“Dove porta la marcia su Roma? Corporativismo e falsa modernizzazione”. Intervento di Franco Astengo da: controlacrisi.org

Il termine fascismo nasce con i Fasci siciliani (1891 – 1893), ma la prima fortuna politica di questo appellativo si colloca tra il 1914 e il 1919, a partire dai Fasci di azione rivoluzionaria, che propagandavano l’intervento italiano nella prima guerra mondiale, precedendo quindi l’adunata dei Fasci di combattimento di Milano del 23 Marzo 1919, atto di nascita del movimento mussoliniano.Il fascismo nasce, quindi, come punto di aggregazione di reduci dalla guerra rimasti ai margini nel processo di riorganizzazione della vita pubblica nell’immediato dopoguerra, riorganizzazione fondata sui nuovi grandi partiti di massa e sulla convivenza tra questi e gli antichi ceti notabilari dell’Italia liberale.

I reduci di guerra si mossero così sulla base di contorni politici piuttosto vaghi, prevalentemente rappresentativa di ceti intermedi, all’insegna di slogan che oggi potremmo riassumere come quelli della “rottamazione” o del “tutti a casa”.

Il fascismo, in questo modo si inserì, nei primordi, in un filone di generico ribellismo, schierandosi tuttavia da subito su di una linea violentemente anti-socialista e anti – democratica, all’insegna di una non meglio precisata “selezione di valori”.

Il fascismo respinse ogni egualitarismo e in tale senso la paternità ideologica del fascismo deve essere attribuita, in larga parte, al nazionalismo.

In tempi come quelli attuali di crisi verticale del quadro internazionale il tema del nazionalismo, elemento esercitato a piene mani da Renzi e dal suo “cerchio magico” (addirittura nel senso dell’Italia “faro di civiltà”) dovrebbe fare una qualche impressione in un lavoro comparativo svolto da sinceri democratici.

Non a caso proprio il nazionalista Alfredo Rocco sarà, più tardi, l’autentico “architetto” del fascismo diventato regime.

Nella sua prima formulazione l’ideologia dei fasci apparve debitrice anche verso movimenti come il futurismo e l’arditismo, esaltatori dell’italianità della guerra e della giovinezza, e portatori di un generico rifiuto della “normalità” borghese (in questo senso, sempre riferendoci agli esordi, esiste una possibilità di comparazione sul piano internazionale con l’Action Francais di Maurras).

Dopo il fiasco elettorale del novembre 1919, dall’autunno del 1920, grazie ai massicci finanziamenti di organizzazioni agrarie, soprattutto in Val Padana, e, in misura minore, di gruppi finanziari e industriali, il fascismo si riprese assumendo sul piano organizzativo il volto dello squadrismo.

Uno squadrismo tollerato, quando non aiutato dalle istituzioni dello Stato.

Nel nostro caso, quello di oggi, non c’è squadrismo ma l’attacco al mondo del lavoro attuato attraverso l’adozione del cosiddetto “modello Marchionne” suggerisce, ancora una volta, lo sviluppo di un qualche livello di analogia.

Sul piano ideologico il fascismo lasciò cadere le pregiudiziali contro la monarchia e la chiesa cattolica.

L’ambiguità ideologica diventerà, da questo punto in avanti, una costante del pensiero fascista che si articolerà in una complessa varietà di posizioni.

Lo stesso Mussolini, del resto, non nasconderà mai il proprio “relativismo” sul terreno filosofico – politico.

La linea di oggi è quella del “né di destra, né di sinistra”, mentre si punta decisamente verso l’elettorato di destra.

Davanti al ripiegare del movimento socialista, però, il fascismo si schiera in modo esplicito all’estrema destra.

I liberali, ormai in pieno disfacimento, credettero di poter compiere un’operazione d’inserimento del fascismo nelle istituzioni attraverso un processo di progressiva integrazione e assorbimento “nella legalità” e ne favorirono, attraverso la presentazione di liste di “Blocco Nazionale”, l’ingresso in Parlamento con le elezioni del maggio 1921.

Un’analisi rivelatasi, alla fine, del tutto fallace.

Con l’ingresso in Parlamento il fascismo si avvia alla trasformazione in partito che viene formato (con la denominazione Partito Nazionale Fascista) nel Novembre del 1921.
La denominazione di oggi sarà quella del “Partito della Nazione”?

Il PNF teorizzò, da subito, quello che sarà definito “doppio binario”, quello legale e quello insurrezionale e l’ascesa al potere avvenne in una forma a metà dei due versanti con la marcia su Roma del 28 ottobre 1922.

Giunto al potere, mentre si dedicava all’edificazione delle strutture istituzionali di un regime poi giudicato a posteriori d’imperfetta vocazione totalitaria, il fascismo affrontò l’elaborazione di un apparato teorico – politico.

Ma l’intellettualità fascista era costituita, in primo luogo, non da ideologi ma da organizzatori.

Lo stesso filosofo Giovanni Gentile, entrato nel primo governo Mussolini e autore di quella che è stata definita la “più fascista delle riforme” quella della scuola, svolse lungo il ventennio un ruolo di straordinario organizzatore culturale.

Un ruolo di organizzatore culturale che gli consentì di egemonizzare gran parte del ceto intellettuale italiano.

Sul piano teorico Gentile fu un convinto sostenitore della continuità tra il liberalismo classico, incarnato nell’Italia della “destra storica”, e il fascismo: la “storicità” del fascismo (cui si contrapponeva il bolscevismo con la sua “antistoricità”) avrebbe dovuto dimostrare, partendo dalla volontà di conciliare le esigenze dell’individuo e quelle dello Stato (in un processo di subordinazione dell’una verso l’altra), la possibilità di realizzazione dello Stato Etico.

La Stato delineato da Alfredo Rocco, invece, fu tratteggiato in termini più marcatamente organicistici.

Lo Stato fu considerato come il “grande tutto”: in esso sarebbe stata superata la lotta di classe per proiettarsi, poi, grazie alla riconquistata solidarietà nazionale, nella competizione internazionale in nome della potenza demografica e del destino della nazione.

Tra Gentile e Rocco, comunque, la differenza – sul piano delle prospettive tendenziali – risultarono, alla fine, sfumate o comunque unificate, in primo luogo, dal punto vero di intersezione delle anime del fascismo: quello relativo al culto del “Duce”.

Il “Duce” rappresentava la guida che tracciava il cammino, il capo assoluto.

Il culto del Capo, è bene ricordarlo, è tornato molto di moda nell’attualità in forma anche diversa da quella che ha caratterizzato il ventennio precedente dalla presenza di un “imprenditore passato alla politica”.

Ai nostri giorni la “cultura dello Stato” è naturalmente affatto diversa, ma egualmente finalizzata alla detenzione del potere in una società massificata e neutralizzata dall’espressione di una cultura dell’individualismo e del consumo: fenomeni favoriti dall’espansione nell’uso dei mezzi di comunicazione di massa in esclusiva funzione di marketing riducendo l’offerta politica altresì come quella culturale a “prodotto”.

Gli intendimenti di fondo però tra il tipo di massificazione sociale imposta negli anni’30 e quella determinata adesso sono identici: il potere posto al di fuori dalla verifica democratica.

La verifica del consenso riservata all’esercizio di un’autonomia del politico appannaggio esclusivo di un ceto politico provvisto della possibilità esclusiva di usufruire di incentivi selettivi, esattamente come i gerarchi del ventennio.

Torniamo però al filo conduttore del nostro discorso.

Accanto al mussolinismo, lo statalismo fu il dato unificante del fascismo.

Pur rimanendo rilevante il peso del PNF e delle sue gerarchie, fu lo Stato a prevalere, anche sul piano teorico.

Lo stesso dibattito, del resto molto vivace, sul corporativismo, pur mettendo in luce una pluralità di posizioni (dalla rigida gabbia statuale prevista da Rocco, fino alla “corporazione proprietaria” di Ugo Spirito), finì con l’assestarsi nella forma più blanda sostenuta da Bottai rispetto a quella propugnata da Alfredo Rocco.

“Corporazione proprietaria” rappresenta un altro termine che sta trovando pratica applicazione nell’attualità del dibattito politico, specialmente quando si osserva il tentativo di distruzione dei corpi intermedi rappresentativi delle diverse realtà sociali.

Il fascismo tese a presentarsi, inoltre, come squisitamente “italiano” e “romano”: torna qui il tema ricorrente del nazionalismo – bellicista.

Un tema anch’esso di effettiva pregnanza per quel che riguarda l’oggi, a partire dal reclamare, da parte del governo in carica, di un ruolo “primario” in vista di una nuova avventura bellica in Africa (c’è da augurarsi che la ipocrita confessione di Blair –uno dei modelli – freni le velleità del neo – colonialismo occidentale, e quindi del colonialismo di ritorno in salsa tricolore).

L’alleanza con la Germania hitleriana e l’intervento nella seconda guerra mondiale, accentuarono i caratteri ideologici propri del fascismo degli esordi, come il bellicismo e, di converso, fecero emergere tratti ideologici propri di quella successiva fase rimasti in ombra quali il razzismo e l’antisemitismo.

Alcuni di questi caratteri, ma soprattutto il rifiuto della democrazia e la lotta senza quartiere proclamata al bolscevismo, consentirono di identificare un ruolo internazionale del fascismo, attivo in Europa, e felicemente definito da Palmiro Togliatti come “regime reazionario di massa”.

Una definizione che ha consentito, anche dopo la caduta del regime, di leggere il fenomeno del fascismo in senso transpolitico, come una sorta di cesarismo tipico del XX secolo basato su di un capo carismatico.

Un capo carismatico che portava avanti la ricerca del consenso delle masse attraverso una strumentazione di tipo propagandistico e pedagogico, l’adozione di slogan rivoluzionari (intensi per lo più in una direzione aggressivamente nazionalistica) nemica tanto della democrazia quanto del comunismo.

In ogni caso le interpretazioni del fascismo puntano oggi a una articolazione di giudizio (ben oltre la rigida definizione di Dimitrov: “Dittatura terroristica degli elementi reazionari, più sciovinistici e più imperialistici del capitale finanziario”).

Queste interpretazioni si pongono in relazione all’analisi socio – politica del nesso tra fascismo e classi sociali, con particolare riguardo alle classi medie, insistendo molto (anche grazie agli spunti offerti da Adorno e da Horkheimer) sulla tema della personalità autoritaria e su di un presunto ruolo “modernizzatore”.

Quanto di questi fermenti ancora agiscono, o possono continuare ad agire ed essere riattualizzati oggi all’interno del sistema politico italiano proprio nell’intreccio autoritarismo/modernizzazione dovrebbe essere compito degli analisti più attenti: forse è proprio il caso di richiamare, comunque, il massimo dell’attenzione rivolta all’analisi del passato posta in funzione a leggere la realtà attuale.

(Principali autori di riferimento: Palmiro Togliatti, Ernst Nolte, Angelo D’Orsi, Renzo De Felice).

Matteo Renzi in difficoltà, il grande comunicatore perde smalto e pezzi da: l’espresso

Il premier interviene alle Camere ma non ritrova la verve di un tempo. Con le trincee in Europa, le barricate per la scuola, l’assedio sui territori, Civati e Fassina che salutano il partito qualcosa si è rotto. E le paure dei renziani prendono forma

di Marco Damilano

24 giugno 2015

Matteo Renzi in difficoltà, il grande comunicatore perde smalto e pezzi

C’era una qualche curiosità alla vigilia: che Renzi sarebbe stato quello chiamato a parlare per la prima volta davanti alle Camere dopo la sconfitta delle elezioni amministrative? Renzi Uno il Rottamatore o Renzi Due l’Istituzionale, secondo le stesse auto-definizioni del premier? La domanda circola già alle nove del mattino a Palazzo Madama, quando l’inquilino di Palazzo Chigi si prepara a intervenire per esporre la linea del governo italiano al Consiglio europeo dei prossimi giorni. Occasione solenne: un anno fa Renzi si era presentato fresco di trionfo alle urne, era il signor Quaranta per cento, aveva segnato il cambio di linea, via i cento giorni e il cronoprogramma dei primi tre mesi di governo, l’annuncio dei mille giorni e dell’Italia da cambiare passo dopo passo.

In aula ci sono Giorgio Napolitano e Mario Monti. Ai banchi del governo Maria Elena Boschi saluta tutti, Angelino Alfano arriva in ritardo e fa alzare la ministra Stefania Giannini dal posto accanto al premier. Paolo Gentiloni ingobbito. Renzi comincia, al solito, premendo sull’acceleratore, parla a braccio con un occhio sugli appunti con i post-it gialli, rossi e verdi: la Grecia sta messa peggio di noi italiani, per la prima volta l’Italia non è sul banco degli imputati o tra gli studenti che devono fare i compiti (cosa che gli costerà una velenosa correzione di Monti: “la procedura di infrazione fu chiusa nel 2013”, durante il governo tecnico), le riforme strutturali sono il nostro fondo salva-Stati, la nostra vera clausola di salvaguardia…

Giulio Tremonti lo ascolta in piedi, come tormentato da un rovello. La senatrice grillina Paola Taverna va su e giù per i banchi, inquieta, L’ex Forza Italia Manuela Repetti è già traslocata nel gruppo misto, dalle parti del Pd. Il Senato è già lo specchio di una situazione politica mutata. Sabbie mobili che avanzano. Effetti speciali che non incantano più. E quando arriva a parlare dell’immigrazione Renzi mostra tutte le sue difficoltà a fronteggiare sul piano comunicativo l’ondata della Lega di Matteo Salvini: “Non mi spaventano i toni demagogici”, avverte, “una classe dirigente deve saper trovare le parole giuste per trasmettere al Paese la giusta via tra la paura e il cedimento strutturale al buonismo”. Renzi ne pronuncia una, rivolto a sinistra: rimpatrio. Ma la giusta via il grande comunicatore di Palazzo Chigi non la trova neppure oggi. Spariscono dalle dichiarazioni della vigilia le quote obbligatorie di accoglienza dei profughi nei vari paesi europei, la necessità di rivedere il trattato di Dublino che obbliga i richiedenti asilo a restare nel paese di prima accoglienza (“non c’è oggi il consenso in Europa per cambiarlo e non ci sarà domani”, ammette Renzi), anche la guerra agli scafisti sparisce dall’agenda.

Nel pomeriggio alla Camera, se possibile, il dibattito è ancora più grigio. Dai banchi della maggioranza e del Pd arrivano quattro flebili applausi in mezz’ora. Renzi prova ad accelerare. Contro l’Europa e la sua inconcludenza, il premier si dice euro-deluso: “Il quartetto dei presidenti della Ue non brilla per ambizione. Sta facendo manutenzione dell’esistente. Non vola alto”. La premessa, forse, per rovesciare il tavolo in caso di conflitto con gli altri governi. E contro i talk show, i sondaggi, “le forme banali di un tweet”, i media che diffondono la paura dell’immigrazione, i muri che si rialzano mentre nell’89 i muri erano caduti… E intanto nuovi, invisibili muri si alzano in Parlamento: tra la maggioranza e le opposizioni, Forza Italia, Movimento 5 Stelle, Lega, all’interno del Pd, perché tra un discorso di Renzi e l’altro, all’ora di pranzo, anche Stefano Fassina ha annunciato l’addio. E le paure dei renziani prendono forma dentro e fuori l’aula di Montecitorio.

Fuori, in Transatlantico, il testo più citato tra i deputati del Pd è l’articolo del professor Roberto D’Alimonte di ieri sul “Sole 24 Ore” in cui il politologo ipotizza di rivedere la legge elettorale Italicum appena approvata, nel punto che vieta la possibilità per i partiti di fare alleanze tra il primo e il secondo turno: “Improvvisamente molti si sono accorti che il Movimento 5 Stelle potrebbe andare al ballottaggio e addirittura vincere”. Dentro l’aula in quel momento sta parlando il deputato di M5S Alessandro Di Battista. Un discorso ben scritto e ben interpretato, il possibile candidato sindaco per il dopo-Marino infila il suo miglior intervento della legislatura e definisce il Movimento “alternativa di governo”. E per la prima volta non suona come un artificio retorico.

Alla fine di una giornata cominciata alle nove del mattino a Palazzo Madama e terminata nel pomeriggio nell’aula di Montecitorio l’immagine del premier in partenza per il Consiglio europeo rispecchia le difficoltà di questo momento. In trincea in Europa, sul fronte immigrazione. Sulle barricate al Senato dove le votazioni sulla buona scuola fotografano una maggioranza che regge ma fa catenaccio. Con un Pd che perde i pezzi, ieri Civati, oggi Fassina, domani chissà. E assediato sui territori, dalla Campania di Vincenzo De Luca alla Roma di Ignazio Marino. Così, alla fine di una giornata trascorsa nel limaccioso terreno di gioco dei “signori del Parlamento”, come li chiama il premier, la domanda iniziale resta senza risposta. Oggi non c’è Renzi Uno e neppure Renzi Due, forse un Renzi Tre. Evasivo. Nebuloso. Sospeso. Disperso in un cloud.

COME ROTTAMARE RENZI IN TRE MOSSE (www.micromega.net) (copyright © Paolo Flores d’Arcais).

di Paolo Flores d’Arcais 

Se nel Pd c’è ancora qualche testa pensante anche vagamente sensibile ai valori di “libertà e giustizia” che definiscono la sinistra (due condizioni che escludono d’embléeBersani, D’Alema e compagnia cantando) già avrà individuato il “che fare”. In tre mosse. 

Primo: far cadere Renzi in una delle numerose fiducie che sarà costretto a porre per far passare in parlamento le sue pimpanti controriforme. Secondo: chiedere allora un immediato congresso del Pd, con le stesse modalità e procedure che portarono Renzi a impadronirsi del partito, partecipazione/iscrizione dei cittadini anche al momento del gazebo, ecc. Terzo, in contrapposizione a Renzi candidare per la segreteria del Pd Maurizio Landini, e parallelamente chiedere al Presidente Mattarella che al posto del governo sfiduciato, anziché sciogliere le camere, venga insediato un governo di “tregua repubblicana”, affidato tutto a personalità della società civile e capace di ottenere le convergenze autonome di parlamentari Pd, M5S e altri “volenterosi” sul programma e la credibilità dei ministri preposti a realizzarlo.

La razionalità di questo “che fare” non è difficile da riscontrare.

Renzi si accinge a completare la distruzione del Pd mutandolo in comitato elettorale personale, intenzione che del resto non aveva mai occultato. La sua politica, per profonda convinzione, è quella di realizzare la contro-rivoluzione di liberismo autocratico vagheggiata da Berlusconi ma restata in panne per i conflitti d’interesse e i crimini nell’armadio (sfociati finalmente in una condanna definitiva, dopo le tante sventate da leggi ad hoc e inciuci) e soprattutto per l’ondata di lotte civili, sociali, d’opinione, con cui la parte migliore della società civile ha saputo fare argine. In realtà il progetto politico di Renzi è la marchionizzazione del paese e delle istituzioni, e la contro-riforma della scuola ne costituisce la più luttuosa evidenza.

Renzi è in questo momento debolissimo, malgrado il fumo negli occhi della quasi totalità dei mass media (mai come oggi a “bacio della pantofola” verso l’establishment: ma il “marchionnismo” non è anche questo?). In un anno ha perso la metà dei consensi. La metà, il 50%, un voto su due rispetto al bottino elettorale delle europee, ci rendiamo conto?! Si è letto che sono due milioni di voti, ma nelle sette regioni in cui si è votato. In proiezione nazionale sono cinque milioni e mezzo. Non un’emorragia, un dissanguamento da mattatoio. In un solo anno: quello che passa tra la fiducia dei cittadini al renziano dire, mirabolante, e il giudizio sul renziano fare, miserabile. Perdere in un anno un voto su due non è una “non sconfitta” o una “non vittoria”, è un tracollo, una disfatta, una gogna e rottamazione civica impietosa.

Che quanto resti di “opposizione” nel Pd non colga l’attimo dimostrerebbe definitivamente che è ormai ridotta al livello del saracino Alibante di Toledo che “del colpo non accorto/Andava combattendo ed era morto” (Francesco Berni, L’Orlando innamorato, LII, 60). Se a questa “opposizione” resta invece ancora un barlume di “spiriti animali”, lucidità vuole che senza coltivare patetici propositi di riprendersi la ditta, decida di uscire di scena con un ultimo gesto di vitalità anziché nel vociare strozzato di un melmoso affondare.

Alla vecchia nomenklatura non è data la rivincita, la vendetta sì. A Landini, l’unica vendetta a disposizione di questi burocrati che nessuno rimpiange, può riuscire, da posizioni opposte, di società civile “giustizia e libertà”, l’Opa sul Pd che è riuscita a Renzi or non è guari. La nemesi è nelle possibilità della situazione attuale, ma implica lucidità in tutti i soggetti qui evocati, e razionalità e coraggio sono i pregi che da più tempo latitano presso quanti si dichiarano di sinistra.

(2 giugno 2015)

Il PMLI tinge di rosso il corteo del 25 Aprile, guadagnandosi il consenso della piazza. La presidente dell’Anpi Sconza: “Ribellarsi al governo Renzi. Siamo caduti dalla padella alla brace” da: PMLI

Catania
Il PMLI tinge di rosso il corteo del 25 Aprile, guadagnandosi il consenso della piazza. La presidente dell’Anpi Sconza: “Ribellarsi al governo Renzi. Siamo caduti dalla padella alla brace”
Dal corrispondente della Cellula “Stalin” della provincia di Catania
Anche quest’anno gli antifascisti catanesi sono scesi in piazza il 25 Aprile: le compagne e i compagni della Cellula “Stalin” di Catania e dell’Organizzazione di Caltagirone hanno partecipato al corteo indetto dall’Anpi tingendolo di rosso con numerose bandiere e le magliette rosse del PMLI, attirando l’attenzione di molti manifestanti.
Nel documento di indizione l’Anpi provinciale denuncia chiaramente alcuni degli elementi che caratterizzano la politica neofascista e piduista che il governo Renzi sta portando avanti contro le masse lavoratrici e ciò che rimane dell’impianto istituzionale e costituzionale dello Stato democratico borghese: “Per legge ordinaria – si afferma nel testo in un passaggio che il PMLI condivide appieno – è stato violato l’articolo 1 della Costituzione con la cancellazione dello statuto dei lavoratori, l’articolo 33 che vieta il finanziamento pubblico delle scuole private e sbeffeggiato l’articolo 11 con gli interventi militari in Serbia, Iraq, Afghanistan ed in Libia. Un governo, eletto da un Parlamento dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, opera per una profonda demolizione del dettato costituzionale, nella direzione di un’inaudita concentrazione dei poteri in ristrette oligarchie”.
Durante tutto il lungo corteo, partito dalla centrale piazza Stesicoro, i compagni hanno distribuito i volantini “Facciamo rivivere lo spirito della Resistenza” che sono stati accolti con piacere dagli antifascisti, catanesi e non, con cui si sono intrattenuti. Ad essere apprezzati sono stati anche gli interventi al megafono fatti dai compagni durante il corteo, nei quali è stata ribadita la necessità di unirsi per lottare contro il nuovo fascismo che ha il volto di Matteo Renzi, la reincarnazione moderna e tecnologica di Mussolini e Berlusconi, che continua a calpestare la Costituzione al fine di completare il piano fascista della P2. I compagni hanno ricordato lo spirito della Resistenza che fu l’antifascismo, l’importante ruolo che ebbe l’URSS di Stalin per la sconfitta del nazi-fascismo e gli interventi fatti in questi anni dalla destra come dalla “sinistra” borghese per denigrare la Resistenza e criminalizzare i partigiani jugoslavi istituendo giornate della memoria per le vittime delle foibe. Lungo il tragitto ci si è fermati più volte per ricordare i partigiani catanesi scomparsi, in particolar modo Graziella Giuffrida, violentata e massacrata dai nazisti a soli 22 anni a Genova.
Il corteo si è concluso in piazza Dante con l’intervento della presidente dell’Anpi della provincia di Catania, Santina Sconza, che ha voluto ricordare il partigiano “Mitraglia”, nome di battaglia di Antonino Mangano, scomparso la sera prima, e le vittime dell’ultima strage di migranti, l’importanza di lottare contro il razzismo alimentato dal fascio-leghista Salvini e dal suo partito, contro gli interventi militari e per l’applicazione della Costituzione.
Nel suo discorso la presidente dell’Anpi ha attaccato frontalmente il governo Renzi. Rivolta al deputato Pd Giovanni Burtone ha esclamato: “Si ribelli al governo Renzi”; “lei deve ribellarsi a questo esecutivo che vuole stravolgere la Costituzione, frutto delle lotte partigiane”. E così ha proseguito: “Da molti anni c’è una riduzione delle libertà e della democrazia, pensavamo che con la caduta del governo di centro destra presieduto da Berlusconi ci fosse “un governo amico” che fermasse questa deriva, in realtà ci siamo sbagliati, siamo caduti dalla padella nella brace. Il mago Renzi ha fatto credere a tutti che la crisi economica fosse un male della Costituzione Italiana, delle sua forma di Stato e delle troppe libertà sindacali. Il disprezzo verso il sindacato, abolizione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, la sordità verso le opposizioni ci preoccupa molto. La storia insegna! Ecco perché occorre una nuova RESISTENZA.”
Ha poi aggiunto: “L’ANPI chiede l’apertura di un corridoio umanitario per l’accoglienza dei migranti, la distruzione dei barconi evita la morte per annegamento ma non quella di fame e sete nel deserto libico. Ricordiamo che le guerre che dilagano dalle coste del Mediterraneo passando dal medio fino l’estremo oriente sono causate dalle folli iniziative militari dell’ultimo ventennio in cui l’Italia è stata partecipe.” Infine ha salutato la vittoria contro il MUOS : “Ringraziamo tutti ma un grazie particolare alle mamme NO MUOS, una resistenza che può essere paragonata alle donne del ’45.”
Alcuni partiti, i centri sociali e altre organizzazioni con in testa Rifondazione Comunista, hanno deciso di non confluire in piazza Dante con l’Anpi ma di staccarsi per non condividere la giornata di lotta con le istituzioni ed il PD rompendo l’unità antifascista che in quella giornata era necessaria e scegliendo di non contestare l’amministrazione locale.
La nostra aspirazione di marxisti-leninisti è che sia il proletariato a mettersi alla testa della lotta antifascista contro i governo Renzi, in quanto unica classe a cui il potere politico spetti di diritto.
Siamo pienamente d’accordo con le valutazioni scritte a “Il Bolscevico” da un compagno simpatizzante secondo cui “l’interesse dimostrato da parte dei manifestanti verso il PMLI dimostra che parte di quegli ostacoli posti artificiosamente dalla borghesia per non farci incontrare con le masse cominciano a crollare, le sue critiche a Lenin, Stalin e Mao e l’equiparazione tra comunismo e nazismo cominciano a perdere il loro effetto. Le masse lavoratrici cominciano ad aver fiducia nei maxisti-leninisti, che aprono i loro occhi dicendo la verità”

 

29 aprile 2015

La Cgil a Renzi: «Deriva totalitaria» Fonte: il manifestoAutore: Roberto Ciccarelli

In realtà la «moder­nità» sognata da Renzi è quella legata alla pro­dut­ti­vità dell’impresa, dun­que alla con­trat­ta­zione azien­dale e non a quella nazio­nale e di cate­go­ria. Que­sta pra­tica, che costi­tui­sce l’obiettivo della destra neo­li­be­ri­sta e della Bce di Mario Dra­ghi – secondo il quale «la disoc­cu­pa­zione viene com­bat­tuta meglio dalla nego­zia­zione azien­dale che da quella nazio­nale» — è stata richia­mata da Renzi nella mede­sima inter­vi­sta quando ha citato lo smacco della Fiat Chry­sler Auto­mo­bi­les (Fca) alla Fiom: «Mar­chionne – ha detto Renzi – è la dimo­stra­zione che la scom­messa sin­da­cale di Lan­dini è una scon­fitta. Ha ria­perto le fab­bri­che e da un punto di vista sin­da­cale Mar­chionne batte Lan­dini 3 a 0».

Ai lavo­ra­tori Fca, e pros­si­ma­mente anche a quelli Cnh Indu­striai, Marelli, Tek­sid e Comau, sono stati desti­nati a mag­gio bonus da 77, 82 o 101 euro a seconda dell’area pro­fes­sio­nale, per un totale medio di 330 euro in 12 mesi, per quat­tro anni, legati alla red­di­ti­vità azien­dale e desti­nati anche a chi è in cassa inte­gra­zione. In virtù di un accordo che esclude la Fiom, e sot­to­scritto dagli altri sin­da­cati, la Fca mira alla «pro­gres­siva messa in sof­fitta del vec­chio inqua­dra­mento anni ’70».

L’intesa, defi­nita da Camusso e Lan­dini come un «vul­nus nell’unità sin­da­cale» è stata dun­que usata da Renzi per attac­care l’idea stessa del sin­da­cato e, in gene­rale, di «corpo inter­me­dio» nella con­trat­ta­zione sul sala­rio tra l’imprenditore e il lavo­ra­tore. Un attacco poli­tico non nuovo che usa le con­trad­di­zioni tra i sin­da­cati, e la loro debo­lezza poli­tica, con­tro la stessa idea di sin­da­cato novecentesco.

L’attacco avviene nell’ambito della stra­te­gia indi­cata da Dra­ghi , e già nota dalla famosa let­tera della Bce al governo Ber­lu­sconi nel 2011. Renzi, però, è andato oltre e trat­teg­gia un oriz­zonte dove viene meno il plu­ra­li­smo e la rap­pre­sen­ta­ti­vità dei sin­da­cati pre­vi­sta dall’arti. 39 della Costituzione.

Con il sistema delle rela­zioni sin­da­cali della società for­di­sta, il pre­si­dente del Con­si­glio vuole eli­mi­nare un pila­stro delle società liberal-democratiche.

Lo ha ammesso per­sino uno dei pala­dini della con­trat­ta­zione azien­dale come Mau­ri­zio Sac­coni . L’alleato di governo ha cri­ti­cato Renzi: «Anche la sola spe­ranza di un sin­da­cato unico — ha detto — è incom­pa­ti­bile non solo con la sto­ria plu­rale della nazione ma anche con l’idea di una società libera in cui i lavo­ra­tori, come gli impren­di­tori, si asso­ciano in forme varie che tra loro si rela­zio­nano liberamente».

L’ipotesi pro­spet­tata da Renzi sarebbe uno sce­na­rio ine­dito nei paesi a capi­ta­li­smo avan­zato, a comin­ciare dalla Ger­ma­nia dove, anzi, vige la coge­stione nelle grandi fab­bri­che. Un prin­ci­pio, la coge­stione appunto, che rien­trava in una delle bozze far­loc­che del Jobs Act messe in giro prima che il prov­ve­di­mento diven­tasse realtà.

Tutti i sin­da­cati sono inter­ve­nuti, con le sfu­ma­ture ideo­lo­gi­che del caso.

«L’Italia non ha biso­gno di un sin­da­cato unico — ha detto Anna­ma­ria Fur­lan , della Cisl — ma di sin­da­cati respon­sa­bili e rifor­ma­tori, capaci, come ha fatto sem­pre la Cisl nella sua sto­ria, di gui­dare le tra­sfor­ma­zioni del paese con una linea par­te­ci­pa­tiva e non anta­go­ni­stica». Car­melo Bar­ba­gallo della Uil va al cuore del popu­li­smo ren­ziano: «Sem­bra che Renzi voglia espor­tare il modello dell’uomo solo al comando anche nel mondo del lavoro e del sociale». «Final­mente Renzi ha ammesso di volere un paese a sua imma­gine e somi­glianza – sostiene Fran­ce­sco Paolo Capone (Ugl) — par­tito della nazione, terzo pre­si­dente del con­si­glio non eletto, abo­li­zione del voto nelle pro­vin­cie e in senato». È lo stesso pro­getto appli­cato alla scuola con il pre­side mana­ger, anche se Renzi e il Pd sem­brano volerlo annac­quare al senato.

Italicum, la vendetta di Matteo Renzi da: l’espresso

La nuova legge elettorale introduce un presidenzialismo di fatto. Un cambiamento storico sul quale si è giocata un’enorme partita di potere. Vinta dal più spregiudicato nella battaglia. Che oggi si gode la rivincita: in mezzo alle macerie

DI MARCO DAMILANO

04 maggio 2015

Italicum, la vendetta di Matteo Renzi

Alle 18.20 la Camera vota, passa l’Italicum a scrutinio segreto con 334 voti, Maria Elena Boschi di rosso vestita bacia tutti e Matteo Renzi consuma la sua Vendetta. A lungo preparata. Perché nulla si capisce in questa storia di voti di fiducia, canguri, opposizioni silenziate e silenziose, indubbie forzature democratiche se non si parte da questo sentimento. La rivincita, la rivalsa, il desiderio di restituire il colpo ferito che anima il premier da quel pomeriggio di mercoledì 4 dicembre 2013.

Mancavano appena quattro giorni alle primarie che secondo tutti i pronostici avrebbero incoronato il sindaco di Firenze nuovo segretario del Pd. Una mina sulla strada del governo Letta, era il pronostico di tutti gli osservatori. Facile prevedere che con l’onda d’urto di milioni di voti nei gazebo il nuovo leader si sarebbe mosso rapidamente per chiudere con la fase politica aperta dal voto del 25 febbraio 2013, rappresentata dal governo Letta, e spingere verso nuove elezioni anticipate. A patto di poterlo fare, con una legge elettorale degna di questo nome.

Matteo Renzi si è approvato l’Italicum

5 Stelle, Forza Italia, Lega e Sel escono dall’aula, e lasciano sola la maggioranza di governo. Aumentano anche i no della minoranza del Pd, ma non abbastanza. L’Italicum è la nuova legge elettorale. E alle opposizioni resta solo il referendum abrogativo

La sentenza della Corte, incostituzionali il premio di maggioranza e le liste bloccate del Porcellum, sfilò a Renzi la legge elettorale sotto il naso, lo strumento per tornare al voto. “Dal punto di vista giuridico e tecnico la trovo sorprendente”, reagì a caldo il candidato segretario. Non nascose la stizza: “La Corte dice che il Parlamento può approvare una nuova legge elettorale? Beh, grazie di cuore per la cortese concessione. Meno male che ce l’hanno detto i giudici. O hanno il senso dell’umorismo, o non so cosa pensare”. E l’8 dicembre, alle primarie, in tanti andarono a votare contro una sentenza che in quel momento appariva di stabilizzazione delle larghe intese, un passo indietro, dalla democrazia maggioritaria verso una nuova democrazia bloccata, come negli anni della Prima Repubblica. Il primo a farlo in nome della difesa del bipolarismo in pericolo fu Romano Prodi, che pure aveva annunciato di non voler votare. E a elezione incassata, Renzi sparò a zero: “Dobbiamo scardinare il sistema”. Niente di meno.

Il commento del ministro delle Riforme Maria Elena Boschi dopo l’approvazione definitiva della legge elettorale. Per il capogruppo di Forza Italia Brunetta: “I numeri che ha avuto Renzi nel voto di oggi alla Camera se rapportati al Senato fanno sì che Renzi non abbia più la maggioranza”video di Marco Billeci

Saranno gli storici a stabilire chi in quei giorni spinse per quella sentenza della Consulta e chi la coprì ai vertici istituzionali. Ma di certo chi pensava che togliere a Renzi la legge elettorale per tornare a votare avrebbe blindato il governo Letta si è trovato nei mesi successivi di fronte a una gigantesca eterogenesi dei fini. Prima conseguenza: non avendo più la possibilità di tornare al voto perché non c’era la legge elettorale Renzi decise di eliminare Letta e di andare a Palazzo Chigi senza passare dalle elezioni, come aveva sempre giurato di voler fare. Secondo: la necessità di non affogare nel ritorno alla proporzionale spinse Renzi a concludere il Patto del Nazareno con Silvio Berlusconi. Terzo: la consapevolezza di questo Parlamento di essere delegittimato sul piano giuridico, perché eletto con una legge dichiarata incostituzionale, e politico, perché il premier è un leader extraparlamentare, ha spinto i deputati e i senatori a votare qualsiasi cosa pur di mandare avanti la legislatura.

I colleghi di governo si congratulano con la ministra per le Riforme mentre Pierluigi Bersani lascia l’aula subito dopo il voto di Fabio Butera

Sull’Italicum si è dunque giocata un’enorme partita di potere. E oggi l’ha vinta il più spregiudicato nella battaglia, l’inquilino di Palazzo Chigi. Da questa sera c’è una nuova legge elettorale che modifica in profondità il sistema politico. Introduce un presidenzialismo di fatto, la figura inedita del sindaco d’Italia. Un cambiamento storico. Anche se, per paradosso, entrerà in vigore tra più di un anno, nel luglio 2016. In pochi stasera alla Camera scommettono che la scadenza sarà rispettata. La riforma del Senato, inevitabile complemento della legge elettorale, avrà un cammino accidentato. E Renzi potrebbe essere tentato da elezioni anticipate tra un anno con l’Italicum esteso anche al Senato o una mini-legge elettorale solo per Palazzo Madama.

“E’ il figlio legittimo del Porcellum. E’ ispirato dalla stessa ossessione compulsiva: dare più potere ai potenti e meno ai cittadini”. Così il presidente di Sel Nichi Vendola in merito all’approvazione definitiva della nuova legge elettorale. “Rappresenta una deriva autoritaria contro cui occorre mobilitarsi”, ha aggiunto Vendola(video di Francesco Giovannetti)

Oggi si gode la sua vittoria. In mezzo alle macerie: Parlamento svuotato, Pd trasformato in mera cassa di risonanza del premier con le minoranze interne che neppure oggi sono riuscite a balbettare qualcosa di comprensibile per il loro elettorato. Un dibattito di livello infimo. Argomenti sbagliati, citazioni agghiaccianti, invocazioni di pulizie etniche a sproposito (Renato Brunetta). Banalizzazioni a raffica. Con queste opposizioni, fuori e dentro il Pd, e in questo Parlamento, per parafrasare Nanni Moretti, Renzi non perderà mai. E infatti il fronte del No è destinato a scaricarsi fuori dalle aule parlamentari, nelle piazze. Ma è un ben triste Paese quello in cui l’opposizione è affidata alle contestazioni di piazza. O in cui il premier può vantare di essere dalla parte di chi pulisce le strade contro chi sfascia le macchine. Si possono amare le città pulite, le manifestazioni pacifiche e gli stabilmenti dell’Expo senza per forza iscriversi alle tifoserie renziane, perdonate l’ovvietà.

L’Italicum è una legge quasi perfetta se c’è una competizione tra due partiti, tra due liste alternative. In loro assenza costruisce un nuovo sistema bloccato.Non dipende dalla bontà della legge elettorale, ma dalla politica, certo. E da stasrea la questione è: riuscirà il centrodestra a federare le sue anime per costruire un’alternativa al Pd di Renzi, o come si chiamerà? Perché è difficile che il Pd resti simile a quello attuale, con lo stesso nome. Una vecchia classe dirigente esce ingloriosamente di scena. Quella nuova ancora non si vede. Rimane la voglia di correre, sempre, del leader-premier venuto da Firenze. Che stasera può esultare per l’ennesima vittoria, questa sì di portata storica. Ma non deve dimenticare che vincere da soli, per svuotamento degli avversari, alla lunga può diventare noioso. E forse perfino dannoso

Jobs act: le dure critiche di Ferrero, Cgil, Vendola, Fassina, De Magistris Autore: fabrizio salvatori da: controlacrisi.org

Il Jobs Act è il mantenimento delle differenze e non la lotta alla precarietà”. Coglie nel segno il primo commento della Cgil sul provvedimento che Renzi ha definito di portata “epocale”. “Il contratto a tutele crescenti – aggiunge la Cgil –è la modifica strutturale del tempo indeterminato che ora prevede, nel caso di licenziamento illegittimo o collettivo, che l’azienda possa licenziare liberamente pagando un misero indennizzo”. E aggiunge: “Il governo parla di diritti ma mantiene la precarietà, dimentica le partite Iva e regala a tutti licenziamenti e demansionamenti facili. Per rendere i lavoratori più stabili non bisogna per forza renderli più licenziabili o ricattabili”. Per la Cgil “quello che il governo sta togliendo e non estende ai lavoratori stabili e precari, andrà riconquistato con la contrattazione e con un nuovo Statuto dei lavoratori”.

Secondo il segretario del Prc Paolo Ferrero, ora la precarietà per i giovani “sarà per legge e per tutta la vita: il jobs act è una legge contro i giovani, al contrario di quanto dice Renzi, per garantire il lavoro usa e getta. “Alla fine dei conti l’unica cosa che resta, nel jobs act di concreto – aggiunge Ferrero – è la libertà di licenziare, come giustamente denuncia la Cgil: non è così che si risolve la piaga della disoccupazione, non è così che si aiutano i giovani a trovare lavoro. Al di là della demagogia, ancora una volta, Renzi non sa fare altro che regali ai padroni, come il suo amico Marchionne”.

Nichi Vendola parla di “controriforma” che “conferma nonostante la volonta’ contraria del Parlamento i licenziamenti collettivi, non chiarisce quali siano le risorse utili ad alimentare gli ammortizzatori sociali, conferma la sparizione dell’art. 18, sparisce il diritto al lavoro e avanza il diritto al licenziamento, restano 45 contratti atipici su 47. Siamo ad un punto di svolta ma molto, molto, molto negativo”.

Critiche anche da Stefano Fassina. ”Con questo decreto il Pd di Renzi diventa il partito degli interessi forti”, dichiara. “Dopo essere arrivato sulle posizioni di Ichino ora ha raggiunto Sacconi che, a questo punto, può entrare nel Pd di Renzi”, aggiunge il deputato della minoranza del Pd, intervistato da Repubblica. ”È una straordinaria operazione propagandistica – sottolinea ancora -. Restano tutte le forme di contratti precari. Con questo decreto il diritto del lavoro italiano torna agli anni Cinquanta. Renzi attua l’agenda della Troika economica con una fedeltà che, sono certo, il professor Monti invidierà”. ”La rottamazione dei co.co.co c’è già stata, rimangono solo nella pubblica amministrazione dove, per il blocco delle assunzioni, non ci sarà alcuna trasformazione”, specifica l’esponente del Pd. ”Per esempio resterà tutto come adesso per i professionisti senza partita Iva. Rimangono anche i contratti a tempo determinato senza causalità; restano il lavoro intermittente, il lavoro accessorio e pure l’apprendistato senza requisiti di stabilizzazione. Il carnet di contratti precari non cambia. È una foglia di fico per coprire l’unico vero obiettivo di questo governo sul lavoro: cancellare la possibilità del reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento ingiustificato, cioè cancellare l’articolo 18”. Anche perché il previsto aumento dei contratti a tempo indeterminato ci sarà non grazie alla cancellazione dell’articolo 18 bensì per effetto del taglio dei contributi per tre anni per i neoassunti nel 2015. Una misura che costa tantissimo e che, date le condizioni della nostra finanza pubblica, non sarà ripetibile”.

Infine, Luigi De Magistris,sindaco di Napoli. “Con il Jobs Act Renzi passa alla storia come il premier che ha rottamato 50 anni di lotte operaie”. Per De Magistris si tratta di “macelleria sociale arrogante e violenta”. La “rottamazione dell’articolo 18 – scrive il sindaco di Napoli – distrugge i diritti dei lavoratori, mortifica la loro dignità. L’Italia è debole senza diritti. Ingiustizia fatta”, conclude.

La vera storia di Matteo Renzi, “l’uomo loro”: la racconta il libro di Davide Vecchi (Chiarelettere) | Autore: Maria R. Calderoni da: controlacrisi.org

“Mi chiamo Peter Parker (pardon, Matteo Renzi) e sono l’Uomo Ragno da quando avevo quindici anni. Qualche domanda?”. L’Uomo Ragno Matteo Renzi ha una tela e ovviamente una ragnatela. Fittissima, fortissima, diffusissima. Tentacolare, diverticolare, strisciante, invadente: l’Uomo Ragno Matteo Renzi se l’é costruita ad alta velocità e senza intoppi, proprio mentre il Pd c’era e se c’era dormiva. Perché lui, Renzi, a differenza di altri, non è stato creato e mandato dalla Provvidenza; no, lui si é fatto da solo con gli amici suoi, pezzetto dopo pezzetto, riavvolgendosi ben bene nella sua ragnatela, costruendosi giorno per giorno, piazzandosi porta a porta, vendendosi a gogò sia in chiaro che non. E tutto ciò sempre sotto gli occhi di quei morti di sonno del Pd, ai quali ha sottratto – con destrezza ragnesca – praticamente tutto, le primarie, le secondarie, il partito, il Palazzo Chigi (sinora…).

È appunto quello che racconta, con abbondante e rigorosa messe di dati e fonti, questo libro di Davide Vecchi – “L’Intoccabile. Matteo Renzi. La vera storia”, Chiarelettere, pag.188, €13,90 – . Un libro che rivela il “miracolo” Renzi. Un miracolo che, come tutti i miracoli, non c’è; infatti, realisticamente, non trattasi altro che di un caso quasi banale di marketing e sponsorizzazione ben riuscito; del lancio ben organizzato (ricordate la Nutellla?) di un Nuovo Prodotto, il Matteo Renzi. Ovviamente, sempre tutto sotto gli occhi di quei morti di sonno del Pd.
Il libro e a suo modo una specie di Crozza nel Paese delle Meraviglie, vale a dire, la “vera” storia di Matteo Renzi. Era solo un boy scout, un segretariuccio di un PPI di paese, un presidentello di Provincia che sembrava destinato (politicamente) a vivere e morire lì, snobbato dai piddini sia toscani che non. Invece.

<L’ascesa politica di Renzi – dice il libro – comincia nel 2007. Per l’esattezza, il 22 ottobre, ore 13,30. Quel giorno 106 tra imprenditori, avvocati, commercialisti, nobili, politici, amici entrano all’hotel Brunelleschi di Firenze staccando un assegno da mille euro ciascuno per partecipare al pranzo>. Si tratta della <prima iniziativa della neonata associazione Link , finalizzata esclusivamente a raccogliere fondi per sostenere la candidatura di Renzi alle primarie per la scelta del sindaco del capoluogo toscano>.

Lo sapevate? Nell’occasione, <a fare gli onori di casa c’é il suo tutor politico Francesco Rutelli, leader della Margherita> (a cui il Matteo si è opportunamente iscritto). E tra i presenti, spiccano “l’amico e socio di Denis Verdini Riccardo Fusi” (quello finito in carcere per la bancarotta della Btp, uno della famosa “cricca” del G8 “); Andrea Bracci, amico di famiglia, socio di Tiziano Renzi (il padre del noto Matteo) nonché cospicuo tramite con il mondo imprenditoriale toscano e non; e poi c’è lui, il quasi fratello Marco Carrai, suo sodale di sempre e gran raccoglitore di fondi.

Marco Carrai chi? Anche di lui certo non sapevate niente. Per illustrarlo, sia pure per sommi capi, il libro di Vecchi ci impiega cinque pagine. Questo Carrai – che nasce bene in quel di Greve in Chianti, grandi proprietà in Toscana e ville in Sardegna – esibisce infatti nel curriculum dei suoi trentanove anni oltre venti posti eccellenti, tra incarichi partecipazioni, titoli, e chi più ne ha più ne metta. Robetta che va dalla Firenze Parcheggi, all’Ente Cassa di Risparmio di Firenze, al Gabinetto Vieusseux, all’Assaeroporti, alla Cambridge Management Consulting, , alla C&T Crossmedia, alla Imt Foundation di Boston, ecc ecc. Il Marco Carrai che “dal 2009 è il committente responsabile della campagna per l’elezione a sindaco di Renzi”, appunto il tramite di banchieri, imprenditori, finanzieri, politici, amministratori, burocrati; “la bella gente” di Renzi.

Mica solo Carrai. La ridda di sigle, nomi, sponsor, finanziatori, sostenitori che appare affiancata alla cosidetta “carriera di Renzi” è semplicemente stupefacente. Se non fosse altamente “sospetta”. Tanto per fare un altro elenco di nomiecognomi (scusate, ma il libro é una autentica miniera, leggere per credere): compaiono – vedi dati, per altro non completi, forniti dalla Fondazione Big Bang, la cassaforte dell’ ex boy scout di Rignano – Davide Serra, finanziere; Iacopo Mazzei, presidente Cassa di Risparmio di Firenze, Guido Ghisolfi, vicepresidente della Mossi&Ghisolfi di Tortona; Paolo Fresco, ex presidente della Fiat; Franzo Grande Stevens, l’avvocato della famiglia Agnelli; Eva Energie Spa dell’ex presidente dell’Enel Chicco Testa; Carlo Micheli, consigliere di Banca Leonardo; Fabrizio Landi, amministratore della società Esaote; Carlo Salvatori, presidente di Allianz Italia; Orsero e Vincenzo Manes di Kme, ex gruppo Orlando, il maggior produttore mondiale di rame e leghe in rame…Ecc ecc.

Dalle Leopolde in là. Mentre, al solito, quelli del Pd non se ne accorgono (nessuno finora è riuscito a sapere se ci sono o ci fanno) tutto é già stato stabilito – là dove si puote – e il treno Renzi é in corsa. Dalla Provincia al Comune dal Comune al Pd dal Pd al Palazzo Chigi: tutto costruito e preparato – anzi, pre-preparato – ad hoc. Come volevasi dimostrare, Berlusconi adiuvando: l’uomo “loro” al potere.
Ovviamente, il libro di Vecchi tocca tutti i tanti passaggi politici, sociali, propagandistici – ivi compresi errori e sottovalutazioni (passati e presenti) del Pd, finito ad accettare un segretario-avversario (!) – che segnano la marcia del Matteo; e le sorprendenti “scoperte” sono tante anche qui.
Ma la sostanza resta quella. Renzi, l’uomo “loro”.

Il premier è figlio (legittimo) di D’Alema e Bersani Fonte: il manifesto | Autore: Roberto Della Seta

Partito democratico. L’avvento di Renzi è la conseguenza di una sinistra che da tempo non è più “contemporanea”

ITALY-POLITICS-PD-RENZI

Renzi pensa, parla, agi­sce come un poli­tico di destra? Può darsi, in molti casi è evi­dente, ma le domande a que­sto punto diven­tano altre e sono più impe­gna­tive: com’è pos­si­bile che un poli­tico così abbia “espu­gnato” senza grande dif­fi­coltà il Pd e oggi goda di un con­senso lar­ga­mente mag­gio­ri­ta­rio nell’elettorato che si sente di sini­stra e che ha sem­pre votato a sini­stra? Dipende solo dalle sue doti obiet­ti­va­mente straor­di­na­rie di istrione e dema­gogo? Io non credo, penso che se il Pd si sta tra­sfor­mando nel par­tito per­so­nale di Renzi per­dendo molti con­no­tati tra­di­zio­nali di un par­tito “di sini­stra”, que­sto dipende da com’è stata la sini­stra prima di lui.

Renzi, insomma, è figlio di D’Alema e di Ber­sani, nel senso che il suo avvento è la con­se­guenza di una sini­stra, della sini­stra ita­liana erede del Pci, che non ha mai fatto i conti con i pro­pri ritardi, i vizi, le ano­ma­lie rispetto a buona parte delle sini­stre euro­pee. Una sini­stra che da tempo non è più “con­tem­po­ra­nea”: per que­sto si è pro­gres­si­va­mente allon­ta­nata dagli ita­liani, com­presi tanti che hanno con­ti­nuato a votarla per abi­tu­dine o per man­canza di alter­na­tive, e anche per que­sto Renzi l’ha “spianata”.

Non ha fatto i conti, la sini­stra ex-Pci, con tre que­stioni su cui si sono costruiti prima il suo declino e poi la sua defi­ni­tiva sconfitta.

Una que­stione è squi­si­ta­mente ideo­lo­gica. Gli ex-Pci cam­bia­rono il nome subito dopo l’Ottantanove, quando peral­tro la “cosa” già aveva già pochis­simo di comu­ni­sta. Ma di quella sto­ria hanno con­ser­vato un abito men­tale che è stato di grave osta­colo per la com­pren­sione dei cam­bia­menti del mondo e dell’Italia. Così, hanno con­ti­nuato a misu­rare il pro­gresso secondo cate­go­rie anti­di­lu­viane che sepa­rano strut­tura – il lavoro, la con­di­zione mate­riale delle per­sone — e sovra­strut­tura – la lega­lità, la cul­tura, l’ambiente, la dimen­sione imma­te­riale del benes­sere -, e a con­ce­pire l’economia e lo svi­luppo come un secolo fa: certo non più “soviet e elet­tri­fi­ca­zione” ma comun­que car­bone (Ilva e din­torni), asfalto, cemento.

Così, sono rima­sti pri­gio­nieri dell’idea del pri­mato della poli­tica sulla società, e della con­vin­zione di essere – loro élite poli­tica — migliori del popolo rozzo e igno­rante che si fa infi­noc­chiare da Ber­lu­sconi o da Grillo; così, ancora, pro­prio in quanto ex-comunisti hanno ten­tato di tutto per dimo­strare di non esserlo più: dando prova di una com­pia­cenza siste­ma­tica verso inte­ressi costi­tuiti e poteri forti, pra­ti­cando una rigo­rosa asti­nenza da qua­lun­que radi­ca­lità si chiami patri­mo­niale o stop al con­sumo di suolo o diritti degli omo­ses­suali…
Una seconda que­stione è cul­tu­rale. Oggi l’alfabeto poli­tico della sini­stra nove­cen­te­sca è del tutto insuf­fi­ciente a rap­pre­sen­tare i valori, i biso­gni, gli inte­ressi di chi si con­si­dera “di sini­stra”. Fatica a inte­grare pie­na­mente nel pro­prio discorso temi come l’ambiente che set­tori cre­scenti della società con­si­de­rano cen­trali, non rie­sce a vedere che mal­grado i drammi incom­benti legati a disoc­cu­pa­zione e povertà sem­pre di meno le per­sone basano il pro­prio “essere sociale” pre­va­len­te­mente sul lavoro.

In nes­suno dei movi­menti sociali e di opi­nione degli ultimi decenni ascri­vi­bili a idea­lità di sini­stra, il lavoro è stato l’elemento cen­trale: dall’ambientalismo al fem­mi­ni­smo, dai no-global ai movi­menti gio­va­nili, dalle mobi­li­ta­zioni per i diritti civili a quelle per i beni comuni. Il lavoro natu­ral­mente conta tut­tora mol­tis­simo, conta tanto più in una sta­gione di dram­ma­tica crisi eco­no­mica come l’attuale per l’Europa; ma oggi per dare senso e futuro alla parola pro­gresso, spe­cial­mente per avere qual­cosa da dire su que­sto che inte­ressi i più gio­vani, non si può e non si deve met­tere al cen­tro solo il lavoro. In molti casi – sicu­ra­mente in
Ger­ma­nia e nel nord Europa, meno in Fran­cia — i socia­li­sti euro­pei si sono lasciati tra­sfor­mare da que­sti nuovi para­digmi. Gli ex-Pci no.

Infine, la sini­stra post-comunista e pre-renziana ha lasciato mar­cire al pro­prio interno la que­stione morale. Il Pci e i par­titi suoi eredi hanno svi­lup­pato, a par­tire almeno dai primi anni Ottanta, un’attitudine cre­scente a col­ti­vare rap­porti opa­chi con gli inte­ressi eco­no­mici: quanto più si sepa­ra­vano dalla pro­pria “diver­sità” politico-ideologica, e dai vin­coli anche finan­ziari con il comu­ni­smo sovie­tico, e tanto più sono andati strut­tu­rando un rap­porto prag­ma­tico e spre­giu­di­cato con l’economia. Un rap­porto nel quale hanno assunto uno spa­zio e un peso sem­pre più rile­vanti legami di scam­bio politico-elettorale con poteri eco­no­mici con­so­li­dati, dall’edilizia alla grande indu­stria di Stato o sov­ven­zio­nata (ener­gia, acciaio, cemento) al sistema ban­ca­rio, e nel sud con i poteri legati alla cri­mi­na­lità organizzata.

La sini­stra erede del Pci è stata anch’essa coin­volta in pieno nella que­stione morale: da Penati al Mose, dalla sanità pugliese alle “rim­bor­so­poli” esplose in quasi tutte le regioni — nella realtà.

Allora non è Renzi che ha spia­nato la sini­stra ita­liana: lui si è limi­tato a sep­pel­lire le mace­rie. Renzi è molto di più che l’antagonista, alla fine vit­to­rioso, di Ber­sani, D’Alema e com­pa­gnia: è figlio loro, sem­mai va notato che la discen­denza non è del tutto “ille­git­tima”. Al di là e al di sotto di un’efficacissima reto­rica da inno­va­tore, nei com­por­ta­menti ripete alcuni schemi men­tali e poli­tici tipici della sini­stra ex-comunista: non sop­porta i corpi inter­medi, soprat­tutto quelli non “col­la­te­rali” al suo potere; parla e stra­parla di par­tito liquido all’americana ma poi pre­tende disci­plina e obbe­dienza dai par­la­men­tari Pd; strilla con­tro i poteri forti ma poi dall’Eni a Fin­mec­ca­nica, dal pro­gramma di “rilan­cio” dell’energia fos­sile alla pro­roga delle con­ces­sioni auto­stra­dali fa di tutto per cor­teg­giarli e blandirli.

Fini­sco come ho comin­ciato, con una domanda. Date que­ste pre­messe, è rea­li­stica e soprat­tutto è immi­nente la rina­scita in Ita­lia di una sini­stra forte e vera?
Qui non ho una mia rispo­sta ma solo una con­vin­zione: chiun­que voglia impe­gnarsi per que­sto scopo deve sapere che l’impresa, per non essere pura fol­lia, pre­sup­pone sì il supe­ra­mento di Renzi ma altret­tanto la defi­ni­tiva sepol­tura di molte delle idee e dei com­por­ta­menti che prima di Renzi abi­ta­vano la sini­stra ita­liana e che con­ti­nuano, mi pare, ad abi­tare buona parte degli anti-renziani del Pd.

Il partito di Renzi azzera il centrosinistra Fonte: Il Manifesto | Autore: Paolo Favilli

Pro­viamo a riflet­tere su due recenti affer­ma­zioni pro­ve­nienti diret­ta­mente dal cer­chio ristretto ber­lu­sco­niano e dal pre­si­dente del con­si­glio. Denis Ver­dini rivol­gen­dosi a Capez­zone: «Dovre­sti capire che que­sto governo ha fatto tutto quello che poteva fare che ci andasse bene, come la legge elet­to­rale» (la Repub­blica 2 otto­bre). Mat­teo Renzi alla City di Lon­dra: «L’articolo 18 rap­pre­senta una man­canza di libertà per gli impren­di­tori» (Idem).

La lunga fase poli­tica in cui siamo immersi è con­trad­di­stinta dalla lotta per il «rico­no­sci­mento». In tali fasi la gestione del potere e la prassi di governo sono affi­date, come ha affer­mato un grande intel­let­tuale, recen­te­mente scom­parso, Mario Miegge, «per lo più a idioti – nel senso dell’etimo greco, che desi­gna il pro­prio (idios), la ristretta par­ti­co­la­rità del pri­vato con­trap­po­sta al pubblico».

Nel caso di Ver­dini e di Renzi è del tutto chiaro che si tratta di un caso di «idio­zie» con­ver­genti in un oriz­zonte con­di­viso, di una «pro­fonda sin­to­nia» tra i con­traenti del patto del Naza­reno. Ver­dini dice con sin­ce­rità, con can­dida sin­ce­rità con­sa­pe­vole di non susci­tare nes­sun scan­dalo, ciò che solo «l’idiozia» di coloro che hanno un diretto (o indi­retto) e par­ti­cu­lare modo di par­te­ci­pa­zione agli effetti del “patto” finge di igno­rare. Dice, cioè, non solo che i con­fini tra il par­tito di Ber­lu­sconi e quello di Renzi sono per­mea­bi­lis­simi, ma che tra le parti fon­da­men­tali del primo e quelle del secondo vi è una vera e pro­pria osmosi cemen­tata da un soli­dis­simo grumo comune di interessi.

L’osservatorio par­la­men­tare e poli­tico open­po­lis ha quan­ti­fi­cato in per­cen­tuali intorno al 90% i voti con­giunti di Forza Ita­lia e Pd e sem­pre intorno alle stesse per­cen­tuali le opi­nioni con­ver­genti di espo­nenti dei due par­titi. Il sistema poli­tico che si sta deli­neando, dun­que, è quello imper­niato su due par­titi, ten­den­zial­mente due soli, come è stato riba­dito in que­sti giorni dal pre­si­dente del consiglio.

Tra i due par­titi non esi­ste nes­suna netta frat­tura lon­gi­tu­di­nale, ne esi­stono invece di tra­sver­sali a seconda dei diversi gruppi di inte­resse. Frat­ture fluide e ricom­po­ni­bili, pronte a rifor­marsi su linee diverse, a seguito delle con­tin­genze. Al momento l’osmosi riguarda diret­ta­mente i gruppi di comando e quindi appare par­ti­co­lar­mente solida. Uno dei gruppi di comando è la risul­tante del pro­getto Berlusconi-Dell’Utri–Previti e quindi può defi­nirsi, sulla base di docu­men­tate sen­tenze, come risul­tante di un’operazione in cui sfera poli­tica e sfera cri­mi­nale non sono sepa­ra­bili. La rimo­zione costante di quest’aspetto è indi­ca­tore sicuro del livello di mitri­da­tiz­za­zione rag­giunto. È indi­ca­tore sicuro di come all’interno di una più gene­rale ten­denza all’inversione del pro­cesso demo­cra­tico che riguarda tutti i paesi avan­zati, la deca­denza ita­liana mostri anche un livello insop­por­ta­bile di putre­fa­zione del tes­suto etico-politico. Il fatto che sia, invece, sop­por­tato benis­simo è un ulte­riore indi­ca­tore di quanto sia esteso e profondo.

Le pro­messe della moder­nità, secondo Renzi, hanno come para­digma non la demo­cra­zia, cioè la ten­denza verso forme via via più orga­niz­zate di ugua­glianza, bensì la «libertà degli impren­di­tori». D’altra parte le moder­nità sono mol­te­plici e la forma del capi­ta­li­smo moderno, quello del sistema di fab­brica, si è defi­nito nella sua genesi, per dirla con un’icastica espres­sione di Bau­man, «nella lotta per il con­trollo del corpo e dell’anima del pro­dut­tore» (1982)».

I lavo­ra­tore, merce forza-lavoro, si pre­senta sul mer­cato come fun­zione della «libertà» di chi ha il potere di acqui­stare la merce in oggetto. Renzi si trova ad essere del tutto interno alle ten­denze di una fase in cui le forze dav­vero deci­sive e domi­nanti tro­vano neces­sa­rio ripro­porre le dina­mi­che dell’«accumulazione ori­gi­na­ria». Dun­que la cosid­detta «rivo­lu­zione ren­ziana» è la forma attuale della ragione del «capi­ta­li­smo asso­luto», che è appunto, la ragione della fase gene­tica e affer­ma­tiva. Dopo una lunga fase di «capi­ta­li­smo costi­tu­zio­na­liz­zato», la «rivo­lu­zione» ha assunto nuo­va­mente il suo signi­fi­cato eti­mo­lo­gico: ritorno al punto di inizio.

Non solo, quindi, non c’è nes­suna novità ana­li­tica (la parola è grossa per la poli­tica degli «idioti», si tratta solo di assun­zione della reto­rica ideo­lo­gica domi­nante), ma non ci sono nem­meno par­ti­co­lari novità rispetto alla tra­di­zione cul­tu­rale del Pd. Ricor­diamo per­fet­ta­mente come il respon­sa­bile eco­no­mico del par­tito da poco fon­dato (Tonini, marzo 2008), arti­co­lasse la sua visione del rap­porto eco­no­mia società para­fra­sando quasi alla let­tera La favola delle api di Ber­nard de Man­de­ville. Un testo set­te­cen­te­sco esem­plare della fon­da­zione della ragion capi­ta­li­stica asso­luta. Renzi non rivo­lu­ziona nep­pure il Pd, anzi del Pd è «rivelazione».

La sini­stra si rende conto di quello che sta suc­ce­dendo? Sem­bra fati­care a guar­dare in fac­cia la cata­strofe. Sem­bra ripro­porre lo schema della tela di Penelope.

L’esperienza della lista Tsi­pras, con tutte le dif­fi­coltà, debo­lezze, con­trad­di­zioni, è stata un momento posi­tivo nella tes­si­tura della tela. È il caso di ricor­dare ancora una volta quello che ha scritto a pro­po­sito Marco Revelli: cioè che i con­tri­buti di «mol­te­plici iden­tità sono stati, e soprat­tutto sono, tutti egual­mente pre­ziosi, [E]dovremmo pro­porci, d’ora in avanti, di non smar­rirne nep­pure uno, per set­ta­ri­smo, sup­po­nenza, tra­scu­ra­tezza». Ci sono tutti i segni che indi­cano la fatica ad affer­marsi di quella essen­ziale lezione. Sta ricom­pa­rendo un les­sico appa­ren­te­mente del tutto di buon senso che invece lan­cia pre­cisi mes­saggi. Chi infatti può essere favo­re­vole alla costru­zione di una sini­stra con­no­tata da «estre­mi­smo», «mino­ri­ta­ri­smo», «iden­ti­ta­ri­smo» etc.? Qual­cuno ha soste­nuto addi­rit­tura la neces­sità di sepa­ra­zione dai difen­sori dell’ «orto­dos­sia» (???). Non c’è limite al senso del ridi­colo: quale «orto­dos­sia» c’è oggi in campo?

L’uso di que­sta ter­mi­no­lo­gia rien­tra nel vizio così comune alla poli­tica nel tempo della reto­rica mani­po­la­trice, della reto­rica senza prova. Ognuno di que­sti ter­mini dovrebbe essere vagliato alla pie­tra di para­gone delle reali posi­zioni poli­ti­che e dei com­por­ta­menti. I modi di par­te­ci­pa­zione alla lista Tsi­pras sono la prova di fronte a cui la reto­rica si mostra dav­vero nella sua fun­zione di velo ideologico.

Se le parole sono ingan­na­trici il mes­sag­gio però è chiaro. Si può sfug­gire al mino­ri­ta­ri­smo solo attra­verso la rifon­da­zione del cen­tro­si­ni­stra. Natu­ral­mente un cen­tro­si­ni­stra «rin­no­vato», aperto all’influenza vivi­fi­ca­trice di quella sini­stra non «estre­mi­sta», non iden­ti­ta­ria», non «orto­dossa», la sini­stra della «cul­tura di governo». Posi­zione per­fet­ta­mente legit­tima che sconta però due osta­coli. Sconta la rot­tura com­pleta con l’esperienza della lista Tsi­pras il cui pro­getto è quello della costru­zione di una forza non solo del tutto auto­noma dal Partito-di-Renzi (l’espressione com’è noto è dell’ «estre­mi­sta» Ilvio Dia­manti), il che è del tutto ovvio, ma anche con­flit­tuale con ciò che quel par­tito rap­pre­senta. È pos­si­bile evi­tare il con­flitto tra la ragione del capi­ta­li­smo asso­luto e la ragione dell’eredità della sto­ria del movi­mento operaio?

Natu­ral­mente que­sto può non essere un pro­blema: per­ché non impe­dire il per­corso ini­ziato con la lista Tsi­pras se il cen­tro­si­ni­stra è l’unico oriz­zonte rite­nuto pra­ti­ca­bile? L’altro osta­colo è però più dif­fi­cile da rimuo­vere: la realtà. La dimen­sione strut­tu­rale del Partito-di-Renzi, il suo sistema di rife­ri­menti, l’insieme di poteri dav­vero forti che lo sosten­gono, può essere modi­fi­cato dalla pre­senza nell’alleanza di una sini­stra che «mino­ri­ta­ria» lo è per davvero?