In diecimila al corteo di solidarietà con il popolo palestinese a Roma | Autore: fabio sebastiani

Diecimila persone hanno partecipato a Roma al corteo di solidarietà con la Palestina e la fine dell’occupazione da parte di Israele. Un serpentone che è andato ben oltre le previsioni della vigilia, con tanti striscioni e bandiere fino ia piazza Santi Apostoli, dove si terrà il comizio finale. Un grande striscione in apertura delcorteo recita: “Per la fine dell’occupazione israeliana”; dietro, quasi tutti membri della comunità palestinese in Italia,tra cui l’ambasciatrice. Mai Al Kaila.
Lo slogan echeggiato con più forza è stato sicuramente qeullo che reclama la fine dell’occupazione israeliana della Palestina. “Il nostro popolo non si arrenderàmai”,dicono i Palestinesi, e quindi l’unica via d’uscita dopo 60 anni di conflitto è che Israele se ne vada. Una posizione sostenuta anche dagli “Ebrei contro l’occupazione” presenti all’iniziativa”. Convocata sulla base di un appello della comunità palestinese, la manifestazione ha registrato la presenza di decine e decine di organizzazioni politiche, comitati, gruppi di solidarietà. Molti  i rappresentanti dei partiti della sinistra antagonista, tra cui Giovanni Russo Spena, Paolo Ferrero, Marco Ferrando. Presenti anche le Donne in nero, il Comitato romano dellacqua pubblica. Un altro filone dell’iniziativa ha riguardato il boicottaggio di Israele, sia sotto il profilo commerciale che quello militare. Nel giro di affari che lega Italia a Israele ci sono le forniture della Selex ES, i satelliti realizzati dalla Thales Alenia Space, la cooperazione nel programma Opsat e la ben nota fornitura dei M346 dell’Aermacchi. L’Usb in un comunicato/volantino invita i lavoratori a non collaborare con i programmi militari e con qualsiasi progetto o fornitura “che possa favorire l’occupazione israeliana”. Il 19 ottobre ci sarà a Milano una assemblea pubblica per costruire il “No” all’ingresso di Israele all’Expo (#EXPOFAMALE).
Quasi impossibile dare conto delle decine e decine di striscioni e bandiere che si sono stretti intorno al popolo Palestinese in un momento in cui la loro dura condizione continua ad essere nascosta agli occhi dell’opinione pubblica. Tra gli altri,lebandiere di Rifondazione comunista, del Pcl, della Lista Tsipras, dell’Anpi, dei Cobas, Di Freedom Flotilla e della Rete dei Comunisti.

Qui di seguito il testo dell’appello:Terra, pace e diritti per il popolo palestinese. Fermiamo l’occupazione

Appello per una manifestazione nazionale in sostegno al popolo palestinese il 27 settembre a Roma

L’aggressione Israeliana contro il popolo palestinese continua, dalla pulizia etnica del 1948, ai vari massacri di questi decenni, dal muro dell’apartheid, all’embargo illegale imposto alla striscia di Gaza e i sistematici omicidi mirati, per finire con il fallito tentativo di sterminio perpetuato in questi ultimi giorni sempre a Gaza causando più di 2000 morti ed oltre 10.000 ferite.

Il Coordinamento delle comunità palestinesi in Italia indice una manifestazione nazionale di solidarietà:

– per il diritto all’autodeterminazione e alla resistenza del popolo palestinese;

– per mettere fine all’occupazione militare israeliana;

– per la libertà di tutti i prigionieri politici palestinesi detenuti nelle carceri israeliane;

– per la fine dell’embargo a Gaza e la riapertura dei valichi;

– per mettere fine alla costruzione degli insediamenti nei territori palestinesi;

– per il rispetto della legalità internazionale e l’applicazione delle risoluzione del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite;

– per uno stato democratico laico in Palestina con Gerusalemme capitale (come sancito da molte risoluzioni dell’Onu);

– l’attuazione del dritto al ritorno dei profughi palestinesi secondo la risoluzione 194 dell’Onu e la IV Convenzione di Ginevra.

Chiediamo a tutte le forze democratiche e progressiste di far sentire la loro voce contro ogni forma di accordi militari con Israele.

Chiediamo al Governo italiano e in qualità di presidente del “semestre” dell’UE di adoperarsi per il riconoscimento europeo dei legittimi diritti del popolo palestinese e mettere fine alle politiche di aggressione di Israele, utilizzando anche la pressione economica e commerciale su Israele.

Il coordinamento delle Comunità palestinesi in Italia chiede a tutte le forze politiche e sindacali e a tutti le associazioni e comitati che lavorano per la pace e la giustizia nel mondo di aderire alla nostra manifestazione inviando l’adesione al nostro indirizzo mail :

comunitapalestineseitalia@hotmail.com

Coordinamento delle Comunità Palestinesi in Italia

I documenti segreti del ruolo americano nella guerra d’Israele Fonte: Il Manifesto | Autore: Geraldina Colotti

Glenn Gree­n­wald lo aveva annun­ciato: «Sno­w­den farà altre impor­tanti rive­la­zioni a pro­po­sito di Israele». E così sta avve­nendo. Il gior­na­li­sta che ha fatto cono­scere il grande scan­dalo delle inter­cet­ta­zioni ille­gali messo in campo dall’Agenzia per la sicu­rezza Usa (il Data­gate), ne dà conto sul suo sito The inter­cept. Gli ultimi docu­menti top secret esa­mi­nati da Gree­n­wald fra gli 1,7 milioni di file for­niti dall’ex agente Cia, Edward Sno­w­den, get­tano nuova luce sull’aggressione israe­liana ai pale­sti­nesi di Gaza, un’altra volta in pieno corso. Evi­den­ziano il con­vol­gi­mento diretto degli Usa e dei loro prin­ci­pali alleati. Negli ultimi dieci anni – dicono i docu­menti – la Nsa ha note­vol­mente aumen­tato il sup­porto – con armi, soldi e infor­ma­zioni – alla sua omo­loga israe­liana, l’Unità 8.200 (o Isnu o Sigint).

La coo­pe­ra­zione tra le due agen­zie è ini­ziata nel 1968 e ha costi­tuito la base per le strette rela­zioni esi­stenti attual­mente fra tutte le altre orga­niz­za­zioni dell’intelligence israe­liana e quelle degli Stati uniti, come la Cia, il Mos­sad e la Divi­sione delle ope­ra­zioni spe­ciali. Ser­vizi segreti alleati per tenere sotto con­trollo diversi obiet­tivi e «i paesi del Nord Africa, del Medio oriente, del Golfo Per­sico, del Sudest asia­tico e le repub­bli­che isla­mi­che dell’ex Unione sovie­tica». In molti casi, Nsa e Isnu hanno col­la­bo­rato con le agen­zie di spio­nag­gio bri­tan­ni­che e cana­desi, il Gchq e il Csec. Emerge anche l’apporto di alcuni regimi arabi come la monar­chia gior­dana e il ruolo delle forze di sicu­rezza dell’Anp nel for­nire ser­vizi di spio­nag­gio essen­ziali per indi­vi­duare e col­pire «obiet­tivi pale­sti­nesi». The inter­cept mostra anche una rice­vuta di paga­mento, datata 15 aprile 2004.

Le ripe­tute aggres­sioni alla popo­la­zione di Gaza – dice Gree­n­wald – sareb­bero impos­si­bili senza il soste­gno degli Usa, sem­pre pronti a sod­di­sfare le richie­ste bel­li­che di Israele, com’è avve­nuto con i 225 milioni di dol­lari aggiun­tivi appro­vati per finan­ziare il sistema mis­si­li­stico israe­liano. Un atteg­gia­mento che stride con il pre­sunto ruolo di media­zione osten­tato dagli Stati uniti nel con­flitto israelo-palestinese. Fatti che depo­ten­ziano le parole di Obama pro­nun­ciate come se il pre­si­dente Usa fosse un sem­plice spet­ta­tore di fronte al mas­sa­cro dei bam­bini a Gaza («È stra­ziante vedere cosa sta suc­ce­dendo lì»). Obama, osserva The Inter­cept, parla di Gaza come se si trat­tasse di una cala­mità natu­rale, di un evento incon­trol­la­bile a cui il governo Usa assi­ste sgomento.

Secondo i docu­menti di Sno­w­den, attual­mente rifu­giato in Rus­sia, Cia e Mos­sad hanno anche adde­strato l’attuale lea­der del gruppo Stato isla­mico dell’Iraq e del Levante (Isil), Abu Bakr el Bag­dadi. L’Isil, che sostiene il ritorno al “calif­fato” è stato ini­zial­mente costi­tuito in Siria per com­bat­tere il governo di al Assad. Ha rice­vuto armi dall’intelligence Usa e da quella del Regno unito, e finan­zia­menti dai sau­diti e dalla monar­chia del Qatar. El Bag­dadi è stato in car­cere a Guan­ta­namo tra il 2004 e il 2009. In quel periodo Cia e Mos­sad lo avreb­bero reclu­tato per fon­dare un gruppo capace di attrarre jiha­di­sti di vari paesi in un unico luogo: e tenerli così lon­tani da Israele. Per Sno­w­den, «l’unica solu­zione per pro­teg­gere lo Stato ebraico è quella di creare un nemico alle sue fron­tiere, ma indi­riz­zarlo con­tro gli stati isla­mici che si oppon­gono alla sua pre­senza». Un’operazione segreta detta «nido di calabroni».

La stretta col­la­bo­ra­zione tra i ser­vizi di Washing­ton e di Tel Aviv non ha però impe­dito lo spio­nag­gio incro­ciato tra i due grandi alleati. E così — ha rive­lato il set­ti­ma­nale Der Spie­gel — l’intelligence israe­liana ha inter­cet­tato le con­ver­sa­zioni del Segre­ta­rio di stato Usa, John Kerry, con i media­tori arabi e con l’Autorità pale­sti­nese: per avere le rispo­ste pronte durante l’ultimo ten­ta­tivo di nego­ziato con i palestinesi.

Israele dichiara la tregua e ammazza dieci palestinesi: 1822 le vittime. Su Unrwa condanna di Usa,Onu, Ue, Francia Autore: fabrizio salvatori da: controlacrisi.org

Almeno dieci palestinesi sono stati uccisi nella notte in raid israeliani sulla Striscia di Gaza. E questo nonostante la tregua unilaterale di sette ore dichiarata da Israele. Cinque persone sarebbero rimaste uccise a Jabalya (nord), tre nei quartiere di Zeitun, Sheikh Radwan e Nuseirat a Gaza e un bimbo a Rafah (sud). Il bilancio delle vittime palestinesi in quattro settimane di conflitto tra Israele e Hamas sale cosi’ a 1.822 morti. La situazione è nel caos più completo.

Intanto, al Cairo il generale Sisi sta tentando di riaprire una “via diplomatica” mettendo in campo una trattativa “in tre fasi”, a cui però manca, al momento, l’adesione sia di Israele che di Hamas. Nella prima fase dovra’ essere raggiunto un accordo “tra le fazioni palestinesi sull’iniziativa egiziana”; nella seconda sono previsti “negoziati indiretti con Israele (per ora chiamatosi fuori dai colloqui) attraverso mediatori egiziani per raggiungere un cessate il fuoco o una tregua”; e infine ci dovrebbero essere “negoziati sulle questioni rimanenti, incluso l’accesso a Gaza” tramite il valico di Rafah.

Intanto, diventa corale la condanna dell’ennesimo attacco di Israele ad una struttura dell’Unrwa,l’ente dell’Onu che si occupa degli aiuti ai palestinesi. La protesta più forte arriva direttamente da Ban Ki-moon, ma condanne del bombardamento arrivano anche da Usa ed Europa, Francia compresa. “L’esercito israeliano e’ stato ripetutamente informato della posizione” in cui si trovano le strutture delle Nazioni Unite”, ha detto il segretario generale dell’Onu. Ban Ki-moon, ha definito l’attaacco un “atto criminale” che deve essere “rapidamente indagato”. Gli Usa si dicono “scioccati” per il nuovo bombardamento e – si legge in una nota del Dipartimento di Stato – chiedono a Israele di “fare di piu’ per evitare vittime civili”. “Gli edifici dell’Onu, specialmente quelli che fanno da rifugio ai civili – si legge nella nota Usa – devono essere protetti e non devono essere usati come basi per lanciare attacchi. Ma il sospetto che militanti stiano operando nei pressi – aggiunge il Dipartimento di Stato americano – non giustifica bombardamenti che mettono a rischio le vite di cosi’ tanti innocenti”. Gli Stati Uniti chiedono quindi “un’immediata indagine su questo incidente come su quello che giorni fa ha coinvolto un’altra scuola dell’Unrwa”.

“E’ inaccettabile” l’attacco nei pressi della scuola Onu, sottolinea in una nota, il presidente francese Francois Hollande chiedendo che “i responsabili di questa violazione del diritto internazionale rispondano delle loro azioni”. L’Ue, infine, ha chiesto “lo stop immediato del bagno di sangue” a Gaza. In un comunicato, il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy dice che “Gaza sta sopportando sofferenze intollerabili da oltre tre settimane e la perdita di molte vite umane, tra cui molte donne e bambini. Tutto cio’ deve finire immediatamente”, ha dichiarato van Rompuy. “Condanniamo i lanci continui di razzi contro Israele, perche’ minacciano la popolazione. Riconosciamo il diritto alla legittime difesa, ma deve essere proporzionato”, ha aggiunto. Il capogruppo dei Socialisti all’Europarlamento Gianni Pittella dopo un colloquio con il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz ha chiesto a Van Rompuy una “riunione straordinaria del Consiglio europeo per discutere la strategia comunitaria rispetto al conflitto a Gaza”. “Crediamo che l’Unione europea debba adottare misure concrete capaci di contribuire a fermare la guerra, comprese l’adozione di un embargo sulle armi – scrive Pittella – Le sanzioni non possono piu’ essere considerate come un tabu’ bensi’ come un possibile strumento per far pressione su Hamas e Israele al fine di fermare l’eccidio di civili”.

Il capogruppo dei Socialisti all’Europarlamento ha inoltre rivolto un appello all’Unione europea “affinche’ sia quanto piu’ possibile attiva nel processo di pace e lavori immediatamente per una risoluzione Onu che assicuri un corridoio umanitario lungo la striscia di Gaza per aiutare i civili”. “E’ tempo di agire prima che sia troppo tardi. Business as usual non e’ piu’ accettabile”, ha concluso Pittella.

Amnesty contro gli Usa: “Il giorno della strage alla scuola Onu avete continuato a dare altre armi a Israele”| Autore: fabrizio salvatori da: controlacrisi.org

Amnesty International attacca frontalmente gli Usa e li invita a porre fine alla fornitura a Israele “di ampi quantitativi di armi, strumento per compiere ulteriori gravi violazioni del diritto internazionale a Gaza”. La richiesta arriva all’indomani dell’approvazione, da parte del Pentagono, dell’immediato trasferimento di munizioni per granate e mortai alle forze armate israeliane. Queste forniture si trovano gia’ in Israele, in un deposito di armi Usa, e seguono l’arrivo nel porto di Haifa, il 15 luglio, di una fornitura di 4,3 tonnellate di motori a razzo.

“Queste forniture si aggiungono ad altre gia’ inviate dagli Usa a Israele tra gennaio e maggio 2014 – scrive Amnesty – per un valore di 62 milioni di dollari e comprendenti componenti per i missili guidati, lanciarazzi, componenti di artiglieria e armi leggere”. Secondo Amnesty, è chiaro che a questo punto “il governo Usa sta gettando benzina sul fuoco” attraverso la continua fornitura delle armi usate dalle forze armate israeliane per violare i diritti umani. “Washington deve rendersi conto che spedendo queste armi sta esacerbando e continuando a consentire gravi violazioni dei diritti umani ai danni della popolazione civile di Gaza” – ha dichiarato Brian Wood, direttore del programma Controllo sulle armi e diritti umani di Amnesty International.Gli Usa sono di gran lunga il principale esportatore di forniture militari a Israele. Secondo dati resi pubblici dal governo di Washington, le forniture nel periodo gennaio – maggio 2014 hanno compreso lanciarazzi per un valore di quasi 27 milioni di dollari, componenti per missili guidati per un valore di 9,3 milioni di dollari e “bombe, granate e munizioni di guerra” per quasi 762.000 dollari. Dal 2012, gli Usa hanno esportato verso Israele armi e munizioni per 276 milioni di dollari. Questo dato non comprende l’esportazione di equipaggiamento militare da trasporto e di alta tecnologia.

La notizia della ripresa delle forniture a Israele e’ arrivata il 30 luglio, “il giorno stesso in cui gli Usa condannato il bombardamento di una scuola delle Nazioni Unite in cui sono state uccise almeno 20 persone, tra cui bambini e operatori umanitari”. “E’ profondamente cinico – prosegue Amnesty – che la Casa bianca condanni la morte e il ferimento di civili palestinesi, compresi bambini e operatori umanitari, sapendo bene che i militari israeliani responsabili di quegli attacchi sono armati fino ai denti con armi ed equipaggiamento militare pagati dai contribuenti statunitensi”. Amnesty International continua a chiedere alle Nazioni Unite d’imporre immediatamente un embargo totale sulle armi destinate a Israele, Hamas e i gruppi armati palestinesi, per prevenire violazioni del diritto internazionale umanitario e del diritto internazionale dei diritti umani da tutte le parti.
In assenza di un embargo decretato dalle Nazioni Unite, l’organizzazione per i diritti umani chiede a tutti gli stati di sospendere unilateralmente le forniture di munizioni ed equipaggiamento e assistenza militare a tutte le parti coinvolte nel conflitto, fino a quando le violazioni dei diritti umani commesse nei precedenti conflitti non saranno adeguatamente indagate e i responsabili portati di fronte alla giustizia.

| Autore: claudia galati da: controlacrisi.org

La sporca guerra di Israele raccontata dagli obiettori di coscienza perseguitati e incarcerati

 

Sono decine di migliaia gli ebrei che si oppongono al loro governo sionista, e per questo vengono maltrattati e incarcerati. Ebrei israeliani che organizzano manifestazioni pacifiste in tutto il paese, e giovani obiettori di coscienza che si rifiutano di combattere.
Esempi che suscitano ammirazione e speranza, come la vicenda di Uriel Ferera, imprigionato nelle carceri militari israeliane per il suo rifiuto ad arruolarsi per motivi di coscienza, sull’onda di un vero e proprio fenomeno sociale che si sta diffondendo a Israele: sempre più cittadini che si rifiutano di prestare servizio nelle Forze di Difesa Israeliane.Uriel, diciottenne ebreo ortodosso nato in Argentina da madre fotografa originaria di Buenos Aires (anche lei impegnata nella causa della pace), lo scorso 20 luglio ha diffuso questo messaggio: “Ciao, sono Uriel Ferera. Ho 19 anni e vengo da Be’er Sheva. Ho già trascorso 70 giorni in prigione, 4 volte consecutive, per essermi rifiutato di arruolarmi, per motivi di coscienza. Violazione dei diritti umani, uccisioni e umiliazioni del popolo palestinese nei territori occupati sono i motivi principali del mio rifiuto all’arruolamento. Per me, in quanto onesto credente, questo è assolutamente in contraddizione con la visione che Dio ci crea tutti a sua immagine e somiglianza, e noi non abbiamo il diritto di fare del male ad alcun essere umano. È ora in atto un’operazione militare a Gaza. L’esercito sta attaccando obiettivi dove uomini innocenti, donne e bambini vivono. Spero che questa operazione finisca, e che l’occupazione finisca, e che noi tutti possiamo vivere in pace su questa terra. Domani (21 luglio, n.d.r.) dovrò presentarmi alla base di insediamento militare e rifiuterò ancora una volta. Inizierò il mio quinto periodo consecutivo in prigione. Sono orgoglioso di me stesso di andare in prigione, e di non prendere parte in crimini di guerra.”E infatti il suo ultimo post – foto di magliette insanguinate appese per le strade, e un video della “Protest Rally – We Refuse to Close our Eyes – Gaza 2014″, lettura pubblica di testimonianze di soldati da Gaza”, svoltasi il 17 luglio ad Habima Square, Tel Aviv – risale a 2 giorni fa: il 21 luglio Uriel è stato condannato a scontare 20 giorni nella prigione militare di Tel Hashomer n. 6 vicino Atlit, accompagnato da una dimostrazione di sostegno per il suo rifiuto ad arruolarsi nell’esercito.

In un altro post su Facebook, Uriel ha commentato la sua ultima scarcerazione: “Mi hanno liberato oggi, lunedì 14 luglio dal quarto periodo di incarcerazione. La data di liberazione era il 16 luglio, però mi hanno liberato anzitempo perché nella prigione militare avevano bisogno di fare spazio e liberavano quelli che dovevano uscire in settimana. Ho l’ordine di presentarmi alla base il 16. Grazie per il vostro appoggio e per la manifestazione di venerdì. Non è la mia lotta, la lotta principale è finirla con l’occupazione e l’oppressione del popolo palestinese. Mi rifiuto di arruolarmi nell’esercito perché non voglio collaborare con crimini di guerra, spargimento di sangue e uccisioni di bambini. Spero vi siano più obiettori di coscienza e riservisti che rifiutino di combattere, perché non è logico parlare di pace quando stiamo bombardando civili a Gaza.”

Riferisce Maureen Clare Murph, caporedattrice di Electronic Intifada, che parallelamente il governo israeliano sta mettendo in atto una strategia che mira a imporre divisioni settarie tra palestinesi cristiani e musulmani: a febbraio il Parlamento (Knesset) ha approvato una legge che identifica i palestinesi cristiani come minoranza non-araba, corteggiando nel frattempo alcuni membri del clero e della comunità cristiana per la promozione del servizio militare, inviando cartoline ai giovani palestinesi cristiani che li incoraggiano ad arruolarsi. Esistono molti benefici statali di cui si può godere attraverso la leva, tra cui un posto di lavoro assicurato. Tuttavia, gli sforzi di reclutare giovani hanno incontrato la resistenza degli studenti palestinesi nelle università israeliane, con il lancio di una campagna da parte di alcune organizzazioni della società civile.

I gruppi minoritari come i Drusi, i palestinesi arabi con cittadinanza israeliana, che compongono circa il 20% della popolazione dello Stato, furono obbligati a svolgere il servizio militare nell’esercito israeliano in seguito alla decisione dell’allora Primo Ministro Ben Gurion nel 1956. Ciò comporta che i cittadini in età da lavoro fossero arruolati con ordini di mobilitazione. Per questo, oggi un numero sempre crescente di giovani drusi si sta rifiutando di servire nell’esercito israeliano per combattere contro il loro stesso popolo, e lo Stato si deve confrontare oggi con un’iniziativa organizzata all’interno della comunità contro l’arruolamento obbligatorio e il riconoscimento dei diritti del resto della società araba-palestinese a Israele (traduzione di Cecilia Dalla Negra).

È il caso di uno dei primi, giovani e più determinati obiettori di coscienza in Israele, Omar Saad, diciottenne palestinese druso proveniente dal villagio di Al-Mughar, in Galilea. Omar, violista, fu incarcerato per la prima volta il 4 dicembre 2013 dopo che lui e i suoi fratelli eseguirono una protesta musicale fuori da un centro di detenzione militare israeliano in Galilea – dove la maggior parte dei palestinesi nell’attuale Israele risiedono – e in seguito al suo rifiuto ad arruolarsi nell’esercito israeliano. Omar ha giustificato il suo rifiuto con una lettera aperta (tradotta in più lingue, italiano compreso):

“Signor Ministro della Difesa di Israele
Io sono Omar Zahredden Mohammad Saad proveniente dal villaggio Maghar, Galilea.
Ho ricevuto l’ordine di arruolarmi nell’esercito il 31 ottobre 2012 secondo gli accordi sulla leva obbligatoria per la congregazione Drusa, e di seguito la risposta alla sua richiesta:
Rifiuto di arruolarmi perchè non accetto la legge che prevede l’arruolamento obbligatorio opposto alla mia congregazione Drusa.
Lo rifiuto perchè sono un pacifista, e odio ogni tipo di violenza, e credo che l’esercito sia il massimo della violenza fisica e psicologica, e da quando ho ricevuto l’ordine di iniziare con le procedure per l’arruolamento la mia vita è cambiata completamente. Sono diventato molto nervoso e i miei pensieri confusi. Mi sono ricordato di migliaia di immagini crude e non potevo immaginare me stesso ad indossare l’uniforme militare, partecipando alla soppressione del mio popolo palestinese, combattendo i miei fratelli arabi.
Rifiuto l’arruolamento nell’esercito israeliano o in ogni altro esercito, per ragioni morali e nazionali.
Odio l’oppressione e disprezzo l’occupazione. Odio pregiudizi e restrizioni alla libertà.
Odio chi arresta bambini, vecchi e donne.
Sono un musicista e suono la viola. Ho suonato in numerosi posti e ho molti amici musicisti da Ramallah, Gerico, Gerusalemme, Hebron, Nablus, Jenin, Shafaamr, Elaboun, Roma, Atene, Beirut, Damasco, Oslo ed altro ancora. E tutti noi suoniamo per la libertà, umanità e pace. La nostra arma è la musica e non ne avremo di alcun altro tipo.
Faccio parte di un gruppo oppresso da una legge ingiusta, quindi, come possiamo combattere contro i nostri parenti in Palestina, Siria, Giordania e Libano? Come posso lavorare come soldato al check point di Qalandia, o in qualsiasi altro check point di occupazione quando io stesso ho provato l’esperienza di oppressione in questi check point?
Come posso impedire alle persone di Ramallah di visitare Gerusalemme? Come posso fare la guardia al muro dell’apartheid?
Come posso fare da carceriere per il mio popolo, mentre so che la maggior parte dei prigionieri sono detenuti in cerca di diritti e libertà?
Suono per divertimento, libertà, e solo per la pace che si basa su fermare gli insediamenti e il ritiro dell’occupazione israeliana dalla Palestina. Per l’istituzione di una Palestina indipendente con Gerusalemme come capitale, per il rilascio di tutti i prigionieri e per il ritorno in patria di tutti i rifugiati espulsi.
Molti dei nostri giovani hanno servito sotto la leva obbligatoria e cosa hanno ricevuto alla fine? La discriminazione in tutti i campi. I nostri villaggi sono i più poveri della regione, le nostre terre sono state confiscate, non abbiamo mappe strutturate, non abbiamo zone industriali.
Il numero di laureati nella nostra regione è il più basso e soffriamo molto il mancato sviluppo.
Questa legge sulla leva obbligatoria ci ha isolati dal mondo arabo.
Per quest’anno ho intenzione di continuare i miei studi superiori e mi auguro di continuare pure gli studi accademici.
Sono sicuro che lei proverà a mettere ostacoli a fronte delle mie ambizioni di uomo, ma io lo dirò a voce alta: ‘Sono Omar Zahreddeen Saad. Non sarò una vittima della vostra guerra e non sarò un soldato del vostro esercito.’ Firmato: Omar Saad”

La lettera, neanche a dirlo, non ha ricevuto risposta né dal primo Ministro né dal Ministro della Difesa. In compenso, continuano a volerlo arruolare, è stato imprigionato sei volte (l’ultima a marzo) e agli avvocati civili – inclusi gli avvocati del New Profile, un groppo per la demilitarizzazione della società israeliana – non è più permesso visitare Saad o altri obiettori di coscienza durante la loro incarcerazione in prigioni militari. E come se non bastasse,150 giorni di carcere non lo hanno lasciato fisicamente indenne. Omar a giugno era ricoverato a casa a causa di una grave infezione al fegato che, secondo il padre, avrebbe contratto per le misere condizioni in cui versava il carcere in cui è stato detenuto: “Omar è entrato in prigione come persona in salute, musicista, atleta, e questo è come ne è uscito.” Il giovane dal canto suo non molla e sostiene Uriel nella comune causa.

Natan Blanc, ebreo israeliano e uno degli obiettori di coscienza da più tempo, negli ultimi anni ha fatto avanti e indietro fra casa e prigione, passando 158 giorni in prigioni militari prima di venir finalmente esonerato dal servizio.
Natan ha iniziato a essere convocato per la leva quando aveva 15 anni. Nel febbraio 2013 raccontò ad Amnesty International: “Nessuno parla di garantire ai palestinesi uguali diritti, o il diritto di voto. Io non voglio prendere parte a questa situazione… voglio stare dietro alle mie azioni e non voglio fare cose che vanno contro la mia coscienza.” Natan piuttosto voleva arruolarsi nel servizio medico di emergenza di Israele, il Magen David Adom (la branca israeliana della Croce Rossa), ma le autorità hanno negato agli obiettori di coscienza il diritto di fare servizio civile alternativo. In Israele non esiste servizio civile alternativo alla leva militare.
Il gruppo anti-militarista New Profile e molte altre associazioni per i diritti umani, comunità e organizzazioni politiche – tra cui Amnesty International, Baladna e il Druze Initiative Committee – hanno lanciato una petizione online facendo appello affinché Israele cessi gli arresti nei confronti degli obiettori di coscienza.

Il 6 giugno scorso il gruppo di attivisti israeliani “Breaking the Silence” ha organizzato in piazza Habima, nel centro di Tel Aviv un evento-maratona di 10 ore nel corso del quale è stata data la parola ad ex soldati israeliani e ad altri che sono tuttora in servizio, per esprimere pubblicamente le loro testimonianze contro l’esercito israeliano davanti a una folla di persone israeliane curiose e che condividevano le stesse opinioni. Si stima fra 350 e 400 coloro che hanno preso parte a questo evento.
Tra i nomi di alcuni degli ex soldati che hanno partecipato all’evento – Avner Guaryahs, Yoni Levy, Shay Davidovich, Nadav Bigelman-, ecco alcuni passaggi delle quattro testimonianze più significative.

Itamar Shwartz
Eravamo nel 2002, il giorno della finale della coppa del mondo. Erano circa le 13 o le 14 – ora israeliana. C’era canicola ed eravamo molto stanchi. Mi ricordo che quel giorno ci siamo fermati davanti ad una delle case mentre una voce nella nostra radio ripeteva: “Dobbiamo trovare un posto con televisione. Dobbiamo seguire la finale.” Era la cosa più assurda. Hanno fatto irruzione in una casa in cui c’erano solo donne e bambini. I soldati hanno rinchiuso tutti nella cucina e si sono sistemati per guardare la partita, per due ore. Io non riuscivo a credere a quel che stava succedendo.

Adi Mazor
Voi potete mentire, proprio come in questo caso. Il mio comandante ha preso il telefono e ha detto: “Noi vediamo là alcuni bambini che lanciano pietre sul muro”. Sicuro, non c’era alcun bambino. Niente. Aveva mentito. Noi abbiamo detto “d’accordo” e il mio collega ed io siamo saliti sul carro. Abbiamo sbloccato una granata stordente e l’abbiamo gettata sopra il muro. C’è stato un grande scoppio. Mi sono accorta di un Palestinese che lavorava nel suo campo. Era atterrito.
Ricordo di essere stata molto fiera del mio gesto. Poi la sensazione di eroismo è presto diventata una sensazione di vergogna. Avevo vergogna di me stessa. Era come se il territorio palestinese fosse un nostro terreno di gioco dove potessimo fare quel che volevamo in qualsiasi momento.

Gil Hellel
Per principio, noi eravamo un’unità mista sul terreno per gestire i disordini provocati dagli Ebrei. La popolazione nella colonia ebraica di Avraham Avinu è nota per essere difficile da gestire e origine di molti problemi. Tutta la città di Hebron è il focolare dei coloni più estremisti, giunti lì per una missione, per così dire: la riconquista della Terra d’Israele. Loro molestano continuamente ogni giorno i Palestinesi che vivono laggiù. In mezzo a tutto ciò, ricordo di aver pensato dentro di me “Ma per l’amor di Dio, cosa sto facendo io qui? Chi sono davvero in procinto di difendere?”

Noam Chayut
C’era grande folla che tentava di attraversare il checkpoint per spostarsi da Gerusalemme a Ramallah, cioè per uscire da quello che noi definiamo il legittimo Israele. Noi li perquisiamo allo stesso modo nei due lati del passaggio. Una volta c’era tra la folla un’adolescente o una giovane donna occidentale, o europea. L’ho guardata e in qualche modo le ho fatto segno di fare il giro invece di aspettare con gli altri. Lei è arretrata di un passo e ha cominciato ad urlare in inglese. “Perché? Che differenza c’è fra me e questa donna con i suoi marmocchi che piangono in coda?” Evidentemente, non ho potuto rispondere, perché non c’era risposta. (Andrea DiCenzo – MEE, Traduzione di Maria Chiara Tropea – Donne in nero)

Ma non solo militari, ex militari e ragazzi arruolabili. Ci sono anche altre prese di posizione da parte dei cittadini israeliani. Come quella di questa ragazza:
“Cara gente di Gaza,
Qualsiasi cosa stia per dire sembrerà priva di senso di fronte a ciò che state attraversando. Però al momento è l’unico strumento che ho – le mie parole. Mi chiamo Naomi Levari (regista e produttrice teatrale e cinematografica, n.d.r.) e vivo in Israele. Mi vergogno e vi chiedo perdono. Mi preoccupo per voi, piango per voi e soffro per le vostre perdite.
Questi sono giorni bui e so che questo non può consolarvi in alcun modo. Ma qualcuno di noi sta facendo tutto quello che può – che non è molto – per mettere fine a tutto questo: dimostrazioni, momenti pubblici, e nei nostri cuori stiamo chiedendo che le nostre preghiere siano ascoltate nel cielo al di sopra delle nostre anime. A voi non è più rimasta alcuna parola.
E io spero che tutto questo cambi presto. Mi appello ai governanti di Israele perché si comportino come persone responsabili, come leader, e che pongano immediatamente fine a questo spargimento di sangue. Ricordo al popolo di Israele che questo non è un videogame, che non ci sono vincitori e vinti, punteggi e classifiche: ci sono solo sconfitti. La gente continua a essere uccisa, le case ad essere distrutte, i sogni ad essere seppelliti. La società israeliana sta perdendo la sua tolleranza e sta diventando una banda di delinquenti.
L’unica cosa che possiamo fare è – ancora una volta -chiedervi perdono e usare tutti gli strumenti che abbiamo per fermare tutto questo.
State al sicuro.”

GAZA 180 MORTI E 1100 FERITI. LETTERA DI UN RABBINO: PERCHÉ NON MI SENTO NEUTRALE

LETTERA DI UN RABBINO: PERCHÉ NON MI SENTO NEUTRALE
Rabbi Neil Janes scrive a un amico israeliano
NEIL JAMES è Rabbino alla Sinagoga ebraica liberale. Sta studiando per conseguire un PhD in Pensiero ebraico con l’università di Haifa. Ha vissuto in Israele prima di tornare nel Regno Unito per il rabbinato congregazionale, dove è voce di punta dell’ebraismo progressista. Ha dedicato a un amico israeliano una lettera pubblicata da Haaretz, una risposta sul tema se sia possibile raggiungere un giudizio obiettivo sulla situazione a Israele e a Gaza.
Di seguito la sua lettera. di Neil James
Caro amico,
mi hanno detto che eri alla ricerca di informazioni obiettive su ciò che sta accadendo in Israele in questo momento, che volevi un parere “neutrale”. Sinceramente, è impossibile raggiungere un giudizio “neutrale”.
Si può comprendere qualcosa di questa regione a partire dallo sviluppo delle religioni abramiche, il legame con la terra di Israele, la storia antica della terra di Gerusalemme e ciò che questa città ha significato per migliaia di anni. Possono insegnarci qualcosa anche il legame degli ebrei con la terra e la connessione con la terra e la natura dell’identità araba, in particolare palestinese, e il suo legame con questo territorio. Possiamo poi comprendere questa regione a partire dalla storia mondiale – la natura del conflitto, il colonialismo e la fine dell’Impero Ottomano. Possiamo anche comprendere qualcosa attraverso la storia del pensiero politico, ivi inclusa l’ascesa del nazionalismo (non semplicemente di destra): lo sviluppo dell’idea dello Stato nazione e del diritto all’autodeterminazione dei popoli. Non dobbiamo dimenticare la storia contemporanea dello Stato di Israele, né ignorare la Shoah, la natura mutevole del potere occidentale, il diritto internazionale.
Ma tutto ciò non aggiunge nulla alla mia risposta.
Io credo appassionatamente alla ricerca della giustizia e della pace, all’eguaglianza per ogni uomo e alla necessità di sostenere sempre il rispetto dei diritti umani per tutti. Sono anche un ebreo e mi sento molto legato al destino del mio popolo. Sono al contempo universalista e particolarista, com’è proprio dell’identità del 21° secolo. Ciò significa che quando tre ragazzini ebrei vengono rapiti e assassinati solo per il fatto di essere ebrei, sento un profondo dolore. Il loro assassinio si riflette anche sulla mia identità di ebreo, perché non sono diverso da loro e se fosse capitato ai miei figli sarebbero probabilmente andati incontro alla stessa sorte.
Ma questo significa anche che provo un profondo dolore anche quando un ragazzino palestinese viene assassinato in quella che si suppone essere una vendetta. La letteratura ebraica insegna il valore della vita, non solo della vita ebrea. E sono disgustato dal fatto che un attacco di quel tipo possa essere stato sollecitato ed eseguito da ebrei. La vita è sia universale (fatta di valori, idee ed esperienze che si applicano in egual modo a tutto il genere umano) che particolare (in quanto ebreo ci sono cose che condivido con altri ebrei e con le loro famiglie).
Ma questo conflitto ha anche un’importanza esistenziale. Non posso essere “neutrale” quando c’è una volontà di annientare sia il mio popolo che la sua presenza nello Stato di Israele. Non posso essere neutrale quando si nega al popolo palestinese la legittima aspirazione a uno Stato quale espressione della propria autodeterminazione e lo Stato di Israele continua ad esercitare troppo potere sul destino di quel popolo.
Come posso essere neutrale, dato che sono i miei amici a cercare rifugio contro le bombe o lasciare i figli a casa quando vengono richiamati nell’esercito come riservisti? Come posso essere neutrale quando la perdita della vita è un trauma e una tragedia che viene inflitta sia agli israeliani che ai palestinesi – vittime di questo meccanismo di violenza e guerra?
Non posso essere neutrale quando l’unico fattore che impedisce agli attacchi indiscriminati con i razzi di lasciare dietro di sé danni e dolore è il fatto che Israele investe nella protezione dei propri cittadini.
Come posso essere neutrale, quando molti palestinesi innocenti vengono usati come scudi umani dal regime brutale di Hamas a Gaza, che penso sia più interessato a cancellare Israele dalla mappa geografica che a lottare per il suo popolo che spera nell’autodeterminazione? Come posso essere neutrale quando so che le voci dell’odio e della vendetta stanno acquisendo più forza tra gli israeliani ebrei e i palestinesi?
Non possiamo essere neutrali. La neutralità implica qualcosa di impossibile – un’assenza di valori, come se ci fossero semplicemente dei fatti “oggettivi” quando si tratta della vita umana. È così complicato, e ci sono così tante sfumature e grandi difficoltà nel leggere lo scenario che si sta profilando al momento.
E tuttavia, io continuo a lavorare per la pace, la giustizia, per una risoluzione del conflitto, per due Stati con confini sicuri. Continuo a impegnarmi per coltivare l’amore, l’empatia e il rispetto per gli altri esseri umani, ma capisco che è difficile farlo se si vive in mezzo al conflitto e non nel comfort di una casa nel Nord Est di Londra, come me.
Ecco il mio consiglio: leggi, rileggi, ascolta, ascolta veramente tutti, cerca di comprendere, fai un passo indietro e leggi ancora qualcosa. Non accettare risposte semplici a problemi complessi. Riconosci che non c’è una “versione” o “narrazione” che offra la verità obiettiva. Troppo spesso noi leggiamo solo materiale che conferma ciò di cui siamo già convinti: sforzati a dare differenti letture, a dare ascolto all’altra parte. Nelle parole di un buon amico e collega: “Oltre che leggere la realtà da diverse prospettive, abbiamo bisogno di comprendere che la verità non sta tra i diversi punti di vista – non stiamo sperando di raggiungere un compromesso tra due visioni della storia, ma piuttosto dobbiamo accettare che le narrazioni opposte sono entrambe parte di una verità complessa e costituita da molte voci”.
Infine, continua ad attenerti ai valori che un giorno, come io prego, trionferanno: la verità, la giustizia, la pace e l’amore.
Tuo,
Rabbino Neil Janes

“L’escalation di violenza non è la soluzione, al contrario è il problema principale”. Intervista a Eitan Altman | Fonte: nena news | Autore: giovanni vigna

Eitan Altman è un ricercatore e artista israeliano che vive in Francia dal 1990. Alla luce della drammatica situazione che si è creata in Israele e a Gaza nelle ultime ore, sembra che il sogno di Altman sia definitivamente svanito. Eitan conosce la tragedia del popolo palestinese. Nel corso della sua vita ha militato nel partito comunista del suo paese, nel quale coesistevano israeliani e arabi, impegnati in una battaglia comune: la lotta per una pace giusta in Medio Oriente. Quando Altman ha risposto alle nostre domande, l’operazione “Barriera protettiva”, lanciata dal governo israeliano contro i palestinesi della Striscia di Gaza, non era ancora iniziata. Abbiamo chiesto ad Altman di commentare la reazione del governo di Tel Aviv, scatenata dal ritrovamento dei cadaveri dei tre ragazzi ebrei, che ha innescato la spirale di violenza alla quale stiamo assistendo in questi giorni.Signor Altman, lei è israeliano ma lavora in Francia dal 1990. Cosa pensa della scoperta dei corpi dei tre ragazzi israeliani rapiti alcune settimane fa?

Provo dolore e orrore. I ragazzi israeliani sono vittime dell’odio e della barbarie. Provo sofferenza per ogni ragazzo ucciso, israeliano e palestinese. Mi sconvolge vedere che dei bambini siano diventati obiettivi di arresti, umiliazioni, proiettili veri e di gomma, violenze fisiche e mancanza di cibo e acqua.

Cosa pensa della reazione del governo israeliano contro Hamas?

L’escalation di violenza non è la soluzione, al contrario è il problema principale. Ciò che il governo israeliano offre ai palestinesi è l’estensione della colonizzazione delle loro terre, l’aggravamento della pulizia etnica e l’aumento della miseria. E’ una politica che crea disperazione e non speranza, violenza e non pace.

Gli omicidi dei ragazzi israeliani indeboliscono il neonato governo di unità nazionale formato da Hamas e dall’Anp?

In passato, quando Hamas era pronta ad iniziare i negoziati di pace, Israele ha fatto fallire questa possibilità. Nel corso della precedente operazione militare che ha interessato Gaza, il leader di Hamas Ahmed Al-Jabari è stato assassinato immediatamente dopo che lo stesso dirigente palestinese aveva accettato la proposta egiziana finalizzata a raggiungere un accordo per un cessate il fuoco prolungato. A tale proposito consiglio di leggere l’articolo “Israel’s Shortsighted Assassination” di Gershon Baskin, pubblicato il 16 novembre 2012 sul New York Times. La ritrovata unità nazionale palestinese fornisce una nuova chance per la pace contestualmente alla legittimazione internazionale di Hamas che, per la prima volta, fa parte di un governo che accetta le tre condizioni dettate dal “Quartetto”, l’entità diplomatica formata da Nazioni Unite, Unione Europea, Russia e Stati Uniti. Queste condizioni sono l’opposizione alla violenza, l’accettazione degli accordi esistenti e il riconoscimento dello Stato di Israele. Tuttavia il governo di Tel Aviv preferisce continuare la pulizia etnica e la colonizzazione e, per questo, gli israeliani provocano Hamas e vanificano la possibilità dei negoziati di pace con un partner largamente legittimato. Israele sta utilizzando la tragedia dei tre ragazzi ebrei uccisi come pretesto per attaccare Hamas anche se i dirigenti dell’organizzazione politica che amministra la Striscia di Gaza non hanno rivendicato il rapimento e l’omicidio dei tre giovani israeliani.

Che cosa si aspettano i palestinesi dal governo israeliano?

I palestinesi sanno che l’attuale regime israeliano continuerà a sfruttare tutte le opportunità per colonizzare, confiscare le loro terre, costruire muri, reprimere duramente la resistenza non violenta, arrestare i bambini e ignorare le decisioni dell’ONU e le leggi internazionali. I palestinesi auspicano che cresca ulteriormente la solidarietà di tutti i paesi del mondo verso il loro popolo e sperano che questa solidarietà induca Israele a cambiare politica. Il recente riconoscimento della Palestina come Stato osservatore all’interno delle Nazioni Unite è un segnale che va in tale direzione.

Che cosa pensa dell’occupazione della Palestina da parte di Israele?

Come israeliano provo vergogna e mi sento responsabile. Il fatto che l’occupazione duri da molto tempo e il fatto che la pulizia etnica in Palestina prosegua ancora oggi potrebbe scoraggiare molte persone. L’identità nazionale di milioni di rifugiati palestinesi si è rafforzata durante gli ultimi anni. Perciò penso che, nonostante tutto, potrò vedere la fine dell’occupazione nel corso della mia vita.

Può descrivere la sua attività come ricercatore e artista?

Sono un ricercatore dell’istituto nazionale francese di ricerca INRIA e sono specializzato nell’analisi dei social network. A questo lavoro ho associato la mia attività artistica nell’ambito della composizione di brani musicali, della pittura e della creazione di video in collaborazione con altri artisti. Solitamente pubblico questi filmati sui social network.

Quali sono le sue relazioni con i palestinesi?

Ho fatto parte del partito comunista israeliano che era composto da un mix di ebrei e arabi impegnati nella lotta per una pace giusta in Medio Oriente. Attraverso questa battaglia comune, prima in Israele e poi in Francia, ho incontrato artisti palestinesi eccezionali con i quali sto collaborando alla creazione di video. Posso citare i nomi dei pittori Abed Abdi e Souad Nasr Makhoul e dei cantanti Amal Murkus e Imad Saleh. Ho anche prodotto alcuni video dedicati alle opere di grandi pittori palestinesi che sarei onorato di incontrare, come ad esempio Sliman Mansour, Nabil Anani, Nasrin Abu Baker, Neda Mattar e Juhaina Habibi Kandalaft.

Sua madre è una sopravvissuta del campo di concentramento di Janowska, situato a Lvov. In che modo la tragedia dell’Olocausto ha influenzato la sua vita?

Mia madre ha perso la sua famiglia a causa dell’Olocausto. La cosa più terribile è che la Shoah è stata utilizzata dal regime israeliano per giustificare l’oppressione dei palestinesi. Gli israeliani mandano gli studenti e i soldati in Polonia a visitare i lager con l’obiettivo di convincerli che Israele deve essere forte. L’Olocausto è stato utilizzato per delegittimare tutte le critiche indirizzate agli israeliani dalla comunità internazionale. Chi critica Israele viene accusato di antisemitismo. La tragedia dei campi di sterminio ha reso mia madre particolarmente sensibile alla sofferenza degli altri popoli. Dalla sua esperienza ho imparato che tutti i popoli possono diventare crudeli e che al peggio non c’è mai fine. E’ facile chiudere gli occhi e abituarsi alla violenza. D’altra parte mia madre non sarebbe sopravvissuta senza le eroiche azioni delle persone che hanno fatto parte della Resistenza polacca, come ad esempio Michael Borowitz, e che hanno rischiato le proprie vite per salvare gli ebrei. Oggi noi che abitiamo in Europa abbiamo il privilegio di lottare per una pace giusta in Palestina senza rischiare la vita. Mi auguro che l’attuale politica israeliana non dia luogo a nuove catastrofi umanitarie.

Fermiamo le due stragi: a Gaza e in Italia.da: il manifesto

 

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Tutti sap­piamo che in que­sto momento è in corso una strage: cen­ti­naia di civili pale­sti­nesi inno­centi, donne, bam­bini, anziani muo­iono sotto i bom­bar­da­menti ter­ro­ri­stici di Israele. Non intendo par­lare di que­sto nel det­ta­glio: que­sto gior­nale (Il Mani­fe­sto) lo fa già ampia­mente e in maniera pro­fes­sio­nale ed one­sta. Leg­ge­telo, leg­gete gli arti­coli dei miei col­le­ghi: Michele Gior­gio, Chiara Cru­ciati, Anto­nio Maz­zeo, Man­lio Dinucci, e tutti gli altri. E Norma Ran­geri, e Tom­maso di Fran­ce­sco. C’è un’altra strage in corso, meno cruenta senz’altro, ma altret­tanto — nel suo ambito — grave. La strage dell’informazione. Il bom­bar­da­mento ter­ro­ri­stico di noti­zie e titoli inde­gni che la stampa nazio­nale sta effet­tuando pro­prio su Gaza. Ho messo una vignetta ad ini­zio arti­colo, credo che parli più di mille elze­viri. Isreale è un pila­stro dell’imperialismo sta­tu­ni­tense ed occi­den­tale nel mondo. Israele è alleato dell’Italia, eco­no­mico e mili­tare. Israele acqui­sta le nostre armi e i nostri aerei. Obama pre­mio nobel bal­betta imba­raz­zato sulla strage in corso. Renzi o chi per lui non twitta nulla sul geno­ci­dio a Gaza, occu­pan­dosi invece in un inglese degno di Totò e Pep­pino di man­dare tutti a pranzo (que­sta è una sto­ria sulla quale tor­ne­remo). Ergo, le “indi­ca­zioni edi­to­riali” sono facil­mente intui­bili. Con­trab­ban­dare le seguenti menzogne:

  • A Gaza è in corso una guerra (non lo è, una guerra si com­batte ad armi pari, non il quarto eser­cito del mondo con cac­cia­bom­bar­dieri e carri armati con­tro bande che lan­ciano razzi rudi­men­tali imme­dia­ta­mente inter­cet­tati dalla con­trae­rea, e non si com­batte una guerra bom­bar­dando deli­be­ra­ta­mente case civili, scuole, ospe­dali nelle quali NON c’è nes­sun “nemico”)
  • A Gaza è in corso una lotta fra­tri­cida (non è vero, il body count dei morti è — ad ora — circa 200 morti e 1000 feriti a zero, quindi uno dei due “fra­telli” non muore)
  • I ter­ro­ri­sti di Hamas sono la causa di tutto que­sto e Israele deve solo difen­dersi (non è vero, Israele attua que­sta “poli­tica” da decenni prima che Hamas esi­stesse, fin dal 1948, si veda alla fine dell’articolo la sto­ria delle riso­lu­zioni ONU. Diciamo allora che il “pro­blema” sono i palestinesi?)
  • L’occidente vuole la pace e invita alla pace (falso, l’occidente vive di guerra, le sue eco­no­mie sono eco­no­mie di guerra che sulla guerra prosperano)
  • Israele ha il diritto di esi­stere e dob­biamo tute­larlo (falso. Ammesso per como­dità di discorso l’accettabilità del con­cetto di Stato (discorso che ci por­te­rebbe fuori strada e che tra­la­sciamo), il popolo israe­liano ha diritto a vivere in uno stato, così come il popolo pale­sti­nese ha il mede­simo diritto, ma non all’interno di uno stato con­fes­sio­nale e raz­zi­sta che per­se­gue una poli­tica di occu­pa­zione ter­ro­ri­stica e criminale)
  • Hamas usa il popolo pale­sti­nese come scudo umano (falso, nes­suno degli 8–10 mem­bri di Hamas che Israele ha deciso di assas­si­nare si trova o ha detto di tro­varsi nelle cen­ti­naia di case, scuole, ospe­dali che sono stati distrutti e bombardati)
  • Non c’è solu­zione a que­sto con­flitto se i pale­sti­nesi non la smet­tono di fare i ter­ro­ri­sti (falso. Non c’è solu­zione a que­sto geno­ci­dio e a que­sta strage se Israele non ces­serà di avere nel suo DNA e nella sua costi­tu­zione, nella sua classe poli­tica di ogni parte, la mis­sione di por­tare avanti una occu­pa­zione con metodi inu­mani e cri­mi­nali di ter­ri­tori dove vivono altre popolazioni).
  • Il popolo israe­liano e il popolo pale­sti­nese vogliono la pace e cre­dono nella pace (falso. L’opinione pub­blica israe­liana è lar­ga­mente favo­re­vole alla poli­tica del suo governo, men­tre i pale­sti­nesi dopo 60 anni e tante vuote “road map” alla pace non cre­dono più, mirano alla soprav­vi­venza, se non la loro, almeno del loro popolo, attuata ad esem­pio con un tasso di nata­lità molto alto)

Ecce­tera. Cir­co­lano foto­gra­fie dav­vero rac­ca­pric­cianti di bam­bini e donne e anziani uccisi in maniera inu­mana dai bom­bar­da­menti. Non quelle qui pub­bli­che­remo: ci sono i siti dove vederle e veri­fi­carle, a decine. Sui social net­work, l’ultima linea di difesa del sem­pre pre­sente gruppo di “né-né” ita­lioti, che non vogliono vedere, pre­fe­ri­scono non vedere e si occu­pano più pro­fi­cua­mente dei Mon­diali di cal­cio oppure dell’estate che non arriva, è che que­ste foto sono “di cat­tivo gusto” e non ser­vono a nulla. “Di cat­tivo gusto”, dav­vero, mi pare la frase asso­lu­ta­mente adatta per defi­nire quanto sta suc­ce­dendo lag­giù: dav­vero di cat­tivo gusto distur­bare così la nostra estate ita­liana, la nostra sen­si­bi­lità, e i Mon­diali di cal­cio. Pub­bli­che­remo altre foto, altret­tanto forti, anzi secondo noi assai peg­giori, l’altra strage, quella dei media nazionali.

 

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Esem­pio 1. Israele a Hamas: fer­ma­tevi. Poi, in pic­colo (A Gaza 50 morti). Per aggiunta (Gli inte­gra­li­sti: pun­tiamo alla cen­trale nucleare).

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Esem­pio 2: Israele e Hamas, lampi di guerra. Raid in rispo­sta ai razzi, 19 morti. Sirene a Geru­sa­lemme e Tel Aviv..

Io non credo siano neces­sari com­menti. Lasciamo par­lare que­ste orri­bili foto. E que­ste orri­bili parole che, come ha detto qual­cuno tempo fa, sono come pietre.

D’altra parte, occorre seguire certi trend. Guar­dando all’estero, un caso per tutti, il The New York Times titola i suoi pezzi in maniera aper­ta­mente (e banal­mente) par­ziale e ingan­ne­vole. Poi con un click su Goo­gle sco­pri che la gior­na­li­sta “inviata a Tel Aviv” è la moglie di una figura pub­blica israe­liana. (Gra­zie a Ld’A per la segna­la­zione).

L’importante, come sem­pre, è essere una Stato paci­fico ed edu­care i pro­pri bam­bini alla pace. Chi ha tempo e sto­maco apra allora que­sto link, è una pre­mière, dato che nes­sun media ita­liano ne ha sicu­ra­mente par­lato (gra­zie a AM per la segna­la­zione) https:// ​www​.face​book​.com/​p​h​o​t​o​.​p​h​p​?​v​=​6​5​9​1​1​7​3​0​0​8​4​5​7​ 6​1​&​a​m​p​;​s​e​t​=​v​b​.​3​3​3​0​1​2​7​4​3​4​5​6​2​2​0​&​a​m​ p​;​t​y​p​e​=​2​&​a​m​p​;​t​h​e​a​ter 

Quanto sta suc­ce­dendo a Gaza, e in Pale­stina da 66 anni, è la diretta con­se­guenza dell’imperialismo. Ne è parte inte­grante. Il capi­ta­li­smo non può che soprav­vi­vere così: la mac­china poli­tica, eco­no­mica e sociale dell’occidente viene oliata con il san­gue di que­ste guerre. La solu­zione c’è: una ribel­lione di massa. Altri­menti, come que­ste mie d’altronde, sono solo parole.

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Sono da sem­pre, per neces­sità, uno stu­dioso del periodo fasci­sta e di con­se­guenza nazi­sta. E’ meglio sapere e cono­scere, per poter con­tra­stare effi­ca­ce­mente. Ho tro­vato e riporto qui due frasi di Joseph Goeb­bels, il cri­mi­nale mini­stro della pro­pa­ganda del terzo reich, respon­sa­bile fra i primi dell’orribile geno­ci­dio degli ebrei. Anche que­ste, senza com­mento, sol­tanto per riflet­tere. Non intendo fare paral­leli impro­pri e anti­sto­rici. Ma riflet­tiamo: e nel riflet­tere, fer­mia­moci e scen­diamo paci­fi­ca­mente nelle piazze per chie­dere la fine di tutto questo.

Goeb­bels (1938): “In quasi tutte le città tede­sche le sina­go­ghe sono state incen­diate. Esi­stono varie pos­si­bi­lità per uti­liz­zare il ter­reno sul quale sor­ge­vano. Alcune città vogliono costruirvi giar­dini; altre, case.”.

Goeb­bels (1942): “Si sta inflig­gendo agli ebrei una puni­zione certo bar­bara, ma che hanno pie­na­mente meri­tato. In simili que­stioni non si può lasciar spa­zio ai sen­ti­menti. Se non ci difen­des­simo, gli ebrei ci ster­mi­ne­reb­bero. E’ una lotta per la vita o la morte.”

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Con­cludo con un ser­vi­zio utile per i gior­na­li­sti ita­liani. E’ un elen­cuc­cio delle riso­lu­zioni ONU che riguar­dano Israele, non molto aggior­nato, ma chissà, può risul­tare inte­res­sante per loro. (Gra­zie al sito di Vik Arri­goni)

– Assem­blea Gene­rale riso­lu­zione 194 (1947): pro­fu­ghi pale­sti­nesi hanno il diritto di tor­nare alle loro case in Israele; 
– Riso­lu­zione 106 (1955): Con­danna Israele per l’attacco a Gaza; 
– Riso­lu­zione 111 (1956): con­danna Israele per l’attacco alla Siria, che ha ucciso cinquanta-sei per­sone; 
– Risoluzione 127 (1958): rac­co­manda a Israele di sospen­dere la sua zona “no man” (di nes­suno) a Geru­sa­lemme;
– Riso­lu­zione 162 (1961): chiede a Israele di rispet­tare le deci­sioni delle Nazioni Unite;
– Riso­lu­zione 171 (1962): indica bru­tali vio­la­zioni del diritto inter­na­zio­nale da parte di Israele nel suo attacco alla Siria;
– Riso­lu­zione 228 (1966): cen­sura Israele per il suo attacco a Samu in Cisgior­da­nia, allora sotto il con­trollo gior­dano;
– Riso­lu­zione 237 (1967): chiede con urgenza a Israele di con­sen­tire il ritorno dei pro­fu­ghi pale­sti­nesi;
– Riso­lu­zione 242 (1967): l’occupazione israe­liana della Pale­stina è ille­gale;
– Riso­lu­zione 248 (1968): con­danna Israele per il suo attacco mas­sic­cio su Kara­meh in Gior­da­nia;
– Riso­lu­zione 250 (1968): chiede a Israele di aste­nersi dal dispie­ga­mento mili­tare (parata) a Geru­sa­lemme;
– Riso­lu­zione 251 (1968): deplora pro­fon­da­mente il dispie­ga­mento mili­tare (parata) israe­liano a Geru­sa­lemme, in spre­gio della riso­lu­zione 250;
– Riso­lu­zione 252 (1968): dichiara nulli gli atti di Israele volti a uni­fi­care Geru­sa­lemme come capi­tale ebraica;
– Riso­lu­zione 256 (1968): con­danna del raid israe­liano sulla Gior­da­nia e delle palesi vio­la­zioni del diritto inter­na­zio­nale;
– Riso­lu­zione 259 (1968): deplora il rifiuto di Israele di accet­tare la mis­sione delle Nazioni Unite per valu­tare l’occupazione dei ter­ri­tori;
– Riso­lu­zione 262 (1968): con­danna Israele per l’attacco sull’aeroporto di Bei­rut;
– Riso­lu­zione 265 (1969): con­danna Israele per gli attac­chi aerei di Salt in Gior­da­nia;
– Riso­lu­zione 267 (1969): cen­sura Israele per gli atti ammi­ni­stra­tivi atti a modi­fi­care lo sta­tus di Geru­sa­lemme;
– Riso­lu­zione 270 (1969): con­danna Israele per gli attac­chi aerei sui vil­laggi nel sud del Libano;
– Riso­lu­zione 271 (1969): con­danna Israele per la man­cata ese­cu­zione delle riso­lu­zioni delle Nazioni Unite su Geru­sa­lemme;
– Riso­lu­zione 279 (1970): chiede il ritiro delle forze israe­liane dal Libano;
– Riso­lu­zione 280 (1970): con­danna gli attac­chi israe­liani con­tro il Libano;
–Riso­lu­zione 285 (1970): richie­sta dell’immediato ritiro israe­liano dal Libano;
– Riso­lu­zione 298 (1971): deplora il cam­bia­mento dello sta­tus di Geru­sa­lemme ad opera di Israele;
– Riso­lu­zione 313 (1972): chiede ad Israele di fer­mare gli attac­chi con­tro il Libano;
– Riso­lu­zione 316 (1972): con­danna Israele per i ripe­tuti attac­chi sul Libano;
– Riso­lu­zione 317 (1972): deplora il rifiuto di Israele di riti­rarsi dagli attac­chi;
– Riso­lu­zione 332 (1973): con­danna di Israele ripe­tuti attac­chi con­tro il Libano;
– Riso­lu­zione 337 (1973): con­danna Israele per aver vio­lato la sovra­nità del Libano;
– Riso­lu­zione 347 (1974): con­danna gli attac­chi israe­liani sul Libano;
– Assem­blea Gene­rale riso­lu­zione 3236 (1974): san­ci­sce i diritti ina­lie­na­bili del popolo pale­sti­nese in Pale­stina all’autodeterminazione senza inter­fe­renze esterne, all’indipendenza e alla sovra­nità nazio­nale;
– Riso­lu­zione 425 (1978): chiede a Israele di riti­rare le sue forze dal Libano;
– Riso­lu­zione 427 (1978): chiede a Israele di com­ple­tare il suo ritiro dal Libano;
– Riso­lu­zione 444 (1979): si ram­ma­rica della man­canza di coo­pe­ra­zione con le forze di pace delle Nazioni Unite da parte di Israele;
– Riso­lu­zione 446 (1979): sta­bi­li­sce che gli inse­dia­menti israe­liani sono un grave osta­colo per la pace e chiede a Israele di rispet­tare la Quarta Con­ven­zione di Gine­vra;
– Riso­lu­zione 450 (1979): chiede a Israele di smet­tere di attac­care il Libano;
– Riso­lu­zione 452 (1979): chiede a Israele di ces­sare la costru­zione di inse­dia­menti nei ter­ri­tori occu­pati;
– Riso­lu­zione 465 (1980): deplora gli inse­dia­menti di Israele e chiede a tutti gli Stati mem­bri di non dare assi­stenza agli inse­dia­menti in pro­gramma;
– Riso­lu­zione 467 (1980): deplora viva­mente l’intervento mili­tare di Israele in Libano;
– Riso­lu­zione 468 (1980): chiede a Israele di annul­lare le espul­sioni ille­gali di due sin­daci pale­sti­nesi e di un giu­dice, e di faci­li­tare il loro rien­tro;
– Riso­lu­zione 469 (1980): deplora viva­mente la man­cata osser­vanza da parte di Israele dell’ordine del Con­si­glio di non depor­tare i pale­sti­nesi;
– Riso­lu­zione 471 (1980): esprime pro­fonda pre­oc­cu­pa­zione per il man­cato rispetto della Quarta Con­ven­zione di Gine­vra da parte di Israele;
– Riso­lu­zione 476 (1980): riba­di­sce che la richie­sta di Geru­sa­lemme da parte di Israele è nulla;
– Riso­lu­zione 478 (1980): cen­sura Israele, nei ter­mini più ener­gici, per la sua pre­tesa di porre Geru­sa­lemme sotto la pro­pria legge fon­da­men­tale;
– Riso­lu­zione 484 (1980): dichiara impe­ra­ti­va­mente che Israele rila­sci i due sin­daci pale­sti­nesi depor­tati;
– Riso­lu­zione 487 (1981): con­danna con forza Israele per il suo attacco con­tro l’impianto per la pro­du­zione di ener­gia nucleare in Iraq;
– Riso­lu­zione 497 (1981): dichiara che l’annessione israe­liana del Golan siriano è nulla e chiede che Israele revo­chi imme­dia­ta­mente la sua deci­sione;
– Riso­lu­zione 498 (1981): chiede a Israele di riti­rarsi dal Libano;
– Riso­lu­zione 501 (1982): chiede a Israele di fer­mare gli attac­chi con­tro il Libano e di riti­rare le sue truppe;
– Riso­lu­zione 509 (1982): chiede ad Israele di riti­rare imme­dia­ta­mente e incon­di­zio­na­ta­mente le sue forze dal Libano;
– Riso­lu­zione 515 (1982): chiede ad Israele di allen­tare l’assedio di Bei­rut e di con­sen­tire l’ingresso di approv­vi­gio­na­menti ali­men­tari;
– Riso­lu­zione 517 (1982): cen­sura Israele per non obbe­dire alle riso­lu­zioni ONU e gli chiede di riti­rare le sue forze dal Libano;
– Riso­lu­zione 518 (1982): chiede che Israele coo­peri pie­na­mente con le forze delle Nazioni Unite in Libano;
– Riso­lu­zione 520 (1982): con­danna l’attacco di Israele a Bei­rut Ovest;
– Riso­lu­zione 573 (1985): con­danna vigo­ro­sa­mente Israele per i bom­bar­da­menti in Tuni­sia durante l’attacco alla sede dell’OLP;
– Riso­lu­zione 587 (1986): prende atto della pre­ce­dente richie­sta a Israele di riti­rare le sue forze dal Libano ed esorta tutte le parti a riti­rarsi;
– Riso­lu­zione 592 (1986): deplora viva­mente l’uccisione di stu­denti pale­sti­nesi all’università di Bir Zeit ad opera di truppe israe­liane;
– Riso­lu­zione 605 (1987): deplora viva­mente le poli­ti­che e le prassi israe­liane che negano i diritti umani dei pale­sti­nesi;
– Riso­lu­zione 607 (1988): chiede ad Israele di non espel­lere i pale­sti­nesi e di rispet­tare la Quarta Con­ven­zione di Gine­vra;
– Riso­lu­zione 608 (1988): si ram­ma­rica pro­fon­da­mente del fatto che Israele ha sfi­dato le Nazioni Unite e depor­tato civili pale­sti­nesi;
– Riso­lu­zione 636 (1989): si ram­ma­rica pro­fon­da­mente della depor­ta­zione di civili pale­sti­nesi ad opera di Israele;
– Riso­lu­zione 641 (1989): con­ti­nua a deplo­rare la depor­ta­zione israe­liana dei pale­sti­nesi;
– Riso­lu­zione 672 (1990): con­danna Israele per le vio­lenze con­tro i Pale­sti­nesi a Haram Al-Sharif/Temple Monte;
– Riso­lu­zione 673 (1990): deplora il rifiuto israe­liano a coo­pe­rare con le Nazioni Unite;
– Riso­lu­zione 681 (1990): deplora la ripresa israe­liana della depor­ta­zione dei pale­sti­nesi;
– Riso­lu­zione 694 (1991): si ram­ma­rica della depor­ta­zione dei pale­sti­nesi e chiede ad Israele di garan­tire la loro sicu­rezza e il ritorno imme­diato;
– Riso­lu­zione 726 (1992): con­danna fer­ma­mente la depor­ta­zione dei pale­sti­nesi ad opera di Israele;
– Riso­lu­zione 799 (1992): con­danna fer­ma­mente la depor­ta­zione di 413 pale­sti­nesi e chiede ad Israele il loro imme­diato ritorno;
– Riso­lu­zione 1397 (2002): afferma una visione di una regione in cui due Stati, Israele e Pale­stina, vivono fianco a fianco all’interno di fron­tiere sicure e rico­no­sciute;
– La riso­lu­zione dell’Assemblea gene­rale ES-10/15 (2004): dichiara che il muro costruito all’interno dei ter­ri­tori occu­pati è con­tra­rio al diritto inter­na­zio­nale e chiede a Israele di demolirlo.

Ecco il contributo dell’Italia ai raid dell’aviazione di Tel Aviv Fonte: Il Manifesto | Autore: Manlio Dinucci

Armi. La cooperazione sancita da una legge del 2005. Coinvolte le forze armate all’interno di un vincolo di segretezza

I cac­cia­bom­bar­dieri che mar­tel­lano Gaza sono F-16 e F-15 for­niti dagli Usa a Israele (oltre 300, più altri aerei ed eli­cot­teri da guerra), insieme a migliaia di mis­sili e bombe a guida satel­li­tare e laser.
Come docu­menta il Ser­vi­zio di ricerca del Con­gresso Usa (11 aprile 2014), Washing­ton si è impe­gnato a for­nire a Israele, nel 2009–2018, un aiuto mili­tare di 30 miliardi di dol­lari, cui l’amministrazione Obama ha aggiunto nel 2014 oltre mezzo miliardo per lo svi­luppo di sistemi anti-razzi e anti-missili. Israele dispone a Washing­ton di una sorta di cassa con­ti­nua per l’acquisto di armi sta­tu­ni­tensi, tra cui sono pre­vi­sti 19 F-35 del costo di 2,7 miliardi. Può inol­tre usare, in caso di neces­sità, le potenti armi stoc­cate nel «Depo­sito Usa di emer­genza in Israele». Al con­fronto, l’armamento pale­sti­nese equi­vale a quello di chi, inqua­drato da un tira­tore scelto nel mirino tele­sco­pico di un fucile di pre­ci­sione, cerca di difen­dersi lan­cian­do­gli il razzo di un fuoco artificiale.

Un con­si­stente aiuto mili­tare a Israele viene anche dalle mag­giori potenze euro­pee. La Ger­ma­nia gli ha for­nito 5 sot­to­ma­rini Dol­phin (di cui due rega­lati) e tra poco ne con­se­gnerà un sesto. I sot­to­ma­rini sono stati modi­fi­cati per lan­ciare mis­sili da cro­ciera nucleari a lungo rag­gio, i Popeye Turbo deri­vati da quelli Usa, che pos­sono col­pire un obiet­tivo a 1500 km. L’Italia sta for­nendo a Israele i primi dei 30 veli­voli M-346 da adde­stra­mento avan­zato, costruiti da Ale­nia Aer­mac­chi (Fin­mec­ca­nica), che pos­sono essere usati anche come cac­cia per l’attacco al suolo in ope­ra­zioni bel­li­che reali.

La for­ni­tura dei cac­cia M-346 costi­tui­sce solo una pic­cola parte della coo­pe­ra­zione mili­tare italo-israeliana, isti­tu­zio­na­liz­zata dalla Legge n. 94 del 17 mag­gio 2005. Essa coin­volge le forze armate e l’industria mili­tare del nostro paese in atti­vità di cui nes­suno (nep­pure in par­la­mento) viene messo a cono­scenza. La legge sta­bi­li­sce infatti che tali atti­vità sono «sog­gette all’accordo sulla sicu­rezza» e quindi segrete. Poi­ché Israele pos­siede armi nucleari, alte tec­no­lo­gie ita­liane pos­sono essere segre­ta­mente uti­liz­zate per poten­ziare le capa­cità di attacco dei vet­tori nucleari israe­liani. Pos­sono essere anche usate per ren­dere ancora più letali le armi «con­ven­zio­nali» usate dalla forze armate israe­liane con­tro i palestinesi.

La coo­pe­ra­zione mili­tare italo-israeliana si è inten­si­fi­cata quando il 2 dicem­bre 2008, tre set­ti­mane prima dell’operazione israe­liana «Piombo fuso» a Gaza, la Nato ha rati­fi­cato il «Pro­gramma di coo­pe­ra­zione indi­vi­duale» con Israele. Esso com­prende: scam­bio di infor­ma­zioni tra i ser­vizi di intel­li­gence, con­nes­sione di Israele al sistema elet­tro­nico Nato, coo­pe­ra­zione nel set­tore degli arma­menti, aumento delle eser­ci­ta­zioni mili­tari con­giunte.
In tale qua­dro rien­tra la «Blue Flag», la più grande eser­ci­ta­zione di guerra aerea mai svol­tasi in Israele, cui hanno par­te­ci­pato nel novem­bre 2013 Stati uniti, Ita­lia e Gre­cia. La «Blue Flag» è ser­vita a inte­grare nella Nato le forze aeree israe­liane, che ave­vano prima effet­tuato eser­ci­ta­zioni con­giunte solo con sin­goli paesi dell’Alleanza, come quelle a Deci­mo­mannu con l’aeronautica ita­liana. Le forze aeree israe­liane, sot­to­li­nea il gene­rale Ami­kam Nor­kin, stanno spe­ri­men­tando nuove pro­ce­dure per poten­ziare la pro­pria capa­cità, «accre­scendo di dieci volte il numero di obiet­tivi che ven­gono indi­vi­duati e distrutti». Ciò che sta facendo in que­sto momento a Gaza, gra­zie anche al con­tri­buto italiano.

“Il vero obiettivo di Israele è salvaguardare lo status quo, quindi niente pace”. L’analisi di Gideon Levy, Haaretz | Fonte: nena news | Autore: gideon levy

Israele non vuole la pace. Non c’è niente di quello che ho scritto finora di cui sarei più contento di essere smentito. Ma le prove si sono accumulate a dismisura. In effetti, si può dire che Israele non ha mai voluto la pace – una pace giusta, cioè basata su un compromesso equo per entrambe le parti.È vero che l’abituale saluto in ebraico è “Shalom” (“Pace”) – quando uno se ne va e quando arriva. E, di primo acchitto, praticamente ogni israeliano direbbe di volere la pace, è ovvio. Ma non farebbe riferimento al tipo di pace che porterebbe anche alla giustizia, senza la quale non c’è pace, e non ci potrà essere. Gli israeliani vogliono la pace, non la giustizia, certamente non basata su principi universali. Quindi, “Pace, pace, quando pace non c‘è.” Non soltanto non c’è pace: negli anni recenti, Israele si è allontanato persino dall’aspirare a fare la pace. Ha perso totalmente lil desiderio di farla. La pace è scomparsa dalla prospettiva di Israele, e il suo posto è stato preso da un’ansietà collettiva che si è sistematicamente impiantata, e da questioni personali, private che ora hanno la prevalenza su tutto il resto.

Verosimilmente il desiderio di pace di Israele è morto circa dieci anni fa, dopo il fallimento del summit di Camp David nel 2000, la diffusione della menzogna secondo cui non ci sono partner palestinesi per fare la pace, e, ovviamente, l’orribile periodo intriso di sangue della Seconda Intifada. Ma la verità è che, persino prima di tutto questo, Israele non ha mai veramente voluto la pace. Israele non ha mai, neppure per un minuto, trattato i palestinesi come esseri umani con pari diritti. Non ha mai visto la loro sofferenza come una comprensibile sofferenza umana e nazionale. Anche il campo pacifista israeliano- se pure è mai esistito qualcosa del genere – è morto anche lui di una lunga agonia tra le sconvolgenti scene della Seconda Intifada e la menzogna della mancanza di una controparte [palestinese]. Tutto ciò che è rimasto è stato un pugno di organizzazioni tanto determinate e impegnate quanto inefficaci nel contrastare le campagne di delegittimazione costruite contro di loro. Perciò Israele è rimasto con il suo atteggiamento di rifiuto.

Il dato di fatto più evidente del rifiuto della pace da parte di Israele è, ovviamente, il progetto di colonizzazione. Fin dalle sue origini, non c’è mai stato una più attendibile o più evidente prova inconfutabile delle reali intenzioni [di Israele] di questa particolare iniziativa. In poche parole: chi costruisce gli insediamenti vuole consolidare l’occupazione, e chi vuole consolidare l’occupazione non vuole la pace. Questa in sintesi è la questione. Ammettendo che le decisioni di Israele siano razionali, è impossibile accettare che la costruzione delle colonie e l’aspirazione alla pace siano vicendevolmente. Ogni attività per la costruzione degli insediamenti dei coloni, ogni roulotte e ogni balcone trasmette rifiuto. Se Israele avesse voluto raggiungere la pace attraverso gli Accordi di Oslo, avrebbe almeno bloccato la costruzione di colonie di sua spontanea iniziativa. Il fatto che non sia avvenuto prova che gli accordi di Oslo sono stati un inganno, o nella migliore delle ipotesi la cronaca di un fallimento annunciato. Se Israele avesse voluto ottenere la pace a Taba, a Camp David, a Sharm el-Sheikh, a Washington o a Gerusalemme, la sua prima mossa avrebbe dovuto essere la fine di qualunque tipo di edificazione nei Territori [occupati]. Senza porre condizioni. Senza contropartita. Che Israele non lo abbia fatto è la prova che non vuole una pace giusta.

Ma le colonie sono state solo la pietra di paragone delle intenzioni di Israele. Il suo atteggiamento di rifiuto è molto più profondamente radicato nel suo DNA, nelle sue vene, nella sua ragione d’essere, nelle sue originarie convinzioni. Lì, a livello più profondo, risiede il concetto che questa terra è destinata solo agli Ebrei. Lì, a livello più profondo, è fondata la valenza di “am sgula” – “il prezioso popolo” di Dio – e “siamo gli eletti da Dio”. In pratica, ciò viene inteso con il significato che, in questo territorio, gli ebrei possono fare quello che agli altri è vietato. Questo è il punto di partenza, e non c’è modo di passare da questo concetto ad una pace giusta. Non c’è modo di arrivare ad una pace giusta quando il gioco consiste nella de-umanizzazione dei palestinesi. Non c’è modo di arrivare ad una giusta pace quando la demonizzazione dei palestinesi è inculcata quotidianamente nelle menti della gente.

Quelli che sono convinti che ogni palestinese è una persona sospetta e che ogni palestinese vuole “gettare a mare gli ebrei”, non faranno mai la pace con i palestinesi. La maggioranza degli Israeliani è convinta della verità di queste affermazioni. Nell’ultimo decennio, i due popoli sono stati separati gli uni dagli altri. Il giovane israeliano medio non incontrerà mai un suo coetaneo palestinese, se non durante il servizio militare (e solo se farà il servizio militare nei Territori [occupati]). Neanche il giovane palestinese medio incontra mai un suo coetaneo israeliano, se non il soldato che brontola e sbuffa ai checkpoint, o irrompe a casa sua nel bel mezzo della notte, o il colono che usurpa la sua terra o che incendia i suoi alberi.

Di conseguenza, l’unico incontro tra i due popoli avviene tra gli occupanti, che sono armati e violenti, e gli occupati, che sono disperati e anche loro tendenzialmente violenti. Sono passati i tempi in cui i palestinesi lavoravano in Israele e gli israeliani facevano la spesa in Palestina. E’ passato il tempo delle relazioni quasi normali e quasi paritarie che sono esistite per pochi decenni tra i due popoli che condividono lo stesso territorio. E’ molto facile, in questa situazione, incitare e infiammare i due popoli uno contro l’altro, spargere paure e instillare nuovo odio oltre a quello che già c’è. Anche questa è una sicura ricetta contro la pace.

Così è sorto un nuovo desiderio di Israele, quello della separazione: “Loro se ne staranno là e noi qua (e anche là).” Proprio quando la maggioranza dei palestinesi – una constatazione che mi permetto di fare dopo decenni di corrispondenze dai Territori occupati – ancora desidera la coesistenza, anche se sempre meno, la maggioranza degli israeliani vuole il disimpegno e la separazione, ma senza pagarne il prezzo. La visione dei due Stati ha guadagnato una diffusa adesione, ma senza la minor intenzione di metterla in pratica. La maggioranza degli israeliani è favorevole, ma non ora e forse neppure qui. Sono stati abituati a credere che non ci sono partner per la pace – ossia una controparte palestinese – ma che ce n’è una israeliana.

Sfortunatamente, la verità è l’esatto contrario. I non partner palestinesi non hanno più la minima possibilità di dimostrare di essere delle controparti; i non partner israeliani sono convinti di esserlo. Così è iniziato un processo nel quale condizioni, ostacoli e difficoltà [posti] da Israele, sono andati aumentando, un’altra pietra miliare dell’atteggiamento di rifiuto israeliano. Prima viene la richiesta di cessare gli attacchi terroristici; poi quella di un cambiamento dei dirigenti (Yasser Arafat come un ostacolo [alla pace]); e poi lo scoglio diventa Hamas. Ora è il rifiuto da parte dei palestinesi di riconoscere Israele come Stato ebraico. Israele considera ogni suo passo – a partire dagli arresti di massa degli oppositori politici nei Territori [occupati] – come legittimi, mentre ogni mossa palestinese è “unilaterale”.

L’unico paese al mondo che non ha confini [definiti] non è assolutamente intenzionato a definire quale compromesso sui [propri] confini che è pronto ad accettare. Israele non ha interiorizzato il fatto che per i palestinesi i confini del 1967 sono la base di ogni compromesso, la linea rossa della giustizia (o di una giustizia relativa). Per gli israeliani, sono “confini suicidi”. Questa è la ragione per cui la salvaguardia dello status quo è diventato il vero obbiettivo di Israele, il principale scopo della sua politica, praticamente fondamentale e unico. Il problema è che l’attuale situazione non può durare per sempre. Storicamente, poche nazioni hanno accettato di vivere per sempre sotto occupazione senza resistere. E pure la comunità internazionale sarà un giorno disposta ad esprimere una ferma condanna di questo stato di cose, accompagnata da misure punitive. Ne consegue che l’obiettivo di Israele è irrealistico.

Slegata dalla realtà, la maggioranza degli israeliani continua nel proprio modo di vita quotidiano. Nella loro visione della situazione, il mondo è sempre contro di loro, e le zone occupate nel giardino di casa sono lontane dal loro campo di interesse. Chiunque osi criticare la politica di occupazione è etichettato come antisemita, ogni atto di resistenza è interpretato come una sfida esiziale. Ogni opposizione internazionale all’occupazione è letto come una “delegittimazione” di Israele e come una minaccia all’esistenza stessa del paese. I sette miliardi di abitanti del pianeta – la maggior parte dei quali sono contrari all’occupazione – sbagliano, e i sei milioni di ebrei israeliani – la maggior parte favorevole all’occupazione – sono nel giusto. Questa è la realtà dal punto di vista dell’israeliano medio.

Si aggiunga a questo la repressione, l’occultamento e l’offuscamento [della realtà], ed ecco un’altra spiegazione dell’atteggiamento di rifiuto: perché ci si dovrebbe impegnare per la pace finché la vita in Israele è buona, la tranquillità prevale e la realtà è nascosta? L’unico modo che la Striscia di Gaza assediata ha per ricordare alla gente della sua esistenza è di sparare razzi, e la Cisgiordania torna a fare notizia nei giorni in cui vi scorre il sangue. Allo stesso modo, il punto di vista della comunità internazionale è presa in considerazione solo quando cerca di imporre il boicottaggio e le sanzioni, che a loro volta generano immediatamente una campagna di autocommiserazione costellata di ottuse – e a volte anche fuori luogo – accuse che fanno riferimento alla storia.

Questa è dunque la cupa immagine [della situazione]. Non ci si trova neanche un raggio di speranza. Il cambiamento non avverrà dall’interno, dalla società israeliana, finché questa società continuerà a comportarsi in questo modo. I palestinesi hanno fatto più di un errore, ma i loro errori sono marginali. Fondamentalmente la giustizia è dalla loro parte, e un fondamentale atteggiamento di rifiuto è appannaggio degli israeliani. Gli israeliani vogliono l’occupazione, non la pace. Spero solo di sbagliarmi.

Traduzione di Amedeo Rossi