La Costituzione e la grande bellezza – Lettera aperta alla Ministra Boschi sulla riforma costituzionale in corso da: libertàe giustizia

La Costituzione e la grande bellezza – Lettera aperta alla Ministra Boschi sulla riforma costituzionale in corso

Gentile signora Ministra,

non sono che una cittadina priva di competenze specifiche in materia costituzionale – oltre a quelle richieste a ogni cittadino, con il dovere di conoscere il patto fondamentale che ci lega gli uni agli altri attraverso l’assunzione dei nostri doveri e dei nostri diritti. Di conoscere e rispettare il patto fondamentale di cittadinanza, la Costituzione.

Ma è proprio in base a questo dovere che le scrivo, signora Ministro, per esprimere il dolore profondo e lo sconcerto, che numerosissimi cittadini come me provano nel vedere demolito un altro pezzo della nostra Carta (57 articoli su 85). Non per essere sostituito da regole migliori, che cioè migliorino la qualità della vita democratica, nel suo aspetto di processo di formazione e attuazione delle decisioni che riguardano tutti noi;  ma – al contrario – da disposizioni farraginose e incomprensibili, che mostrano – fin nella tessitura prolissa e sgrammaticata – l’assenza di un principio ispiratore intelligibile, a parte il mantra “abolizione del bicameralismo perfetto”.

Riporto qui solo alcuni degli argomenti che sono stati pubblicamente sollevati contro il metodo e il merito di questa riforma.

    1. I promotori non hanno titolo a questa riforma. La prima fonte di questa obiezione è Piero Calamandrei, secondo il quale “Nel campo del potere costituente il governo non può avere alcuna iniziativa, neanche preparatoria”.  “Quando l’Assemblea discuterà pubblicamente la nuova Costituzione, i banchi del governo dovranno essere vuoti”. Come ci ha ricordato Sandra Bonsanti (http://www.libertaegiustizia.it/cat/spec-senato/, 11/09/15). La seconda è la Corte costituzionale, che ha dichiarato incostituzionale la legge con cui l’attuale Parlamento è stato eletto, privandolo dunque della piena e chiara legittimità che una riforma costituzionale esige. “Le costituzioni sono al servizio della legittimità della politica e una costituzione illegittima non può che produrre politiche a loro volta illegittime” (G. Zagrebelsky La terza, siamo noi cittadini: l’ultima volta che ho votato per il suo partito, signora Ministro, il programma era completamente diverso, e l’idea di una riforma costituzionale – di questa portata poi! – mai è stata messa in un programma elettorale.
    2. Semplificazione delle procedure deliberative? Ma ora ci saranno dieci diversi procedimenti legislativi, complicati dall’assenza di chiarezza sulla linea di confine fra materie statali e materie regionali, generatrice di infiniti litigi. Perfino l’accordo raggiunto fra maggioranza e minoranza del suo partito (strana assemblea costituente, anche questa: e gli altri?) aumenta la confusione: la prima metà di un comma dice che i Senatori li “eleggono” i Consigli regionali, e la seconda metà che li “scelgono” gli elettori. Davvero sembra che ci si sia lottizzati anche i commi: il pensiero politico espresso da questo linguaggio qual è? “Non sembra difficile, inoltre, immaginare una nuova ondata di contenzioso costituzionale, questa volta tra Camera e Senato, in ordine al tipo di procedimento da seguire nei diversi casi (in proposito, il nuovo articolo 70 si limita a prevedere che i presidenti delle Camere decidono, di comune intesa, sui conflitti di competenza: ma, chi assicura che l’intesa sia effettivamente raggiunta?”(cfr. F. Pallante in questo sito, http://www.libertaegiustizia.it/2015/09/14/la-semplificazione-che-complica/)
    3. Se un disegno c’è, sembra veramente uscito dalla mente di uomini piccoli, dall’orizzonte angusto fino a farci soffocare: disinteressati come sono a tutto quello che non è la gestione del loro personale potere nei prossimi pochi anni (dopo di loro può venire il diluvio). Il Senato è quella che la Costituzione italiana pensava come la Camera Alta (il suo Presidente è attualmente colui che esercita le funzioni di Presidente della Repubblica “in ogni caso in cui egli non possa adempierle”, Art. 86). La riforma lo rimpicciolisce a un “camerino” di interessi locali, spesso interessi personali di pura sopravvivenza giudiziaria. Ma insieme alla legge elettorale, l’intera riforma “costituzionalizza” l’umiliazione del Parlamento e rimette nelle mani dei piccoli arbitri dei piccoli uomini  al potere di fatto la quasi totalità della decisione su ciò che “deve” essere. “La maggioranza deve essere prona, l’opposizione spuntata, le Camere sotto la sferza come vecchi ronzini ai quali si detta addirittura l’andatura (il “timing”) e il percorso (la “road map”). Il presidente del Consiglio usa un linguaggio sprezzante nei confronti di chi non ci sta (“ce ne faremo una ragione”; “asfalteremo”; “piaccia o non piaccia”, “porteremo a casa”, ecc.). La qualità del linguaggio è un segno spesso più eloquente di tanti discorsi programmatici” (G. Zagrebelsky, http://www.libertaegiustizia.it/2014/08/06/la-costituzione-e-il-governo-stile-executive/). Ma “Se questo è l’obiettivo, si tratta non di riforma ma di capovolgimento della Costituzione.” (Ibid.)
  • Nessun ascolto, neppure una risposta o una controcritica alle molte virtuose alternative a questo “bicameralismo confuso” – citiamone due fra molte: quella di Zagrebelsky, dopotutto Presidente emerito della Corte Costituzionale, che optava per un modello di Senato come custode dei valori, e quindi non certo del passato, ma della nostra residua speranza di futuro, a fronte della dissipazione e dell’appropriazione privatistica di beni comuni con cui le consorterie d’affari e politica si stanno mangiando l’Italia. E quella di un Senato delle competenze, sul quale ribatte da più di un anno, ad esempio, un grande giornale non proprio giacobino (vedi la propposta di A. Massarenti discussa qui: http://www.phenomenologylab.eu/index.php/2015/09/quale-democrazia-il-senato-delle-competenze/).Aggiungerei, in particolare, delle competenze morali e della “garanzie” – di una minima decenza pubblica: in un paese dove se un candidato incandidabile per legge viene eletto, nessuno si stupisce che la legge venga messa da parte, e l’eletto governi una regione, dove un parlamentare viene sottratto al giudizio (in cambio di inconfessabili accordi) anche se ha dato dell’orangutango a una persona di colore.

 

 

Ecco, signora Ministra, le scrivo nella speranza che trovi infine il modo di rispondere a queste obiezioni. Non a me, ovviamente – ma a tutti i cittadini che vorrebbero proporgliele e non hanno voce o non trovano ascolto. Perché non ricordo sia uscita dalle sue labbra un argomento in difesa della “sua” riforma diverso dal seguente: “Non ci faremo fermare da nessuno”. Ma se il solo argomento resterà questo, mi lasci concludere, gentile Ministra: è un vero peccato che lei sia così bella. Perché la sua riforma, e i suoi argomenti, rappresentano invece il volto di una democrazia sfigurata (Copyright Nadia Urbinati 2014, consiglio lettura). Cioè della bruttezza senza riscatto di ciò che resterà della nostra Costituzione – del solo bene pubblico affidato alla nostra già così fragile coscienza civile. La sua grande, italiana bellezza, gentile Ministra, sarebbe solo l’ultima, sottile menzogna.

(*) Roberta De Monticelli fa parte del Consiglio di Presidenza di LeG

Approvata la Costituzione in Nepal: il Paese si prepara ad affrontare una nuova fase politica Autore: francesca marras da: controlacrisi.org

Dopo un lavoro e un’attesa durati 8 anni, il Nepal ha adottato la nuova Costituzione diventando una Repubblica democratica federale laica. Entrata in vigore domenica 20 settembre, la Costituzione è stata approvata a Kathmandu con 507 voti favorevoli e 25 contrari e ha stabilito la futura divisione del Paese in sette province.
Si tratta di un importante momento storico per il Nepal, un Paese segnato da anni di instabilità politica che dopo 240 anni di monarchia Hindu è divenuto repubblica in aprile 2008 con un governo guidato dal partito maoista “Ucpn” (Unified Communist Party of Nepal-Maoist).
Un primo esperimento di sistema multi-partitico tentato nel 1959, fu interrotto dopo soli tre anni con la sospensione del parlamento da parte del Re Mahendra, in carica dal 1955 al 1972; nel 1991 le proteste dei Nepalesi hanno portato all’introduzione di un sistema politico democratico, ma negli anni seguenti il Paese è stato ancora teatro di frequenti cambi di governo, e l’ultimo Re del Nepal, Gyanendra, ha ripreso il potere esecutivo nel 2002 e nel 2005. La sua carica ha avuto termine nel 2006, in seguito alle forti pressioni, non solo popolari ma anche politiche, portate avanti per anni dai ribelli del gruppo maoista e sfociate in una dura guerra civile contro l’esercito.
L’anno 2006, con la firma dell’accordo di pace davanti alle Nazioni Unite, ha segnato la fine della guerra civile e l’inizio di un nuovo percorso verso la stabilizzazione politica.
Nel 2007 il Parlamento ha accettato l’abolizione della monarchia e nel 2008 le elezioni ne hanno decretato la fine dando vita a un governo a maggioranza maoista.
La Costituzione approvata la scorsa settimana è, dunque, il risultato di otto lunghi anni di discussioni politiche; i lavori avviati da una prima Assemblea Costituente eletta nel 2007 e portata avanti fino al 2012 senza risultati, sono stati ripresi nel 2013 da una nuova Assemblea che quest’anno è riuscita a portarli a termine, seppure tra tante difficoltà. Infatti i lavori si sono svolti mentre avvenivano scontri, che hanno causato circa 40 morti, tra l’esercito e i manifestanti contrari alla nuova costituzione. Tra questi le minoranze etniche Madhesi e Tharu che non si ritengono rappresentate dalla nuova forma politica del Paese.
In particolare la minoranza Mahdesi ha posto l’accento sulle questioni riguardanti la cittadinanza Nepalese e la discriminazione di genere nel Paese. Secondo quanto dichiarato dal Kathmandu Post la nuova costituzione renderà difficile per le madri single passare la cittadinanza al proprio figlio e in caso di matrimonio tra una donna Nepalese e un uomo straniero, il figlio non potrà ottenere la cittadinanza prima che l’abbia ottenuta anche il padre. La minoranza Madhese che vive al confine con l’India ritiene questa disposizione ancor più discriminante, vista la presenza di un elevato numero di matrimoni transnazionali.
Nonostante la soddisfazione del Primo Ministro del Nepal Sushil Koirala, il quale dichiara che questo evento rappresenta motivo d’orgoglio per tutto il Paese, domenica non è stato un giorno di festa per tutti i Nepalesi e una persona è morta durante una manifestazione organizzata dalla minoranza Madhesi nella Regione di Parsa.
Anche il gruppo Hindu Rastriya Prajatantra Party-Nepal si è opposto al voto, chiedendo la proclamazione di uno stato induista, proposta che è stata rifiutata.

“Noi comunisti anonimi, stufi della teoria dei ‘sei gradi di separazione'”. Intervento di Paolo Andreozzi da: controlacrisi.org

Tra il ‘qui e ora’ e l’esistenza in Italia di un partito radicale di massa – per intenderci: di un partito che si prefigga di ‘implementare tutto il socialismo possibile a Costituzione vigente’ – ci sono, a mio modesto parere, i fatidici ‘sei gradi di separazione’.Il primo grado è il PD, il quale con Renzi ha sì ormai portato a compimento l’annichilimento delle ultime molecole post-comuniste che potevano ancora trovarsi nei DS (ex-PDS ed ex-PCI) e la migrazione del proprio bacino di sostenitori nel campo dei conservatori tardo-thatcheriani, e però nell’immaginario collettivo mediatico è ancora un partito ‘di sinistra’; pertanto, dice l’opinione pubblica (parecchio distratta, ossia qui e ora larghissimamente maggioritaria): “se c’è il PD che fronteggia la destra peggiore – neofascista, razzista o post-berlusconiana – a che serve un (altro) grande partito di sinistra?” Risposta (vana): “a fronteggiare la ‘destra presentabile’, cioè il PD.”

Il secondo è il Movimento 5 Stelle, il quale proprio nella transizione – prevedibile per motivi giudiziari, e prima o poi inevitabile per motivi crono-biologici – tra la lunghissima stagione berlusconiana e quella che si annuncia la lunga renziana, è sì emerso alla ribalta per intercettare una voglia di cambiamento discretamente di massa, incanalandola però in un imbuto talmente ambiguo (tra istanze di pubblica virtù e perpetuazione di vizi privati) e così lontano da un’ideologia socioeconomica qualunque, che quel momento virtualmente favorevole al cambiamento strutturale è andato perduto; d’altronde il Movimento è nato, ed è coccolato, proprio per questo.

Il terzo è SEL, la quale almeno presso l’opinione pubblica non così tanto distratta da scambiare il PD per un partito di sinistra e i 5Stelle per un fattore di cambiamento, convoglia sì un’attenzione di (relativa) massa che dura ormai da qualche anno – specie per la notorietà anche extra-politica del suo inevitabile leader –, tuttavia sconta un peccato originale e persistente che le impedisce di essere il coagulo del partito radicale di massa alternativo al renzismo e al grillismo: è sempre e comunque interna al perimetro del Centrosinistra, quando si tratta di governo (anche solo locale), e sempre e comunque gregaria del più visibile Movimento, quando si tratta di opposizione.

Il quarto grado di separazione è Rifondazione Comunista, in Italia sì la sola organizzazione politica contenente in simbolo e programma la parola ‘comunista’ (la sola ad avere un consenso misurabile, a volte, in cifre sopra l’1% dei cittadini interpellati – il resto sono ‘polveri sottili’), ma alle prese con ben tre problemi non contingenti (non più, ormai): la contiguità, anche di Rifondazione, col Centrosinistra (ossia col PD) in non poche amministrazioni locali; la propensione, per il timor panico dell’isolamento, a rincorrere qualunque progetto, anche il più velleitario (infatti di vita brevissima, ogni volta più breve), di convergenze ‘a sinistra del PD’; un paralizzante disamore intestino tra fazioni.

Il quinto grado (infatti) sono i comunisti critici, che siano o meno militanti di Rifondazione o delle ‘polveri sottili’, i quali tutti potrebbero sì azzerare quei problemi non più contingenti e partire dal poco (ma solido) di organizzazione di cui hanno dimestichezza, per sollecitare l’opinione pubblica con la pretesa di implementare tutto il socialismo possibile in Italia a Costituzione vigente – chi avrebbe titoli, ideologicamente, più di loro per farlo? –, e però proprio l’opinione pubblica gli sovrappone la ‘macchietta dell’antagonista’ il quale si occupa di Gaza, s’indigna per l’Ucraina e si emoziona per il Venezuela, ma del proletariato italiano non ha cognizione; macchietta che essi nulla fanno per smentire.

E il sesto sono io, o meglio: sono tutti i paoloandreozzi qualunque come me, i quali sì consapevoli dei limiti dei comunisti critici, dell’empasse cronicizzato di Rifondazione, dell’ambiguità insanabile di SEL, della vera e propria infiltrazione del 5Stelle nel campo dell’alternativa e del tremendo destino che attende il Paese nel decennio (probabile) renziano che seguirà il ventennio berlusconiano, tuttavia – isolati e depressi che siamo – sono inchiodati al ruolo di meri osservatori senza alcuna possibilità di incidere su un diverso esito (che non sia il fatale) della malattia della democrazia italiana: l’assenza di un partito radicale di massa, contrappeso agli ‘animali appetiti’ del capitalismo ormai padroni della scena.

L’Italia è una ‘cosa’ diversa da tutte le altre, da sempre.
Ne scrissero i maggiori ingegni, italòfoni e no, prima del Risorgimento e dopo; ne scrisse Gramsci; ne scrissero i Padri e le Madri Costituenti; ne scrissero i migliori intellettuali della seconda metà del secolo scorso, Pasolini su tutti; e anche i più validi combattenti nella trincea per la democrazia e la legalità – in ultima analisi, per la Costituzione –, come Falcone e Borsellino.
Dunque non può stupirmi questa sequenza di impedimenti oggettivi (e soggettivi) alla realizzazione qui e ora – soltanto qui, ripeto – di un soggetto politico con almeno la teorica possibilità di contrastare, grazie a un appeal di massa, il Potere consolidato nel modello socioeconomico vigente.

La lunga erosione della democrazia Fonte: il manifesto | Autore: Luciana Castellina

25 aprile. L’attacco contro la Costituzione si scatena perché la nostra società è passiva, privata di soggettività, estranea alla politica di cui non si sente, e non è, più protagonista

10689427_870180089723957_7766663075476464739_n

La cele­bra­zione delle date impor­tanti non è sem­pre uguale. Per­ché la memo­ria stessa è sog­getta alla sto­ria, e le cose si ricor­dano in modo diverso a seconda dei tempi. Tal­volta si è invece ripe­ti­tivi: è quando non ci sono par­ti­co­lari e nuove ragioni che spin­gono a ripen­sare l’evento com­me­mo­rato. E per­ciò resta un rituale. Quante volte nei tanti 8 marzo della mia vita mi è acca­duto di sbuf­fare per il fasti­dio della ripe­ti­ti­vità. Poi scop­piò il nuovo fem­mi­ni­smo e quella gior­nata si arric­chì di una carica inno­va­tiva che ci fece tor­nare con gioia a distri­buire mimose.

Per il 25 aprile non ho sbuf­fato mai, ma è vero che, pas­sato il peg­gio della guerra fredda — quando i governi dc arre­sta­vano i par­ti­giani, o quando arrivò Tam­broni — anche la Resi­stenza rimase spesso immo­bile. Oggi, 2015, è evi­dente a tutti che la data è cal­dis­sima, un’urgenza attuale nella nostra agenda. Per via di un suo spe­ci­fico aspetto: non tanto per­ché chi ne fu com­bat­tente riu­scì a cac­ciare i tede­schi , che pure non è poco. Piut­to­sto per­ché è in que­gli anni ’43–45 che ven­nero poste le fon­da­menta — per la prima volta — di uno stato demo­cra­tico in Ita­lia. Che oggi mi pare in peri­colo, non per­ché assa­lito dai fasci­sti, ma per­ché eroso dal di dentro.

Noi uno stato popo­lare, legit­ti­mato a livello di massa, non l’avevamo avuto mai : il Risor­gi­mento, come sap­piamo, fu assai eli­ta­rio e pro­dusse una par­te­ci­pa­zione assai ristretta, estra­nee le classi subal­terne; i governi della nuova Ita­lia nata nel 1860 restano nella memo­ria dei più per la disin­vol­tura con cui gene­rali e pre­fetti spa­ra­vano su ope­rai e con­ta­dini. Poi venne addi­rit­tura il fascismo.

A dif­fe­renza del maquis fran­cese o della resi­stenza danese o nor­ve­gese, la nostra non aveva pro­prio nulla da recu­pe­rare, niente e nes­suno da rimet­tere sul trono. Si trat­tava di inven­tarsi per intero uno stato ita­liano decente, e dun­que demo­cra­tico. (Come in Gre­cia, del resto, dove però una pur straor­di­na­ria Resi­stenza non ce l’ha fatta).

Non è una dif­fe­renza di poco. E se la Resi­stenza ita­liana ci ha per­messo di riu­scirci, è anche per­ché è stata la prima volta in cui in Ita­lia le masse popo­lari hanno par­te­ci­pato mas­sic­cia­mente e senza essere inqua­drate dai bor­ghesi alla deter­mi­na­zione della sto­ria nazionale.

E anche per un’altra ragione: per­ché il dato mili­tare, e quello stret­ta­mente poli­tico — l’accordo fra i par­titi anti­fa­sci­sti — pur impor­tanti, non esau­ri­scono la vicenda resi­sten­ziale. Un ruolo deci­sivo nel carat­te­riz­zarla l’ha avuto quello che un grande sto­rico, coman­dante della bri­gata Gari­baldi in Luni­giana, Roberto Bat­ta­glia, chiamò “società par­ti­giana”. E cioè qual­cosa di molto di più del tratto un po’ gia­co­bino, o meglio gari­bal­dino, dell’organizzazione mili­tare più i civili che ne aiu­ta­rono eroi­ca­mente la sus­si­stenza; e cioè l’autorganizzazione nel ter­ri­to­rio, l’assunzione, gra­zie a uno scatto di sog­get­ti­vità popo­lare di massa, di una respon­sa­bi­lità col­let­tiva, per rispon­dere alle esi­genze della comu­nità, il “noi” che pre­valse senza riserve sull’ “io”.

L’antifascismo come senso comune, più che nella tra­di­zione pre­bel­lica, ha ori­gine in Ita­lia da que­sto vis­suto, nell’ espe­rienza auto­noma e diretta di sen­tirsi — «attra­verso scelte che nascono dalle pic­cole cose quo­ti­diane», come ebbe a scri­vere Cala­man­drei — pro­ta­go­ni­sti di un nuovo stato, non quello dei monu­menti dedi­cati ai mar­tiri, ma quello su cui hai diritto di deci­dere, di una patria che non chiede sacri­fici ma ti garan­ti­sce pro­te­zione, legit­tima i tuoi biso­gni, ti dà voce. E’ la comu­nità, insomma, che si fa Stato, a par­tire dal senso di appartenenza.

La Costi­tu­zione par­to­rita dalla Resi­stenza riflette pro­prio que­sta presa di coscienza, e infatti defi­ni­sce la cit­ta­di­nanza come piena appar­te­nenza alla comu­nità. Non avrebbe potuto essere così se, ben più che da una media­zione di ver­tice fra i par­titi, non fosse nata pro­prio da quella espe­rienza diretta che fu la “società par­ti­giana.” E dalle sue aspi­ra­zioni. Per que­sto ha una ispi­ra­zione così ugua­li­ta­ria e for­mu­la­zioni in cui è palese lo sforzo di evi­tare for­mule astratte. E’ di lì che viene fuori quello straor­di­na­rio arti­colo ‚per esem­pio, che dice come, per ren­dere effet­tive libertà e ugua­glianza”, sia neces­sa­rio “rimuo­vere gli osta­coli che le limi­tano di fatto”.

Pro­prio riflet­tendo su quanto da più di un decen­nio sta acca­dendo, a me sem­bra che la crisi visi­bile della demo­cra­zia che stiamo vivendo non sia solo la con­se­guenza del venir meno di quel patto di ver­tice, e dei par­titi che l’avevano sot­to­scritto, ma più in gene­rale dell’impoverirsi del tes­suto politico-sociale che ne aveva costi­tuito il con­te­sto. E se è pos­si­bile l’attacco che oggi si sca­tena con­tro la Costi­tu­zione è pro­prio per­ché la nostra società non è più “par­ti­giana”, ma pas­siva, pri­vata di sog­get­ti­vità, estra­nea alla poli­tica di cui non si sente più, e infatti non è più, pro­ta­go­ni­sta, chiusa nelle angu­stie dell’”io”, sem­pre meno par­te­cipe del destino dell’altro, lon­tana dal decli­nare il “noi”.

Non ci sarà esito posi­tivo agli sforzi che in molti, e da punti di par­tenza anche dif­fe­ren­ziati, vanno facendo per uscire dalla crisi della sini­stra se non riu­sci­remo a risu­sci­tare prima sog­get­ti­vità e senso di respon­sa­bi­lità col­let­tiva . Non riu­sci­remo nem­meno a sal­vare la Costi­tu­zione, e fini­remo anche per can­cel­lare la spe­ci­fi­cità della Resi­stenza ita­liana. Quell’attacco mira pro­prio ad impo­ve­rire l’idea stessa della demo­cra­zia che essa ci ha rega­lato, ridu­cen­dola a un insieme di regole e garan­zie for­mali e indi­vi­duali, non più ter­reno su cui sia pos­si­bile eser­ci­tare potere.

Stiamo attenti a come cele­briamo il 25 Aprile. Ber­lu­sconi, quando per una volta si degnò di par­te­ci­pare a una ini­zia­tiva per il 25 aprile — fu ad Onna, subito dopo il ter­re­moto d’Abruzzo — ebbe a dire che sarebbe stato meglio cam­biare il nome della festa: non più “della Libe­ra­zione”, ma “della Libertà”. Pro­po­sta fur­bis­sima: la sua dizione richiama infatti un valore astratto calato dal cielo, la nostra dà conto della sto­ria e rac­conta chi la libertà ce l’aveva tolta e cosa abbiamo dovuto fare per ricon­qui­starla. Se smar­riamo la sto­ria can­cel­liamo il ricordo delle squa­dracce fasci­ste al soldo degli agrari e dei padroni che bru­cia­rono le Camere del lavoro, la vio­lenza con­tro le orga­niz­za­zioni popo­lari; depen­niamo la Resi­stenza stessa e sopra­tutto il ruolo che ha avuto nel costruire un nuovo stato ita­liano democratico.

Rischiamo di dimen­ti­care che per man­te­nere la libertà c’è biso­gno di sal­va­guar­dare la Costi­tu­zione e per farlo di rico­struire una “società par­ti­giana” per l’oggi: uno scatto di sog­get­ti­vità, di assun­zione di respon­sa­bi­lità, un impe­gno poli­tico col­let­tivo, rimet­tere il “noi” prima dell’”io”.
Sapendo che oggi il “noi” si è estre­ma­mente dila­tato. Non è più quello di chi vive attorno al cam­pa­nile, e nem­meno den­tro i con­fini nazio­nali. Il mondo è entrato ormai nel nostro quo­ti­diano, lo stra­niero — e con lui la poli­tica estera — lo incon­triamo al super­mar­ket, all’angolo della strada, nella scuola dei nostri figli. La sua libertà vale la nostra, la nostra senza la sua non ha più senso. Per que­sto non è pen­sa­bile festeg­giare il 25 Aprile senza pale­sti­nesi e immi­grati, così come senza gli ebrei che da qual­che parte pati­scono tutt’ora l’antisemitismo. Non è debor­dare dal tema “Libe­ra­zione” sen­tirsi parte, vit­time e però anche respon­sa­bili, di tutti i disa­stri che afflig­gono oggi il mondo.

CATANIA: 25 Aprile 1945 – 25 Aprile 2015 La cittadinanza è invitata a partecipare al grande corteo popolare che si svolgerà il 25 Aprile 2015 con partenza alle ore 9.30 in Piazza Stesicoro.

anpi

25 Aprile 1945 – 25 Aprile 2015

Per una nuova Resistenza

Per difendere ed applicare la Costituzione

Per l’occupazione ed il lavoro

Per ripudiare la guerra

Nel 2015 ricorrono il 70° anniversario della Liberazione dal nazifascismo ed il 100° anniversario dell’”inutile massacro” (come è stato definito da Benedetto XV°) della I° guerra mondiale, che è stata dichiarata contro la volontà popolare, dei socialisti, di larga parte del mondo cattolico, degli operai e dei contadini. Si è trattato di un colpo di Stato favorito dalla monarchia, che ha precipitato l’Italia nell’orrore della guerra: Si aprirono così le porte all’avvento del fascismo, strumento del grande capitale e dei ceti medi in crisi.

Con la violenza delle squadre fasciste e dello Stato furono cancellate le organizzazioni operaie e le libertà di tutti, con la lotta partigiana è stato possibile costruire, attraverso la Costituzione repubblicana, un possibile riscatto degli strati popolari e la possibilità di una democrazia avanzata e partecipata.

Solo così abbiamo potuto battere l’obiettivo delle classi dominanti di cancellare le conquiste dei lavoratori ed il valore dell’antifascismo. Abbiamo eccidi, da Portella della Ginestra ai morti di Reggio Emilia, di Catania e Palermo, complotti e repressioni selvagge.

Tutto questo sembra ora ad un punto di svolta. Per legge ordinaria è stato violato l’articolo 1 della Costituzione con la cancellazione dello statuto dei lavoratori, l’articolo 33 che vieta il finanziamento pubblico delle scuole private e sbeffeggiato l’articolo 11 con gli interventi militari in Serbia, Iraq, Afghanistan ed in Libia.

Un governo, eletto da un Parlamento dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, opera per una profonda demolizione del dettato costituzionale, nella direzione di un’inaudita concentrazione dei poteri in ristrette oligarchie.

Occorre, nella ignavia di un Parlamento che accetta la sua eutanasia, organizzare una grande risposta popolare anche attraverso l’uso dello strumento referendario.

LA COSTITUZIONE NON SI TOCCA!

La demolizione delle strutture repubblicane, i progetti sulla forma dello Stato e del governo che sono in discussione rispondono al bisogno della finanza internazionale di spezzare il residuo potere delle coalizioni popolari e sindacali, dei lavoratori dipendenti ed autonomi, dei precari e dei senza lavoro.

Occorre difendere il salario, il controllo dei tempi di produzione e la pensione, tutto quello che è stato costruito con le lotte (dalla sanità alla scuola).

A questo il 25 aprile chiama e con questo chiama la memoria degli uomini e delle donne che per la Liberazione sono morti, quelli massacrati nelle due guerre mondiali, non solo quelli che giacciono nei cimiteri militari ma anche e soprattutto quelli che alla guerra cercarono di opporsi o di sfuggirne, i disertori, quelli fucilati nelle trincee dai regi carabinieri guidati da generali macellai.

La cittadinanza è invitata a partecipare al grande corteo popolare che si svolgerà il 25 Aprile 2015 con partenza alle ore 9.30 in Piazza Stesicoro.

ANPI COMITATO PROVINCIALE DI CATANIA

ANPI news 155

Su questo numero di ANPInews (in allegato):

 

 

APPUNTAMENTI

 

 

Conoscere la Costituzione. Formare alla cittadinanza“: il 19 marzo, a Cremona, giornata di studi con intervento del Presidente nazionale dell’ANPI, Carlo Smuraglia   

 

► “Milano capitale della Resistenza“: il 28 marzo, a Milano, convegno nazionale promosso dall’ANPI e dalla Fondazione Giuseppe Di Vittorio 

 

 

ARGOMENTI

 

Notazioni del Presidente Nazionale ANPI, Carlo Smuraglia:

 

Ho appreso dalla stampa la notizia della consegna di una medaglia, in una sala della Camera dei deputati, dove si trovavano anche il Presidente della Repubblica e la Presidente della Camera, ad un fascista della Repubblica di Salò (…)

 

Si è costituita, a Roma, presso la sede nazionale della FIOM quella che è stata definita come una “coalizione sociale”. L’ANPI è stata presente, avendo inviato alla riunione un suo dirigente, come “osservatore”(…)

 

Anpinews n.155 (1)

La rottamazione della democrazia Fonte: Micromega | Autore: Domenico Gallo

 

renzi-dittatura-510-2015

“Per liquidare i popoli si comincia con il privarli della memoria. Si distruggono i loro libri, la loro cultura, la loro storia. E qualcun altro scrive loro altri libri, li fornisce di un’altra cultura, inventa per loro un’altra storia. Dopo di che il popolo s’incomincia lentamente a dimenticare quello che è e quello che è stato. E il mondo intorno a lui lo dimentica ancora più in fretta!”.

Queste parole dello scrittore ceco Milan Kundera si attagliano in modo particolare al nostro Paese, dove da oltre 20 anni è in corso un processo di liquidazione della memoria che in questo tempo contorto si è trasformato in un vero e proprio uragano e si appresta a cogliere la sua vittoria definitiva attraverso una incisiva controriforma della democrazia costituzionale attuata mediante l’interazione fra la riforma elettorale e la revisione della Costituzione.

Nelle Costituzioni c’è la memoria storica dei popoli. Nella Costituzione italiana c’è la memoria del risorgimento e della Repubblica romana, c’è la memoria delle conquiste liberali, c’è la memoria delle contraddizioni e dei limiti dello Stato monarchico che portarono all’avvento del fascismo, c’è la memoria delle nefandezze del fascismo, che sono state ripudiate, c’è la testimonianza viva della passione e delle speranze della lotta di liberazione, che incarnano il lascito della Resistenza.

“Dietro ogni articolo di questa Costituzione, – diceva Calamandrei nel famoso discorso agli studenti il 25/1/1955 – o giovani, voi dovete vedere giovani come voi caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, cha hanno dato la vita perché libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta”.

Mettere mano alla Costituzione significa confrontarsi con quel patrimonio di beni pubblici repubblicani che ci è stato tramandato dalle generazioni passate, come testamento di centomila morti, perché noi lo curassimo, lo mettessimo a frutto e lo consegnassimo, a nostra volta, alle generazioni future. Ebbene, in quel patrimonio, la giustizia, l’eguaglianza, la dignità umana non sono solo rivendicate, ma sono istituite e garantite attraverso una trama istituzionale che le rende resistenti alle insidie e alle sfide del tempo.

Se i principi fondamentali della Costituzione sono antitetici rispetto a quelli proclamati o praticati dal fascismo, tuttavia è l’architettura del sistema istituzionale che fa la differenza ed impedisce che, ove mai giungano al governo forze politiche caratterizzate da cultura o aspirazioni antidemocratiche (è proprio quello che si è verificato nel corso degli ultimi vent’anni in Italia), queste forze possano realizzare una trasformazione autoritaria delle istituzioni, aggredendo il pluralismo istituzionale o l’eguaglianza e i diritti fondamentali.

La Costituzione ha insediato la libertà che ci è stata donata dalla Resistenza, rendendo impossibile ogni forma di “dittatura della maggioranza”. Proprio per questo negli ultimi venti anni da un vasto arco di forze politiche la Costituzione è stata vissuta come un impaccio, come una serie di fastidiosi vincoli, di cui sbarazzarsi per restaurare l’onnipotenza della politica.

Quale sia il modello di ordinamento a cui puntano le forze politiche che, ormai da un ventennio si avvicendano al Governo del Paese, ce l’ha detto Silvio Berlusconi con la consueta franchezza che lo contraddistingue. Qualche anno fa, nel corso di un dibattito pubblico alla presentazione di un libro di Bruno Vespa sui precedenti Presidenti del Consiglio, Berlusconi dichiarò testualmente: “Tra tutti gli uomini di cui si parla in questo libro, c’è un solo uomo di potere, ed è Mussolini. Tutti gli altri, poteri, non ne hanno, hanno solo guai. Credo che se non cambiamo l’architettura della Repubblica non avremo mai un premier in grado di decidere, di dare modernità e sviluppo al Paese” (Corriere della Sera, 12 dicembre 2007).

Col tramonto di Berlusconi non è tramontata la sua concezione delle istituzioni e la politica ha continuato a perseguire l’obiettivo di demolire l’architettura dei poteri pubblici come configurata dalla Costituzione, cioè il pluralismo istituzionale ed il sistema dei pesi e contrappesi, per concentrare i poteri supremi di direzione della politica nazionale nelle mani di un unico decisore politico. Oggi si è messa in moto una grande macchina mediatica che vuole farci accettare l’idea che l’abolizione del Senato o la sua trasformazione in una sorta di Conferenza Stato-Regioni sia un grande risultato per la democrazia italiana e che le elezioni siano una sorta di lotteria popolare che serve per investire un capo politico del potere di governare e legiferare senza limite alcuno. Dobbiamo dirlo chiaro e forte!

Se finora abbiamo conservato la libertà, se il percorso politico verso la dittatura della maggioranza non è riuscito a quelle forze politiche che avevano come modello l’architettura istituzionale realizzata da Mussolini, questo è avvenuto perché hanno resistito le garanzie che saggiamente i Padri costituenti hanno posto a presidio della libertà.

Ha resistito la Corte Costituzionale, ha resistito, salvo che negli ultimi anni, la garanzia politica incarnata dal ruolo del Presidente della Repubblica, ha resistito il sistema dell’indipendenza della magistratura che ha svolto una funzione di argine agli abusi dei leaders politici, ha resistito, malgrado le distorsioni a cui è stato sottoposto, il pluralismo nell’informazione, mentre il sistema del bicameralismo, pur in presenza di un Parlamento nel quale è stata annichilita la rappresentanza, ha consentito di rallentare e rendere più meditata la decisione politica, dando la possibilità alla società civile di interloquire con i suoi rappresentanti istituzionali per correggere le scelte più inaccettabili.

Proprio l’esperienza storica di questi ultimi anni ci ha insegnato che, se non vi fosse stato il bicameralismo, sarebbero divenuti legge progetti folli, approvati da un ramo del Parlamento, come l’espulsione di migliaia di fanciulli dalle scuole italiane, come il c.d. “processo breve” che consegnava la resa dello Stato alla mafia, o la c.d. legge bavaglio, che disarmava la polizia e la magistratura dei mezzi di investigazione moderni, aprendo la strada all’impunità.

Dopo che la Corte Costituzionale ha dato il massimo contributo possibile alla difesa della democrazia nel nostro paese, cancellando gli istituti più ingiuriosi (per i diritti politici dei cittadini) del porcellum, viene riproposta una nuova legge elettorale che va in direzione ostinatamente contraria alla Costituzione italiana e alla coraggiosa sentenza della Corte Costituzionale ed è perfino peggiorativa del porcellum perché recupera una innovazione introdotta da una legge del 1923, il premio di maggioranza alla lista più votata, che consentì ad un unico partito di controllare insieme il Parlamento ed il Governo, realizzando il massimo della governabilità con i risultati che tutti noi conosciamo.

L’impostazione antitotalitaria della Costituzione del 1948 nasce dalle dure lezioni della storia ed è dissennato considerarla obsoleta, solo perche le esperienze totalitarie del 900 sono tramontate. Consegnare il controllo del parlamento e del governo nelle mani di un unico partito o di un unico capo politico, ci consente di conservare la libertà solo a patto che sia virtuoso il soggetto politico a cui conferiamo tali prerogative. Ma l’esperienza della nostra storia recente dovrebbe farci dubitare della virtuosità dei soggetti politici in campo. Abbiamo dimenticato che soltanto qualche anno fa a un ministro della difesa, intervenendo alla cerimonia dell’8 settembre, in ricordo dei caduti per la difesa della città di Roma, gli scappò di fare l’elegio dei combattenti della Repubblica di Salò? Abbiamo dimenticato che soltanto pochi giorni fa un leader politico che, come avveniva in Germania negli anni 30 del secolo scorso, ha trovato negli stranieri il capro espiatorio della crisi, ha riunito le sue truppe, fra un tripudio di croci celtiche e di saluti romani?

Per quale motivo noi dobbiamo rimuovere le valvole di sicurezza che tutelano l’edificio della democrazia e consegnare le chiavi della nostra libertà nelle mani del soggetto politico minoritario che riceverà l’investitura popolare?

Come ha scritto Gustavo Zagrebelsky, noi: “sommessamente ma tenacemente continuiamo a pensare, con i nostri Costituenti, che la buona politica richieda più, non meno, democrazia, cioè più partecipazione e meno oligarchia, più aperture e meno chiusure ai bisogni sociali: i bisogni di chi meno conta nella società e perciò più ha diritto di contare nelle istituzioni”.

Toglieteci tutto, ma non la democrazia!

Salario minimo, meglio attuare la Costituzione Fonte rassegna

 

“Dando attuazione all’articolo 39 della Costituzione, che prevede la possibilità che venga estesa a tutti la cogenza del minimo contrattuale, avremmo la certezza della tutela dei lavoratori con minimi sensibilmente più alti rispetto a quelli ipotizzati e, comunque, determinati dalla contrattazione”. Lo ha affermato il segretario confederale della Cgil, Fabrizio Solari, intervenendo oggi a Radio Anch’io in merito all’ipotesi dell’introduzione, tra i prossimi decreti del Jobs Act, di un salario minimo.

Il dirigente sindacale ha sottolineato come “la spiegazione da parte del governo dei provvedimenti intorno al Jobs Act sembra un format: si continuano a propagandare misure che sembra abbiano l’aspetto di essere inclusive, di allargare i diritti e di migliorare la condizione delle persone”. Quando in realtà, in questo caso, la preoccupazione della Cgil, espressa ieri dal segretario generale Susanna Camusso, è che “attraverso il salario minimo si finisca per pagare meno i lavoratori”.

Per Solari, inoltre, “in Italia, a differenza di altri paesi europei , esiste un istituto che si chiama contratto nazionale di lavoro. Questo oggi ha minimi più alti di quelli di cui si discute. Questa è la realtà. Il tema dovrebbe essere quindi di dare attuazione all’articolo 39 della Costituzione”. Da qui un esempio: “Se oggi un lavoratore dipendente di un’azienda che non fa parte di un’associazione imprenditoriale che ha firmato contratti, quel lavoratore non ha la certezza del diritto, se non attraverso una eventuale sentenza favorevole, dell’applicazione del contratto nazionale. Ecco perché bisogna dare attuazione all’articolo 39, per questa via non ci sarebbe bisogno di alcun intervento legislativo e, soprattutto, per avere un minimo contrattuale più alto di quello ipotizzato”, ha concluso Solari

La rottamazione della democrazia da: micromega


di Domenico Gallo

“Per liquidare i popoli si comincia con il privarli della memoria. Si distruggono i loro libri, la loro cultura, la loro storia. E qualcun altro scrive loro altri libri, li fornisce di un’altra cultura, inventa per loro un’altra storia. Dopo di che il popolo s’incomincia lentamente a dimenticare quello che è e quello che è stato. E il mondo intorno a lui lo dimentica ancora più in fretta!”.

Queste parole dello scrittore ceco Milan Kundera si attagliano in modo particolare al nostro Paese, dove da oltre 20 anni è in corso un processo di liquidazione della memoria che in questo tempo contorto si è trasformato in un vero e proprio uragano e si appresta a cogliere la sua vittoria definitiva attraverso una incisiva controriforma della democrazia costituzionale attuata mediante l’interazione fra la riforma elettorale e la revisione della Costituzione.

Nelle Costituzioni c’è la memoria storica dei popoli. Nella Costituzione italiana c’è la memoria del risorgimento e della Repubblica romana, c’è la memoria delle conquiste liberali, c’è la memoria delle contraddizioni e dei limiti dello Stato monarchico che portarono all’avvento del fascismo, c’è la memoria delle nefandezze del fascismo, che sono state ripudiate, c’è la testimonianza viva della passione e delle speranze della lotta di liberazione, che incarnano il lascito della Resistenza.

“Dietro ogni articolo di questa Costituzione, – diceva Calamandrei nel famoso discorso agli studenti il 25/1/1955 – o giovani, voi dovete vedere giovani come voi caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, cha hanno dato la vita perché libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta”.

Mettere mano alla Costituzione significa confrontarsi con quel patrimonio di beni pubblici repubblicani che ci è stato tramandato dalle generazioni passate, come testamento di centomila morti, perché noi lo curassimo, lo mettessimo a frutto e lo consegnassimo, a nostra volta, alle generazioni future. Ebbene, in quel patrimonio, la giustizia, l’eguaglianza, la dignità umana non sono solo rivendicate, ma sono istituite e garantite attraverso una trama istituzionale che le rende resistenti alle insidie e alle sfide del tempo.

Se i principi fondamentali della Costituzione sono antitetici rispetto a quelli proclamati o praticati dal fascismo, tuttavia è l’architettura del sistema istituzionale che fa la differenza ed impedisce che, ove mai giungano al governo forze politiche caratterizzate da cultura o aspirazioni antidemocratiche (è proprio quello che si è verificato nel corso degli ultimi vent’anni in Italia), queste forze possano realizzare una trasformazione autoritaria delle istituzioni, aggredendo il pluralismo istituzionale o l’eguaglianza e i diritti fondamentali.

La Costituzione ha insediato la libertà che ci è stata donata dalla Resistenza, rendendo impossibile ogni forma di “dittatura della maggioranza”. Proprio per questo negli ultimi venti anni da un vasto arco di forze politiche la Costituzione è stata vissuta come un impaccio, come una serie di fastidiosi vincoli, di cui sbarazzarsi per restaurare l’onnipotenza della politica.

Quale sia il modello di ordinamento a cui puntano le forze politiche che, ormai da un ventennio si avvicendano al Governo del Paese, ce l’ha detto Silvio Berlusconi con la consueta franchezza che lo contraddistingue. Qualche anno fa, nel corso di un dibattito pubblico alla presentazione di un libro di Bruno Vespa sui precedenti Presidenti del Consiglio, Berlusconi dichiarò testualmente: “Tra tutti gli uomini di cui si parla in questo libro, c’è un solo uomo di potere, ed è Mussolini. Tutti gli altri, poteri, non ne hanno, hanno solo guai. Credo che se non cambiamo l’architettura della Repubblica non avremo mai un premier in grado di decidere, di dare modernità e sviluppo al Paese” (Corriere della Sera, 12 dicembre 2007).

Col tramonto di Berlusconi non è tramontata la sua concezione delle istituzioni e la politica ha continuato a perseguire l’obiettivo di demolire l’architettura dei poteri pubblici come configurata dalla Costituzione, cioè il pluralismo istituzionale ed il sistema dei pesi e contrappesi, per concentrare i poteri supremi di direzione della politica nazionale nelle mani di un unico decisore politico. Oggi si è messa in moto una grande macchina mediatica che vuole farci accettare l’idea che l’abolizione del Senato o la sua trasformazione in una sorta di Conferenza Stato-Regioni sia un grande risultato per la democrazia italiana e che le elezioni siano una sorta di lotteria popolare che serve per investire un capo politico del potere di governare e legiferare senza limite alcuno. Dobbiamo dirlo chiaro e forte!

Se finora abbiamo conservato la libertà, se il percorso politico verso la dittatura della maggioranza non è riuscito a quelle forze politiche che avevano come modello l’architettura istituzionale realizzata da Mussolini, questo è avvenuto perché hanno resistito le garanzie che saggiamente i Padri costituenti hanno posto a presidio della libertà.

Ha resistito la Corte Costituzionale, ha resistito, salvo che negli ultimi anni, la garanzia politica incarnata dal ruolo del Presidente della Repubblica, ha resistito il sistema dell’indipendenza della magistratura che ha svolto una funzione di argine agli abusi dei leaders politici, ha resistito, malgrado le distorsioni a cui è stato sottoposto, il pluralismo nell’informazione, mentre il sistema del bicameralismo, pur in presenza di un Parlamento nel quale è stata annichilita la rappresentanza, ha consentito di rallentare e rendere più meditata la decisione politica, dando la possibilità alla società civile di interloquire con i suoi rappresentanti istituzionali per correggere le scelte più inaccettabili.

Proprio l’esperienza storica di questi ultimi anni ci ha insegnato che, se non vi fosse stato il bicameralismo, sarebbero divenuti legge progetti folli, approvati da un ramo del Parlamento, come l’espulsione di migliaia di fanciulli dalle scuole italiane, come il c.d. “processo breve” che consegnava la resa dello Stato alla mafia, o la c.d. legge bavaglio, che disarmava la polizia e la magistratura dei mezzi di investigazione moderni, aprendo la strada all’impunità.

Dopo che la Corte Costituzionale ha dato il massimo contributo possibile alla difesa della democrazia nel nostro paese, cancellando gli istituti più ingiuriosi (per i diritti politici dei cittadini) del porcellum, viene riproposta una nuova legge elettorale che va in direzione ostinatamente contraria alla Costituzione italiana e alla coraggiosa sentenza della Corte Costituzionale ed è perfino peggiorativa del porcellum perché recupera una innovazione introdotta da una legge del 1923, il premio di maggioranza alla lista più votata, che consentì ad un unico partito di controllare insieme il Parlamento ed il Governo, realizzando il massimo della governabilità con i risultati che tutti noi conosciamo.

L’impostazione antitotalitaria della Costituzione del 1948 nasce dalle dure lezioni della storia ed è dissennato considerarla obsoleta, solo perche le esperienze totalitarie del 900 sono tramontate. Consegnare il controllo del parlamento e del governo nelle mani di un unico partito o di un unico capo politico, ci consente di conservare la libertà solo a patto che sia virtuoso il soggetto politico a cui conferiamo tali prerogative. Ma l’esperienza della nostra storia recente dovrebbe farci dubitare della virtuosità dei soggetti politici in campo. Abbiamo dimenticato che soltanto qualche anno fa a un ministro della difesa, intervenendo alla cerimonia dell’8 settembre, in ricordo dei caduti per la difesa della città di Roma, gli scappò di fare l’elegio dei combattenti della Repubblica di Salò? Abbiamo dimenticato che soltanto pochi giorni fa un leader politico che, come avveniva in Germania negli anni 30 del secolo scorso, ha trovato negli stranieri il capro espiatorio della crisi, ha riunito le sue truppe, fra un tripudio di croci celtiche e di saluti romani?

Per quale motivo noi dobbiamo rimuovere le valvole di sicurezza che tutelano l’edificio della democrazia e consegnare le chiavi della nostra libertà nelle mani del soggetto politico minoritario che riceverà l’investitura popolare?

Come ha scritto Gustavo Zagrebelsky, noi: “sommessamente ma tenacemente continuiamo a pensare, con i nostri Costituenti, che la buona politica richieda più, non meno, democrazia, cioè più partecipazione e meno oligarchia, più aperture e meno chiusure ai bisogni sociali: i bisogni di chi meno conta nella società e perciò più ha diritto di contare nelle istituzioni”.

Toglieteci tutto, ma non la democrazia!

(10 marzo 2015)

Riunione per organizzare il 25 Aprile

Il 18 marzo alle ore 18 presso salone CGIL via Crociferi n.40
 Riunione con tutte le associazioni, movimenti, partiti e sindacati per organizzare manifestazioni per il 25 Aprile e nuove iniziative perla difesa della Costituzione e della Democrazia.
Cordiali saluti
santina sconza