Matteo Renzi, il premier che gettò la maschera da: antimafia duemila

lodato2-c-giorgio-barbagallo-2014di Saverio Lodato – 1° agosto 2015

Detesta la magistratura. Detesta il controllo di legalità. Detesta le inchieste. Mal sopporta Procure e investigatori. Non ritiene che il Paese abbia bisogno di grandi verità sul passato recente e remoto. Non gliene frega niente di stragi, grandi delitti e mandanti esterni. Una volta a Firenze, a una giornalista che gli chiese che ne pensasse della strage di via dei Georgofili, rispose infastidito: “chieda alla mia segretaria”. Elegante, non c’è che dire. E soprattutto rispettoso del dolore dei parenti delle vittime.
Detesta il confronto. Detesta la dialettica parlamentare. Gli piace la Cavalcata delle Valchirie, ma a colpi di voti di fiducia.
Non capisce perché lo Stato debba reggersi sull’equilibrio di tre poteri, quando ne basterebbe uno solo, il suo. Odia i giornali e i giornalisti, quelle rare volte che lo mettono in cattiva luce. Gli va il sangue al cervello, e metterebbe, metaforicamente, s’intende, la mano alla fondina, al solo sentir parlare di intercettazioni telefoniche, soprattutto se è anche lui a finirci dentro, come è accaduto quando anticipava che avrebbe licenziato Letta senza preavviso.
Non pronuncerà mai, né l’ha mai pronunciata, la parola “valori”. Lo stesso dicasi per la “questione morale” che sembra diventata in Italia, da quando c’è lui, parola ricoperta dalla muffa della Crusca. Se scoppiano scandali che denotano un tasso di corruzione che ha fatto ormai dell’Italia una nazione irrecuperabile, fa finta di reagire con “gli strumenti della politica”, nominando “consulenti” e “commissari”, pretendendo la verità senza la quale “chi ha sbagliato pagherà”. Tutto il mondo ha capito come Roma sia diventata negli anni la capitale dello Stato-Mafia. Ma consulenti e commissari, servizievoli al suo dettato, trovano il modo di non scioglierne il consiglio comunale, quando al Sud, per un decimo di quanto è accaduto a Roma, ne sono stati sciolti a bizzeffe.
Non lo sentirete mai pronunciare il nome di Nino Di Matteo, il pubblico ministero palermitano che rischia la vita. Non hai mai fatto riferimento, né lo farà mai, al processo sulla Trattativa Stato-Mafia che, fosse per lui, andrebbe spianato da una ruspa.

E’ solito abbracciarsi agli “impresentabili” in campagna elettorale, per l’immancabile foto ricordo.
E’ solito bistrattare i suoi stessi compagni di partito, pensiamo alla Bindi, o allo stesso Orfini, quando si sono permessi in alcune occasioni, anche se magari solo a parole, di alzare la cresta innalzando l’asticella della legalità.
Quando poi la temperatura sale eccessivamente, la contesa si fa rovente, i problemi esplodono, è lo specialista della fuga.
Fughe intercontinentali, fughe a lunga percorrenza, da un continente all’altro.
Fugge all’estero, America o Israele non fa differenza, perché aspetta che la situazione interna si calmi e giornali e televisioni abbiano ormai altro a cui pensare.
E lui, che non solo è il premier, ma il segretario del PD, pretende una sua “presenza blindata” alla Festa nazionale dell’Unità. Come se Papa Francesco, per affacciarsi in piazza San Pietro, pretendesse fucili mitragliatori che fanno capolino dalle persiane. Ma c’è di più, e di peggio, come si sarebbe detto una volta. Alla fine, alla Festa dell’Unità non c’è neanche andato, accontentandosi di incontrare, in un’improvvisata, i cuochi che se lo son visti catapultare in mezzo a pentole e padelle. Temeva un fitto lancio di uova e pomodori di stagione.
Direte che è arrogante.
Che è un cialtrone, un cialtroncello o un cialtronaccio, a usare i diminutivi e i peggiorativi della parola “cialtrone” riportati dal dizionario Treccani. E sbagliereste di grosso. Direte che è un superficiale, un approssimativo, un giovane Narciso dirottato da palazzo Pitti a Palazzo Chigi.
Direte che a suo tempo, uno dei suoi primi gesti mediatici fu rendere omaggio a Silvio Berlusconi nella sua dimora. Questo è vero. Ma può bastare quest’indizio, piatto forte per i “colpevolisti”, per spiegare chi è oggi l’uomo che ha definitivamente gettato la maschera? Noi pensiamo di no.
Per giustificare il salvataggio del senatore Azzollini, con intercettazioni a suo carico che chiuderebbero qualsiasi udienza processuale cinque minuti dopo, ha avuto il coraggio, o la faccia tosta, se preferite, di complimentarsi con i senatori che avevano riscontrato il “fumus persecutionis” dei magistrati non accettando di far da “passacarte delle Procure”. E le sue ministre ebetine, ma anche qualche suo ministro particolarmente signorsì, annuirono. Come d’abitudine.
Cosa vi aspettate di diverso da un premier così?
Da un premier che è amico di famiglia, essendone amico anche il suo papà, di un tal Verdini per quattro volte rinviato a giudizio?
O vi aspettavate che Matteo Renzi, perché è di questo signore che fino a ora abbiamo parlato, fosse un “passacarte delle Procure”?
No, no. Non lo capite? Questo premier sta cambiando l’Italia.
In che modo lo stia facendo, giudicatelo da soli.

saverio.lodato@virgilio.it

Foto originale © Giorgio Barbagallo

Processo Ruby, i retroscena dello scontro tra i giudici d’appello da: l’espresso

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La sentenza ha spaccato i magistati della corte. Dopo le dimissioni del presidente Tranfa, che era contrario all’assoluzione, ecco la ricostruzione di cosa è avvenuto in camera di Consiglio. E il senso di una foto emblematica: “La legge è uguale per tutti”

di Paolo Biondani

17 ottobre 2014

Processo Ruby, i retroscena dello scontro tra i giudici d'appello

Berlusconi assolto per un voto. Enrico Tranfa, il presidente del collegio della corte d’appello che il 18 luglio scorso ha assolto l’ex presidente del consiglio nel processo Ruby, si è dimesso dalla magistratura nel primo pomeriggio di ieri, compilando via Internet un burocratico modulo dell’Inps di pensionamento anticipato. Solo a quel punto ha comunicato la sua decisione ai vertici degli uffici giudiziari milanesi, senza fornire alcuna spiegazione. «E’ vero, mi sono dimesso ieri pomeriggio, ma non intendo fare alcuna dichiarazione», conferma oggi al telefono l’ormai ex magistrato.

Il giudice Tranfa non vuole e non può fornire alcuna spiegazione, perché è obbligato dalla legge a mantenere il segreto più assoluto su quello che è successo, tre mesi fa, nella camera di consiglio della seconda sezione della corte d’appello, che ha cancellato la condanna a sette anni che era stata inflitta a Berlusconi in primo grado. In quelle tre ore di confronto a porte chiuse, i tre giudici d’appello si sono spaccati.

vedi anche:

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La sentenza Ruby, e quel mondo di Silvio Berlusconi che non c’è più

Le motivazioni del giudizio di appello, che assolve l’ex premier, ripercorrono le serate del bunga bunga, tra “lap dance” e “palpeggiamenti”. Un universo cristallizzato ormai solo nelle aule di tribunale, a prova di quanto la giustizia, per quanto in questo caso abbastanza celere, possa essere lenta a raffronto con la vita

Il presidente Tranfa è stato messo in minoranza dagli altri due componenti del collegio, la relatrice Concetta detta Ketty Lo Curto e il giudice a latere Alberto Puccinelli. Lo scontro è stato molto acceso e ha riguardato soprattutto l’accusa più grave di concussione. A uno dei magistrati più amici, quelli che lo hanno sempre stimato e che gli chiedevano inutilmente spiegazioni, il giudice Tranfa si è limitato a mostrare una fotografia che ritraeva il suo collegio mentre egli stesso leggeva il verdetto di assoluzione. Dietro ai tre giudici, campeggiava la scritta: «La legge è uguale per tutti».

Fino a ieri si poteva pensare che la condanna inflitta dal tribunale a Berlusconi fosse stata azzerata all’unanimità nella partita giudiziaria di ritorno. Invece, dopo il sonoro verdetto di colpevolezza deciso da tutti e tre i giudici di primo grado, il processo d’appello si è chiuso con un risultato di due a uno. A conti fatti, dei 6 giudici di merito che hanno esaminato il caso Ruby, 4 lo hanno considerato colpevole e solo 2 lo hanno proclamato innocente. Ma la giustizia non segue le regole dei tornei di quel calcio che ha reso tanto popolare Berlusconi: nei processi conta solo l’ultimo verdetto. E così il 3 a 0 dell’andata oggi non vale più niente: l’unico risultato utile è l’assoluzione imposta in appello da due giudici contro uno.

I magistrati Lo Curto e Puccinelli si sono mostrati compatti fin dal primo momento nell’escludere non il fatto storico, ma la rilevanza penale delle telefonate con cui Silvio Berlusconi, la notte del 27 maggio 2010, mentre era il presidente del consiglio in carica, chiese al capo di gabinetto della questura milanese, Piero Ostuni, di rilasciare la minorenne marocchina Karima El Mahroug, detta Ruby, presentandola falsamente come la nipote dell’allora presidente egiziano Mubarak. Il giudice Tranfa ha sollevato numerose obiezioni alla tesi innocentista, esposta in particolare dalla relatrice Lo Curto, ed è uscito dalla camera di consiglio con la ferma convinzione che i colleghi avessero commesso un errore imperdonabile. In linea teorica Tranfa avrebbe potuto esplicitare il suo dissenso con una dichiarazione da conservare in cassaforte in busta chiusa, ma nella prassi dei tribunali questa formale presa di distanze viene utilizzata solo nei casi eccezionali in cui una decisione controversa possa esporre ogni singolo magistrato al rischio di dover risarcire i danni provocati da un clamoroso errore giudiziario, ad esempio per un’ingiusta detenzione o un sequestro patrimoniale ingiustificato: un’ipotesi da escludere per questa sentenza di assoluzione.

Come presidente del collegio, Tranfa era comunque tenuto a sottoscrivere personalmente la motivazione, a pena di nullità: avrebbe potuto rifiutarsi di siglarla solo se il testo, redatto dalla giudice Lo Curto, fosse risultato diverso rispetto all’effettivo contenuto della decisione, riassunto nelle apposite “minute” della camera di consiglio. Quindi ieri mattina il presidente Tranfa, dopo aver esaminato la motivazione, ha dovuto pure sottoscrivere un’assoluzione che non ha mai condiviso. Ma quella firma è stata l’ultimo atto della sua lunga carriera di magistrato, iniziata nel 1975. Proprio l’autorevolezza e il rigore che Tranfa ha sempre dimostrato nella sua sua attività di giudice a Milano, dove è stato anche presidente del tribunale del riesame, aveva finora zittito le critiche di altri magistrati contro il verdetto innocentista, che in caso di ricorso della procura generale dovrà affrontare il vaglio finale dei cinque giudici di turno della Cassazione.

La divisione fra i tre giudici del caso Ruby non è legata ai loro ipotetici orientamenti politici. La relatrice Lo Curto è una militante dichiarata di Magistratura democratica, la corrente delle toghe collocabile a sinistra, che a Milano ha tra i suoi massimi esponenti il procuratore capo, Edmondo Bruti Liberati, che con l’imprevista assoluzione di Berlusconi ha subito una pesantissima sconfitta. Il giudice Tranfa invece è sempre stato considerato vicino alla corrente centrista di Unicost. Mentre il terzo giudice,  l’unico che a torto o a ragione era ritenuto vicino alle correnti togate di centro-destra, aveva dimostrato di non essere influenzabile da ipotetiche interferenze politiche già nell’aprile scorso, quando aveva scritto personalmente l’articolata motivazione della sentenza che ha dichiarato l’inevitabile prescrizione in appello per la vicenda del trafugamento delle intercettazioni dell’inchiesta Unipol, pubblicate dal “Giornale” quando erano ancora segrete, negando così l’assoluzione chiesta da Silvio e Paolo Berlusconi. E confermando invece la loro condanna a risarcire i danni all’attuale sindaco di Torino Piero Fassino, riconosciuto vittima di «una manovra smisuratamente scandalistica» diretta a «colpirlo individualmente sul piano politico» durante la campagna elettorale del 2006.

Lo scontro sul caso Ruby, invece, si è giocato interamente su questioni di diritto. Della legge Severino, che ha riformulato il reato di concussione durante il processo,i giudici abbiano parlato pochissimo. Al centro della discussione invece sembra esserci stato soprattutto il concetto di «minaccia in grado di incutere timore nella vittima», che i due giudici innocentisti hanno ritenuto indispensabile, ma non provato nel caso concreto: in pratica, secondo la sentenza, Berlusconi si è limitato a raccomandare Ruby al funzionario Ostuni, che gli ha obbedito ben volentieri, senza sentirsi in alcun modo costretto, obbligato e neppure indotto indebitamente. Il presidente Tranfa avrebbe inutilmente replicato che la Cassazione ha sempre considerato sufficiente (anche dopo la legge Severino) una minaccia «implicita», cioè non esplicitata apertamente, ma ricavabile indirettamente dalla posizione di potere di Berlusconi, che era il capo del governo in carica, rispetto a un funzionario della questura che è gerarchicamente sottoposto al ministero dell’Interno.

Più in generale, secondo la posizione attribuibile a Tranfa, la sentenza di assoluzione avrebbe scomposto e frammentato i singoli tasselli del mosaico accusatorio svalutando la concatenazione di indizi contrari: ad esempio, il rifiuto opposto dalla pm della procura dei minori ad affidare Ruby alla consigliere regionale Nicole Minetti (che poi l’ha mandata a dormire a casa di un’amica prostituta brasiliana) è stato liquidato dai giudici innocentisti come «un parere non vincolante». E nessun peso è stato attribuito al silenzio mantenuto da tutto lo stato maggiore della questura sulle telefonate di Berlusconi e sul rilascio di Ruby, anche se già da quella notte si era scoperto che non si trattava affatto della nipote di Mubarak: la magistratura è stata informata con diverse settimane di ritardo, solo grazie a una segnalazione partita da due semplici agenti di polizia. Che il giudice Tranfa, nel segreto della camera di consiglio, avrebbe ricoperto di elogi, perché hanno avuto il coraggio di applicare nei fatti quello stesso principio costituzionale che ora la sentenza favorevole a Berlusconi avrebbe invece tradito: la legge è uguale per tutti.

Biografia non autorizzata di Luciano Violante da: micromega


Dalla prima condanna, inflitta a un ragazzo che aveva detto piciu (fesso) a un vigile, alle sfortunate indagini sul ‘golpe bianco’ di Edgardo Sogno, il discepolato al seguito di Ugo Pecchioli, la guerra a Giovanni Falcone, la Bicamerale e il caso Previti. Carriera e mutazioni dell’ex presidente della Camera attualmente in corsa per la Corte Costituzionale.

di Marco Palombi e Marco Travaglio, da MicroMega 7/2013

Ora che le assemblee del Pd gli riservano i gavettoni, le contestazioni, gli insulti per il «lodo» con cui vorrebbe salvare Silvio Berlusconi. Ora che i giornali vicini al Cavaliere tratteggiano, con lo stupito rossore che si deve alle belle notizie inaspettate, l’evoluzione umana e filosofica che l’ha fatto approdare sulle pensose plaghe del garantismo all’italiana. Ora che lui stesso è finalmente liberato dallo spigoloso ruolo inquisitorio che la vita e la carriera gli avevano cucito addosso, proprio sotto le belle giacche dei favoriti, e costosi, stilisti giapponesi («ma compro solo alle svendite»). Ora, si diceva, bisogna sciogliere un equivoco: non ci sono due Luciano Violante, non esiste oggi il morbido legalitario – termine che il nostro preferisce a garantista – come non esisteva prima il manettaro senza cuore. Luciano Violante è sempre uno, politico in ogni tempo e luogo, pure quand’era magistrato, un animale a sangue freddo che ha avuto sempre ben chiare davanti a sé le superiori ragioni del suo partito e della sua carriera.

Non che l’ex presidente della Camera non abbia piegato il suo animo, in questi anni, al fluire del tempo e delle cose: Violante – lasciatisi dietro i furori novecenteschi del dover essere – pare adesso abbandonarsi con piacere alla pericolosa levità del desiderio. Volendo esemplificare, è come se il processo storico di disgregazione della sinistra italiana abbia finalmente concesso all’uomo che doveva essere l’Ugo Pecchioli del Duemila di trasformarsi, non senza resipiscenze e conflitti, nell’uomo che vorrebbe essere, un Giuliano Amato all’ingrosso: s’intende, con questo, il passaggio, anche antropologico, dalle durezze politiche e personali, dai silenzi e dai segreti che furono il pane del «ministro dell’Interno del Pci», al minuetto dell’eterno potere romano, al ruolo senza tempo di genio compreso. E riverito. E pluripoltronato.

Certo, ad essere precisi, Amato ha tre pensioni e Violante solo due (e pure meno ricche: 16.600 euro contro trentamila e dispari), ma comunque pure lui s’è incistato senza problemi in quel mondo – rispettabilità, responsabilità, buone cose di ottimissimo gusto – che è il brodo primordiale, per così dire, dell’amatismo. Al nostro non manca nemmeno l’apposita associazione, «Italia decide», pensatoio ovviamente bipartisan, che lo vede alla presidenza insieme a Carlo Azeglio Ciampi, lo stesso Amato, Gianni Letta e potenti sparsi. Per il duro lavoro di concetto nella capitale, peraltro, l’ex magistrato ha pure a disposizione una casa comprata con supersconto durante la dismissione del patrimonio dell’Ina. Trattasi di una settantina di metri quadrati – più due terrazze – tra i Fori imperiali e piazza Venezia: secondo l’Espresso, fu pagata nel 2003 appena 327 mila euro, mentre il suo prezzo di mercato per il Cerved oscillava tra 663mila e 1,2 milioni di euro. Sarà stata la vista mozzafiato, forse, ad attirarlo nei delicati labirinti lessicali della poesia o magari l’ultradecennale contemplazione degli amati panorami montani che pazientemente esplora partendo dalla sua casa di Cogne: «Devo parlarvi/ della lotta che insieme/ con Dio/ è necessario/ combattere/ contro il male», mise a verbale nel suo Viaggio verso la fine del tempo. «Se questo/ che vedete/ qui/ in queste/ righe/ è/ fare poesia/ allora/ io/ sono/ Rimbaud», lo prese in giro il critico Sergio Claudio Perroni. In definitiva, il «nuovo» Violante – in periglioso viaggio verso la nomina parlamentare alla Consulta nel giugno 2014 – può sorprendere solo chi non ne conosce la storia. Per questo abbiamo deciso di metterne in fila le gesta: a futura memoria, certo, ma soprattutto per impedire sprechi di stupore, reazione rara quanto preziosa negli adulti.

The early days

«Sono nato a Dire Daua. In Etiopia. In un campo di concentramento inglese. Mio padre l’ho conosciuto quando avevo 5 anni, me lo presentarono il giorno di Pasqua del 1946. Alla stazione. Ho vissuto a Rutigliano, in provincia di Bari, infanzia e giovinezza: l’Ugi, l’Unione goliardica italiana, la carriera universitaria tra i libri di diritto penale scritti in tedesco con carattere gotico». Così s’è raccontato lui al «magazine» del Corriere della Sera. Il padre era un giornalista comunista e fu spedito in Africa dal fascismo, la madre ebrea milanese riportò il piccolo Luciano dalla famiglia del marito in attesa della sua scarcerazione e del suo ritorno. Poi gli studi all’Università di Bari, dove «fui assistente di Aldo Moro», e l’entrata in magistratura, e in Magistratura democratica, corrente di sinistra dell’Anm. Infine il trasferimento a Torino («con mia moglie, nel 1968 eravamo la prima coppia di magistrati sposati») e la prima condanna inflitta: «Un ragazzo che aveva detto piciu (fesso) a un vigile».

È nata una stella

Il nostro, comunque, non si guadagna la celebrità nazionale per gli insulti ai vigili, ma con un’inchiesta per così dire sfortunata: quella sul cosiddetto «golpe bianco» di Edgardo Sogno. Nel 1974 Violante, giudice istruttore impegnato a Torino in fumose inchieste sulle trame nere nelle valli piemontesi, fa arrestare l’ambasciatore, già partigiano monarchico e fervente anticomunista: l’accusa è di preparare un colpo di Stato assieme a Randolfo Pacciardi e altri nomi dello sbrindellato conservatorismo antifascista italiano. Risultato: proscioglimento in istruttoria. Nel 2000, comunque, lo stesso Sogno ha dato una mano a Violante – che peraltro cordialmente detestava – dichiarando che il complotto l’aveva pensato eccome, ma sarebbe scattato solo se i comunisti avessero preso il potere. Un sogno, appunto. Come che sia, il futuro presidente della Camera diventa una toga famosa e, in quegli anni, comincia a frequentare i convegni del Pci torinese: la cosa lo mette nel mirino del terrorismo rosso, ma si salva nonostante – racconteranno i pentiti – due tentativi di attentato a opera delle Br e di Prima Linea. Nel 1979 prende la tessera del Partito comunista e subito viene eletto deputato: a Montecitorio resterà quasi trent’anni.

La vasta ombra di Ugo Pecchioli

Il neodeputato, toga d’assalto con ottimi agganci in Magistratura democratica, viene preso sotto l’ala di uno dei padri del Pci torinese, Ugo Pecchioli, «il ministro ombra» dell’Interno di Berlinguer: silenzioso, sempre diffidente, funzionario di partito in purezza. All’ombra di Pecchioli, Violante lavora alla sezione Problemi dello Stato del Pci, che poi vuol dire terrorismo prima e mafia poi: lo fa, com’è suo costume, con dedizione e completa adesione alle posizioni del partito, stringendo di volta in volta utili legami per la causa. Come quello con Gianni De Gennaro, che ancora dura ed è costellato di parecchi, reciproci favori. In questa veste, sul finire degli anni Ottanta, partecipa alla guerriglia che i partiti di sinistra sferrano al pool antimafia di Palermo, Giovanni Falcone in testa. Andò così. Nel dicembre 1987 era finito, con la sostanziale conferma delle tesi accusatorie, il primo maxiprocesso a Cosa Nostra. Nel marzo 1988 Antonino Caponnetto lascia l’incarico di giudice istruttore convinto che sarà proprio il suo allievo Falcone a succedergli. Niente da fare. Il Csm gli preferisce Antonino Meli, con maggiore anzianità ma esterno al pool. Determinante il niet delle correnti di sinistra. Spiegò Elena Paciotti di Magistratura democratica (poi presidente dell’Anm ed eurodeputata per i Ds): «Si addebita al dottor Meli di non aver mai svolto attività di giudice istruttore, ma neanche il dottor Caponnetto credo che avesse mai svolto simili attività…».

La guerra a Falcone

La mancata nomina a giudice istruttore è il primo colpo, poi segue la guerra che vedrà (anche) il Pci-Pds dichiaratamente in campo. Il partito di Achille Occhetto vede, in quel momento, la possibilità di mettere in crisi la Democrazia cristiana – e Andreotti in particolare – proprio per i suoi rapporti con la mafia: non si accontenta di pesci relativamente piccoli come Vito Ciancimino o i cugini Salvo, vuole la Balena. Il balletto comincia sui cosiddetti «omicidi eccellenti», in particolare quello di Piersanti Mattarella: un pentito, tal Giuseppe Pellegriti, comincia a sostenere col pm di Bologna Libero Mancuso che dietro l’assassinio ci sono Giulio Andreotti e Salvo Lima. Luciano Violante scrive sull’Unità (agosto 1989): «Siamo vicini a una verità pericolosa che può squarciare il sipario che sinora ha nascosto gli assassini di Palermo». A quel punto Falcone va a interrogare Pellegriti, scopre che il tizio mente o parla per sentito dire, e lo incrimina seduta stante per calunnia. Violante, che all’epoca parla poco, alla Pecchioli, sostiene che Falcone è stato «precipitoso». Leoluca Orlando, meno prudente, accusa in sostanza il magistrato di aver nascosto le prove contro Andreotti e altri politici mafiosi. La delusione per il colpo mancato sul divo Giulio diventa rabbia nel febbraio 1991, quando Falcone chiude le indagini sui delitti eccellenti: Mattarella, Michele Reina e Pio La Torre. Ci sono accuse alle collusioni democristiane certo, ma pesanti sono pure i rilievi per il Pci. Il Corriere della Sera titola: «L’antimafia accusa i comunisti». Coro di proteste sdegnate del neonato Pds. È sostanzialmente l’ultimo atto di Giovanni Falcone in procura: nel 1991 il magistrato decide di accettare la proposta del guardasigilli Claudio Martelli e va a dirigere gli Affari penali al ministero (governo Andreotti), mentre il Csm lo processa sulla base di un esposto di Orlando e altri esponenti di La Rete, e il Pds lo definisce «andreottian-martelliano». Qui arriva l’apoteosi. Tra le altre cose, da via Arenula il magistrato palermitano propone la creazione della procura nazionale antimafia, poi chiamata Direzione (Dna). Ma il primo progetto ne fa una figura troppo dipendente dal governo e viene bocciato da decine di colleghi, Borsellino in testa. La legge viene cambiata. A questo punto il fronte del no si muove compatto per impedire a Falcone di diventarne il direttore. Mette a verbale l’Unità: «Non può, troppo legato al ministro Martelli: non è più indipendente». Pds, La Rete, Rifondazione comunista sono schierate come un sol uomo contro il «governativo» Falcone e pure contro Borsellino, anche se lui non è andato a lavorare al ministero. Luciano Violante sostiene che lui caldeggiò la nomina di Falcone, ma poi fece come diceva il partito, che aveva le sue ragioni: «Era direttore al ministero», spiegò nel 1995, «e quindi il passaggio alla superprocura sembrava un’anomalia, mentre quello da un’ufficio giudiziario all’altro, come per il concorrente [Agostino Cordova], era più semplice». La guerra finisce per morte del reo, poi santificato.

Presidente dell’Antimafia e padre del ‘terzo livello’

Nel 1992 Luciano Violante ha finalmente la poltrona di prima fila che sognava: presidente della commissione d’Inchiesta sulla mafia. È da quella poltrona che Tommaso Buscetta rivela per la prima volta, dopo essersi rifiutato di farlo negli anni Ottanta con Falcone perché «non ci sono le condizioni politiche», notizie sui rapporti tra mafia e politica, il cosiddetto «terzo livello» (soprattutto Andreotti). Dal caso Moro all’omicidio Calvi, da dalla Chiesa a Mattarella, don Masino racconta dettagli assai imbarazzanti per il potere italiano. Ne scaturisce, tra l’altro, una relazione finale della commissione assai dura con il divo Giulio: «Risultano certi i collegamenti di Salvo Lima con uomini di Cosa Nostra. Egli era il massimo esponente in Sicilia della corrente democristiana che fa capo ad Andreotti. Sull’eventuale responsabilità politica del senatore, dovrà pronunciarsi il parlamento». Andreotti commenterà quel testo – negativamente – solo molti anni dopo, ma per la Dc ormai Luciano Violante è «il piccolo, gnomico Višinskij» (l’accusatore nelle purghe staliniane), come l’ha ribattezzato Francesco Cossiga nel 1991. «Il mio giudizio su Andreotti ha sempre riguardato la responsabilità politica, non quella penale», dirà il nostro alla morte del Divo: «E sulle sue responsabilità politiche nei rapporti fra mafia siciliana e Dc, confermo quello che ho sempre sostenuto». Qualche tempo prima, dopo la sentenza di Palermo (prescrizione per il «reato commesso» di associazione per delinquere con la mafia fino alla primavera del 1980, assoluzione con formula dubitativa per il periodo successivo) aveva detto addirittura di avere sconsigliato a Caselli di procedere penalmente contro di lui. Parole in curiosa consonanza con quelle lasciate trapelare sulla Repubblica da De Gennaro che, da vicecapo della Polizia, andò personalmente a dire all’imputato senatore a vita: le prove non ci sono, lei verrà assolto (previsione sbagliata). Il che spiega il raffreddamento dei rapporti fra il duo Violante-De Gennaro e Gian Carlo Caselli.

1992-2009: la strana memoria di Violante

Presbite di memoria, Violante impiega 17 anni per ricordare un fatterello del 1992. Nell’estate del 2009, in curiosa coincidenza con le rivelazioni del Corriere della Sera sugli interrogatori di Massimo Ciancimino, gli torna improvvisamente in mente che, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, il colonnello Mario Mori, allora vicecapo del Ros, gli propose più volte di incontrare privatamente l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino, intermediario della trattativa fra i carabinieri e il duo Riina-Provenzano. Secondo il figlio Massimo, don Vito cercava una «copertura politica totale» alla trattativa: da Mancino per il governo e da Violante per la sinistra. Violante, dopo 17 anni, si precipita dai magistrati di Palermo a spiegare di aver rifiutato il faccia a faccia, di aver proposto un’audizione in commissione Antimafia (peraltro mai fissata, nonostante le pubbliche insistenze di don Vito) e di aver chiesto a Mori se avesse informato la procura. Il carabiniere gli rispose che no, non l’aveva fatto perché «è cosa politica». E lui pace, niente, ci mette una pietra sopra e si dimentica di avvisarla lui, la procura. Eppure nel gennaio 1993 andò a dirigerla il suo (allora) «amico» Caselli, che interrogò pure Vito Ciancimino proprio sui suoi rapporti coi carabinieri. Niente. Poi, nel 2009, una pacca sulla fronte e via a Palermo a raccontare tutto. È appena il caso di ricordare che la legge sui pentiti che impedisce le rivelazioni «a rate» (sei mesi per parlare e poi basta) fu approvata nel 2001, proprio mentre Luciano Violante e Nicola Mancino presiedevano le Camere. I politici possono ricordare a rate, i mafiosi no.

La guerra al mafioso Berlusconi

La «discesa in campo» del Cavaliere vede un Violante scatenato contro «il mafioso di Arcore» (copyright: Umberto Bossi). Il debutto, va detto, non è dei migliori. Nel pieno della campagna elettorale per le politiche del 1994, sulla Stampa esce un pezzo di Augusto Minzolini intitolato «Quel che so di Dell’Utri»: sono frasi carpite all’allora presidente dell’Antimafia in cui si anticipa un avviso di garanzia dalla Sicilia per il sodale di Silvio Berlusconi. Il giorno dopo si scatena il putiferio, Violante smentisce, querela, ma ormai è bruciato: deve dimettersi dall’Antimafia («me lo chiese Occhetto»), mentre i popolari lo scherniscono («lavora nello staff elettorale di Berlusconi»). Il colpo d’immagine è tale che Violante rischia la trombatura nel suo collegio rosso di Torino: ma provvidenzialmente un paio di amici del cuore si affrettano a informare i giornali che una voce dal carcere ha preannunciato un’autobomba mafiosa contro di lui. La notizia, vera ma vecchiotta, esce sulle prime pagine il 26 marzo. L’indomani Violante è rieletto.

Lui comunque quella storia se la lega al dito e definisce Forza Italia, vincitrice delle elezioni, «un manipolo di piduisti e del peggio del vecchio regime». Quanto a Berlusconi, «con la chiamata alle armi contro il comunismo ripete la parola d’ordine del fascismo e del nazismo quando morivano nei lager i comunisti, i socialisti e gli ebrei. E con questa parola d’ordine la mafia uccideva i sindacalisti. È una chiamata alla mafia quella che Berlusconi ha fatto a Roma». Parole che oggi paiono pronunciate da un altro. Ma che Violante ripeterà con qualche variazione sul tema ancora nel 2006: «D’altro canto Vittorio Mangano era lo stalliere mafioso del premier», scandì da un palco a Genova, «c’è un giro di mafia vicino a Berlusconi». Peccato che lui stesso non sia sempre stato così intransigente con le sue frequentazioni: nella campagna elettorale del 1996, quand’era candidato in Sicilia, si fece accompagnare e organizzare i comizi nelle Madonie dai fratelli Potestio, imprenditori vicini al Pci-Pds finiti sotto inchiesta per concorso esterno (Piero Grasso definì uno di loro, Stefano, «mafio-imprenditore»).

Come che sia, in quel 1994 l’ex magistrato passava per il capo del «partito dei giudici». Lo pensava pure Totò Riina: «C’è uno strumento politico, ed è il Partito comunista: ci sono i Caselli, i Violante, poi questo Arlacchi che scrive i libri…», ringhiò dalla gabbia di uno dei suoi processi.

Mani Pulite: come si cambia

Anche se nel 1993 aveva messo le mani avanti («nessuna società tollera a lungo un governo dei giudici»), Violante per anni rimase comunque un difensore dell’inchiesta di Milano sulla corruzione. Ancora durante il governo Dini difese la procura dalla voglia del governo di inviare gli ispettori e corteggiava Antonio Di Pietro per farlo candidare col Pds. Il centro-destra lo accusò – sulla scorta di alcune calunnie raccolte dalla procura di Brescia – di aver contrattato al telefono coi magistrati di Milano la consegna del famoso «invito a comparire» per Berlusconi del 1994. Nel 1995, di fronte a un documento di protesta dei magistrati per la «riforma della custodia cautelare» (che in realtà riformava il codice in lungo e in largo), fu l’unico nel Pds a definire «legittimo che dei magistrati esprimano un parere tecnico». Per poi aggiungere: «Il partito dei giudici non esiste, esiste invece quello degli imputati eccellenti, capeggiato da Craxi e composto da un pezzo di classe politica abituata all’impunità». Poi, però, di fronte alla cosiddetta Tangentopoli 2 di La Spezia, quella di Lorenzo Necci e Pacini Battaglia, che smaschera le lobby e le logge retrostanti il primo inciucio della Seconda Repubblica (il governissimo Maccanico del gennaio ‘96, concordato da D’Alema e Berlusconi e fatto naufragare da Prodi e Fini), cambia registro. Siamo nell’ottobre 1996 e Violante è appena diventato presidente della Camera: «Ci sono magistrati pericolosi, che hanno costruito la loro carriera sul consenso popolare».

Con la Bicamerale finisce il Novecento

Il clima è cambiato. Nell’aprile 1996 l’Ulivo ha vinto le elezioni, Romano Prodi va a palazzo Chigi e Luciano Violante a presiedere Montecitorio: nel suo discorso inaugurale chiede comprensione per le ragioni dei «ragazzi di Salò», quasi un gesto di omaggio al suo maestro Pecchioli, che aveva simbolicamente guidato la delegazione del Pds al congresso di scioglimento dell’Msi a Fiuggi. Le durezze d’acciaio del Novecento sono alle spalle. E d’altronde anche il «gran partito» di Gramsci e Togliatti non esiste più: quel che resta è un ceto politico il cui scopo è perpetuarsi. La soluzione è semplice. Berlusconi da una parte, gli ex Pci dall’altra: ci si può combattere, insultare, ma simul stabunt simul cadent, direbbe Previti. La cultura dell’appeasement trova anche un suo spazio istituzionale: è la Bicamerale di Massimo D’Alema, dove Silvio Berlusconi viene acclamato statista e padre costituente, insomma resuscitato. Il Cavaliere, però, ha i suoi problemi giudiziari e vanno risolti. «Nel 1999, al termine delle riforme istituzionali, si porrà la questione dell’amnistia», dice conciliante Luciano Violante al Foglio nel dicembre 1997. Il 22 febbraio 1998, poi, Gherardo Colombo fa esplodere una bomba mediatica: «La Bicamerale è figlia del ricatto», dice al Corriere della Sera. Con Tangentopoli, sostiene il magistrato, «s’è scoperta soltanto la punta dell’iceberg della corruzione, mentre il resto è rimasto sommerso e su questo sommerso si sono costruiti ricatti incrociati così inquietanti da indurre la politica tutta, senza distinzioni di colori, a bloccare la magistratura prima che vi affondi ancora le mani». Cori sdegnati dal parlamento. Luciano Violante e il suo omologo in Senato Mancino insorgono in un inedito e drammatico comunicato congiunto: «Non è ammissibile travolgere l’intero lavoro della Bicamerale con la delegittimazione in blocco del parlamento, accusandolo senza appello di connivenze e di oscuri compromessi». Ci penserà poi Berlusconi, ottenuta la riabilitazione, a travolgere il lavoro della Bicamerale.

Il caso Previti e la presa della Camera

Durante la presidenza Violante scoppia anche il caso di Cesare Previti. Il gip di Milano, Alessandro Rossato, nel settembre 1997 ne chiede l’arresto per il caso Imi-Sir. Montecitorio ci pensa qualche mese, poi boccia la richiesta con la motivazione che le prove sono troppe, non possono più essere inquinate. Quando inizia il processo, siamo nel 1999, il deputato assenteista Previti si trasforma in una sorta di stakanovista dell’Aula. Il gup chiede a Violante: sicuro che tutti questi impegni parlamentari siano giustificati? Risposta: certo. D’altronde il nostro ha altro a cui pensare. Da tempo cerca di cacciare l’allora segretario generale di Montecitorio, Mauro Zampini, ma quello resiste: una guerra lunga che si risolve – siamo nell’ottobre 1999 – quando anche il capogruppo di Forza Italia Elio Vito appoggia la richiesta di Violante. Zampini se ne va e al vertice della Camera arriva Ugo Zampetti che ancora, felicemente, vi regna. Sistemata la grana amministrativa, torna in auge la questione Previti: il processo Imi-Sir è entrato nel vivo e Cesarone chiede alla presidenza della Camera di ricorrere alla Consulta contro il tribunale di Milano per garantire che il lavoro parlamentare, di qualunque tipo, è «legittimo impedimento» ad essere presente in udienza. Il 10 maggio 2000 Violante accoglie la richiesta di Previti e ricorre alla Consulta, ma solo per le udienze che si sono tenute nei giorni di votazione. Con un corollario, però: il ricorso di Montecitorio chiede addirittura di annullare «tutti gli atti consequenziali» alle ordinanze contestate, compresi i rinvii a giudizio. Il processo, in sostanza, doveva ricominciare da capo. La Corte costituzionale, però, lascerà al tribunale il compito di decidere come sanare quelle udienze nulle, e il processo andrà avanti senza contraccolpi fino a condanna definitiva. Il buon Cesare, in ogni caso, resterà sempre grato a Violante dell’impegno e in seguito pure della sua assenza nel voto decisivo del 2005 sulla legge ex Cirielli «Salva-Previti» (che passerà il vaglio di costituzionalità solo grazie a una quarantina di desaparecidos nel centro-sinistra, lui compreso).

È il terzo millennio: liberi tutti

Luciano Violante, il duro, quello che difficilmente cambia idea, durante la campagna elettorale per le politiche 2001, in un convegno alla Camera, invoca la «pacificazione» con Tangentopoli e rilancia l’idea cara a Craxi e a Forza Italia della commissione d’Inchiesta su Mani Pulite «per favorire il rilancio del confronto civile». Alla fine la figlia Stefania gli consegna «le carte dell’archivio privato di Craxi», dove – scherzi del destino – c’è anche un dossier su di lui. Nel 2007 infine, in un libro, il nostro rompe definitivamente gli indugi definendo il fu Bettino «capro espiatorio». Sono anni di passaggio, in cui il personaggio del vecchio Violante inquisitore ogni tanto rispunta in scena, ma siamo ai residui di una personalità in smobilitazione: subito dopo la sconfitta elettorale del 2001, ormai soltanto capogruppo diessino alla Camera, il nostro si stupiva che «con le elezioni del 13 maggio ci ritroviamo un parlamento con il più alto numero di imputati eletti. Questa indifferenza della politica all’etica pubblica è il massimo di delegittimazione dell’intervento giudiziario». A settembre, però, già se la riprendeva coi giudici e sulla Stampa denunciava «gli eccessi giustizialisti» di Mani Pulite: «Qualche magistrato si è sentito troppo protagonista, qualche grande processo forse non andava fatto. C’è stata una fase in cui c’è stato un di più di giustizialismo»; nel 2002 la definì senz’altro «campagna giacobina». Tanto lavoro però, almeno inizialmente, non serve a niente.

L’ingratitudine, il patto svelato
e le pieghe del dialetto piemontese

Un pezzo dell’inner circle di Berlusconi ancora non si fida del «piccolo Višinskij»: è tanto vero che il povero Violante finisce nella lista segreta dei «nemici» del governo stilata da Pio Pompa, bizzarro analista dei servizi in quota Niccolò Pollari. Quanta ingratitudine, deve essersi detto l’ex magistrato. Forse lo stesso pensiero che s’è affacciato alla sua mente nella sua performance più famosa: la rivelazione del patto col Cavaliere durante un discorso alla Camera nel febbraio 2002. Dopo un intervento del deputato di An, Gianfranco Anedda, che accusava il centro-sinistra di voler distruggere Mediaset, Violante sbotta: «La invito a consultare Berlusconi, perché lui sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – non adesso, ma nel 1994, quando c’è stato il cambio di governo – che non gli sarebbero state toccate le televisioni. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Gianni Letta». Niente da fare. Quei cattivi del centro-destra sono talmente malfidati che nel 2005 – sebbene Previti tenti di convincere il Cavaliere («ti puoi fidare») – gli impediscono pure di sedere sulla poltrona che ancor oggi vagheggia, quella di giudice costituzionale.

Molto meglio, allora, spendersi per gli amici. Quando, per dire, Piero Fassino viene beccato a congratularsi con il presidente di Unipol Giovanni Consorte per l’acquisto di Bnl («allora, abbiamo una banca?»), Violante la butta sulla dialettologia: «Quando mia figlia si è sposata, poco tempo fa, ha detto: “Abbiamo un bel marito?”. Ecco, si tratta di un modo di dire di noi piemontesi». Siamo nel 2005, lo stesso anno in cui il nostro, allora capogruppo dei Ds, incontra il capo della Popolare di Lodi Gianpiero Fiorani: «Abbiamo parlato della legge sul risparmio», dice a Radio radicale. «Stava facendo campagna a favore di Antonio Fazio», spiega Bruno Tabacci, grande nemico dell’allora governatore di Bankitalia. Anche per i non piemontesi, però, Violante trova il modo di darsi da fare. Quando, nel 2006, un giudice chiede di utilizzare le intercettazioni di Vincenzo De Luca (sindaco Ds di Salerno e deputato) indagato per una vicenda di appalti, la Camera dice no. L’unico diessino a votare a favore in Giunta è l’ex magistrato Giovanni Kessler e il nostro lo prende subito di petto: «Tu oggi hai votato contro un compagno! Come ti sei permesso?». Il tapino sostiene di aver semplicemente votato secondo coscienza. Non sarà ricandidato, al contrario di Vladimiro Crisafulli, beccato a conversare amabilmente con un mafioso. Qualcuno protesta, ma Violante – garantista, anzi legalitario – chiarisce che è giusto così, perché l’inchiesta penale è stata archiviata. Con tanti saluti alla responsabilità politica e morale.

L’Unione: gli ultimi fuochi in parlamento

Dopo le elezioni del 2006 Violante trova una nuova poltrona di prestigio: presidente della commissione Affari costituzionali. È da quello scranno che fa in modo di cambiare nome: diventa Bozza Violante, quando sforna un progetto di riforme istituzionali che prevedono tra l’altro il premierato, la sfiducia individuale, il Senato federale e altre cose su cui tutte le forze politiche si dicono d’accordo senza mai votarle. Già che c’è, peraltro, Violante propone pure di sottrarre al Csm la funzione disciplinare sui magistrati: meglio un organo esterno nominato in maggioranza dai partiti, un plotone d’esecuzione politico. Nel 2007 trova pure il modo di dare una nuova testimonianza di quanto gli stia a cuore il destino di Mediaset. Il Cavaliere pare interessato all’acquisto di Telecom e, invece di interrogarsi sul conflitto di interessi o la creazione di un cartello dominante nel mercato delle telecomunicazioni, Violante e i Ds danno il via libera: «C’è un Berlusconi imprenditore e un Berlusconi uomo politico: se, come imprenditore, investe le sue risorse in un settore di importanza strategica per il nostro paese, non ci trovo niente di male». Confalonieri se la ride: «Ora pure il centro-sinistra fa il tifo per noi». È lo stesso periodo in cui scoppia il caso Clementina Forleo: il gip che chiede al parlamento di utilizzare le telefonate di alcuni politici, tra cui D’Alema e Fassino, a Giovanni Consorte. Il nostro perde il lume della ragione: «Prima di votare sull’autorizzazione», scandisce Violante, «la Giunta e poi l’Aula dovrebbero mettere nero su bianco la mancanza di lealtà da parte dei giudici di Milano e sottolineare l’abuso commesso dalla Forleo: un abuso che il parlamento ha il dovere di segnalare». Con tanti saluti alla separazione dei poteri fra politica e magistratura.

Gli ultimi anni: riserva della Repubblica

Dal 2008 Violante è fuori dal parlamento e allora gira, scrive, organizza convegni e fa il saggio. È il capo del dipartimento Riforme del Pd, a cui ha generosamente messo a disposizione la sua Bozza. Nel 2009 pubblica Magistrati, un pensoso tomo con cui abbraccia definitivamente senza pentimenti o rigurgiti del passato il personaggio del Violante garantista, anzi legalitario. Un pamphlet contro le toghe troppo e male politicizzate: «I giudici devono essere leoni, ma leoni sotto il trono», spiega Francis Bacon nella citazione iniziale. Da allora è un florilegio di amenità rubricate sotto la categoria della pacificazione nazionale, o della saggezza, o del garantismo anzi meglio legalitarismo. Al Giornale: «La vera separazione delle carriere deve essere quella tra magistrati e giornalisti, tra i quali a volte ci sono rapporti incestuosi». Le intercettazioni del caso Ruby? Al Corriere della Sera: «Cose del genere avvengono solo in Italia e in alcuni paesi del Centro e Sudamerica». È il 2011 e Violante prova di nuovo a farsi eleggere alla Consulta dal parlamento. Stavolta in accoppiata con Gaetano Pecorella, già avvocato di Berlusconi. Si spende Ignazio La Russa: «Posso testimoniare che Violante, da presidente della Camera, ha dato dimostrazione di una grande capacità di rinunciare alle sue idee sforzandosi di capire quelle degli altri». Si spende il guardasigilli Angelino Alfano: «Non spetta a me promuovere la nomina, certo lui ha recentemente espresso posizioni non distanti dalle nostre». Pure stavolta, però, non se ne fa niente.

Da Bozza a Lodo Violante

Ora Luciano Violante, per via del suo secondo nome, Bozza Violante, è anche entrato a far parte dei saggi scelti da Giorgio Napolitano per dettare al parlamento le riforme costituzionali e d’altro genere di cui pare che l’Italia necessiti. Il Quirinale si sdebita così delle appassionate difese regalate da Violante all’uomo del Colle nelle settimane infuocate delle polemiche per le sue telefonate con Nicola Mancino e per il suo incredibile conflitto di attribuzioni contro la procura di Palermo, rea di averle ascoltate e di non averle distrutte all’insaputa degli avvocati (cioè di non aver violato il codice di procedura penale e la Costituzione). In quei giorni, oltre a dare ragione ai colpi di mano del presidente, il nostro attacca a testa bassa i pm siciliani e addirittura i presunti mandanti di un immaginario complotto anti-Napolitano: «Di Pietro, Grillo, Travaglio e parte del suo giornale sono un blocco politico-mediatico che gioca sul disagio popolare», «aggredisce il Quirinale» ai «fini della conquista del potere» e «usa una parte del mondo giudiziario come una clava per realizzare un progetto distruttivo» e «abbattere i pilastri istituzionali»: «un serio problema democratico» che minaccia «la tenuta economica dell’Italia». Addirittura.

Concluso il bel lavoro con gli altri nove saggi presidenziali – che non dimenticano di chiedere il bavaglio sulle intercettazioni e altre cosette che tanto piacciono al Cavaliere in tema di giustizia – il nostro entra pure nel sinedrio dei 35 saggi nominati dal governo Letta per riscrivere la seconda parte della Costituzione. Poi assume anche un terzo nome: Lodo Violante. Si tratta della scappatoia offerta a Berlusconi per non decadere da senatore sulla base della legge Severino. Il nostro interviene al salvamento da par suo: «Ho detto soltanto che il Pd deve garantire anche a lui il diritto di difendersi davanti alla Giunta», minimizza lui dopo che parecchi elettori e iscritti del suo partito gli hanno fatto notare, per così dire, la loro contrarietà. A parte il fatto che Berlusconi s’è difeso nella Giunta per le elezioni in tutte le forme regolamentari, in realtà il Lodo Violante dice una cosa in più: chiediamo alla Corte costituzionale se la legge Severino sia applicabile o meno. No? Va bene pure la Corte europea. «Il Pd stava correndo il rischio del giacobinismo. Per questo ho parlato», offre il petto al fuoco sulla Repubblica. Non si tratta solo di applicare una legge? Macché: «L’idea di annientare l’avversario è tipica della politica debole, quella che non ha la forza di confrontarsi con gli oppositori. Abbiamo rischiato di farci prendere dallo sbrigativismo: è condannato, espelliamolo». Il fatto è, se è concesso essere un po’ maligni, che a giugno prossimo si liberano due posti alla Consulta e quello attualmente occupato dal neopresidente Gaetano Silvestri spetterebbe al centro-sinistra: per essere eletti, però, serve la maggioranza qualificata delle Camere e dunque, con questo parlamento, pure del Pdl. Arrivati alla Corte, poi, con quella maggioranza, nulla vieta di sognare un altro voto simile, un’altra poltrona, più prestigiosa, sull’altro lato di via del Quirinale. Solo che se questo è lo schema, Giuliano Amato al solito è già piazzato meglio: alla Consulta c’è già e, a giugno prossimo, ne sarà pure presidente. Mai sottovalutare l’importanza di essere Amato.

(18 settembre 2014)

Fede: “La storia di Berlusconi? Mafia, mafia, mafia. Sosteneva famiglia Mangano” da: il fatto quotidiano

In una conversazione registrata di nascosto dal suo personal trainer, l’ex direttore del Tg4 parla dei rapporti tra il fondatore della Fininvest, Dell’Utri e Cosa nostra. E interrogato dai pm di Palermo, racconta di un incontro durante il quale l’ex Cavaliere raccomandò al suo braccio destro, ora in carcere per concorso esterno, di “ricordarsi” della famiglia del mafioso all’epoca detenuto e sotto interrogatorio

Fede: “La storia di Berlusconi? Mafia, mafia, mafia. Sosteneva famiglia Mangano”

Quando Marcello Dell’Utri veniva a Palermo doveva ricordarsi della famiglia di Vittorio Mangano, doveva ricordarsi di “sostenerla”. E per evitare che se ne dimenticasse, Silvio Berlusconi in persona, almeno in un’occasione, si è adoperato per rammentarglielo. A raccontarlo ai pubblici ministeri di Palermo non è un mafioso pentito, e non è nemmeno un collaboratore di giustizia. L’inedito episodio arriva invece dalla viva voce di un uomo che per oltre vent’anni è stato al fianco dell’ex premier: Emilio Fede.

L’ex direttore del Tg4 ha raccontato ai magistrati di un incontro tra Berlusconi e lo stesso Dell’Utri, appena arrivato a Milano dopo un soggiorno a Palermo. Ad Arcore, Fede si sta intrattenendo con l’ex premier, quando ecco che arriva Dell’Utri. “Mi alzai per allontanarmi” dice Fede interrogato dai pm Antonino Di Matteo e Roberto Tartaglia nel maggio scorso. “Lo scambio di frasi è stato brevissimo”, aggiunge.

Fede spiega che Berlusconi, ancor prima di salutare l’ex senatore oggi detenuto, esordisce immediatamente così: “Hai novità? Mi raccomando ricordiamoci della sua famiglia, ricordiamoci di sostenerla”. La famiglia da sostenere è quella di Vittorio Mangano, l’ex stalliere di Villa San Martino, in quel momento detenuto. Dell’Utri, nel racconto dell’ex direttore del Tg4, prontamente replica: “Chiedono riferimenti su di te”.

Per i magistrati il riferimento è agli interrogatori in quel momento in corso, durante i quali a Mangano veniva chiesto appunto dei rapporti con l’ex presidente di Publitalia e con il patron della Fininvest. Fede non ha saputo collocare con certezza l’evento nel tempo: per lui il rapido scambio di battute tra Dell’Utri e Berlusconi sarebbe stato di poco antecedente alla discesa in campo dell’ex cavaliere, quindi nel 1994. Mangano però all’epoca era libero: finirà dentro soltanto dopo, ed è per questo che per i magistrati l’episodio raccontato da Fede è verosimilmente collocabile tra il 1995 e il 1996, quando Dell’Utri era già indagato dalla procura di Palermo per concorso esterno a Cosa Nostra.

I pm che indagano sulla trattativa Stato-mafia hanno interrogato Fede dopo che dalla procura di Monza è arrivata la registrazione di una conversazione. Un file realizzato con il telefonino da Gaetano Ferri, personal trainer di Fede, che nel luglio del 2012 registra una conversazione con l’ex direttore del Tg4, all’insaputa di quest’ultimo. Nella registrazione si sente Fede che spiega alcuni passaggi dei collegamenti tra Arcore, Dell’Utri e Cosa Nostra. “C’è stato un momento in cui c’era timore e loro avevano messo Mangano attraverso Marcello” spiega Fede al suo interlocutore. Che ribatte: “Però era tutto Dell’Utri che faceva girare”. “Si, si era tutto Dell’Utri, era Dell’Utri che investiva” risponde Fede.

Poi il giornalista si pone una domanda retorica con risposta annessa: “Chi può parlare? Solo Dell’Utri. E devo dire che in questo Mangano è stato un eroe: è morto per non parlare”. Quindi il giornalista fornisce al suo personal trainer la sua estrema sintesi di quarant’anni di potere economico e politico: “La vera storia della vicenda Berlusconi? Mafia, mafia, mafia, soldi, mafia”.

Twitter: @pipitone87

Ruby, cambiare la legge con il Pd e farsi assolvere. Il delitto perfetto di Berlusconi da: blog il fattoquotidiano

L’avevano votata per questo e alla fine per questo è servita. Silvio Berlusconi strappa un’assoluzione in secondo grado per il caso Ruby grazie alla legge Severino: il sedicente articolato anti-corruzione approvato nel 2012 da Pd e Pdl che, dopo aver permesso alle Coop di uscire prescrizione dall’inchiesta sulla sulla Tangentopoli di Sesto San Giovanni e a Filippo Penati di veder eliminate parte delle sue accuse, svolge ora egregiamente la sua funzione anche nei confronti dell’ex Cavaliere e neo Padre della Patria.

Spacchettare, mentre il processo Ruby era già in corso, il reato di concussione in due, stabilendo pene e fattispecie diverse per la concussione per costrizione e quella per induzione, ha significato spalancare la strada che ha portato il leader di Forza Italia al verdetto di secondo grado.

Niente di sorprendente, a dire il vero. Nel 2012, durante la discussione della legge, votata in nome delle larghe intese, più osservatori, compreso chi scrive, avevano fatto notare gli effetti deleteri delle nuove norme. E l’anno successivo, dopo aver visto finire nel caos decine di processi, anche l’ex procuratore antimafia e attuale presidente del Senato, Piero Grasso, aveva lanciato l’allarme. La nuova legge, secondo lui, andava subito modificata.

Stavano saltando dibattimenti su dibattimenti e, per Grasso, anche il processo Ruby sarebbe finito in niente. “Mi pare”, aveva detto Grasso, “ che con questo nuovo reato non sia più punibile l’induzione in errore o per frode (la telefonata in questura in cui Berlusconi sosteneva che Ruby fosse la nipote di Mubarak ndr). Il comportamento prevaricatore potrebbe essere punito come truffa, ma nel caso di Berlusconi non c’è nessun aspetto patrimoniale”.

Traduzione: con la vecchia norma l’ex Cavaliere sarebbe stato condannato di sicuro. Con la nuova no. Anche perché, come non ha mancato di far notare l’abile difensore di Berlusconi, l’avvocato Franco Coppi, le sezioni unite della Cassazione hanno alla fine stabilito che la nuova concussione per costrizione scatta quando non si può resistere in alcun modo alle pressioni. E che quella per induzione può invece essere punita solo quando chi riceve “pressioni non irresistibili” (in questo caso il funzionario della questura, Pietro Ostuni) gode anche di “un indebito vantaggio”.

Tutto insomma si tiene. Bisogna prendere atto che secondo la corte di appello non è possibile dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio che Berlusconi conoscesse la minore età di Ruby (andare a prostitute maggiorenni non è reato). E che secondo la nuova legge fare pressioni in questura senza far balenare nulla in cambio lo è ancor meno.

Il sistema regge, si evolve e vince. Di nuovo Berlusconi la fa franca perché le regole del gioco sono mutate durante partita. Era accaduto nel 2001 quando grazie l’abolizione, di fatto, del falso in bilancio era finito in niente il processo All Iberian sui fondi neri della Fininvest. Era successo di nuovo con il caso della corruzione dell’avvocato David Mills, quando tutto si era prescritto a causa dell’approvazione della legge ex Cirielli che aveva dimezzato i termini oltre i quali i reati vengono eliminati dal colpo di spugna del tempo.

E avviene adesso, grazie a una norma su misura che, a differenza del passato più recente, è stata approvata pure con i voti del centro-sinistra. Segno che l’interesse non era ad personam, ma un po’ più generale. Quasi ad Castam così come era accaduto nel 1997 quando la riforma dell’abuso di ufficio, votata dal Polo e dall’Ulivo, aveva provocato assoluzioni a raffica tra politici di tutti gli schieramenti.

Così in questo clima che sa di antico si aspetta solo la chiusura stagione delle controriforme istituzionali: più firme per i referendum, più firme per le leggi di iniziativa popolare, parlamentari sempre nominati e consiglieri regionali e sindaci coperti da immunità solo perché scelti per sedere al Senato. Poi il presidente di turno, questo o il prossimo, concederà al leader di Forza Italia la grazia. Come negare un atto di clemenza a un Padre della Patria? In quel momento, e solo in quel momento, il delitto sarà davvero perfetto.

Lettera aperta: la solidarietà “all’amico degli amici” da: antimafia duemila

dellutri-pag-pub-corrieredi Giorgio Bongiovanni – 26 giugno 2014

Oggi sulle colonne del Corriere della Sera è stata pubblicata un’intera pagina dedicata all’ex senatore Marcello Dell’Utri (costata oltre 50mila euro) voluta dalla moglie Miranda Ratti nel quale amici, colleghi, politici e familiari esprimono la propria solidarietà. Tra i firmatari chi con il fondatore di Forza Italia ha lavorato a Publitalia (Niccolò Querci, consigliere Mediaset e vicepresidente di Publitalia ‘80) alla Fondazione biblioteca o al settimanale Il Domenicale (l’ex direttore Angelo Crespi), il cugino Massimo Dell’Utri, attuale professore dell’Università di Sassari, il deputato Massimo Palmizio, l’intellettuale Camillo Langone, Candia Camaggi (ex responsabile Fininvest Lugano), Alessandro Salem, dg dei contenuti Mediaset, la squadra dilettantistica Bacigalupo di Palermo (fondata nel 1957). A coloro che hanno preso parte all’iniziativa, e alle loro famiglie, vorrei ricordare che lo scorso maggio la Cassazione ha confermato definitivamente la condanna a sette anni di reclusione per Marcello Dell’Utri, ex braccio destro di Silvio Berlusconi, per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, in quanto per decenni si configurò come quel sicuro anello di congiunzione che garantiva proficui contatti tra Cosa nostra e ambienti politici. L’amico a cui date solidarietà ha infatti favorito soggetti criminali, assassini, narcotrafficanti, torturatori, infanticidi, stragisti, terroristi.

Con la vostra solidarietà non avete commesso un reato punibile dalla giustizia umana, ma uno che va molto al di là di questo. Della qualità delle amicizie di Marcello Dell’Utri, le cui azioni possono essere considerate quantomeno antietiche e certamente criminali, cosa pensano i firmatari che oggi lo sostengono? E soprattutto, cosa può pensare l’opinione pubblica e i cittadini tutti che leggono decine e decine di nomi attorno alla scritta “Al tuo fianco, Marcello” dedicata a un detenuto che per anni ha frequentato i boss di Cosa nostra?

I patti clandestini del governo Renzi | Fonte: sbilanciamoci | Autore: Rossana Rossanda

A quale maggioranza risponde l’attuale governo? Formalmente, il PD ha i non molti voti della sua tornata elettorale più infelice; ma Renzi ha l’abitudine di consultare Forza Italia e la Lega prima ancora di riferire a via del Nazareno e al Parlamento. Sono veri e propri patti, anche se non formalizzati, perché non è formalizzato in nome di quale potere o funzione Silvio Berlusconi deve dire la sua sulle riforme istituzionali e la Lega ha incaricato niente meno che Calderoli, l’autore del Porcellum, a scrivere con Anna Finocchiaro le formule dell’abolizione e ricostituzione del Senato.

La senatrice Finocchiaro si duole altamente che il governo l’abbia abbandonata sul tema dell’immunità che sarebbe ancora concessa al nuovo Senato, cioè a quegli eletti che sarebbero nominati per esercitare il proprio incarico. “Che cosa vogliono da me?” si lamenta ripetutamente alludendo al Presidente del Consiglio e alle chiomate creature che costituiscono il governo. Ma non è difficile capire che vorrebbero da lei il rispetto per delle regole fissate in altra sede, appunto con Forza Italia e Lega, senza che il governo ne risponda letteralmente. Anzi, Renzi le ha fatto sapere con qualche ruvidezza che considera il problema dell’immunità parlamentare per i senatori del tutto secondario. E questa dichiarazione, mentre da tutte le parti gli abbienti incaricati di questo o quel lavoro pubblico stanno dando l’assalto alla diligenza che hanno più vicino, non è la meno sorprendente.

C’è da chiedersi che idea ha l’Italia, stampa compresa, della democrazia rappresentativa. Se ne può pensare anche molto male, ma è innegabile che essa ha un sistema di regole che in questo momento appare quanto mai irriso e confuso. C’è un livello politico di accordi fuori sistema che tuttavia valgono più degli accordi formali: nessuno si sogna più di ricondurre il PD nel Parlamento italiano al semplice posto che gli avevano assegnato le ultime legislative, tutti aspettano di sapere, sia pure in forma ellittica, che cosa Forza Italia, mai ridotta a così modeste proporzioni, e idem la Lega, decidono nel merito della ristrutturazione della democrazia italiana. Però non si può dire in chiare lettere, insieme rivalutando Berlusconi e negandogli il ruolo che gli viene dato. In questi giorni, il Movimento 5 Stelle e Renzi “se parlen” insomma qualcosa di meno che essere già fidanzati, ambedue i soggetti fanno sapere che sperano ciascuno di approfittare dell’altro, fino a calcolare al millimetro quali saranno i rispettivi ambasciatori all’incontro che avverrà nei prossimi giorni. Certo nessun atto della Camera lo registrerà, ma sarà quello che conta. Sta di fatto che l’Italia ha bisogno di riforme istituzionali urgenti, almeno così si dice, ma esse si stanno facendo nel modo più strano e opaco, come se si volesse battezzare un bambino portandolo in chiesa nottetempo.

Tutto questo sembra una prova di particolare efficienza e rapidità del nostro Primo Ministro; e per primi i giuristi che finora stavano alla custodia della correttezza dei nostri istituti, da qualche settimana evitano di prendere posizione. E così la stampa: apparentemente, tutti – partiti e media – sembrano convinti che il Senato vada abolito, nessuno ha ricordato le ragioni per cui la Costituente del 1948 lo ha voluto proprio come Camera di seconda lettura, non per gusto di ripetere, ma rafforzarne le scelte. Non è che gli Italiani siano stati messi davanti allo stesso scenario per decidere se fosse ancora giustificato oppure no; la democrazia riammodernata appare elastica, a volte rigidissima, a volte facile da eludere, ma con questo sistema non si sa più né che cosa è legale nella sostanza e nella forma, né che cosa non lo è. Riformare questo o quel pezzo della Costituzione è diventato più semplice che far votare una legge.

È nel pieno di questo baillame che l’Italia si vanta di piegare le rigidità dei bilanci europei stabilite dai trattati. Ieri veniva elogiata la flessibilità di Angela Merkel, convinta perfino ad accettare come ministro degli esteri d’Europa la signora Mogherini di cui non abbiamo modo di conoscere l’esperienza né le gesta: manifestamente, si spartiscono i posti in Europa in un mercato nel quale ognuno porta i suoi e non ci sono criteri di visibilità o di giudizio accessibili a tutti. La distanza fra gli incarichi dell’Unione e la gente che dovrebbe votarla non può che allargarsi offrendo spazio ai populismi che sembrano spaventare tutte le forze politiche, salvo le multicolori facce dell’estrema destra. La preoccupazione dei primi giorni è durata non più di una settimana.

I BUCHI NERI DELLE LEGGI ITALIANE | Fonte: La Nuova Venezia | Autore: VITTORIO EMILIANI

Vent’anni fa la reazione a Tangentopoli fu forte e generò, fra l’altro, una buona legge sugli appalti, la legge Merloni del 1994, che restituiva trasparenza ai lavori pubblici e all’edilizia, fonti di corruzione diffusa, anche a livello locale.

Durò poco purtroppo. Il ’94 segna sul calendario la vittoria di Silvio Berlusconi alle elezioni politiche e l’inizio di continue modifiche peggiorative, fino allo stravolgimento, di quelle norme fondamentali accusate di essere “troppo rigide”, ovviamente. Dopo anni e anni di assuefazione alle “cricche”, quale sarà la reazione oggi a scandali di proporzioni gigantesche come quelli di Expo 2015 e del Mose?

Credo che sia del tutto frustrante gettare la croce addosso alla “casta” e/o alla “burocrazia” e che sia invece fondamentale dedicare ogni tempo parlamentare utile a un pacchetto di misure – repressive ma ancor più preventive – contro la corruzione e alla riforma della giustizia. Sulle quali si gioca, assai più che su una discutibilissima e sempre più impantanata “riforma” del Senato, la credibilità, “la faccia” del governo guidato da Matteo Renzi. E non è per niente facile.

Lo scasso della legge Merloni sugli appalti e quello di talune norme essenziali sui processi è stato compiuto o tentato da ministri, a cominciare da Alfano, presenti nell’attuale governo. Mentre la maggioranza “per le riforme” è sostenuta da Berlusconi che porta talune gravissime responsabilità: la legge-obiettivo del 2001 che sintetizzava il peggio del Mose rendendo “normali” tutti gli aggiramenti della concorrenza fra le imprese (“protette” e, di fatto, oligopolistiche) ed estendendo il manto di una onnipotente Protezione Civile. Dopo i grandi appalti assegnati in forma “discrezionale”, pure quelli fino a 500mila euro furono espletati “a trattativa semplificata”, senza una vera gara pubblica, favorendo il diffondersi della corruzione a livello locale. Tanto più che il racket, in cerca di occasioni per “ripulire” i grandi profitti criminali, era risalito al Nord e si infilava nella fase attuativa delle opere pubbliche, nei subappalti. Nel solo Veneto esse valevano nel 2009 ben 7,3 miliardi. Nel 2011 l’inascoltata Autorità di vigilanza sui pubblici contratti (Anpc) denunciò che, in tutta Italia, il 28 per cento degli appalti (per 28 miliardi di euro) era stato assegnato così.

Poco prima che esplodesse la “bomba” di Expo 2015, il ministro Maurizio Lupi ha proposto, significativamente, di far rientrare quella Autorità all’interno del suo Ministero delle Infrastrutture. Invece abbiamo più che mai bisogno di Autorità “terze”, neutrali, attrezzate, che prevengano e svelino quella selva di intrallazzi, di tangenti pagate a esponenti di ogni partito, di sovraccosti (del 40 per cento) scaricati sui soliti contribuenti. Matteo Renzi ha preso di petto spesso le Soprintendenze responsabili, a suo avviso, di bloccare questo o quel lavoro, ha attaccato in blocco la burocrazia all’insegna della “semplificazione”, dello “Sblocca-Italia”.

Ma i controlli strategici, preventivi, degli organismi di tutela devono esserci. Eccome. L’ultimo Rapporto dell’Unione europea sulla corruzione reclama misure molto più incisive della legge Severino del 2012: rendere meno brevi le prescrizioni, ripristinare il reato di falso in bilancio, colpire l’autoriciclaggio e altro ancora. Secondo “Trasparency International”, i processi estinti per prescrizione sono da noi sul 10-11 per cento contro lo 0,1-2 per cento appena della Ue. Prescrizione breve e giustizia lenta lasciano impuniti tanti amministratori pubblici, politici, imprenditori delinquenti e incoraggiano altri a rubare. Non a caso dal Mose emergono anche nomi già noti alle cronache giudiziarie. Su questi “buchi neri” si deve concentrare l’azione del governo Renzi. Questi sì che allontanano gli investitori stranieri dall’Italia. E non si chiedano miracoli al pur bravo Raffaele Cantone. Ci vogliono norme chiare, mezzi adeguati, uomini preparati e volontà politica di uscire davvero da questa mortifera palude

Silvia Resta: “Ignorati gli avvertimenti di Falcone e Borsellino, l’informazione non ha fatto il suo dovere” da: antimafia duemila

resta-silvia2-men.raffdi AMDuemila – 22 maggio 2014

Palermo. “Falcone alla fine del ’91, in un dibattito a Castello Utveggio ci avvertì che Cosa nostra stava entrando in borsa. Ci stava dicendo che la mafia non era più coppola e lupara, ma stava scalando i palazzi del potere ed entrando dentro le cattedrali del potere economico e politico”. Lo ha detto Silvia Resta, giornalista televisiva, nel corso dell’incontro organizzato dall’Associazione culturale Falcone e Borsellino intitolata “Menti raffinatissime”, che parte dalle intuizioni del giudice Giovanni Falcone all’indomani del fallito attentato all’Addaura. “Anche Borsellino, pochi giorni prima di morire – ha continuato la giornalista – intervistato da alcuni giornalisti francesi ci diede lo stesso avvertimento. Ci parlava di Vittorio Mangano, boss di Porta Nuova che era arrivato fino ad Arcore dove esisteva un imprenditore del settore televisivo ed edilizio (Silvio Berlusconi, ndr) che cominciava ad avere legami con la politica”, “ci metteva in guardia perché Cosa nostra non era più solo pizzo e droga, ma sta diventando altra cosa”.

La Resta ha ricordato che all’indomani della morte di Falcone e Borsellino “si è cercato di oscurare questi avvertimenti che erano stati lanciati, e che trovano esplicitazione con le elezioni del ’94 in cui nasce una forza politica (il partito Forza Italia, ndr)”, “figlia di Marcello Dell’Utri, un personaggio di cui Borsellino aveva già parlato” e da poco “condannato in via definitiva per mafia” menti-raffinatissime-pubblico
Questa forza politica, ha continuato la giornalista, “ha preso potere in questo Paese per vent’anni, e ci ha lasciato solo macerie. Io penso – ha detto ancora – che in questi vent’anni l’informazione non ha fatto fino in fondo il suo dovere, forse per via di quelle menti raffinatissime che hanno controllato passaggio per passaggio, processo per processo”, “i giornalisti che hanno provato ad indagare, a puntare il dito contro il potere criminale sono stati additati come anti italiani, colpevoli di tradire la democrazia” perché “nelle grandi televisioni e redazioni è stato fatto un controllo capillare su questi temi”. Ma, ha precisato la Resta “questo ventennio non è ancora finito, e ancora oggi un giornalista non tira le somme” per “comprendere che questa mafia che Falcone aveva capito voleva scalare i palazzi c’era infine arrivata”.
“Oggi sono venuta qui – ha poi concluso – per chiedere scusa a Di Matteo, a Tartaglia, a Del Bene, che non mi vedono mai durante le udienze del processo trattativa Stato-mafia. Perché a fare i servizi televisivi non mi ci mandano”. “Chiedo scusa a nome di tutta la stampa italiana, sperando che con il sostegno di tutti voi, soprattutto dei giovani, si possa riportare l’informazione a una dimensione civile”.

Pd e Fi, i due falsi contendenti nella manipolazione delle riforme costituzionali | Autore: marco piccinelli da: controlacrisi.org

Prima, la lettera di di Silvio Berlusconi al ‘Corriere della Sera’, in cui incitava la svolta presidenzialista per il Paese: «Sarebbe opportuno che il Presidente del Consiglio tirasse fuori da sotto al tappeto il grande convitato di pietra che è l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Senza questo passaggio, l’intero progetto di riforme rischia di essere solo un grande castello di carte. Per impedire questo ne siamo pronti a dare tutto il contributo possibile».

Poi Matteo Renzi, Presidente del Consiglio dei Ministri e segretario democratico che, commentando le parole del leader forzista, apre cautamente al Presidenzialismo «ma non prima della riforma del Senato».
Subito dopo il ‘sì’ in commissione, dunque, Renzi ieri notte twittava: «Approvato il testo base del Governo sulla riforma del Senato. Molto bene, non era facile. La palude non ci blocca! E’ proprio #lavoltabuona».

Infine, Daniele Capezzone, stamattina, commenta così l’esito del voto in commissione: «La notizia di ieri sera è che Forza Italia è decisiva per le riforme. Il nostro ruolo è determinante, numericamente e politicamente. E noi abbiamo confermato da una parte il nostro assoluto impegno per le riforme, e dall’altra che siamo ambiziosi, che vogliamo alzare l’asticella. Da questo punto di vista, come ha fatto in questi giorni il Presidente Berlusconi, va anche inserita nella
discussione dei prossimi mesi l’opzione presidenzialista. Se mettiamo mano alla Carta Costituzionale, facciamolo bene, portando davvero l’Italia nella Terza Repubblica, passando dalla Repubblica dei partiti alla Repubblica dei cittadini».

Se Renzi twitta, Berlusconi intanto recupera terreno in una campagna elettorale che vede il suo partito in perdita di consensi: l’ex Cavaliere del lavoro attacca chiunque gli capiti sotto tiro con velenose dichiarazioni, ma al Primo Ministro non nega mai un’apertura, nonostante qualche “buffetto”.
E’ così, dunque, che Berlusconi tenta l’ennesima rimonta dovuta a mirabolanti iperboli nei comunicati stampa e a dichiarazioni come quella rilasciata nella lunga intervista a Corrado Formigli nella trasmissione “Piazza Pulita” in cui asseriva che Renzi sarebbe potuto stare anche in Forza Italia: «Perché no?! Non è comunista, non ha radici comuniste».
La discriminante del dialogo col centrosinistra, è evidente, è saltata: le riforme “si possono fare”. E senza quelle dannate “barriere ideologiche” che sono state il “vero ostacolo al dialogo”: si è aperta una nuova stagione, quella delle “cose da fare”, come direbbe Maurizio Crozza, vestendo i panni di Matteo Renzi.

Si è aperto lo spiraglio, finalmente, americanista: i due poli sono presenti, come repubblicani e democratici, così Pd e Ncd/Fi, e si differenziano su alcune sfumature. Si differenziano, certo, ma sono pur sempre inezie, dal momento che «l’accettazione delle regole del gioco», che dal renziano si traduce “il sistema economico”, è sempre lo stesso.
In questa direzione sembra andare anche Massimo d’Alema che, in un’intervista a ‘LaRepubblica’ di oggi, risponde così a Roberto Mania: «No. Questa è una vera idiozia. Lo scriva, lo scriva». La domanda era: «Non crede che la relazione del segretario della Cgil prospetti una proposta di sinistra alternativa a quella di Matteo Renzi, segretario del PD?».

Sulla stessa linea si poneva, mesi fa, un delfino dell’ex Cavaliere Berlusconi, Giampiero Samorì, presidente del Mir (Moderati in Rivoluzione) ed ora candidato nelle fila di Forza Italia: «ci sono dei momenti nella storia del mondo in cui, per riuscire ad uscire da certe fasi molto complesse, è indispensabile un minimo di strozzatura ai principi classici della democrazia». Le semplificazioni a cui faceva riferimento Samorì erano in termini partitici: aggregazione per semplificazione.
Ma è certo, ormai, che la politica e il Paese si trovano in una fase di transizione e la medicina amara del superamento del bicameralismo perfetto non si sa quanto possa giovare, in termini di tutele Costituzionali e di democrazia. Ma ormai il messaggio è passato, e dire il contrario sembra già prerinascimentale. Peccato, però, che non siano presenti, come nella Gerusalemme Liberata, i “soavi licor” sugli “orli del vaso” delle riforme che il Governo sta attuando, ma solo i “succhi amari” dell’ “egro fanciul”. Che rimane “ingannato”, come l’opinione pubblica.