati nella guerra potesse influenzare la sua durata e l’esito finale. Per questo, ognuna delle due coalizioni combattenti face il massimo sforzo al fine di attirare al suo fianco questi paesi oppure assicurarsi la loro benevola neutralità fino alla fine della guerra.

Già nell’agosto, gli imperialisti giapponesi si convinsero che si era creata una situazione favorevole per l’instaurazione del loro predominio in Cina e sull’Oceano Pacifico. Il 19 agosto il Giappone presentava alla Germania un ultimatum con la richiesta dell’immediato richiamo dalle acque cinesi e giapponesi delle forze armate tedesche e la consegna alle autorità giapponesi, non più tardi del 15 settembre 1914, dei territori “affittati” di Kiaochow con il porto di Tsingtao. La Germania respinse l’ultimatum ed il 23 agosto il Giappone le dichiarò guerra.

La Turchia, che formalmente aveva proclamato la neutralità, firmò il 2 agosto un accordo segreto con la Germania in base al quale si obbligava ad intervenire al suo fianco ed a mettere di fatto il proprio esercito agli ordini dello Stato Maggiore tedesco.
Il giorno della firma di questo accordo il governo turco proclamò la mobilitazione generale e sotto la copertura della neutralità armata iniziò la preparazione della guerra. Appoggiandosi sull’influente raggruppamento nazionalistico grande-turco con alla testa il ministro della guerra Enver-Pascià e quello degli affari esteri Talaat-Pascià, la diplomazia tedesca ottenne in breve tempo la partecipazione della Turchia alla guerra.

Gli incrociatori tedeschi “Goeben” e “Breslau” passarono attraverso i Dardanelli nel Mare di Marmara ed il contrammiraglio tedesco Souchon, giunto con il “Goeben”, venne nominato comandante delle forze navali turche. Ad Istanbul arrivavano ininterrottamente dalla Germania convogli. con armi, munizioni, ufficiali e specialisti militari.
Nei circoli dirigenti della Turchia c’erano ancora esitazioni sulla questione dell’entrata in guerra, ma le reciproche contraddizioni imperialiste nel Vicino Oriente impedivano alla Russia, all’Inghilterra ed alla Francia di utilizzare queste esitazioni ed elaborare una comune linea di condotta politica nei negoziati con il governo turco.

Nel frattempo, la pressione della Germania sulla Turchia andava rafforzandosi ulteriormente. Mirando a porre il paese dinanzi al fatto compiuto, i circoli militari tedeschi ed i militaristi turchi, con alla testa Enver-Pascià, ricorsero alla provocazione. Il 29 ottobre la flotta turco-tedesca attaccò navi russe nel Mar Nero e bombardò Odessa, Sebastopoli, Feodosia e Novorossisk.
La Turchia intervenne in tal modo nel conflitto al fianco della Germania.

Alla fine del 1914 si trovavano in stato di guerra l’Austria-Ungheria, la Germania, la Turchia, la Francia, la Serbia, il Belgio, la Gran Bretagna (assieme ai paesi del suo impero), il Montenegro ed il Giappone. In tale maniera il conflitto militare sorto in Europa s’era esteso in breve spazio di tempo all’Estremo ed al Vicino Oriente.

Il tradimento della II internazionale. la piattaforma rivoluzionaria dei bolscevichi

Nei convulsi giorni della crisi di luglio le masse proletarie avevano riposte tutte le loro speranze nella II Internazionale. Ma nonostante le solenni dichiarazioni dei congressi di Stoccarda e Basilea i leaders della II Internazionale non organizzarono nessuna azione contro la guerra imperialistica imminente e tradirono l’internazionalismo proletario.

La direzione del più grande partito della II Internazionale, il Partito Socialdemocratico Tedesco, che contava nelle sue file circa 1 milione di membri, capitolò completamente davanti alla sua ala destra apertamente sciovinista, i cui capi si erano accordati segretamente con il cancelliere Bethmann Hollweg e gli avevano promesso il proprio incondizionato appoggio in caso di guerra.

Dal giorno della dichiarazione di guerra della Germania alla Russia, 1° agosto 1914, tutta la stampa socialdemocratica tedesca si unì attivamente alla sfrenata campagna sciovinista dei giornali junker-borghesi, invitando le masse a “difendere la patria dalla barbarie russa” ed a combattere “fino alla vittoria finale”.

Il 3 agosto il gruppo socialdemocratico al Reichstag decise di approvare a schiacciante maggioranza di voti (14 contrari) le proposte del governo sui crediti di guerra; il 4 agosto i socialdemocratici, assieme ai deputati della borghesia e degli junkers, votarono all’unanimità per i crediti di guerra.

L’aperto tradimento attuato dai capi socialdemocratici in un’ora così piena di pericoli, demoralizzò la classe operaia tedesca, scompaginò le sue file e la privò della possibilità di attuare una resistenza organizzata alla politica degli imperialisti. L’apparato di partito e la stampa della socialdemocrazia tedesca e dei sindacati si posero al servizio della guerra imperialista.
I redattori dell’organo centrale socialdemocratico, “Vorwarts”, si impegnarono con il comandante militare della marca brandeburghese a non toccata nel loro giornale nessuna questione “della lotta di classe e dell’odio di classe”.

La solidarietà proletaria internazionale fu tradita anche dal Partito Socialista Francese. Il 31 luglio 1914, dopo una campagna provocatoria dei circoli reazionari, fu assassinato Jean Jaurès, che aveva preso posizione contro lo scatenamento della guerra.
Gli operai attendevano che i capi li chiamassero alla lotta, ma il 4 agosto, ai funerali di Jaurès, i lavoratori udirono dai dirigenti del partito socialista e della Confederazione Generale del Lavoro solo inviti proditori all’ “unità nazionale” e alla cessazione della lotta di classe.

I social-sciovinisti francesi affermavano che i paesi dell’Intesa facevano solo una guerra difensiva e che erano i “portatori del progresso” nella lotta contro il prussianesimo aggressivo. In seguito si chiarì che già prima dell’uccisione di Jaurès il governo aveva ordinato di non impiegare misure repressive contro alcune migliaia dei più noti socialisti e dirigenti sindacali, che in precedenza aveva previsto di arrestare se fosse iniziata la guerra.

Il governo era sicuro che gli opportunisti tenevano abbastanza solidamente nelle proprie mani i fili della direzione sia del partito socialista che della Confederazione Generale del Lavoro. Poco dopo la dichiarazione di guerra, i socialisti Jules Guesde, Marcel Sembat e più tardi Albert Thomas occuparono incarichi ministeriali.

Nel Belgio il leader del partito socialista Emile Vandervelde, presidente dell’Ufficio socialista Internazionale, divenne ministro della giustizia.
Anche il Partito Socialdemocratico Austriaco assunse una posizione di tradimento.
Negli inquieti giorni dopo l’attentato di Sarajevo i dirigenti del Partito Socialdemocratico Austriaco, pur dichiarando di essere pronti a difendere la pace, affermavano nello stesso tempo che all’Austria dovevano essere concesse delle “garanzie” da parte della Serbia.
Dopo queste manifestazioni di sciovinismo seguì l’approvazione delle misure militari del governo.
I laburisti inglesi votarono in Parlamento per i crediti militari.

Una posizione social-sciovinista “difensista” fu assunta anche dai menscevichi e dai socialisti rivoluzionari russi; sotto la copertura della fraseologia pseudo-socialista, essi invitavano gli operai alla difesa della Russia zarista ed alla pace civile con la “propria” borghesia.

Contro i crediti di guerra votarono i socialdemocratici serbi.
Una giusta posizione in rapporto alla guerra fu presa anche dai socialisti di sinistra bulgari, dalle sinistre nella direzione del partito socialdemocratico romeno, dalla sinistra tedesca con alla testa Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg e da elementi delle sinistre internazionaliste in altri partiti.

Una conseguente linea internazionalista fu adottata dai bolscevichi.
Il gruppo parlamentare bolscevico nella IV Duma votò coraggiosamente contro il bilancio di guerra; per il loro atteggiamento rivoluzionario i deputati bolscevichi furono sottoposti a giudizio e deportati in Siberia.

Quando scoppiò la guerra, il capo del partito bolscevico Vladimir Ilic Lenin viveva in una piccola cittadina galiziana, Poronin, vicino al confine russo. Il 7 agosto, per disposizione delle autorità austriache, fu effettuata una perquisizione nell’appartamento di Lenin ed il giorno successivo egli venne arrestato e rinchiuso nella prigione della città distrettuale di Novy Targ (Neumarkt).

Dopo l’intervento di alcuni socialdemocratici austriaci e polacchi, gli organi di polizia dovettero liberare Lenin, il 19 agosto, e le autorità austriache gli concessero l’autorizzazione a partire per la Svizzera. Arrivato a Berna, Lenin, all’inizio di settembre, elaborò le sue tesi sui “Compiti della socialdemocrazia rivoluzionaria nella guerra europea”.

Il 6-8 settembre del 1914 si tenne a Berna una riunione del gruppo locale dei bolscevichi, nella quale fu ascoltata la relazione di Lenin e vennero accettate le sue tesi sulla guerra. Poco tempo dopo esse furono inviate in Russia ed alle sezioni all’estero del partito bolscevico. In queste tesi ed anche nel manifesto del Comitato Centrale del POSDR (B) (Partito Operaio Socialdemocratico Russo-Bolscevico) “La guerra e la socialdemocrazia russa” scritto all’inizio dell’ottobre del 1914, Lenin con la genialità di un grande stratega proletario indicò i compiti che stavano dinanzi al proletariato della Russia e di tutto il mondo.

Mentre i leaders di destra dei partiti socialisti affermavano che la guerra allora iniziata era per i loro paesi una guerra difensiva, Lenin dimostrò che la guerra aveva un carattere imperialista per ambedue le coalizioni combattenti: “La conquista delle terre e l’assoggettamento delle nazioni straniere,la rovina delle nazioni concorrenti, la rapine delle loro ricchezze, la deviazione dell’attenzione delle masse lavoratrici dalle crisi politiche interne della Russia, della Germania, dell’Inghilterra e degli altri paesi, la disunione e l’istupidimento nazionalista degli operai e la distruzione della loro avanguardia per indebolire il movimento rivoluzionario del proletariato – tale è l’unico effettivo contenuto, il significato ed il senso della guerra attuale”. (V. I. Lenin: “La guerra e la socialdemocrazia russa”.)

Il partito bolscevico con alla testa Lenin fissò fermamente e senza tentennamenti il suo atteggiamento nei confronti della guerra imperialista. La posizione elaborata dai bolscevichi corrispondeva agli interessi della classe lavoratrice di tutti i paesi.
Condannando le ingannevoli parole d’ordine della pace civile e della collaborazione di classe fatte proprie dai social-sciovinisti, il partito bolscevico avanzò la parola d’ordine rivoluzionaria internazionalista della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile.

Questa parola d’ordine presupponeva la realizzazione di misure concrete: il rifiuto incondizionato di votare per i crediti militari, l’uscita obbligatoria dei rappresentanti dei partiti socialisti dai governi borghesi, il pieno rifiuto di qualsiasi accordo con la borghesia, la creazione di organizzazioni illegali in quei paesi dove ancora esse non esistevano, l’appoggio alla fraternizzazione dei soldati al fronte, l’organizzazione di azioni rivoluzionarie della classe lavoratrice.

In contrapposizione all’invito dei social-sciovinisti di difendere la patria dei latifondisti e dei borghesi, i bolscevichi portarono avanti la parola d’ordine della sconfitta del “proprio” governo nella guerra imperialista. Questo significava che la classe lavoratrice doveva utilizzare il reciproco indebolimento degli imperialisti per il rafforzamento della lotta rivoluzionaria e per il rovesciamento delle classi dominanti.

Bollando con decisione il tradimento della causa del socialismo, perpetrato dai leaders dei partiti socialisti, Lenin prese posizione per la completa rottura con la fallita II Internazionale. Analizzando il contenuto ideologico politico del social-sciovinismo, egli mise in luce il suo diretto legame con l’opportunismo della socialdemocrazia d’anteguerra.

Una posizione ipocrita fu presa dai social-sciovinisti coperti, i centristi, che si sforzavano di abbellire il social-sciovinismo con frasario ortodosso “marxista”.
Kautsky sosteneva “la reciproca amnistia” dei social-sciovinisti di tutti i paesi belligeranti e il loro “uguale diritto” alla difesa della “propria” patria borghese e compiva ogni sforzo possibile al fine di nascondere agli operai il fallimento della II Internazionale.

Nonostante le molte vittime e le perdite provocate dal terrore governativo, il partito bolscevico in Russia passò, in modo organizzato al lavoro illegale, unendo la classe operaia nella lotta contro la guerra imperialistica.
Avendo rotto definitivamente con la II Internazionale, i cui capi si trovavano di fatto alleati con la borghesia imperialista dei propri paesi, esso portò avanti il problema dell’organizzazione e dell’unione di tutte le forze rivoluzionarie della classe operaia internazionale, cioè della creazione di una nuova Internazionale, la III.

2. Le operazioni militari nel 1914

Lo schieramento degli eserciti dei paesi belligeranti

Al momento delle prime operazioni decisive furono mobilitati eserciti con enormi effettivi: l’Intesa 6.179.000 uomini, gli imperi centrali 3.568.000 uomini; l’artiglieria dell’Intesa contava 12.134 bocche da fuoco leggere e 1.013 pesanti, quella degli imperi centrali 11.232 leggere e 2.244 pesanti, senza considerare l’artiglieria da fortezza.
Nel corso della guerra i contendenti aumentarono progressivamente le proprie forze armate.

Nel teatro delle operazioni militari dell’Europa occidentale le truppe tedesche (7 armate e 4 corpi di cavalleria) occupavano un fronte di circa 400 chilometri, dal confine olandese fino a quello svizzero. Nominalmente il comandante supremo delle armate germaniche era l’imperatore Guglielmo II; di fatto la direzione delle stesse era affidata al capo dello Stato Maggiore, von Moltke junior.

Le armate francesi erano schierate fra il confine svizzero ed il fiume Sambre su un fronte di circa 370 chilometri. Il comando francese aveva formato 5 armate, ed alcuni gruppi di divisioni di riserva; la cavalleria strategica era stata riunita in due corpi e in un certo numero di divisioni singole. A comandante in capo delle armate francesi era state, destinato il generale Joffre.
L’esercito belga, sotto il comando del re Alberto I, era schierato sui fiumi Gene e Dijle.
Il corpo di spedizione inglese, composto di 4 divisioni di fanteria e di una divisione e mezzo di cavalleria, sotto il comando del generale French, al 20 agosto si era concentrato nella zona di Maubeuge.

Gli eserciti dell’Intesa schierati nel teatro di operazioni europeo occidentale erano composti da 75 divisioni francesi, 4 inglesi e 6 belghe ed avevano contro 86 divisioni di fanteria e 10 divisioni di cavalleria tedesche.
Praticamente nessuna delle parti aveva la superiorità di forze necessaria per assicurarsi un successo decisivo.

La Russia schierò sul suo fronte nord-occidentale la I e la II armata (17 divisioni e mezzo di fanteria e 8 divisioni e mezzo di cavalleria); contro di essa i tedeschi avevano schierato la loro VIII armata composta di 15 divisioni di fanteria e 1 divisione di cavalleria. Alle 4 armate russe del fronte centrale si contrapponevano 3 armate austriache rafforzate da un gruppo di armate e da un corpo formato da 3 divisioni di fanteria e da 1 divisione di cavalleria.

Un’armata russa serviva da copertura da Pietroburgo al litorale baltico, mentre un’altra copriva il confine con la Romania e il litorale del Mar Nero; gli effettivi totali di queste 2 armate contavano 12 divisioni di fanteria e 3 di cavalleria.
Il comando supremo delle armate russe era affidato al principe Nicola Nikolajevič, mentre a capo di Stato Maggiore fu nominato il generale Januškevič (in seguito nel 1915 il posto di comandante in capo supremo fu occupato da Nicola II, mentre capo di Stato Maggiore divenne il generale Alekseev).

Le armate austro-ungariche erano dirette dal capo di Stato Maggiore generale Conrad von Hötzendorf.

I fronti d’operazione dell’Europa occidentale e orientale furono i principali nel corso di tutta la guerra; le operazioni nei rimanenti teatri ebbero un ruolo di secondaria importanza.

Le forze navali

All’inizio della guerra l’Intesa possedeva la superiorità assoluta delle forze navali. Essa aveva in particolare 23 navi di linea e da battaglia contro 17 del blocco austro-germanico. Ancora maggiore era la superiorità dell’Intesa in incrociatori, cacciatorpediniere e sottomarini. Le forze navali inglesi erano concentrate in prevalenza nei porti al nord del paese, a Scapa Flow, quelle francesi nei porti del Mare Mediterraneo, quelle tedesche a Helgoland, a Kiel e a Wilhelmshaven.
Negli oceani ed anche nel Mare del Nord e nel Mediterraneo dominavano le forze navali dell’Intesa.

Nel Mar Baltico, dato che il programma russo di costruzioni navali militari non era stato completato, la flotta tedesca aveva una certa superiorità. Nel Mar Nero la flotta turco-tedesca, che includeva gli incrociatori veloci “Goeben” e “Breslau” (che avevano ricevuta la denominazione turca “Sultan Selim Javuz” e “Midilli”), nella prima fase della guerra, era nettamente superiore.

Da questo rapporto di forze delle flotte derivarono i piani di guerra sul mare delle due parti.
La flotta germanica fu obbligata a rinunciare ad operazioni attive; soltanto alcuni incrociatori tedeschi furono inviati per operazioni di disturbo sulle rotte oceaniche.
Le forze navali anglo-francesi, particolarmente la flotta inglese, furono in grado di realizzare il blocco delle coste e delle basi militari navali tedesche e di assicurare le vie di comunicazione a loro disposizione. Questa superiorità sul mare giocò un grande ruolo nell’ulteriore corso della guerra.

Le operazioni militari nel teatro di guerra della Europa occidentale

Le attività militari nel teatro di operazioni dell’Europa occidentale ebbero inizio il 4 agosto con l’invasione del territorio del Belgio da parte delle truppe tedesche e con l’attacco alla fortezza di Liegi. Due giorni prima, il 2 agosto, reparti avanzati dell’esercito germanico avevano occupato il Lussemburgo. I tedeschi violarono così la neutralità di questi due Stati, benché in precedenza, come gli altri Stati europei, l’avessero solennemente garantita. Il debole esercito belga, dopo dodici giorni di tenace difesa, ripiegò da Liegi su Anversa. Il 21 agosto i tedeschi presero, senza combattimento, Bruxelles.

Attraversato il Belgio, le truppe tedesche (secondo il piano Schlieffen) irruppero con la propria ala destra nel dipartimento del nord della Francia ed iniziarono una avanzata in direzione di Parigi. Tuttavia le truppe francesi, ritirandosi, opposero una tenace resistenza, mentre si preparavano ad una contromanovra. La massima concentrazione di forze contemplata dal piano tedesco, in questo settore di attacco del fronte apparve impossibile.

Sette divisioni furono impiegate per l’assedio e poi per mantenere Anversa, Civet, Maubeuge, mentre il 26 agosto, nel momento culminante dell’offensiva, i tedeschi dovettero gettare sul teatro delle operazioni militari dell’Europa orientale due corpi d’armata ed una divisione di cavalleria, dato che il comando supremo russo, sebbene non avesse ancora completato il concentramento delle proprie forze, aveva intrapreso, su insistente richiesta del governo francese, operazioni di attacco nella Prussia orientale.

Dal 5 al 9 settembre nelle pianure della Francia, fra Verdun e Parigi, si sviluppò una grandiosa battaglia, cui parteciparono sei armate anglo-francesi e cinque tedesche, con circa due milioni di uomini; nel contempo furono impiegate più di seicento bocche da fuoco pesanti e circa seimila leggere. La VI armata francese, di nuova formazione, assestò un serio colpo all’ala destra della I armata tedesca, che aveva il compito d’accerchiare Parigi per congiungersi poi con le truppe tedesche che operavano a sud della capitale.

Il comando tedesco fu costretto a togliere un corpo d’armata dal settore sud del proprio schieramento e a gettarlo verso occidente. Sul resto del fronte gli attacchi tedeschi furono energicamente respinti dalle truppe francesi. Il comando in capo tedesco non disponeva delle necessarie riserve e di fatto in quel momento non era neppure padrone della situazione, avendo concesso pieni poteri decisionali ai comandanti delle singole armate. Al termine della giornata dell’8 settembre le truppe tedesche avevano perduto definitivamente l’iniziativa dell’offensiva.

In conclusione esse avevano perduto la battaglia, che secondo i piani della Stato Maggiore avrebbe dovuto decidere del destino della guerra. La causa principale della sconfitta fu la sopravvalutazione delle proprie forze da parte del comando supremo tedesco, un errore di calcolo che stava alla base del piano strategico di Schlieffen.

La ritirata delle armate germaniche sul fiume Aisne avvenne senza particolari difficoltà, perché il comando francese non utilizzò le possibilità che gli si erano presentate per l’ulteriore sfruttamento del proprio successo.
I tedeschi tentarono di staccarsi dall’avversario per occupare la costa nord della Francia e rendere difficoltoso l’ulteriore sbarco delle truppe inglesi, ma in questa “corsa al mare” subirono un insuccesso.

Dopo questi avvenimenti le grosse operazioni strategiche sul teatro dell’Europa occidentale cessarono per lungo tempo. Tutte e due le parti passarono alla difesa, dando inizio alla guerra di posizione.
Il 14 settembre Moltke dava le dimissioni e a suo successore era destinato il generale Falkenhayn.

Il teatro delle operazioni militari dell’Europa orientale

Gli avvenimenti sul teatro di guerra dell’Europa orientale giocarono un importante ruolo nel fallimento del piano strategico tedesco. Qui ambedue le parti avevano iniziato attive operazioni militari. Sulle azioni delle truppe russe avevano avuto influenza il ritardo nella mobilitazione, nella concentrazione strategica e nello schieramento dell’esercito ed anche la dipendenza del comando russo dagli accordi della convenzione militare franco-russa.

Quest’ultima circostanza comportò il dislocamento di grosse forze in direzioni meno importanti dal punto di vista degli interessi strategici e politici propri della Russia zarista. Inoltre gli impegni militari verso la Francia obbligarono il comando russo ad iniziare operazioni impegnative prima di aver completato la concentrazione delle truppe.

Il primo periodo della campagna del 1914 sul teatro europeo orientale fu caratterizzato da due grosse operazioni: quella nella Prussia orientale e quella nella Galizia. La I e la II armata del settore nord-occidentale del fronte russo, pur non avendo ancora completato il proprio concentramento, iniziarono l’avanzata nella Prussia orientale il 17 agosto, mentre era in corso l’offensiva tedesca in occidente.

Il corpo tedesco che si era mosso contro la I armata russa fu battuto il 19 agosto in uno scontro presso Stallupönen. Il 20 agosto sul fronte tra Gumbinnen e Goldap si scatenò una grossa battaglia fra la I armata russa e l’VIII armata tedesca. I tedeschi furono sconfitti e costretti a ritirarsi, e alcuni corpi persero fino ad un terzo dei loro organici. Soltanto l’inesatta valutazione della situazione e la tattica passiva dell’inetto comandante della I armata russa, il generale Rennenkampf, dettero alle truppe tedesche la possibilità di sfuggire ad una rotta definitiva.

La II armata russa, sotto il comando del generale Samsonov, aveva passato su largo fronte il confine meridionale della Prussia orientale e condotto un attacco sul fianco e sulle retrovie dell’VIII armata tedesca a occidente dei laghi Masuri. Il comando tedesco aveva gia deciso di ritirare le truppe oltre la Vistola inferiore e di abbandonare la Prussia orientale. Però il 21 agosto, convintosi dell’incapacità offensiva di Rennenkampf, adottò un altro piano: dirigere quasi tutte le proprie forze contro la II armata russa. Questa manovra fu realizzata dal nuovo comando formato dai generali Hindenburg e dal suo capo di Stato Maggiore Ludendorff che aveva sostituito Prittwitz.

Mentre le truppe tedesche venivano trasferite verso sud, la II armata russa s’incuneava in profondità nella Prussia orientale. Le condizioni in cui si svolgeva l’offensiva erano difficili: le retrovie male preparate non assicuravano i rifornimenti, le truppe erano stanche e disperse su un largo fronte, i fianchi male protetti, il servizio informazioni organizzato in modo scadente. Inoltre regnava il disaccordo sulla condotta delle operazioni tra i comandi delle armate, del fronte e del Quartier generale.

Utilizzando la ben articolata rete ferroviaria, il comando tedesco concentrò sui fianchi della II armata russa forti gruppi d’assalto e passò all’attacco alla fine di agosto. Due corpi russi, che erano avanzati al centro, caddero nell’accerchiamento e rimasero decimati. Alla metà di settembre l’armata russa fu respinta dalla Prussia orientale. L’operazione offensiva del fronte nord-occidentale russo terminò pertanto con un insuccesso.

Le perdite russe furono enormi: circa un quarto di milione di soldati ed una grande quantità di armamenti. Fu questo il prezzo pagato dal comando russo per alleggerire il fronte occidentale.

Anche i combattimenti sul fronte sud-occidentale russo ebbero un posto importante nel corso generate delle operazioni del 1914. Più di cento divisioni delle due parti parteciparono qui alle battaglie. Il 18 agosto ebbe inizio l’attacco dell’VIII armata russa del generale Brusilov ed il 23 agosto si sviluppò una grandiosa battaglia su un fronte di più di trecento chilometri.

L’armata russa sconfisse le truppe austro-ungheresi, occupò Leopoli e le obbligò alla ritirata al di la del fiume San. Inseguendo il nemico, le truppe russe lo respinsero oltre il flume Dunajec e verso i Carpazi, bloccando l’importantissima fortezza austriaca di Przemysl. Nella disfatta delle truppe austro-ungariche giocò un grande ruolo anche il fatto che i soldati delle nazionalità slave, in particolare i cechi e gli slovacchi, si davano prigionieri a decine di migliaia.

L’operazione in Galizia durò più di un mese e terminò con la vittoria delle truppe russe. Alla fine di settembre, al comando russo si pose la questione dei piani per le ulteriori operazioni. Inizialmente si voleva completare la disfatta delle armate austro-ungariche, forzare i Carpazi e penetrare in Ungheria. Però gli insuccessi nella Prussia orientale avevano creato sfiducia nel successo delle operazioni offensive.

Gli alleati dal canto loro chiedevano al comando supremo russo di condurre l’attacco non contro l’Austria-Ungheria ma contro la Germania per obbligarla ad alleggerire la pressione in occidente. Dopo qualche esitazione, il comando russo decise di dirigere le forze principali delle proprie armate contro la Germania ed a questo scopo le raggruppò dietro al fiume San, sul corso medio della Vistola, in direzione di Varsavia.

Nel frattempo il comando tedesco, preoccupato per la sconfitta del suo alleato austro-ungarico e per la creazione di una minaccia diretta ai centri industriali della Slesia, decise di vibrate un corpo ai fianchi ed alle retrovie delle armate russe. Come risultato di questo raggruppamento dei due avversari, si ebbero battaglie sulla linea Deblin-Varsavia, su di un fronte di trecento chilometri.

Negli ultimi giorni di settembre il comando germanico iniziò l’attacco verso la Vistola e operò con un forte gruppo di truppe su Varsavia. Sotto le mura della città avvennero sanguinosi combattimenti, nel corso dei quali la superiorità delle forze passò gradualmente dalla parte delle truppe russe.

Inseguendo la IX armata germanica e la I armata austriaca, le truppe russe giunsero, l’8 novembre, sulla linea del flume Warta – monti Carpazi. Alle truppe russe si apriva la possibilità di una profonda penetrazione in Germania.
Il comando tedesco percepì concretamente questo pericolo ed adottò adeguate misure: “La gioventù capace di portare le armi fu evacuata dalle province di confine – scriveva Ludendorff nelle sue memorie. Le miniere polacche in taluni luoghi furono messe fuori servizio e furono prese misure per la distruzione delle ferrovie tedesche e delle miniere della zona di confine”.
Questi provvedimenti, secondo le parole di Ludendorff, avevano diffuso il panico in tutte le province di confine.

Il fronte dell’Europa orientale aveva nuovamente distolto grosse forze tedesche dall’occidente. Al comando russo non riuscì, tuttavia, di realizzare l’invasione della Germania. Le armate austro-tedesche, a prezzo di pesanti perdite, seppero fermare l’attacco delle forze russe. Alla riuscita dell’operazione giovarono le gravi insufficienze nella direzione operativo-strategica del comando russo. In quell’epoca s’incominciava a sentire acutamente l’insufficienza dell’armamento e delle munizioni, che si trasformò in problema permanente per le truppe russe.

Il fronte austro-serbo

Sul fronte austro-serbo le truppe austriache iniziarono l’offensiva il 12 agosto. Da principio essa ebbe successo, ma in breve i serbi passarono al contrattacco, sgominarono le truppe austriache catturando cinquantamila prigionieri, numeroso bottino militare e rigettando gli attaccanti dal territorio serbo.

Nel settembre il comando austro-ungarico intraprese nuovamente un’operazione offensiva. Verso il 7 novembre, in seguito all’insufficienza di munizioni ed alla minaccia di accerchiamento, l’esercito serbo fu costretto a ritirarsi all’interno del paese, abbandonando Belgrado. Nei primi giorni di dicembre, dopo aver ricevuto dai paesi dell’Intesa aiuti di artiglieria e munizioni, i serbi passarono nuovamente al contrattacco, sconfissero il nemico e per la seconda volta lo rigettarono fuori dai confini della Serbia.

Il fronte caucasico e le operazioni militari nel territorio della Persia

Nella Transcaucasia le truppe russe ottennero nel corso del mese di novembre notevoli successi in direzione di Erzurum, Alaškert e Van. Nel dicembre le truppe turche, guidate da Enver-Pascià e da istruttori tedeschi, intrapresero un’importante operazione nella zona di Sarikamiş con l’obiettivo di sbaragliare le forze russe qui concentrate. Nella contromanovra delle truppe russe il IX corpo turco fu circondato e gli scampati, con alla testa il comandante del corpo ed i comandanti di divisione, capitolarono.

Dopo la sconfitta, le truppe turche arretrarono con notevoli perdite. La campagna del 1914 sul teatro turco-caucasico si concludeva perciò con importanti successi delle truppe russe. Le azioni militari si estesero anche al territorio della Persia. Quantunque il governo persiano avesse dichiarato la sua neutralità, nessuna delle parti combattenti era disposta a rispettarla.
Nel novembre 1914 le truppe turche, contemporaneamente a un attacco sul fronte caucasico, irruppero nell’Azerbaigian persiano.

La Russia in quel periodo combatteva accanitamente sul proprio fronte occidentale e non poteva trasferire immediatamente forze rilevanti sul nuovo fronte. Va pure aggiunto che gli alleati occidentali della Russia zarista si erano pronunciati contro il trasferimento di rinforzi russi in Persia. Il governo inglese temeva che i successi delle truppe russe portassero ad un rafforzamento della posizione della Russia nella Persia a spese dell’influenza inglese.

L’occupazione dell’Azerbaigian persiano da parte della Turchia fu di breve durata. La disfatta delle truppe turche presso Sarikamiş alla fine del gennaio 1915 permise al comando russo di sviluppare l’offensiva ed occupare l’Azerbaigian persiano; i turchi riuscirono a mantenere sotto il loro controllo soltanto alcune regioni della Persia occidentale.

La guerra sul mare

Nel 1914 le navi tedesche effettuarono operazioni con incrociatori nelle zone delle isole delle Antille, nell’Oceano Indiano e Pacifico. Inizialmente queste operazioni ebbero successo e provocarono serie preoccupazioni ai comandi navali inglese e francese. La squadra tedesca d’incrociatori dell’ammiraglio von Spee batté presso Coronet, il 1° novembre 1914, una squadra inglese, affondandone due incrociatori.

Ma l’8 dicembre gli inglesi riuscirono a raggiungere la squadra di Spee assieme all’incrociatore “Dresden”, che si era unito ad essa, ed a sbaragliarla presso le isole Falkland. Tutte le navi di von Spee furono affondate. Il “Dresden”, che era riuscito a sfuggire, fu affondato nel marzo del 1915.

Nel Mare del Nord le operazioni navali ebbero un carattere limitato. Il 28 agosto una squadra inglese di incrociatori dell’ammiraglio Beatty effettuò un’incursione nella baia di Helgoland. Lo scontro con incrociatori tedeschi si concluse a favore degli inglesi: tre incrociatori ed un cacciatorpediniere tedeschi furono affondati, mentre gli inglesi subirono danni a un solo incrociatore.
Lo scontro di Helgoland sottolineò ancora una volta la superiorità della flotta inglese.

Già nei primi mesi della guerra i mezzi sottomarini avevano avuto un grande ruolo nelle operazioni marittime. Il 22 settembre un sommergibile germanico riuscì ad affondare, uno dietro l’altro, tre incrociatori corazzati inglesi, che effettuavano servizio di pattugliamento.
L’importanza del nuovo mezzo di lotta crebbe assai dopo queste operazioni. Nel Mar Nero il 18 novembre la squadra russa si scontrò con il “Goeben” e la “Breslau” ed inflisse al primo notevoli danni. Questo successo assicurò alla flotta russa la superiorità nel Mar Nero.

Il principale risultato della lotta sul mare fu tuttavia il blocco delle coste tedesche da parte dell’Inghilterra, che ebbe un’enorme influenza nei corso della guerra.

Il bilanco delle operazioni del 1914

In complesso si può dire che le operazioni del 1914 si chiusero a favore dell’Intesa. Le truppe tedesche erano state sconfitte sulla Marna, quelle austriache in Galizia ed in Serbia, quelle turche presso Sarikamiş. In Estremo Oriente nel novembre 1914 il Giappone aveva occupato il porto di Tsingtao, le isole Caroline, le Marianne e le Marshall, che appartenevano alla Germania, mentre le truppe inglesi si erano impadronite dei rimanenti possedimenti della Germania nell’Oceano Pacifico.

Le truppe anglo-francesi in Africa, gia all’inizio della guerra si erano impossessate del Togo. Nel Camerun e nell’Africa orientale tedesca le operazioni militari assunsero un carattere indeciso, ma praticamente anche queste colonie, tagliate fuori dalla metropoli, furono perdute per la Germania.

Alla fine del 1914 divenne evidente il fallimento dei calcoli germanici a proposito di una guerra-lampo di breve durata, la cosiddetta “guerra fino alla caduta delle foglie autunnali”. Si era invece iniziata una lunga guerra di esaurimento. Tra l’altro, l’economia dei paesi belligeranti non era ancora preparata a una prolungata condotta bellica nelle nuove circostanze.

Le sanguinose battaglie della campagna del 1914 avevano esaurito le truppe, mentre le riserve non erano state ancora approntate. Non bastavano le armi, e mancavano i proiettili perché l’industria bellica non riusciva a soddisfare alle necessità delle armate. Particolarmente grave era la situazione dell’esercito russo. Le enormi perdite avevano dimezzato in numerose unità gli effettivi; le scorte di armi e munizioni consumate non venivano quasi reintegrate.

La formazione di nuovi fronti e la guerra di posizione provocarono la ricerca di nuove vie per la risoluzione dei compiti strategici. Il comando supremo germanico decise lo spostamento delle operazioni militari fondamentali contro la Russia allo scopo di provocarne la sconfitta e costringerla ad uscire dalla guerra.

Il settore principale della guerra mondiale nel 1915 divenne in tal modo il fronte orientale.

Continua…

Luciano Gallino: Leopolda vs piazza San Giovanni, la differenza visibile tra destra e sinistra Fonte: La Repubblica | Autore: Luciano Gallino

Non si sa chi sia, il regista delle due manifestazioni contemporanee della scorsa settimana, piazza San Giovanni e Leopolda. Di certo è un grande talento. Il contrasto tra lo scenario dei due eventi non poteva venire realizzato in modo più efficace. Da un lato un gran sole, il cielo azzurro, uno spazio amplissimo, una folla sterminata, brevi discorsi su temi concreti. Dall’altra un garage semibuio dove non si riusciva a vedere al di là di una decina di metri, un centinaio di tavoli dove si parlava di tutto, un lungo discorso del presidente del Consiglio in cui spiccavano acute considerazioni sull’iPhone e la fotografia digitale, e non più di sei-settemila persone — giusto 140 volte meno che a San Giovanni.

Il duplice scenario e la composizione dei partecipanti sono stati quanto mai efficaci per chiarire che a Roma sfilava un variegato popolo rappresentante fisicamente e culturalmente la sinistra, sebbene del tutto privo di un partito che interpreti e difenda le sue ragioni. Mentre a Firenze sedeva a rendere omaggio al principe un gruppo della borghesia medio-alta orientato palesemente a destra — a cominciare dal Principe stesso. Vi sono due condizioni che fanno, oggi come ieri, la differenza tra destra e sinistra.

Una è la scelta della parte sociale da cui stare: in politica, nell’economia, nella cultura.
Il che significa o sostenere che le disuguaglianze non hanno alcun peso nei rapporti sociali, o magari negare che esistano; oppure darvi il peso che moralmente e politicamente meritano, e adoperarsi per ridurle. L’altra condizione è la capacità di capire in che direzione si sta evolvendo la situazione economica e sociale del momento. Perché se non lo capisce uno sta uscendo, senza rendersene conto, dal corso della storia.

Nel caso della prima condizione la differenza tra Roma e Firenze era evidente. Alla manifestazione di Roma non c’erano (o erano poche) le persone che dovevano scegliere se stare o no dalla parte dei deboli, degli svantaggiati, delle classi inferiori di reddito, di quelli il cui destino dipende sempre da qualcun altro. Erano loro stessi, la massa dei partecipanti, a essere deboli, svantaggiati, poveri, perennemente in balia del parere e della volontà di qualcun altro. Collocati, in altre parole, al fondo delle classifiche delle disuguaglianze di reddito, di ricchezza, di potere politico ed economico; disuguaglianze il cui scandaloso aumento negli ultimi vent’anni, nel nostro paese come in altri, accompagnato dalla scomparsa del tema stesso nel discorso delle socialdemocrazie, ha fatto parlare più di uno studioso di nuovo feudalesimo.

Invece nel garage semibuio di Firenze c’erano soprattutto persone a cui l’idea di stare dalla parte dei più deboli e magari di dichiararlo appariva semplicemente repellente, o quanto meno fastidiosa, non meno che mettersi a parlare “in un mondo che è cambiato” di lotta alle disuguaglianze. Al massimo i più deboli si possono aiutare a soffrire di meno, non certo a diventare meno deboli, o a salire un gradino nella scala delle disuguaglianze, grazie a un sindacato o un partito. Per non dire che la parola “partito” significa appunto “aver preso parte” — idea demolita a Firenze dall’idea di un partito- nazione (ma l’ha detto qualcuno a Renzi che la parola “nazione” o “nazionale” figuravano tempo addietro nel nome di un paio di partiti che molti guai procurarono all’Italia e all’Europa?).

Anche per l’altra condizione non c’era confronto tra i partecipanti di piazza San Giovanni e quelli della Leopolda. Per i primi era evidente che quello che sta succedendo da parecchi anni è una “guerra dell’austerità”, per usare la dizione di un noto economista americano. Una guerra di classe in cui la destra si prefigge di distruggere le conquiste sociali degli anni 60 e 70, che furono un tentativo riuscito di sottoporre il capitalismo a una ragionevole dose di controllo democratico. Le misure imposte da Bruxelles, di cui il governo Renzi, a parte qualche battuta, è fedele esecutore, sono precisamente espressione di tale guerra o conflitto di classe, nella quale le classi dominanti hanno negli ultimi decenni conseguito una grande vittoria. Equivalente a una dolorosa sconfitta per i manifestanti romani.

A Firenze l’interpretazione predominante della crisi è stata quella canonica delle destre europee: lo stato ha un debito troppo alto, dovuto all’eccesso di spesa; il problema è il costo eccessivo del lavoro; per rilanciare la crescita bisogna ridurre le tasse alle imprese; i dettati di Bruxelles sono onerosi, ma bisogna pur mantenere gli impegni, ecc. Ciascuno di questi slogan è falso quanto dannoso — e si noti che a dirlo sono ormai dozzine di economisti, compresi perfino alcuni esponenti delle dottrine neoliberali. A parte l’interpretazione ortodossa della crisi, che non sta in piedi, chi vi aderisce non si rende conto che ci si avvicina a un momento in cui o si modificano i trattati europei e si adottano politiche economiche opposte a quelle del governo Renzi (che sono poi quelle degli ultimi tre o quattro governi, prescritte dalla Troika e da noi passivamente messe in atto), o ci si avvia ad un lungo periodo di grave recessione e di rapporti intereuropei sempre più difficili, nonché dagli esiti imprevedibili.

Un’ultima nota: a saperlo interpretare (non che ci voglia molto), la massa dei partecipanti di Roma ha lanciato un messaggio chiaro. Ha detto in sostanza “siamo tanti, non contiamo niente, vogliamo essere qualcosa”. Tempo fa, un messaggio analogo ebbe effetti rilevanti. Ignorarlo, o parlarne con disprezzo, potrebbe rivelarsi un serio errore, a destra come a sinistra

Scontri a Roma, Sel raccoglie le firme per la sfiducia ad Alfano. Le testimonianze di sindacalisti e lavoratori Autore: fabrizio salvatori da: controlacrisi.org

Una raccolta di firme su una mozione di sfiducia individuale al ministro Angelino Alfano, che oggi pomeriggio riferira’ alle Camere sul ferimento degli operai e dei sindacalisti dell’Ast. Intanto, il viceministro dell’Interno Filippo Bubbico parla, in una intervista radiofonica, di problemi nella catena di comando (“nessuno ha dato l’ordine di caricare”) e di malintesi. Per la presentazione della mozione alla Camera dei deputati, a norma di regolamento, serve la sottoscrizione del 10 per cento dei parlamentari, 63 firme.
La mozione, promossa da Sel, e’ in questo momento all’attenzione dei gruppi di opposizione al governo Renzi. Sel conta a Montecitorio 26 deputati che hanno gia’ sottoscritto la mozione. Per la presentazione della mozione sarebbe sufficiente la firma di una piccola parte del Movimento Cinque Stelle, che alla Camera ha 104 deputati. Per Alfano si tratterebbe del secondo voto di sfiducia individuale in Parlamento, dopo il caso Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Abliazov, espulsa dall’Italia in circostanze controverse la scorsa primavera.
Per accertarsi dello stato di salute dei lavoratori e dei dirigenti colpiti, il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, si è recata all’ospedale Policlinico Umberto I di Roma dove sono stati ricoverati e ha telefonato al ministro degli Interni, Angelino Alfano, per chiedere conto di quanto avvenuto, mentre una richiesta ufficiale di chiarimento al governo veniva rivolta anche dal segretario della Fiom, Maurizio Landini, che in queste ore ha riunito il Comitato centrale del sindacato per fare il punto della situazione e decidere sullo sciopero generale.
“Ci stavamo incamminando” verso il Mise, racconta Rosario Rappa, segretario nazionale della Fiom “quando c’è stato il blocco della polizia. Ed è partita subito la carica, selvaggia e gratuita”. E smentisce che i manifestanti volessero puntare a Termini, come sostenuto dalla polizia: “totalmente falso”. “Cercano di costruirsi uno pseudo alibi. E non dicano che c’erano infiltrati: i nostri erano 530, tutti registrati”.
Un altro sindacalista ferito, Cristiano Costanzi, si sfoga invece su Messaggero: “sono stato colpito a tradimento, da dietro, mentre cercavo di calmare gli animi degli altri operai”. “Ci hanno trattato come delinquenti. Invece siamo persone oneste che guadagnano poco e lavorano tanto”. “E’ stata una lotta tra poveri, perch‚ anche i poliziotti stanno vivendo un momento difficile”.
Manuel Feliziani, anch’egli ferito negli scontri, parla invece a Repubblica: “quando ho visto che gli animi si iniziavano a scaldare ho cercato di parlare con qualche poliziotto. Non ho fatto in tempo…”. “Sono stato colpito da una prima manganellata alla testa. Mi sono subito portato le braccia alla testa per ripararmi, ma lo stesso poliziotto mi ha colpito una seconda volta”.

Il premier è figlio (legittimo) di D’Alema e Bersani Fonte: il manifesto | Autore: Roberto Della Seta

Partito democratico. L’avvento di Renzi è la conseguenza di una sinistra che da tempo non è più “contemporanea”

ITALY-POLITICS-PD-RENZI

Renzi pensa, parla, agi­sce come un poli­tico di destra? Può darsi, in molti casi è evi­dente, ma le domande a que­sto punto diven­tano altre e sono più impe­gna­tive: com’è pos­si­bile che un poli­tico così abbia “espu­gnato” senza grande dif­fi­coltà il Pd e oggi goda di un con­senso lar­ga­mente mag­gio­ri­ta­rio nell’elettorato che si sente di sini­stra e che ha sem­pre votato a sini­stra? Dipende solo dalle sue doti obiet­ti­va­mente straor­di­na­rie di istrione e dema­gogo? Io non credo, penso che se il Pd si sta tra­sfor­mando nel par­tito per­so­nale di Renzi per­dendo molti con­no­tati tra­di­zio­nali di un par­tito “di sini­stra”, que­sto dipende da com’è stata la sini­stra prima di lui.

Renzi, insomma, è figlio di D’Alema e di Ber­sani, nel senso che il suo avvento è la con­se­guenza di una sini­stra, della sini­stra ita­liana erede del Pci, che non ha mai fatto i conti con i pro­pri ritardi, i vizi, le ano­ma­lie rispetto a buona parte delle sini­stre euro­pee. Una sini­stra che da tempo non è più “con­tem­po­ra­nea”: per que­sto si è pro­gres­si­va­mente allon­ta­nata dagli ita­liani, com­presi tanti che hanno con­ti­nuato a votarla per abi­tu­dine o per man­canza di alter­na­tive, e anche per que­sto Renzi l’ha “spianata”.

Non ha fatto i conti, la sini­stra ex-Pci, con tre que­stioni su cui si sono costruiti prima il suo declino e poi la sua defi­ni­tiva sconfitta.

Una que­stione è squi­si­ta­mente ideo­lo­gica. Gli ex-Pci cam­bia­rono il nome subito dopo l’Ottantanove, quando peral­tro la “cosa” già aveva già pochis­simo di comu­ni­sta. Ma di quella sto­ria hanno con­ser­vato un abito men­tale che è stato di grave osta­colo per la com­pren­sione dei cam­bia­menti del mondo e dell’Italia. Così, hanno con­ti­nuato a misu­rare il pro­gresso secondo cate­go­rie anti­di­lu­viane che sepa­rano strut­tura – il lavoro, la con­di­zione mate­riale delle per­sone — e sovra­strut­tura – la lega­lità, la cul­tura, l’ambiente, la dimen­sione imma­te­riale del benes­sere -, e a con­ce­pire l’economia e lo svi­luppo come un secolo fa: certo non più “soviet e elet­tri­fi­ca­zione” ma comun­que car­bone (Ilva e din­torni), asfalto, cemento.

Così, sono rima­sti pri­gio­nieri dell’idea del pri­mato della poli­tica sulla società, e della con­vin­zione di essere – loro élite poli­tica — migliori del popolo rozzo e igno­rante che si fa infi­noc­chiare da Ber­lu­sconi o da Grillo; così, ancora, pro­prio in quanto ex-comunisti hanno ten­tato di tutto per dimo­strare di non esserlo più: dando prova di una com­pia­cenza siste­ma­tica verso inte­ressi costi­tuiti e poteri forti, pra­ti­cando una rigo­rosa asti­nenza da qua­lun­que radi­ca­lità si chiami patri­mo­niale o stop al con­sumo di suolo o diritti degli omo­ses­suali…
Una seconda que­stione è cul­tu­rale. Oggi l’alfabeto poli­tico della sini­stra nove­cen­te­sca è del tutto insuf­fi­ciente a rap­pre­sen­tare i valori, i biso­gni, gli inte­ressi di chi si con­si­dera “di sini­stra”. Fatica a inte­grare pie­na­mente nel pro­prio discorso temi come l’ambiente che set­tori cre­scenti della società con­si­de­rano cen­trali, non rie­sce a vedere che mal­grado i drammi incom­benti legati a disoc­cu­pa­zione e povertà sem­pre di meno le per­sone basano il pro­prio “essere sociale” pre­va­len­te­mente sul lavoro.

In nes­suno dei movi­menti sociali e di opi­nione degli ultimi decenni ascri­vi­bili a idea­lità di sini­stra, il lavoro è stato l’elemento cen­trale: dall’ambientalismo al fem­mi­ni­smo, dai no-global ai movi­menti gio­va­nili, dalle mobi­li­ta­zioni per i diritti civili a quelle per i beni comuni. Il lavoro natu­ral­mente conta tut­tora mol­tis­simo, conta tanto più in una sta­gione di dram­ma­tica crisi eco­no­mica come l’attuale per l’Europa; ma oggi per dare senso e futuro alla parola pro­gresso, spe­cial­mente per avere qual­cosa da dire su que­sto che inte­ressi i più gio­vani, non si può e non si deve met­tere al cen­tro solo il lavoro. In molti casi – sicu­ra­mente in
Ger­ma­nia e nel nord Europa, meno in Fran­cia — i socia­li­sti euro­pei si sono lasciati tra­sfor­mare da que­sti nuovi para­digmi. Gli ex-Pci no.

Infine, la sini­stra post-comunista e pre-renziana ha lasciato mar­cire al pro­prio interno la que­stione morale. Il Pci e i par­titi suoi eredi hanno svi­lup­pato, a par­tire almeno dai primi anni Ottanta, un’attitudine cre­scente a col­ti­vare rap­porti opa­chi con gli inte­ressi eco­no­mici: quanto più si sepa­ra­vano dalla pro­pria “diver­sità” politico-ideologica, e dai vin­coli anche finan­ziari con il comu­ni­smo sovie­tico, e tanto più sono andati strut­tu­rando un rap­porto prag­ma­tico e spre­giu­di­cato con l’economia. Un rap­porto nel quale hanno assunto uno spa­zio e un peso sem­pre più rile­vanti legami di scam­bio politico-elettorale con poteri eco­no­mici con­so­li­dati, dall’edilizia alla grande indu­stria di Stato o sov­ven­zio­nata (ener­gia, acciaio, cemento) al sistema ban­ca­rio, e nel sud con i poteri legati alla cri­mi­na­lità organizzata.

La sini­stra erede del Pci è stata anch’essa coin­volta in pieno nella que­stione morale: da Penati al Mose, dalla sanità pugliese alle “rim­bor­so­poli” esplose in quasi tutte le regioni — nella realtà.

Allora non è Renzi che ha spia­nato la sini­stra ita­liana: lui si è limi­tato a sep­pel­lire le mace­rie. Renzi è molto di più che l’antagonista, alla fine vit­to­rioso, di Ber­sani, D’Alema e com­pa­gnia: è figlio loro, sem­mai va notato che la discen­denza non è del tutto “ille­git­tima”. Al di là e al di sotto di un’efficacissima reto­rica da inno­va­tore, nei com­por­ta­menti ripete alcuni schemi men­tali e poli­tici tipici della sini­stra ex-comunista: non sop­porta i corpi inter­medi, soprat­tutto quelli non “col­la­te­rali” al suo potere; parla e stra­parla di par­tito liquido all’americana ma poi pre­tende disci­plina e obbe­dienza dai par­la­men­tari Pd; strilla con­tro i poteri forti ma poi dall’Eni a Fin­mec­ca­nica, dal pro­gramma di “rilan­cio” dell’energia fos­sile alla pro­roga delle con­ces­sioni auto­stra­dali fa di tutto per cor­teg­giarli e blandirli.

Fini­sco come ho comin­ciato, con una domanda. Date que­ste pre­messe, è rea­li­stica e soprat­tutto è immi­nente la rina­scita in Ita­lia di una sini­stra forte e vera?
Qui non ho una mia rispo­sta ma solo una con­vin­zione: chiun­que voglia impe­gnarsi per que­sto scopo deve sapere che l’impresa, per non essere pura fol­lia, pre­sup­pone sì il supe­ra­mento di Renzi ma altret­tanto la defi­ni­tiva sepol­tura di molte delle idee e dei com­por­ta­menti che prima di Renzi abi­ta­vano la sini­stra ita­liana e che con­ti­nuano, mi pare, ad abi­tare buona parte degli anti-renziani del Pd.

Fiom, a metà novembre lo sciopero generale con cortei e sit in in tre regioni. Solidarietà dai lavoratori della Toscana | Autore: fabrizio salvatori da: controlacrisi.org

Sciopero generale dei metalmeccanici a meta’ novembre che sarà realizzato attraverso due o tre manifestazioni territoriali, in vista poi dello sciopero generale della Cgil che dovrebbe tenersi ai primi di dicembre. Alla proposta di Maurizio Landini manca solo l’approvazione finale del Comitato centrale della Fiom che sta discutendo proprio in queste ore. “Abbiamo pensato che rispetto ad un classico sciopero generale – ha continuato Landini – sarebbe più utile mettere insieme 2-3 manifestazioni con i rispettivi scioperi in diverse date per il nord, il centro e il sud. Le città potrebbero essere Milano, Napoli e Terni, quest’ultima da valutare in base a quello che succederà”.
Intanto, oggi sono scattati in Toscana scioperi e presidi in solidarietà ai lavoratori Ast di Terni dopo quanto accaduto ieri a Roma. A Lucca, spiega la Cgil regionale in una nota, astensione dal lavoro, proclamata dalle Rsu, stamani per un’ora alla Perini e alla Finder Pompe, per protestare contro “l’azione antidemocratica che le forze di polizia e il Governo hanno dimostrato nei confronti di gente onesta che reclama i propri diritti”. Sciopero di un’ora anche al Pignone di Massa (Massa Carrara) e di mezz’ora al Comune di Rosignano Marittimo (Livorno). Ancora i componenti Cgil Rsu della Novartis Vaccines hanno proclamato per oggi un’ora di sciopero con presidio davanti all’ingresso dei siti aziendali di Siena e Rosia. Questo pomeriggio poi a Firenze, “a sostegno della vertenza degli operai Ast e per scongiurare il ripetersi di simili episodi di violenza”, alle 17 Fim, Fiom e Uilm fiorentine faranno un presidio sotto la prefettura: lasciate libere le Rsu di indire ore di sciopero per partecipare all’iniziativa. Presidio, sempre alle 17, anche a Massa, davanti alla prefettura, indetto dalla Cgil e dalla Cisl di Massa Carrara. Per l’esecutivo di Cgil Toscana “i fatti avvenuti ieri a Roma sono gravi e denotano un inaccettabile e pericoloso avvitamento della situazione sociale del Paese. Il frutto di una campagna contro il lavoro, i lavoratori e le loro rappresentanze che in primo luogo il Governo ha il dovere di interrompere con parole ed atti chiari”. La Cgil Toscana invita poi i propri iscritti “al massimo del rigore, la massima compostezza, la massima vigilanza, a partire dalle prossime manifestazioni che ci vedranno impegnati per contrastare misure ingiuste, sbagliate e tese ad alimentare le diseguaglianze”. Rammarico per i fatti di Roma è stato espresso anche dalla Uil Toscana.

Falange Armata, romanzo criminale dal delitto Mormile alla Uno bianca da: i quaderni de l’ora

La prima puntata dell’inchiesta sulla sigla oscura che per un lustro rivendica ogni singolo atto criminale della strategia stragista: dai delitti della Banda della Uno Bianca, fino agli eccidi di Cosa Nostra

di Giuseppe Pipitone

26 ottobre 2014

Questa è una storia di omicidi e stragi, di patti tra pezzi dello Stato e associazioni criminali, di boss di Cosa Nostra che imbucano lettere per rivendicare i loro delitti, di presidenti del consiglio che rivelano in Parlamento l’esistenza di organizzazioni militari clandestine. Una storia che lascia traccia di sé nei comunicati inviati ai giornali, nelle voci metalliche che telefonano alle agenzie di stampa, nelle rivendicazioni di delitti che partono dal profondo nord, si fermano in Emilia Romagna, dove imperversa la banda della Uno Bianca, e sbarcano in Sicilia seguendo la scia di sangue tracciata dagli eccidi targati Cosa Nostra. Una linea della palma al contrario, che semina terrore, panico e confusione, e che alla fine ha sempre la stessa sigla: Falange Armata. Due parole che suonano minacciose, che strizzano l’occhio all’estremismo della destra eversiva – la Falange era il partito fondato in Spagna negli anni ’30 dal militare José Primo de Rivera – e che presto rimangono impresse nella memoria di chi inizia a leggerle sui giornali. Perché quelle due parole, Falange Armata, sui quotidiani e sui tg ci finiscono sempre più spesso, ogni volta che su e giù per lo stivale mitra e tritolo vengono azionate seminando morte. Chi ci sia dietro quella firma di terrore che per un lustro rivendica ogni singolo atto criminale della strategia stragista è un mistero, come un mistero rimane ancora oggi cosa sia nel dettaglio la Falange Armata. Perché la sigla oscura torna alla ribalta nell’ottobre 2013: una lettera spedita nel carcere milanese di Opera al capomafia Totò Riina con l’invito a “chiudere la bocca” per il boss corleonese. Un messaggio inquietante dato che in quei mesi il capo dei capi viene intercettato dalla Dia di Palermo mentre si lascia andare a rivelazioni inedite con il compagno d’ora d’aria Alberto Lorusso. Stralci di quelle conversazioni finiranno sui giornali soltanto alcune settimane dopo: gli estensori di quella missiva come fanno quindi a sapere che Riina viene ascoltato in carcere dai pm palermitani? Un interrogativo ancora oggi al vaglio degli inquirenti, particolarmente colpiti dal fatto che la Falange sia tornata a farsi sentire dopo vent’anni esatti di silenzio.

Gli esordi del terrore: da Mormile, alla Uno Bianca
Indicata all’inizio come un’organizzazione terroristica creata per destabilizzare il Paese, la Falange esordisce quando mette la firma sull’esecuzione di Umberto Mormile, educatore nel carcere milanese di Opera, ucciso a colpi di pistola l’11 ottobre del 1990, da un commando in motocicletta, mentre sta andando a lavoro con la sua automobile. Per quell’omicidio sarà poi condannato il boss della ‘Ndrangheta Domenico Papalia, all’epoca recluso a Opera, deluso dal fatto che Mormile, dopo aver intascato denaro, lo avesse abbandonato senza procurargli i benefici carcerari promessi. Un nome, quello di Papalia, che ricomparirà più volte tra i rivoli di mistero dei primi anni ’90: a citarlo è il boss mafioso Nino Gioè, nella lettera lasciata in carcere prima che i secondini lo trovassero morto nella sua cella cella; diranno poi che si trattò di suicidio, mentre ancora oggi sono molti i punti di domanda che si annidano sulla fine del boss di Altofonte. Oltre alla lettera di Gioè, Papalia compare anche in un’informativa della Dia nel 1994, dove è indicato tra gli ‘ndranghetisti che a Milano erano in contatto con ambienti legati alla Massoneria, forse con Licio Gelli in persona. Papalia, però, non è l’unico personaggio interessante coinvolto nell’esecuzione di Mormile. Secondo le prime piste investigative imboccate all’epoca, un ruolo nell’esecuzione dell’educatore carcerario lo gioca Angelo Antonio Pelle, lo ‘ndranghetista che nel 2004 finirà nella lista allegata al Protocollo Farfalla: d’accordo con il Dipartimento d’amministrazione penitenziaria, il Sisde allora guidato da Mario Mori metterà a libro paga a otto boss detenuti, che diventeranno confidenti dei servizi in cambio di denaro. Corsi e ricorsi di una storia che nell’aprile del 1990 deve ancora cominciare.

L’atto primo va in scena precisamente il 27 ottobre 1990 quando al centralino dell’Ansa di Bologna arriva una strana telefonata che rivendica l’assassinio di Mormile, ammazzato ormai sei mesi prima: “Il terrorismo non è morto, ci conoscerete in seguito” dice al telefono una voce, che sembra voler tradire appositamente un accento tedesco. In coda alla comunicazione c’è la firma letta al telefonista: Falange Armata Carceraria. Quella prima rivendicazione è importante per due motivi: l’estensione nella sigla, quel “Carceraria”, utilizzata per prendersi la responsabilità dell’assassinio proprio di un educatore di detenuti, che poi sparirà presto dalle rivendicazioni di morte dei falangisti; il dato più rilevante però è il tempo: tra l’omicidio Mormile e la telefonata all’Ansa, passano ben sei mesi. In quei giorni, l’opinione pubblica italiana è in fibrillazione perché il 24 ottobre l’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti interviene alla Camera dei Deputati, rivelando l’esistenza di Gladio, l’evoluzione di Stay Behind, l’organizzazione militare segreta costituita in ottemperanza al Patto Atlantico. Andreotti alla Camera definirà Gladio come “un’organizzazione di informazione, risposta e salvaguardia”. Passano 72 ore e sulla scena italiana compare la Falange, rivendicando un fatto di sangue accaduto parecchi mesi prima. Complice il caos mediatico suscitato dalle ammissioni di Andreotti, però, quella prima telefonata dei falangisti. non lascia particolare segno.

Risonanza maggiore avranno le rivendicazioni successive dei falangisti, che dopo qualche mese si spostano un po’ più a sud, sulla via Emilia, dove dalla fine degli anni ’80 la Banda della Uno Bianca semina terrore e morte a buon mercato. Il 4 gennaio del 1991, la banda guidata dai fratelli Savi massacra tre carabinieri di pattuglia al quartiere Pilastro a Bologna; 24 ore dopo, questa volta puntualissima come se il sistema fosse ormai rodato, arriva la rivendicazione della Falange, che come sempre conclude i suoi comunicati con quel leit motiv inquietante :“Il terrorismo non è morto, ci conoscerete in seguito”. In seguito, però, arriverà solo una perizia della balistica che indicherà come una delle pistole utilizzate dalla Banda della Uno Bianca nella strage del Pilastro sia la stessa che ha messo fine alla vita di Mormile un anno prima: una connessione che rimarrà soltanto agli atti, dato i due omicidi non sono mai stati messi in relazione. E in comune hanno soltanto quella voce metallica, che tenta di depistare le indagini, di confondere i mass media e seminare terrore. Poi, dopo il Pilastro la Falange scompare: o meglio, scende ancora più a sud, in Sicilia.

Prima puntata – Continua

A Borgaro (Torino), sindaco e assessore (Pd-Sel) vogliono i bus differenziati per i Rom. Prc: “Stupidità” Autore: fabrizio salvatori da: controlacrisi.org

A Borgaro, un paese in provincia di Torino di poco più di 13mila abitanti, il sindaco, Claudio Gambino, ha proposto di far effettuare corse separate ai bus, per i Rom e per gli altri cittadini. Lo ha annunciato lui stesso in una intervista a La Stampa riferendosi al campo nomadi di strada dell’Aeroporto, il più grande del capoluogo piemontese. “Non è razzismo, è soltanto un modo per risolvere un problema che va avanti da troppo tempo”, ha sostenuto il primo cittadino, annunciando l’intenzione di parlare con il questore di Torino della proposta. La giunta di Borgaro è di centrosinistra, sostenuta da Pd e Sel. Di segno contrario la reazione di Nicola Fratoianni, deputato di Sel.Dura la reazione di Ezio Locatelli, segretario del Prc di Torino. “La proposta “avvallata dall’assessore comunale di Sel”, è “di una stupidità assoluta”. “Non siamo in Sudafrica ai tempi dell’apartheid- continua Locatelli – siamo in un Paese dove la Costituzione fa giustamente divieto di qualsiasi discriminazione. I temi della sicurezza e della convivenza, nella misura in cui esistono, si affrontano in altro modo, nel rispetto della dignità di tutte le persone senza discriminazione e distinzione alcuna ‘di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche e di condizioni personali e sociali’”. “Quella del sindaco e dell’assessore di Borgaro è l’espressione del degrado in cui è caduta tanta parte della politica istituzionale – conclude Locatelli – . C’è da vergognarsi. Un degrado al quale bisogna reagire con forza”.