La Costituzione di Ettore Gallo da: libertàgiustizia

 

10 marzo 2014

 

Ubaldo Nannucci

 

 

gallo2Che a Matteo Renzi non importi nulla della Costituzione credo che tutti lo abbiano capito. Nei suoi  alluvionali discorsi, non ricordo di avergli mai sentito fare un cenno  a questa legge. La soppressione sic et simpliciter del senato, annunciata trionfalmente ai senatori,  riuniti per ascoltarlo, è un segnale del garbo con cui il nuovo leader democratico affronta le questioni costituzionali.

 

V’è qualche motivo di pensare, che anche il suo ispiratore in materia di riforme, il prof. Roberto D’Alimonte, non ne abbia gran considerazione. Il dubbio viene fortemente avvalorato dall’intervista che il politologo ha rilasciato a Simona Poli di Repubblica, pubblicata in data 8 marzo 2014. La riforma elettorale per la sola Camera, vista con malcelata ammirazione dal professore,  – “zio” dell’Italicum  come lui si definisce –  costituisce la prova del grande intuito che il premier sta dimostrando, perché “approvando una riforma disfunzionale Renzi crea una situazione impossibile che va sanata. Come? Riformando il Senato”. Il professore non dice come il Senato andrebbe riformato. Ma sappiamo qual è la riforma progettata  dal pupillo: l’eliminazione.

 

La ragione sostanziale di questa abolizione è apertamente confessata.  Concentrare il potere, tutto il potere, nelle mani di una Camera sola. Il sistema elettorale metterà poi capo a qualche ulteriore piccolo accorgimento. Dovrà consentire, al termine delle votazioni, che si sappia subito chi governerà per i prossimi cinque anni; senza essere condizionato – grazie al premio di maggioranza che assicurerà  al vincitore una padronanza parlamentare  assoluta – dalle petulanti obiezioni delle formazioni politiche minori, che, o si acconceranno ad inchinarsi ossequiosamente al capo, o saranno solo uno starnazzar di galline.

 

Per il momento, l’unico effetto che l’abbraccio del partito democratico con il capo di Forza Italia ha prodotto, è l’aver restituito questo partito la maggioranza delle adesioni, secondo i sondaggi. La cosa, visti i buoni rapporti, non impensierisce il premier.

 

Ma l’aspetto davvero singolare è un altro. Ed è che, chiunque vinca, per cinque anni la democrazia sarà sospesa, e il paese sarà governato da un uomo solo al comando, senza contrappesi capaci di contenere le sue scelte. Perché, appunto, il senato non c’è più.

 

Quanto dire una forma di potere autoritario, istituzionalizzato in modo assai più totalizzante di quello che abbiamo sperimentato nell’ultimo ventennio, fondato, in fin dei conti, solo sulla supremazia economica e mediatica. Si sa bene poi quali saranno le riforme che per prime parranno urgenti: quelle sulla giustizia, ovviamente, secondo gli appetiti mai spenti…

 

Con profonda tristezza, rileggiamo quanto Ettore Gallo, partigiano, magistrato e  presidente della Corte Costituzionale , in una celebre orazione all’ANPI, spiegò che cosa significava, avere scritto quell’articolo 138:
… due sono le garanzie che stanno a baluardo della Costituzione: la Corte Costituzionale, innanzitutto, che ha il compito di annullare tutte le leggi che non sono conformi ai principi costituzionali, e di dirimere tutti i conflitti che possono sorgere fra i poteri dello Stato, fra lo Stato e le regioni o fra le Regioni stesse.
Spetta alla Corte anche giudicare dei delitti di alto tradimento o di attentato alla Costituzione che dovessero essere commessi dal Presidente della Repubblica, sempre che il Parlamento ritenga di porlo in stato di accusa. Con quest’ultima sua competenza la Corte  garantisce il Paese da teoriche vocazioni autoritarie del Capo dello Stato che soggiacesse alla tentazione di violare la Costituzione.
La seconda garanzia è nella sezione II, ed è rappresentata dall’ormai famoso articolo 138. Un articolo che, fino a qualche settimana fa, era conosciuto soltanto dagli addetti ai lavori, e che ora è quasi sulla bocca di tutti. Un articolo che qualcuno ha proposto di neutralizzare perché rende lunghe e difficoltose le modifiche della Costituzione; e così è, infatti, proprio perché i padri costituenti hanno voluto impedire che il legislatore ordinario, a suo piacimento, con la stessa facilità con cui legifera sul prezzo del gas, potesse togliere di mezzo principi costituzionali che il popolo si è guadagnato col suo sangue e con i suoi lutti. E allora hanno voluto che, per procedere alla revisione della Costituzione, ciascuna Camera dovesse adottare la modifica con due successive votazioni, frapponendo tra le due un intervallo non minore di tre mesi, e che la modifica per essere approvata dovesse ricevere i voti della maggioranza assoluta dei componenti delle due Camere. Capito? “dei componenti”, non dei votanti!
Ma non basta! Se poi, entro tre mesi dalla pubblicazione della modifica, un quinto dei membri di una delle Camere, oppure cinquecentomila elettori, oppure cinque Consigli regionali ne fanno domanda, la modifica stessa dev’essere sottoposta a referendum popolare. Solo se essa fosse stata approvata, in seconda votazione, a maggioranza di due terzi dei membri di ciascuna Camera, anziché – come si è detto – a semplice maggioranza assoluta, solo in tal caso non si potrebbe far luogo a referendum,.
Come vedete, i fondatori della Costituzione hanno preteso che, prima di modificarla,  deputati, senatori e popolo ci riflettessero bene, perché si tratta della procedura che ci garantisce da colpi di mano anche sui nostri diritti più gelosi, quali quelli dell’uguaglianza e delle libertà. …
Perciò è evidente che il tentativo d’indebolire questa procedura, o accorciando i tempi, o diminuendo i quorum necessari per l’approvazione, o inserendo altre gherminelle, sono tutti tentativi che mirano a indebolire la garanzia dei nostri diritti più sacri, e della stessa nostra Costituzione…

 

Ettore Gallo non c’è più.  Tocca a noi difendere i principi, per i quali egli visse, e tanti si sacrificarono.

“I partiti hanno padroni. Non interiorizziamo la sindrome”. Intervento di Valentino Parlato Fonte: www.fondazione pintor.net | Autore: valentino parlato

 

C’è un vasto consenso, pressoché totale, nell’affermare che siamo in una crisi mondiale di straordinaria gravità, che, a mio parere si concentra nel mondo occidentale: Europa ed Usa; nella parte capitalisticamente più avanzata del nostro mondo. Un po’ per ricordi del ginnasio mi viene da pensare alla fine dell’impero romano, che si protrasse per secoli e non fu la fine del mondo.

Queste mie considerazioni potranno apparire eccessive, ma insisto. Richiamo sommariamente l’attenzione dei lettori su alcuni fenomeni: riduzione del numero dei lavoratori salariati e anche degli imprenditori classici, crescita dei servizi, finanziarizzazione (fare denaro col denaro senza merci e lavoro), diffusione di un ceto medio anonimo. Aggiungerei cambiamenti vistosi della lotta di classe come l’abbiamo conosciuta. Lo scontro continua ma in forme un po’ sotterranee e con un forte e sostanziale indebolimento del mondo del lavoro salariato ridotto numericamente e abbastanza disperso. Ma, attenzione, lo sfruttamento continua e si aggrava e si giova, come nel passato, del sostegno del pur indebolito potere politico e di infiniti giochi di favoritismi spesso al singolo imprenditore, favori con i quali i governanti cercano di rafforzarsi. Inoltre questa crisi, aiutata anche dai progressi tecnici, sta liquidando stampa ed editoria, la parola scritta su carta. Lo si vede nei giornali, nei libri: non si pubblicano quasi più quei romanzi di formazione che leggevamo da giovani.

Ma il punto sul quale vorrei concentrare l’attenzione dei possibili lettori è la crisi dei partiti politici, trasformati, indeboliti e pressoché scomparsi o sotto padrone. E’ così in tutta Europa. Cerchiamo di ricordare a noi e ai giovani che cosa erano una volta i partiti politici, grandi o piccoli che fossero.

I partiti del passato avevano gli iscritti con tessera, erano organizzati in sezioni territoriali dove i militanti si riunivano per discutere di quel che accadeva nel paese e all’estero, facevano congressi, discutevano e approvavano il programma, eleggevano il gruppo dirigente e il segretario nazionale. Facevano congressi con accanite e serie discussioni sul che fare e su chi candidare al Parlamento. Non c’era l’eletto del Signore. Da una selezione democratica, talvolta anche aspra, siamo passati ai plebisciti, ai quali con l’invenzione delle primarie, partecipano anche i non iscritti. Il partito di Grillo ha un po’ di guai, ma il grillismo dilaga.

Provo a tentare una conclusione. Innanzitutto l’attuale gravissima crisi dei partiti è conseguenza diretta della attuale crisi mondiale, una crisi strutturale. Dovrebbe essere nostro obbligo individuare per quali vie la crisi generale si è abbattuta sui partiti aggravandosi. Ma ancora prima, riuscire a fare luce sulla attuale catastrofe economica, sociale, culturale e politica. L’attuale crisi economica – è sotto gli occhi di tutti – sta portando a una concentrazione dei ricchi e super ricchi, ad un impoverimento diffuso, che colpisce soprattutto i giovani arrivati in campo quando la partita era già stata vinta dai grandi ricchi. Bisogna studiare accanitamente questa crisi in tutti i suoi aspetti e sulla base di questo studio ricostruire un partito di sinistra, in ogni modo un movimento organizzato che, come i partiti comunisti, stia dalla parte di coloro, una massa, che sono solo poveri.

Studiare, non dimentichiamo che senza gli studi di Marx la sinistra non avrebbe mai avuto quel potere e quella forza di persuasione che pure ha avuto nel nostro passato.

Ripeto: siamo in una crisi profonda, di lungo periodo e che può concludersi con una sconfitta storica di quello che ancora chiamiamo il mondo del lavoro. Per resistere e sopravvivere ci vuole la forza, ci vuole un partito. Alla costruzione di questo nuovo partito dobbiamo lavorare: studiando la realtà presente e individuando obiettivi realizzabili, anche di medio periodo. E’ la sfida alla quale siamo obbligati a rispondere, pena un lungo periodo di servitù.

Lettera ai comunisti francesi Autore: Pierre Laurent da: controlacrisi.org

In Italia è assai scarsa l’informazione sui partiti aderenti al Partito della Sinistra Europea che ha candidato Alexis Tsipras. Ci sembra utile proporvi la traduzione della lettera che Pierre Laurent, segretario del Partito Comunista Francese e Presidente della Sinistra Europea, ha indirizzato agli iscritti del suo partito in vista delle elezioni amministrative e europee.

La mia lettera ai comunisti

La motivazione che spinge a scriverti oggi, a te come a tutti gli iscritti e le iscritte al nostro partito, è perché quello che vivremo nelle prossime settimane sarà un momento politico cruciale. E sono certo che noi possiamo giocare un ruolo fondamentale.
Se la mia lettera risulterà un po’ lunga me ne scuso, ma le questioni relative a questa fase sono decisive. Spero che ti prenderai il tempo di leggerla tutta con attenzione, così potrai capire le ragioni eccezionali di questa mia scelta.
I tre mesi che ci stiamo preparando ad affrontare saranno particolarmente intensi. Tra due settimane si svolgeranno le elezioni amministrative, mentre tra tre mesi avranno luogo quelle europee. Nel frattempo, Francois Hollande ha deciso per un rimpasto di governo che gli permetterà di adottare il patto di “responsabilità” firmato insieme al Medef.
Questo, quando nel paese sono sempre più diffuse le disuguaglianze sociali e la disoccupazione, rappresenterebbe un ennesimo regalo al padronato, grazie ad una riduzione dei livelli salariali, il taglio dei servizi pubblici e delle tutele sociali.
Questo rappresenta anche una rinuncia del governo socialista che volta le spalle alle aspettative e le speranze del popolo di sinistra, lasciando che la destra e l’estrema destra approfittino appieno della situazione.
Non possiamo permetterci di lasciar correre, soprattutto considerando il fatto che la maggioranza delle persone che, nel 2012, hanno sperato in un vero cambiamento non si riconoscono in questa politica. E’ il momento di rilanciare una mobilitazione popolare di massa.
Questo ci impone di essere parte di questa grande mobilitazione, ma io credo anche che dovremmo essere capaci di essere promotori di una grande campagna di resistenza alle politiche di austerità e, nel frattempo, essere protagonisti di un processo di rilancio di un soggetto politico della sinistra di alternativa.
Con questa prospettiva, le elezioni amministrative rappresentano un primo momento fondamentale. Fin dal primo giorno, i due obbiettivi del Partito Comunista sono stati chiari: impedire alla destra e alla destra estrema di realizzare i loro sogni nazionalisti, fornendo i comuni di maggioranze di sinistra o, comunque, del maggior numero di eletti comunisti o del Front de Gauche possibili. In questo modo, potremo costituire un’opposizione efficace all’austerità e promuovere politiche pubbliche di giustizia sociale, anche a livello locale.
Di fronte ad una destra revanscista e ad un governo imbrigliato nelle sue involuzioni e nelle sue rinunce, è necessario dare un segnale forte a sinistra, difendere la necessità di impegni chiari in favore della comunità, il bisogno di servizi pubblici e di democrazia locale. Noi abbiamo perseguito questo scopo, lavorando in ogni comune, creando delle alleanze per il primo turno elettorale, a partire dal bilancio dell’azione amministrativa e dai rapporti di forza esistenti a livello locale, con lo scopo comune di permettere, al secondo turno, un’aggregazione di tutte le forze di sinistra.
Il lavoro che abbiamo fatto fino ad oggi è notevole e grazie ai nostri sforzi possiamo nutrire forti speranze di riuscita. Presentiamo candidati comunisti e del Front de Gauche in più di 7500 comuni con più di 1000 abitanti, senza contare i numerosi candidati nei comuni più piccoli. Siamo in grado di rieleggere i nostri Sindaci, riconquistare grandi città come Aubervilliers e Montreuil ed aumentare il numero dei nostri eletti su tutto il territorio nazionale.
In oltre 30 comuni con più di 3500 abitanti i comunisti, accanto ai cittadini ed alle altre forze della sinistra, sono impegnati in una campagna elettorale che può risultare vittoriosa. Questo è verosoprattutto in città come Le Havre, Calais, Corbeil Essonne, Sète, Ales, Bolbec a La Ciotat,Romilly-sur-Seine, Thiers, Sartene …
Tutto questo lavoro, anche se ha causato un acceso dibattito in seno al Front de Gauche, alla fine risulterà vantaggioso anche per il Front, che vedrà crescere le basi del suo consenso e rafforzare il suo radicamento. Il nostro paese, il mondo del lavoro e tutti quei cittadini che in questi anni si sono sentiti persi e abbandonati a loro stessi, hanno bisogno di una forza politica vicina ai loro bisogni, radicata nella loro vita quotidiana e nei loro territori. Gli ultimi giorni di questa campagna elettorale si annunciano quindi decisivi per i nostri obiettivi. Per questo è necessario impegnare tutte le nostre forze in questa battaglia. So che i comunisti si sono già mobilitati ampiamente, ma ti chiedo, come a tutti, di aumentare ancora il nostro impegno fino all’ultimo giorno.
Ora voglio invece parlare della battaglia che dobbiamo intraprendere per sconfiggere il “patto di responsabilità”, espressione di quelle politiche d’austerità che affliggono sia la Francia che l’Europa. La lotta è tutt’altro che finita, anzi al contrario è appena cominciata.
Il Presidente della Repubblica non può contare su una maggioranza popolare per sostenere questo patto, firmato con il Medef, ad esclusivo beneficio del padronato e per la cui applicazione il Governo tenta di imporre un marcia forzata anche contro i suoi stessi interessi.
Gli oppositori aumentano ogni giorno di più, tra le fila del Front de Gauche ovviamente, ma anche tra i verdi e nel Partito Socialista. Un quarto della direzione del Partito Socialista ha sottoscritto una dichiarazione pubblica in cui si denunciano le basi su cui il patto è stato sottoscritto.
Le correnti di sinistra del Partito Socialista, “Un monde d’avance” e “Maintenant la gauche”, hanno votato contro il documento, chiamato “Applicazione del Patto di responsabilità”, presentato dalla maggioranza della direzione del PS, evidenziando la loro contrarietà e denunciando la “nocività delle politiche di austerità”. Nel mondo sindacale, la CGT, il FO e la FSU, rifiutano questo patto e molte altre confederazioni sindacali hanno espresso forti dubbi in merito. Questa a dimostrazione del fatto che un certo fronte del dissenso nei riguardi di questo patto esiste, a questo punto sta noi intercettarlo ed organizzarlo. Se riusciremo ad avere successo abbiamo buone possibilità di sconfiggere questo “patto di irresponsabilità”.
Questa campagna è già costituita da due appuntamenti fondamentali. Il primo dei quali avrà luogo il prossimo 18 marzo, quando si terrà una grande mobilitazione voluta dai sindacati. Dopo alcune giornate di azioni separate, la maggioranza dei sindacati hanno, infatti, deciso per una mobilitazione unitaria. Noi dobbiamo lavorare per la buona riuscita di questa giornata, che segnerà un momento importante per la costituzione di un forte movimento sociale di opposizione.
Da parte nostra, insieme al Front de Gauche, abbiamo lanciato un appello per una giornata di mobilitazione contro l’austerità, che si terrà il 12 aprile a Parigi e che avrà come denominatore comune lo slogan “il troppo stroppia, marciamo contro l’austerità”. Un appello sottoscritto da numerosi dirigenti politici, sindacali e del mondo dell’associazionismo, sarà reso pubblico la prossima settimana. Molte sono le organizzazioni che stanno prendendo in considerazione l’adesione a questa iniziativa. La stessa CGT, da sempre concentrata sul terreno delle rivendicazioni sindacali, ha accolto con interesse questa iniziativa e guarda con favore alla capacità di mobilitazione che la sinistra sta mettendo in campo.
Dobbiamo impegnarci in tutto il paese per promuovere questa giornata di mobilitazione, che può rappresentare il risveglio della sinistra che si oppone alle scelte di austerità di Francois Hollande.
Un altro appuntamento cruciale che dovremo affrontare in questo periodo sarà la campagna elettorale per le elezioni europee. Aperta dalla grande mobilitazione del 12 aprile prossimo, la nostra campagna sarà coerente con la lotta contro il “patto di responsabilità”. Questi i suoi punti fondamentali: no all’austerità ed al dumping sociale in Francia come in Europa, no al mercato transatlantico (GMT), si ad un’Europa democratica fondata sulla solidarietà.
Contro la tentazione di lasciarsi andare al nazionalismo e alla xenofobia promosse dal Fronte Nazionale, noi rappresenteremo una Francia attiva nella creazione di Fronti europei di solidarietà capaci di ricostruire un’Europa veramente unita. Vogliamo creare, in tutti i collegi elettorali, delle liste del Front de Gauche in grado di guidare una compagine di sinistra che sappia portare avanti la battaglia contro l’austerità. Candidando alla presidenza della Commissione Europea, il nostro compagno greco, Alexis Tsiras, leader di SYRIZA, abbiamo la possibilità con queste elezioni europee di sferrare un duro colpo all’attuale classe dirigente sia a livello nazionale che europeo, abbiamo anche la possibilità di rafforzare il gruppo del GUE-NGL nel Parlamento Europeo, eleggendo in Francia un maggior numero di parlamentari europei, oltre ai cinque uscenti che abbiamo ottime possibilità di rieleggere.
Dopo alcune settimane di discussione con i nostri alleati del Front de Gauche, ora siamo impegnati in una discussione concreta su quale debba essere la nostra tabella di marcia e sulla composizione delle liste, come sai i nostri compagni del Parti de Gauche pongono delle condizioni per l’apertura dei negoziati. L’operazione dei compagni parigini sul logo ha contribuito a rasserenare gli animi a livello nazionale ed a far ripartire i colloqui. Inoltre, il Parti de Gauche ci ha chiesto delucidazioni sulla nostra strategia per le elezioni del 2015. Come abbiamo già avuto modo di spiegare nel incontro bilaterale tra PCF e PG dello scorso 17 gennaio, in entrambi questi due appuntamenti elettorali la scelta delle candidature è una priorità per il nostro partito. Abbiamo presentato da tempo candidati comunisti in quasi tutti i comuni. Nel 2010, abbiamo costruito liste del Front de Gauche nella maggioranza delle regioni. I problemi riguardanti le autorità dipartimentali e regionali potrebbero portare ad ulteriori scelte in questa direzione, anche se, in ogni caso, queste decisioni verranno prese solo dopo gli appuntamenti elettorali di quest’anno, tenendo conto dei risultati e del nuovo panorama politico che avremo davanti, così come della nuova legge elettorale regionale e della riduzione dei dipartimenti. Ci tengo poi a sottolineare che prenderemo queste decisioni solo dopo un confronto con tutte le forze che compongono il Front de Gauche.
Ora, una volta chiariti questi aspetti, i colloqui che abbiamo avuto con i nostri alleati devono però condurre ad un inizio della campagna elettorale per le europee, subito dopo che si sarà conclusa la partita delle elezioni comunali. Ecco caro compagno e cara compagna quali sono le sfide che abbiamo di fronte a noi. Il nostro obiettivo è semplice: rafforzare la nostra opposizione all’austerità e mantenere il nostro impegno per costruire un’alternativa di sinistra a queste politiche. Dobbiamo essere coscienti che la nostra responsabilità è di primo piano nella costruzione di questa alternativa. Ecco perché ho voluto portare alla vostra attenzione alcuni elementi di analisi che giudico importanti. So di poter contare sul vostro impegno per affrontare tutte le sfide che ci attendono.

il testo originale dal blog di Pierre Laurent

[sul sito di radio radicale potete ascoltare la conferenza stampa tenuta a Roma da Pierre Laurent con Fabio Amato, Paolo Ferrero e Alexis Tsipras http://www.radioradicale.it/scheda/403069/presentazione-del-progetto-della-sinistra-europea-per-le-elezioni-europee-2014]

«Mercoledì taglio le tasse». Ma a chi? | Fonte: liberazione.it

Facile fare promesse; più difficile mantenerle. Specie se il tuo ministro dell’Economia non è proprio convinto delle tue decisioni; se hai pochi soldi da utilizzare; e se l’Unione europea ti mette veti continui. E’ un po’ questa, in sintesi, la situazione in cui si trova Renzi alla vigilia del “mercoledì da leoni”, quello, cioè, in cui il consiglio dei ministri si appresta a varare la «riduzione fiscale senza precedenti» (parole, speriamo per lui non avventate, di Angelino Alfano).

Ospite ieri sera in televisione da Fabio Fazio, il premier assicura che l’impegno del governo è «a favore delle famiglie», che le tasse saranno tagliate per la prima volta e dunque sono «imbarazzanti» polemiche e «derby da stadio» (tra chi vuole che il taglio vada tutto alle imprese – Confindustria – e chi tutto ai lavoratori – i sindacati), ma di misure concrete non c’è neanche l’ombra, come ormai Renzi ci ha abituati. Così come si guarda bene dal fare pubblicamente e davanti a milioni di telespettatori la propria scelta tra Irap e Irpef. Svicola, insomma, sapendo che su questo tema il governo è diviso. Dice solo che dei 10 miliardi a disposizione, distribuirne 5 a favore delle aziende e 5 a favore dei lavoratori non funzionerebbe, come «non ha funzionato» in passato. Dunque? Ai posteri l’ardua sentenza. Per ora ci basti sapere che abbassare le imposte alle imprese «è una cosa che cercheremo comunque di fare», tentando allo stesso tempo di dare a chi guadagna 1.500 euro al mese «e non ce la fa», «qualche decina di euro in più al mese», in modo che «quei 100 euro possano essere rimessi in circolo, per andare a mangiare una pizza o comprare un astuccio nuovo», dando una spinta in questo caso ai consumi delle famiglie per spingere l’economia. Il tutto vago quanto basta per poter fare tutto e il suo contrario.

Almeno fino a mercoledì il dilemma degli ultimi giorni tra Irap e Irpef è dunque destinato a rimanere insoluto. Anche perché è dentro il governo che manca la sintesi. Mentre, infatti, Renzi lascia intendere di preferire il taglio dell’Irpef, al ministero dell’Economia puntano invece sull’Irap. Lo dice chiaro il viceministro dell’Economia Enrico Morando, che in due interviste, una su l’Unità e una sul Messaggero, tenta una mediazione riproponendo i due tempi, dove il primo tempo, ovviamente, è per le imprese. Al quotidiano romano Morando spiega che «l’intervento che vogliamo varare sarà forte e pluriennale», val e a dire «10 miliardi l’anno che saranno ripetuti, dopo il 2014, nel 2015 e 2016». Trenta miliardi, dunque, da tagliare a rotazione: «Niente mezze misure nel 2014 o tutto sull’Irap o tutto sull’Irpef. L’anno prossimo il contrario». In ogni caso «io preferirei tagliare l’Irap, per l’esattezza eliminerei il costo totale delle buste paga dall’imponibile Irap». Comunque, avverte invece sull’Unità il sottosegretario, sarà Matteo Renzi alla fine a «decidere quale sarà la priorità».

Sarà forse per questo, cioè per non essere ancora in grado di sciogliere questo nodo, che il presidente del consiglio si mostra nervoso con le parti sociali, che lo incalzano con forza pari e contraria: «Trovo abbastanza imbarazzante che per anni si sono aumentate le tasse ed ora che si stanno abbassando sono iniziate le polemiche “le abbassi agli altri e non a me”. Non dobbiamo pensare a un derby Confindustria-sindacati». Piuttosto, suggerisce il premier, «verrebbe da chiedergli, che avete fatto negli ultimi 20 anni per cambiare l’Italia?» (che è un altro modo per svicolare). Quindi se Confindustria e sindacati si schiereranno contro il governo, anche sulle misure sul lavoro e il sussidio di disoccupazione, «ce ne faremo una ragione», assicura il premier, scatenando però la replica piccata del segretario generale della Cisl Raffaele Bonanni, che tiene a mantenere le distanze dalla Cgil di Susanna Camusso: «Renzi non faccia l’errore di fare di tutta un’erba un fascio. Ci sono sindacati e sindacati, come ci sono politici e politici. Tolga i paraocchi».

Ma è con la Cgil che i rapporti sono tesi: non solo con il segretario Camusso, ma con tutto il direttivo di Corso d’Italia: se il governo non darà le risposte necessarie per affrontare l’emergenza occupazione e far fronte alle esigenze dei lavoratori, il sindacato è pronto alla mobilitazione e non esclude anche il ricorso all’arma dello sciopero.

I guai per Renzi vengono soprattutto dall’Europa. Domani il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, farà il suo esordio all’Eurogruppo, mettendo soprattutto l’accento sulla crescita, unica strada per riassestare anche i conti pubblici. Per il premier la regola del 3% sul deficit/Pil è «una norma concettualmente antiquata ormai», ma l’Italia la rispetterà «finché non sarà cambiata» e non sarà Roma a cambiare le regole «in modo unilaterale». E allora?

Sochi, arrivare ultimo ed essere felice: la Paralimpiade di Giordano Tomasoni Fonte: redattoresociale.it

Arrivare ultimo ma essere straordinariamente felice, al punto da augurarsi di poter vivere ancora a lungo il ricordo di quella emozione. Potenza della Paralimpiade, che sorride a Giordano Tomasoni, bergamasco di Chisone , azzurro della nazionale di sci nordico al suo esordio paralimpico in quel di Sochi. Ieri l’atleta della Polisportiva Disabili Valcamonica ha disputato la sua prima gara alla Paralimpiade, la 15 Km di fondo categoria sitting, riservata cioè ad atleti che gareggiano seduti. E’ arrivato ventunesimo, ma si potrebbe anche dire – giacché la realtà è quella – che è arrivato ultimo . Una gara che per lui è durata quasi un’ora e nel corso della quale ha accumulato un ritardo di 16 minuti rispetto al primo classificato, il russo Petushkov. “Sono arrivato ultimo – dice all’arrivo – con un distacco incolmabile dai primi, ma la gioia è veramente infinita e spero che questa emozione mi accompagni ancora per molto”.

Lo spiega lui stesso qual è il punto di vista che lo porta a parlare in questo modo: “Non voglio cadere nella retorica, ma l’ultima edizione della Paralimpiade invernale io l’ho vista da un letto di ospedale; quella cosa l’ho presa come punto di riferimento: essere qua per me rappresenta un successo e aver tagliato il traguardo spero sia un nuovo punto di inizio”.E pensa alle due figlie, Vittoria e Alessia, che sono rimaste in Italia e lo seguono a distanza: “Non ho smesso un solo attimo di pensare a loro”.

C’è una singolarità nella storia di questo possente 43enne bergamasco: “ La cosa che mi ha portato a finire in carrozzina – ha raccontato più volte – è stato un incidente un po’ inusuale. Diciamo che la carrozzina è l’eredità di una malattia che si chiama depressione ”. Quella depressione che ad un certo punto della sua vita lo porta a scavalcare la barriera di un ponte e a gettarsi nel vuoto, con l’intenzione di far finire una sofferenza interiore che si era ormai trasformata in vera e propria disperazione. All’epoca, Tomasoni è già sposato, ha una bambina, la seconda è in arrivo, ma quando si è alle prese con quella malattia si può arrivare a fare ogni cosa pur di scrollarsi di dosso il dolore che si avverte. “La mia storia potrebbe essere quella di una qualsiasi altra persona che si è trovata in un momento di debolezza e di difficoltà, e non è riuscita a superare la malattia da sola”.

“Come non ho scelto io di venire al mondo, probabilmente per lo stesso motivo sono stato esonerato dal finire al cimitero”, ha raccontato Tomasoni, che dopo quel salto nel vuoto si ritrova vivo e in “ una condizione che in tutta sincerità non avevo minimamente preventivato ”. Nella caduta, infatti, esplode una vertebra: dopo gli esami del caso la diagnosi è quella di paraplegia. Si apre un nuovo capitolo, anche perché “ dalla depressione, l’ho sperimentato in prima persona, si guarisce, mentre la disabilità è per sempre ”. Un anno in un centro di riabilitazione motoria, la famiglia vicino a lui, lo sport che gioca un ruolo nel suo percorso. Le prime gare, le prime soddisfazioni, i primi successi: una progressione che lo porta fino in nazionale, e da lì fino alle Paralimpiadi di Sochi.

Ecco perché, alla fine della sua gara d’esordio, sotto il sole russo del Laura Cross–country center, può scandire quelle parole: “C’è il cuore pieno di emozione, davvero, per le sensazioni che si sono succedute in maniera molto veloce. Qua va tutto molto veloce, soprattutto gli avversari: io ho cercato di stare tranquillo, ma dentro avevo una grande emozione che certamente ho avvertito più degli altri”. Racconta della gara: “Sono caduto due volte, la pista in molti punti era rovinata, ma nessuna recriminazione, la neve era uguale per tutti: io conosco i miei limiti, non avevo ambizioni più grandi di quelle che mi ero prefisso, e non posso certo dimenticare che quello che ho appena tagliato è il traguardo di una Paralimpiade, non di una comune gara della domenica ”. “Ci sono stati giorni nel mio passato – conclude – in cui le lacrime erano amare, ma oggi, anche se sono arrivato ultimo, anche se il distacco dai primi è enorme, la gioia è veramente infinita e spero che questa emozione mi accompagni ancora per molto”. (ska)

Obama, Putin e la Storia dalla parte sbagliata Fonte: www.gennarocarotenuto.it | Autore: Gennaro Carotenuto

ObamaPutin

Gli speechwriter inventano belle frasi per i politici: «Mosca è dalla parte sbagliata della Storia» hanno fatto dire all’Obama cool che cerca anche in una crisi potenzialmente bellica come quella della Crimea di esercitare un po’ di soft power. Belle frasi, anche intelligenti, che hanno il difetto di far riflettere su di un mondo nel quale principi per secoli basilari come autodeterminazione e nazionalità sembrano avviarsi alla loro “fine della Storia” senza che sia chiaro come possano essere sostituiti.

Ispira timore e anche repulsione un espansionismo russo che sa per metà di cannoniere e d’impero zarista e per l’altra di paesi fratelli da salvare come nel ’68 a Praga. Ovunque siano le ragioni e i torti, e qualche ragione Mosca ce l’ha, è solo la forza l’argomento che mette in campo. Anche per il Cremlino, non da oggi, il principio nazionale è un verso che si modula secondo convenienza, carezzevole verso i crimei, inumano verso i caucasici sterminati nella sostanziale indifferenza del mondo, che li vede attraverso il prisma falsato della guerra al terrorismo come tutti barbuti.

Viene da dire che magari Obama avesse ragione e che sia solo la Russia ad andare nel verso sbagliato della Storia. Viene da dire che magari fosse tutto così semplice e che i confini dell’Ucraina, come stabiliti e riconosciuti appena nel 1991, siano davvero così sacri e inviolabili da valer la pena morire per Sinferopoli. Purtroppo il nostro passato recente si è incaricato di dire che mentre la dissoluzione dell’impero sovietico fu più pacifica di ogni previsione, proprio quelli che avevano predetto «la fine della Storia», e se ne mettevano al centro col loro dio protestante, alla Storia stavano torcendo il braccio. Hanno usato a loro beneficio vecchie cannoniere e nuovi droni, provocato guerre civili, riportato nazioni intere (cit.) «all’età della pietra», imposto satrapi colorati e buoni, magari dalle bionde trecce, al posto di satrapi cattivi o presunti tali. Non sono solo gli Stati Uniti, anche la Germania può intendersi con la Russia. Come un tempo fecero con la Polonia anche oggi possono aver reciproca convenienza a spartirsi l’Ucraina. Anche della Yugoslavia a Berlino interessava solo la metà settentrionale, disinteressandosi alle conseguenze che portarono anni di sangue. Hanno già frammentato paesi in piccole patrie insostenibili. È una nazione il Kosovo? Esiste ancora un Iraq? Sarebbe [stata] nazione quel pezzo di Bolivia che volevano separare dagli indigeni andini di Evo Morales che, per Donald Rumsfeld, erano anch’essi tutti terroristi?

Vent’anni fa potevamo illuderci che tutto fosse in ordine, magari un ordine che non ci piaceva, ma in ordine. E da italiani, occidentali sia pur periferici, potevamo illuderci di esserne al centro e che questo ci favorisse. L’Europa, non per una fatalità ma perché strangolata nel suo percorso verso un’unione politica dalle esigenze euro-atlantiche dell’epoca Bush-Blair, non è, non esiste. Intanto, il soft power degli USA poco può dove, come in Crimea, non può essere accompagnato dal bastone di Teddy Roosevelt. Non c’è nessun nuovo ordine mondiale, tanto meno con al centro l’Occidente. Vogliono espellere la Russia dal G8. Gli stessi proponenti sanno che è un’arma spuntata cacciare Mosca da un organismo che gli stessi grandi giornali dell’establishment mondiale considerano contare ormai poco, come tutto ciò che ancora rivendica una centralità occidentale. Meglio il G20, meglio i Brics, dei quali la Russia è nerbo, meglio perfino l’ONU. Ciò ammesso e non concesso che tutti questi autorevoli consessi, figli dell’idea di diplomazia invalsa dal 1648 ai giorni nostri, e che vedeva al centro stati sulla via di divenire nazioni, decidano oggi più del consiglio di amministrazione di alcune banche d’affari. Il destino manifesto del «nuovo secolo americano», si è rivelato incarnato -a qualunque cultura e latitudine- nel solo dominio della ricchezza, non già del dollaro, sempre più mera unità di conto, ma sì della finanza. Tutto ciò può non piacere ma è pur sempre una parvenza di ordine a-democratico. Si può perfino far finta di votare e si può perfino rinunciare al progresso e alla giustizia sociale (a patto di non esserne completamente esclusi) come destino lineare dell’umanità in cambio di un minimo di sicurezza.

La cosa che più spaventa è che quello che è in crisi fino a perdere di senso, in Europa e in Africa ma anche in Asia, è quel principio di nazionalità sul quale abbiamo creduto di costruire tutta la nostra modernità negli ultimi due secoli. A volte le separazioni appaiono indolori, come tra Praga e Bratislava, altre volte drammatiche, ma davvero pensate che dividere la Scozia da Londra o lasciare Sebastopoli con Kiev sia soluzione a qualcosa? Sia giusto o sbagliato?

La risacca della dissoluzione neoliberale dei tessuti sociali che tenevano insieme le nazioni lascia sul bagnasciuga i residui di un mondo che non c’è più, di legami disfatti e ricostruiti altrove, di identità sempre più liquide e artificiali. Non solo in Africa, non solo negli ex-imperi coloniali sono troppi i confini segnati sulla sabbia. E anche dove le frontiere appaiono ancora ben definite da fiumi, coste, catene montuose, lingue e religioni, le linee delle migrazioni e quelle energetiche, quelle delle autostrade dell’informazione e dell’influenza culturale ed economica, testimoniano quanto poco tempo resti a quelli che sembravano principi inviolabili.

Ieri si poteva ancora vivere e morire per la Patria sul Carso o sulla Somme. Oggi questa appare sempre più una convenzione. Il mondo post-napoleonico della nazionalizzazione delle masse è ancora vivo, ma continua a esplodere in mille crisi regionali e perfino mondiali dove la nazionalità è al più un pretesto per giustificare o aborrire. Lo Stato nazione stesso è un malato terminale. Paesi come gli Stati Uniti o il Brasile, che fanno di identità cangianti e in evoluzione la loro essenza, costruzioni dissolte dalla storia come l’Impero austro-ungarico o quello ottomano con i suoi mille contrappesi, progetti arditi come l’integrazione latinoamericana immaginata da Kirchner e Chávez, la nostra Europa politica sognata dagli Spinelli e tradita dai banchieri, sarebbero esperienze meglio attrezzate a governare il nostro presente degli attuali stati nazionali, prigioni di popoli che non sono più tali e non sono ancora altro. Lo sapessi davvero, caro Obama, qual è il lato giusto della Storia.