Ernesto “Che ” Guevara-Discorso sull’imperialismo,assemblea generale dell’ONU 1964 sub ita

Tiziano Terzani- Estratto da lettere contro la guerra

Sandro Pertini-Democrazia e Fascismo

Siria, gli inglesi si sfilano. Obama avanti da solo ma con grandi difficoltà | Autore: fabio sebastiani da: controlacrisi.org

 

Gli inglesi si sfilano dall’attacco contro la Siria. E intanto l’ipotesi bellicista di Obama si fa di ora in ora in ora più debole. Lo scenario del ‘colpo su colpo’ si sfilaccia. Così, ieri, mentre il Parlamento britannico respingeva con 285 voti contrari, a fronte di 272 favorevoli quello che lo stesso Cameron definisce “l’orientamento” a punire la Siria per il presunto utilizzo di armi chimiche, la Francia ha fatto rispuntare fuori l’ipotesi di una soluzione politica in tandem con l’Italia. Il ritorno degli ispettori dalla Siria se da una parte chiude la fase investigativa dall’altra diluisce i tempi delle verifiche tecniche. Gli Stati Uniti, però, fa sapere il segretario alla difesa Chuck Hagel, continueranno a cercare di formare una “coalizione internazionale” con la quale “attuare un’azione congiunta” e organizzare un intervento militare in Siria in risposta ai bombardamenti chimici del 21 agosto. E la portavoce della Casa Bianca Caitlin Hayden parla addirittura di “interssi fondamentali in gioco” per gli Usa.

Cameron in difficoltà
Il premier britannico David Cameron ha detto che un’azione militare sarebbe “impensabile” in caso di “vasta opposizione” al consiglio di sicurezza dell’Onu, sottolineando tuttavia che l’approvazione dell’Onu non costituisce l’unica base legale per un intervento. Non solo. Il premier britannico ha aggiunto che “dobbiamo imparare dalle lezioni del passato, anche se lo spettro degli errori del passato non deve paralizzarci. Dobbiamo fare la cosa giusta nel modo giusto”. Cameron ha addirittura ammesso che “alla fine non c’è la certezza al 100% di chi sia responsabile. Bisogna giudicare. D’altro canto non c’è la certezza al 100% su quale sia la strada o l’azione più efficace o destinata a fallire, ma credo si possa essere sufficientemente certi che un regime che ha utilizzato armi chimiche in 14 occasioni è più che probabile che sia responsabile per questo vasto attacco e che, se non si fa nulla a riguardo, si convinca di poterlo rifare con impunità”.La volontà di punire Assad resta, sui tempi e modi sembra esserci qualche incertezza.

Obama alla prova del G20
Il vertice del G20 a San Pietroburgo di giovedì e venerdì prossimi si fa quindi più complicato per gli Usa. Certo, per uno come Obama che ha fatto spallucce anche all’Onu, potrebbe sì aprirsi la prospettiva di un intervento in solitario, ma a quel punto gestirne le conseguenze sarebbe davvero molto arduo. Alti funzionari dell’amministrazione citati dal New York Times, precisano che non e’ stata presa alcuna decisione, ma che un attacco potrebbe esserci dopo che sabato gli ispettori dell’Onu in Siria saranno ripartiti.

Le prove non arriveranno subito
Anche Ban Ki moon rientra in fretta e furia a New York, e gli esperti di armi chimiche delle Nazioni Unite faranno rapporto al segretario generale non appena usciti dalla Siria, ma “prove” definitive delle Nazioni Unite arriveranno soltanto dopo che i campioni raccolti nelle ispezioni saranno stati analizzati da laboratori in Europa: ci sono “procedure precise” messe a punto dallo stesso Sellstrom, capo delegazione Onu, e questo – precisano i funzionari – potrebbe prendere “giorni”. I dati di intelligence in mano a Usa e Gran Bretagna non danno d’altra parte la certezza “al cento per cento” che Assad sia il diretto responsabile della strage del 21 agosto.

Diplomazia al lavoro
Intanto la diplomazia ha continuato a muoversi: Mosca e Berlino si sono dette d’accordo sull’importanza di discutere in Consiglio di Sicurezza il rapporto degli ispettori. L’auspicio della cancelliere tedesca Angela Merkel, che ha parlato ieri con Vladimir Putin, Francois Hollande e Barack Obama, e’ stato di una “rapida e unanime reazione internazionale all’interno del Consiglio”. Analogo pressing e’ stato fatto dal ministro degli esteri tedesco Guido Westerwelle con il collega cinese Wang Yi mentre la Francia ha chiesto agli alleati di aspettare il dossier Onu prima di impegnarsi in un intervento. Al Palazzo di Vetro i P5 (i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza con diritto di veto) sono tornati a riunirsi per la seconda volta ieri in 24 ore, stavolta su richiesta della Russia. All’uscita, volti scuri e bocche cucite. La Russia intende utilizzare il suo potere di veto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per fermare qualsiasi intervento militare in Siria.

Istat, disoccupazione in aumento. Al 40% quella giovanile Fonte: liberazione.it

La disoccupazione in Italia resta ferma al 12% durante il mese di luglio. Invariata rispetto al mese precedente, ma in aumento su base annua, con un rialzo di 1,3 punti percentuali. Lo rileva l’Istat (i dati sono ancora provvisori). La disoccupazione, dunque, resta su livelli allarmanti. Il numero di disoccupati, pari a 3 milioni 76 mila, è diminuito dello 0,3% rispetto al mese precedente (-10 mila unità), ma ha toccato la soglia del 12% su base annua (+325 mila).

L’incremento è diffuso su tutto il territorio e interessa per oltre il 50% dei casi persone con più di 35 anni. Il 55,7% dei disoccupati cerca lavoro da più di un anno.

Se si analizza poi il tasso di disoccupazione giovanile l’indice sfiora il 40% aumentando di 0,4% punti rispetto al mese precedente e di 4,3 punti sul 2012. Nel secondo trimestre tra i 15-24enni il tasso sale al 37,3% (+3,4 punti), con un picco del 51% per le giovani donne del Mezzogiorno.

I dati Istat rivelano che la disoccupazione in Italia è salita di 585.000 unita’ rispetto a un anno prima (2,5%) con un incremento nel Mezzogiorno (5,4%, pari a 335.000 unità). A farne le spese sono soprattutto gli uomini (3,0% con 401.000 unità) mentre sono meno penalizzate le donne (1,9% che perdono 184.000 unità). Disoccupazione in crescita anche tra i più giovani (532.000 unita’) e tra i 35-49enni (267.000) Mentre invece aumentano gli occupati con almeno 50 anni (+214.000 unità).

Il calo dell’occupazione è maggiore nell’industria (-2,4% con 111.000 posti in meno) e nelle costruzioni (-12,7% con 230.000 posti in meno). A ritmi più sostenuti, l’occupazione si riduce anche nel terziario (-1,0%, pari a -154.000 unità). Non si arresta il calo degli occupati a tempo pieno (-3,4%, pari a -644.000 unità rispetto al secondo trimestre 2012), che in quasi metà dei casi riguarda i dipendenti a tempo indeterminato (-2,5%, pari a -312.000 unità). Gli occupati a tempo parziale aumentano in misura minore rispetto al recente passato (1,5%, pari a +59.000 unità). E la crescita – spiega l’Istat – riguarda esclusivamente il part time involontario. Per il secondo trimestre consecutivo, e con maggiore intensità – spiega infine l’Istat – cala il lavoro a termine (-7,2%, pari a -177.000 unità), cui si accompagna la nuova diminuzione dei collaboratori (-7,0%, pari a -32.000 unità)

Sulcis, riparte la lotta dell’Alcoa: “Situazione preoccupante” Autore: fabrizio salvatori da: controlacrisi.org

 

Riparte dalla prossima settimana la mobilitazione dei lavoratori Alcoa diretti e degli appalti che chiedono risposte sulla cessione dello stabilimento di Portovesme, sui corsi di formazione per i lavoratori dell’indotto e il pagamento della cassa integrazione. Per questo le organizzazioni sindacali del Sulcis Iglesiente hanno iniziato a discutere per studiare una strategia comune. ”Deve essere chiarito una volta per tutte l’aspetto relativo alla cessione dello stabilimento – ha spiegato Roberto Forresu, segretario provinciale della Fiom Cgil – noi chiediamo che venga riavviato al piu’ presto e che il Governo si impegni in maniera forte e decisa”. Le altre richieste che lanciano i sindacati riguardano i corsi di formazione e la cassa integrazione: ”I corsi sono stati ottenuti – ha aggiunto Forresu – ma ancora non si capisce quando e come si faranno. Per la cassa integrazione, soprattutto quella in deroga, e’ necessario che si trovino soluzioni al piu’ presto”. Da qui la decisione dei sindacati di rilanciare la vertenza: ”Gia’ dalla prossima settimana – ha concluso l’esponente della Fiom – si andra’ avanti con gli incontri perche’ la situazione e’ sempre piu’ preoccupante”

EMERGENCY SULLA GUERRA IN SIRIA

«Questo dunque è il problema che vi presentiamo, netto, terribile e inevitabile: dobbiamo porre fine alla razza umana oppure l’umanità dovrà rinunciare alla guerra?»
Lo scrivevano Bertrand Russell e Albert Einstein nel 1955.

 

 

Sono passati quasi sessant’anni, ma l’umanità non ha ancora rinunciato alla guerra. Anzi, ancora una volta, viene presentata come l’unica opzione possibile per mettere fine a un conflitto.
Non lo è. L’abbiamo visto con i nostri occhi in Iraq, in Afghanistan, in Libia: le guerre “per la pace” hanno solo alimentato altra violenza e in questi Paesi i civili continuano a morire, ogni giorno.

 

 

Ai morti già causati dalla guerra in Siria se ne aggiungeranno altri, perché scegliere le armi oggi significa decidere sempre, consapevolmente, di colpire la popolazione civile: nei conflitti contemporanei il 90% delle vittime sono sempre bambini, donne e uomini inermi.
Centinaia di migliaia di persone hanno già abbandonato la Siria per cercare rifugio nei Paesi vicini. Li abbiamo incontrati anche in Sicilia, dove i nostri medici stanno garantendo le prime cure ai profughi che stanno sbarcando sulle coste di Siracusa.

 

 

In tutti questi anni abbiamo visto che la guerra è sempre l’opzione più disumana, e inutile.
Chiediamo che l’Italia rifiuti l’intervento armato e si impegni invece per chiedere alla comunità degli Stati l’immediato intervento diplomatico, l’unica soluzione ammissibile secondo il diritto internazionale, l’unica in grado di costruire un processo di pace che abbia come primo obiettivo la tutela della popolazione siriana, già vittima della guerra civile.

 

 

L’umanità può ancora decidere di rinunciare alla guerra: difendere e praticare i diritti umani fondamentali è l’unico modo per costruire le basi per una convivenza pacifica tra i popoli.

 

 

(28 agosto 2013)

Quando gli Usa chiudevano entrambi gli occhi sulle armi chimiche | Fonte: http://nena-news.globalist.it/ | Autore: michele giorgio

Per gli Stati Uniti c’è gas e gas. Quello che usano i regimi alleati e che, pertanto, si finge di non vedere. E quello lanciato dai Paesi «ostili» che va denunciato, a costo di scatenare una guerra. Oggi gli Stati Uniti preparano l’attacco contro la Siria per punire il presunto uso del gas nervino che le forze leali al presidente Bashar Assad avrebbero fatto il 21 agosto a Ghouta. Ma alla fine degli anni ’80, solo per fare un esempio, gli americani sapevano che le forze irachene agli ordini dell’alleato Saddam Hussein facevano un massiccio utilizzo di armi chimiche nella guerra contro l’Iran ma non fecero nulla per fermarle. A rivelarlo è un servizio speciale della rivista Foreign Policy (FP), venuta in possesso di documenti della Cia recentemente declassificati.

All’inizio del 1988, quindi verso le fasi finali della guerra (durata otto anni) tra Iraq e Iran, il Pentagono apprese attraverso immagini satellitari che Tehran era sul punto di vincere una battaglia decisiva, sfruttando la debolezza delle difese irachene intorno a Bassora. Saddam Hussein a quel tempo era un buon amico di Washington e dell’Occidente nella lotta contro «il pericolo» dell’Iran khomeinista.

Se Bassora fosse caduta in mani iraniane, ammoniva un rapporto preparato in quei giorni dall’intelligence Usa, l’Iraq avrebbe perso la guerra. Il presidente Ronald Reagan lesse quel rapporto e vi scrisse una nota per il segretario alla difesa Frank Carlucci affermando che «una vittoria iraniana è inaccettabile». Così la Cia, riferisce il FP, si diede da fare per fornire a Baghdad informazioni dettagliate sui movimenti delle forze iraniane. E ciò avvenne, aggiunge la rivista, nella piena consapevolezza che i soldati di Saddam Hussein le avrebbero respinte con armi chimiche. E così avvenne. Gli iracheni usarono gas mostarda o sarin in quattro offensive del 1988, riuscendo così a spostare le sorti della guerra a loro favore (i due Paesi poi raggiunsero un accordo di armistizio.

Gli Usa avevano le prove dell’uso di armi chimiche da parte dell’Iraq sin dal 1983. Sapevano che gli iracheni producevano grandi quantità di gas mostarda per usarle in prima linea contro gli iraniani. Nel 1984 la Cia scrisse che l’Iraq «ha iniziato ad usare gas nervino sul fronte di Bassora».

I documenti declassificati equivalgono, ha scritto Foreign Policy, «a una ammissione di complicità in alcuni dei più atroci attacchi condotti con armi chimiche». Senza dimenticare che durante la guerra Iraq-Iraq gli Usa chiusero gli occhi anche davanti all’attacco chimico ad Halabja del 16 marzo 1988. L’attacco fu realizzato dai militari iracheni con gas al cianuro per rappresaglia contro la popolazione curda che non aveva resistito al nemico iraniano. I morti furono circa 5000. Per questo crimine fu condannato a morte Ali Hassan Abd al-Majid al-Tikritieh. Ma ciò avvenne solo dopo l’invasione anglo-americana dell’Iraq, quando il regime di Saddam Hussein era nemico e non più amico degli interessi statunitensi. Nena News

Il copione maledetto è già scritto e non lascia ben sperare | Fonte: Il Manifesto | Autore: Anne-Cécile Robert *

Tutto lascia pensare che gli Stati Uniti, sostenuti in particolare dalla Francia, prevedano un intervento militare in Siria. La guerra civile che da due anni devasta il paese avrebbe causato 100.000 vittime, tra cui numerosi civili. Washington potrebbe bombardare, in modo mirato, alcuni siti militari di Bashar Al Assad, utilizzando alcune navi posizionate nel Mediterraneo. Se è vero che i crimini commessi in Siria sono particolarmente gravi, dal momento che si parla dell’uso di armi proibite (le armi chimiche) e che la situazione umanitaria è intollerabile per le popolazioni, come risolvere il conflitto in un modo che metta termine alle continue violenze, ma che mantenga gli equilibri regionali, già molto fragili? 
Il precedente intervento dell’Alleanza Atlantica, (Nato), intrapreso con l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite (Onu), in Libia nel 2011, invita infatti alla prudenza. Il paese si è senza dubbio liberato di un dittatore assassino ma la destituzione di Muammar Gheddafi ha anche contribuito a diffondere degli armamenti offensivi in tutto il Sahel. Una parte di queste armi da guerra, insieme alle truppe smobilitate dopo la caduta della Guida, sono diventate strumenti per la destabilizzazione del Mali nel 2012, obbligando la «comunità internazionale» (in questo caso Parigi) a una nuova operazione militare nel continente all’inizio del 2013. Il copione maledetto è quindi già scritto e non lascia ben sperare: agire in Siria creerebbe le condizioni per una nuova crisi che porterebbe a sua volta a delle tragedie umanitarie e poi a un nuovo intervento armato… Che si tratti della guerra portata avanti dalla Nato contro la Serbia nel 1999 o quella degli Stati Uniti contro l’Iraq nel 2003, le «guerre umanitarie» non hanno dato risultati convincenti a lungo termine: la situazione regionale nel Kosovo resta delicata mentre l’Iraq è piombato in un caos profondo e violento.
Paradossalmente, sembra che questa questione (quali equilibri geopolitici dopo un’azione internazionale in Siria?) non preoccupi molto le grandi potenze, fortemente colpite (come è comprensibile) dalle immagini di cadaveri di bambini, probabili vittime di veleni chimici. Gli Stati Uniti del resto hanno annullato l’incontro previsto nei Paesi Bassi con la Russia, incontro il cui obiettivo era proprio quello di trovare una soluzione politica alla crisi. L’eventuale ricorso ai bombardamenti rende futile qualsiasi discussione. Tuttavia, se ci sarà un intervento militare, esso avrà un «dopo», per il quale sarà necessario un accordo tra le grandi potenze, tra cui Mosca e Pechino. Il dialogo dovrà dunque riprendere.
Dall’inizio della guerra civile in Siria nel 2011, ascoltiamo spesso la voce delle grandi potenze membri del Consiglio di sicurezza (Stati Uniti, Francia, Russia, Cina e Regno Unito), così come quella dell’Iran, sostenitore fedele di Assad. Ma si sa poco del fatto che il Brasile e il Sud Africa, grandi paesi emergenti, si sono dichiarati ostili a qualsiasi intervento armato e chiedono il rispetto della carta delle Nazioni unite. Quest’ultima vieta, come sappiamo, il ricorso alla forza nelle relazioni internazionali (salvo in caso di legittima difesa o di autorizzazione da parte Consiglio di sicurezza) e raccomanda la risoluzione pacifica dei conflitti, dal momento che la pace è considerata un valore supremo. Dal 2011, l’Onu ha autorizzato tre azioni militari occidentali, in Libia, Costa d’Avorio e Mali, in nome di imperativi umanitari. Nel caso della Siria, il veto di Mosca (e di Pechino) rende altamente improbabile una tale autorizzazione. Ma sembrerebbe che Washington, con il sostegno attivo di Parigi, sia disposto a fare a meno di questa carta preziosa. Lo stesso segretario generale dell’Onu lascia che la pressione contro il regime siriano aumenti senza proporre prospettive politiche né ricordare agli Stati membri dell’Onu, al di là delle loro intenzioni immediate, i loro obblighi riguardo al mantenimento a lungo termine della pace nel mondo. Agire senza l’avallo del Consiglio di sicurezza, come nel 1999 in Kosovo, rischia di turbare ulteriormente uno scenario internazionale dove regna sempre di più l’anarchia. Ricordiamo che nel 1999, Mosca aveva usato l’intervento della Nato per giustificare la sanguinosa repressione della ribellione cecena… in questo gioco, sono sempre i paesi più potenti, i più ricchi e i meglio armati che vincono. L’ordine internazionale auspicato dai redattori della carta delle Nazioni unite rischia forse di essere sepolto a vantaggio di una nuova legittimazione teorica del ricorso alla forza nelle relazioni internazionali? A quando una riflessione di ampio respiro sui nuovi equilibri geopolitici necessari al mantenimento (o alla ricerca) della pace nel mondo?
*giornalista di Le Monde Diplomatique. Traduzione di Francesca Rodriguez

Ecco perché la “portaerei” Italia alla fine sarà coinvolta con le basi | Fonte: Il Manifesto | Autore: Manlio Dinucci

Mentre il ministro Emma Bonino assicura che l’Italia non parteciperà a un’operazione militare contro la Siria senza mandato Onu, il rombo della guerra già risuona su Pisa: sono i C-130 italiani, e probabilmente anche statunitensi, che intensificano i voli verso le basi mediterranee. L’aeroporto – dove si sta realizzando l’Hub aeroportuale di tutte le missioni militari all’estero, anche «a disposizione della Nato» – si trova nei pressi di Camp Darby, la grande base logistica Usa che rifornisce le forze aeree e terrestri nell’area mediterranea e mediorientale.

A riprova della volontà di pace del governo italiano, il ministro Bonino annuncia che il 4 settembre si riunirà il gruppo degli «Amici della Siria» (quello che sostiene i «ribelli» e quindi la guerra interna), al quale l’Italia partecipa con Stati uniti, Gran Bretagna, Francia, qatar e Arabia saudita, che si apprestano ora a colpire la Siria anche dall’esterno. Dimentica la Bonino l’incontro svoltosi a Istanbul il 27 agosto (di cui dà notizia la Reuters), nel quale gli «Amici» hanno comunicato ai «ribelli» che l’attacco potrebbe avvenire entro pochi giorni.

Non spiega il governo perché l’Italia abbia inviato il capo di stato maggiore alla riunione, convocata dal Pentagono in Giordania il 25-27 agosto, cui hanno partecipato i capi militari di Usa, Gran Bretagna, Francia e Arabia saudita, che preparano l’attacco alla Siria. Intanto un portavoce del nostro ministero della difesa, citato dalla stampa Usa, spiega che basi aeree e navali italiane potrebbero essere usate per l’attacco alla Siria col consenso del parlamento, non necessario invece per le basi Usa come Camp Darby o Sigonella. Il ministro della difesa Mauro lascia aperta la porta alla partecipazione diretta di forze italiane, ribadendo che il governo darà «sicuramente l’assenso a quelli che sono gli orientamenti della comunità internazionale». Ossia della Nato che tiene oggi una riunione di emergenza sulla Siria

Per Il Sole 24Ore di ieri, «le basi italiane sono superflue» in quanto i raid saranno limitati nel tempo, con missili lanciati da navi e velivoli, e gli aerei non avranno bisogno di basi avanzate. Elementi che «sembrano escludere un ruolo anche marginale dell’Italia». In realtà è ancora l’Italia base di lancio della guerra. Le operazioni contro la Siria, come quelle nel 2011 contro la Libia, vengono dirette da Napoli: lì c’è il comando delle Forze navali Usa in Europa, comprendenti la Sesta flotta, agli ordini di un ammiraglio statunitense che comanda allo stesso tempo le Forze navali Usa per l’Africa e le Forze congiunte alleate.

Partirebbe da Napoli l’ordine di attaccare la Siria dal Mediterraneo orientale, dove,, a distanza ravvicinata (circa 200 km) da Damasco e altri obiettivi, sono schierate almeno quattro cacciatorpediniere lanciamissili: la Barry e la Mahan, già impiegate nell’attacco alla Libia, la Gravely e la Ramage. Possono lanciare centinaia di missili Cruise, che, volando a bassa quota lungo il profilo del terreno, colpiscono l’obiettivo con testate sia penetranti che a grappolo (ciascuna con centinaia di submunizioni), contenenti uranio impoverito. Sono sicuramente schierati anche sottomarini, come il Florida da attacco nucleare, armato, invece che di 24 missili balistici, di oltre di 150 missili Cruise. Nella sola notte del 19 marzo 2011, ne lanciò 90 contro la Libia. Lo schieramento comprende anche il gruppo d’attacco della portaerei Harry Truman (dotata di 90 caccia), comprendente due incrociatori e due cacciatorpediniere lanciamissili, che la Sesta flotta ha trasferito nel Mar Rosso, area della Quinta Flotta. Si aggiungono a queste le unità navali alleate, tra cui anche la portaerei francese Charles de Gaulle.

A sostegno di questo schieramento c’è la base aeronavale di Sigonella, addetta al rifornimento della Sesta Flotta e dotata di aerei Usa e Nato. La base, dove sono stanziati 7mila militari, costituisce per il Pentagono «il centro strategico del Mediterraneo». Queste e altre basi Usa, come quella di Aviano, non potrebbero funzionare senza il supporto delle forze e infrastrutture italiane. L’Italia non deve dunque attendere il mandato Onu per partecipare a quest’altra guerra sotto comando del Pentagono