Filed under: Memoria | Leave a comment »
Filed under: Memoria | Leave a comment »
di Checchino Antonini
“Gli accattoni devono capire che l’aria è cambiata. Devono essere consapevoli che, se vengono trovati a chiedere l’elemosina, verranno accompagnati in maniera sistematica al commando dei vigili e lì dovranno rimanerci per qualche ora”. Come dire: “Prendeteli e sequestrateli tutti”. Mentre il nuovo Sindaco di Padova è impegnato a imporre il crocifisso in tutti i luoghi pubblici, raccogliendo “un no grazie” anche da Famiglia Cristiana, il suo braccio destro arriva ad impartire disposizioni a mezzo stampa ai Vigili Urbani contro mendicanti ed ambulanti a prescindere dal fatto che commettano o meno un reato. “L’idea – dice Saia – è quella di portarli al comando, procedere con il foto segnalamento, fare un verbale e tenerli lì il più a lungo possibile. Devono perdere la giornata di “lavoro”, perché questo è il deterrente”.
Avrebbe potuto essere un tory inglese della fine dell’Ottocento, oppure un nazionalsocialista tedesco a Berlino negli anni 20-30. Invece è un assessore ex rautiano, ex finiano, padovano, di questo scorcio di ventunesimo secolo. Assessore alla sicurezza con le idee chiare su chi minacci la sicurezza: gli ultimi, i diseredati, quelli che chiedono l’elemosina, i poveri, ma che renderebbero così a rischio gli elettori di quel tizio da far pensare a un piano di attacco che prevede l’uso di cani e di fotosegnalazioni. E anche di vigili urbani in funzione di commandos contro i poveri. Saia è piuttosto esperto in questo genere di cose perché in una vita precedente è stato assessore alla sicurezza per conto di Alleanza nazionale senza disdegnare la compagnia di gente di Forza nuova. Una vita spesa contro i poveri in nome di quella guerra dei penultimi contro gli ultimi con cui le destre esrteme e non, cercano di parlare alla pancia delle loro nazioni. In quella vita, prima che una giunta del Pd li ricacciasse all’opposizione senza apprezzabili variazioni sul tema, Saia aveva inventato le Sis, squadre intervento speciale dei pizzardoni padovani col chiodo fisso di terrorizzare i migranti e provocare i centri sociali, mai sciolte dai successori.
Saia e Bigonci, però, non avranno vita facile. Eletti da poco meno di un mese l’Assessore alla Sicurezza ed il Sindaco non hanno fatto che scagliarsi contro la miseria e la poverà “per spingere chi è più povero e in difficoltà sempre più ai margini”, secondo le associazioni antirazziste che ieri hanno presentato un esposto contro i due amministratori proprio rispetto alle dichiarazioni di Saia, “un passato oscuro all’ombra delle formazioni neo-fasciste, su mendicanti e venditori ambulanti”.
“Ma c’è anche una città che, cresce e che sta con gli ultimi e non è disponibile a concedere nepppure un centimetro a chi vuole cancellare i diritti – ha detto Luca Bertolino di Razzismo Stop nella partecipata conferenza stampa delle associazioni – non siamo mai stati zitti quando a governare la città era il centrosinistra di Zanonato, non lo faremo certo oggi con chi vuole usare la povertà per costruire consensi. Risponderemo colpo su colpo nelle piazze, nelle scuole, nelle università e anche nelle aule dei tribunali”.
La denuncia è sta depositata presso la Repubblica nella prima mattinata di venerdì dall’Avv. Aurora D’Agostino su mandato di Razzismo Stop, Antigone, Giuristi Democratici, Avvocato di Strada, Beati i Costruttori di Pace, il Laboratorio Bios e Altragricoltura Nordest. Si tratta di una querela per istigazione a compiere i reati di abuso di potere e sequestro di persona, che chiede al tempo stesso alla magistratura di indagare anche sull’esistenza di direttive nel senso delle dichiarazioni espresse.
Questo tipo di dichiarazioni hanno il primo effetto di dare un senso di impunità e margini di manovra senza limiti a chi dovrebbe invece operare nel rispetto di codici e procedure, come i Vigili Urbani, già in passato resisi responsabili di abusi. E’ evidente che chi viene controllato, senza neppure aver commesso un reato, può al massimo essere identificato, ma non può essere né portato in caserma, né tantomeno fotosegnalato, nè ovviamente trattenuto per ore. E’ il commento di Aurora DAgostino che ha confezionato l’atto.
Giuristi Democratici hanno poi sottolineato come questo tipo di iniziative, che vengono proclamate in nome della legalità e della sicurezza, finiscano in realtà per produrre criminalizzazione di comportamenti che non sono reato ed anzi, diventino poi occasione per compiere reati, come l’abuso di potere ed il sequestro di persona, contro chi è costretto a vivere ai margini.
E anche da Stefano del Laboratorio Bios arriva un messaggio che ribalta l’immagine della città rappresentata dall’amministrazione: “questa denuncia è solo l’inizio di un processo più ampio che vuole fare largo alla città solidale ed accogliente che già esiste e che si allarga, per mettere ai margini invece queste iniziative di stampo razzista e fascista e chi le propone”.
Filed under: Antirazzismo | Tagged: assessore, sequestro di persona, sicurezza, Sindaco di Padova, Vigili Urbani | Leave a comment »
Oh creature sciocche,
quanta ignoranza è quella che v’offende!
Or vo’ che tu mia sentenza ne ‘mbocche.Dante, Divina Commedia, Inferno, Canto VII, 69-72
Secondo la logica dei politici ucraini, dopo la svendita della proprietà nazionale agli oligarchi delle multinazionali occidentali, dopo il colpo di grazia all’economia locale, dopo lo smantellamento dei sindacati attraverso i roghi e gli assalti violenti alle riunioni sindacali da parte dei neonazisti e tifosi di calcio pilotati dalle organizzazioni governative, dopo i genocidi compiuti nelle regioni in cui la maggioranza dei cittadini non accettano il potere dei golpisti e rimangono fedeli alla Costituzione, il passo successivo per dare al Paese un taglio “moderno” e “democratico” è senz’altro l’ufficializzazione dei simboli del nazismo. Gli uomini del potere di Kiev lo sanno bene e si abbandonano di gusto alla nostalgia per i tempi in cui i loro antenati “patrioti” e “difensori dell’integrità nazionale” collaboravano con Hitler, sterminando centinaia di migliaia di civili ebrei, ucraini, russi, polacchi, bielorussi. La propaganda del nazismo è diventata l’apoteosi del nuovo regime portato al potere con il golpe di Maidan. Sulla TV Ucraina va in onda in continuazione una variante distorta della storia, in cui presentano in chiave eroica e gloriosa i personaggi che si sono macchiati di terribili crimini contro l’umanità, come il boia nazista Stepan Bandera, il fondatore dell’Esercito Insurrezionale Ucraino (UPA), nonché il collaborazionista e filo-nazista a cui si ispirano i moderni movimenti neonazisti ucraini, in particolare Pravy Sektor (Settore destro), i membri del quale oggi ricoprono alte cariche nel governo e nel parlamento ucraino. Persino qui in Italia il rappresentante del potere golpista ucraino, niente di meno che l’ambasciatore in persona Yevhen Perelygin, non è riuscito a trattenere la sua esaltazione nazista, urlando in pubblico “Viva Bandera!”, per replicare alle proteste degli aderenti al comitato di solidarietà all’Ucraina antifascista in occasione della sua visita al rettorato dell’Università di Catania. Con questa semplice e apparentemente innocente frase (che non è stata notata da nessuno dei nostri politici o giornalisti) il rappresentante ufficiale dell’Ucraina ha chiarito i valori che il suo paese porta da noi in Europa Unita: xenofobia e razzismo ottusamente mascherati dietro i concetti di “democrazia” e “libertà”, che ci propone elogiando il regime nazista, approvando gli stermini di massa che avevano decimato la popolazione dell’Europa ai tempi della Seconda Guerra Mondiale.
Ma il nuovo governo ucraino è andato ben oltre la banale rivalutazione storica dei criminali nazisti. Si è sentito talmente motivato e giustificato dall’appoggio dei protettori di Washington e di alcuni “illuminati” dell’UE da ufficializzare al livello statale anche i simboli nazisti. L’esempio migliore è lo stemma del reparto militare Azov composto da volontari provenienti dalle organizzazioni neonaziste ucraine che fa parte dell’esercito ucraino ed è oggi impegnato nel genocidio contro le popolazioni del Sud-Est ucraino che alcuni dei nostri politici e gran parte dei giornalisti ancora si ostinano a chiamare “operazione antiterroristica”. Questa “gloriosa” unità di boia nazisti si è già macchiata di molti crimini contro i civili, a cominciare dal massacro dei pacifici manifestanti a Mariupol, donne e uomini usciti a protestare contro la politica violenta del governo golpista, agli ultimi casi di fucilazione di massa dei difensori del Sud-Est feriti e massacrati direttamente sui letti dell’ospedale. Lo stemma del battaglione Azov riporta fedelmente un simbolo germanico che si chiama Wosfsangel, che sarebbe “dente di lupo”. Questo simbolo ha le origine runiche ed era adottato da numerose unità militari della Germania nazista. E nonostante i crimini compiuti dal nazismo condannato da tutta l’umanità, nessuno qui da noi, nell’Europa moderna, si scandalizza se nell’Ucraina golpista vengono usati i simboli nazisti, prima dai delinquenti violenti di Maidan e poi un’unità dell’esercito regolare. Qual è la prossima tappa? Lo sterminio dei propri cittadini che non acconsentono al potere del golpe, la censura, gli assassini dei giornalisti? O, scusate, che distratto, sta già accadendo! Persino il nostro connazionale, il giornalista Andrea Rochelli e il suo collega russo sono stati barbaramente uccisi dai nazisti dell’esercito di Kiev. E nessuno qui ha dato spazio a questa tragedia, nessuno ha raccontato la storia di Andrea, nessuno ha parlato della sua famiglia, nessuno ha condiviso con la sua nazione il momento dell’addio, dei suoi funerali. Che vergogna…
Filed under: Antifascismo, Politica internazionale | Tagged: nazisti, simboli nazisti, Ucraina | Leave a comment »
5 luglio 2014
Il 3 Ottobre p.v. verrà ancora una volta valutata la situazione carceraria di Bernardo Provenzano su ordine del Tribunale di Sorveglianza.
La decisione è stata presa in base ad un certificato medico redatto dal responsabile della Medicina dell’Ospedale San Paolo, dove Provenzano è ricoverato nel reparto detenuti.
Sono quindi in atto tutti quei maneggi, sia pure legali, per tentare ancora una volta di abolire non solo il 41 bis, ma anche l’ergastolo ostativo a Provenzano, capo di “cosa nostra”. Il quale, peraltro, si è già vista ridotta la pena detentiva a soli 49 anni e un mese di reclusione. Perciò, se arrivasse a campare così a lungo, a termini di legge potrebbe uscire dal carcere già nel prossimo futuro.
Non vogliamo entrare nel merito della legislazione. Abbiamo già sollecitato in più occasioni cambiamenti radicali per far si che un mafioso dello spessore di Bernardo Provenzano, che non si è mai pentito, per quello che ci riguarda in carcere deve morire.
Entriamo però nel merito di quella che, ancora una volta, intravediamo essere quel proseguo di trattativa fra Stato e mafia, proprio a suon di annullamenti di 41 bis, annullamenti di carcere ostativo e valutazioni di dissociazione, messa in atto alla fine del 1992 pochi mesi prima che i nostri figli poco più che ventenni fossero tutti macellati in via dei Georgofili a Firenze per salvare dalla galera ladri, corrotti, uomini delle istituzioni, collusi con la mafia e ministri di questa Repubblica allora nel mirino di “cosa nostra”, definiti dall’organizzazione criminale “traditori”.
Inoltre, denunciamo che a nostro avviso tutto sta avvenendo in un clima di larghe intese politiche che denotano quanto le stragi del 1993 siano state trasversali a tutto l’arco costituzionale.
La nostra posizione è questa: se Bernardo Provenzano godrà per legge di ciò che possono essere definiti come “favoritismi” per farlo tornare fra le mura domestiche, noi schiereremo i nostri invalidi, i nostri figli che per colpa dell’assassino Provenzano hanno contratto malattie autoimmuni. Malattie non riconosciute nel modo giusto, sebbene considerate tali da medici e magistrati. Malattie non riconosciute e perciò molte non risarcite né tantomeno pensionabili SUBITO come vorrebbe la Legge 206 del 2004.
Giovanna maggiani Chelli
Presidente
Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili
Filed under: Antimafia | Tagged: Bernardo Provenzano, Provenzano, Tribunale di Sorveglianza | Leave a comment »
La campagna di sensibilizzazione e l’attivismo per contrastare la violenza contro le donne che negli ultimi tra anni ha lavorato su questo terreno in maniera instancabile, ha fallito. Ma come? E perché si è arrivati a tanto? Il progressivo declino dell’attenzione sulla questione violenza da parte delle istituzioni italiane di fronte alle continue sollecitazioni da parte della società civile, che ha avuto un picco nel 2012 per poi scemare non verso l’archiviazione ma una vera e propria distorsione, creerà seri danni a tutto il Paese. La dimostrazione di questa volontà di non affrontare in maniera adeguata il problema, è stata prima di tutto l’aver costretto alle dimissioni la ministra delle pari opportunità, Josefa Idem, che è stata l’unica ad aver iniziato un serio percorso di costruzione di dialogo che mettesse in collegamento chi della materia si occupa da tempo con professionalità, e le istituzioni. Un progetto che avrebbe coinvolto tutta la società civile “esperta” (tutta) ma che probabilmente avrebbe dato fastidio a chi ancora è al governo, un fastidio che ne ha decretato la fine. A questo, si è aggiunta la scelta dell’allora presidente del consiglio, Enrico Letta, di non nominare una nuova ministra delle pari opportunità ma di dare tutto in mano alla viceministra del lavoro, Cecilia Guerra, che malgrado la buona volontà ha deciso di coinvolgere nei 7 tavoli creati per portare avanti il progetto lasciato in sospeso, solo alcune delle associazioni coinvolte dalla Idem con una forma di interlocuzione che ha avuto come conseguenza sia il malcontento di alcune organizzazioni che partecipavano a questi tavoli ma soprattutto hanno provocato una spaccatura all’interno della società civile che si era mossa fino a quel momento in maniera compatta, malgrado le differenze, producendo un lavoro pratico e culturale di alto livello, apprezzato anche all’estero. Una scelta che ha prodotto uno sfilacciamento interno e ridotto drasticamente l’impatto di questa battaglia di civiltà nei confronti delle istituzioni, come oggi dimostrano i fatti.
A quel punto il nuovo presidente del consiglio, Matteo Renzi, ha potuto tranquillamente fare quello che ha fatto: nominare 8 ministre su 16 senza una ministra delle pari opportunità che portasse avanti quel lavoro specifico – un lavoro che avrebbe migliorato il nostro Paese così arretrato sulle questioni di genere al di là dell’apparenza – e infine scegliere di non dare nessuna delega di quel ministero fermando questo percorso, immobilizzandolo. La conseguenza di tutto ciò è stato: un calo di attenzione generale nell’attesa, la possibilità di far passare in cavalleria le direttive Onu — sia Cedaw che della Special Rapporteur Rashida Manjoo — e soprattutto mettere nel cassetto la Convezione di Istanbul ratificata dal parlamento nel maggio dell’anno scorso, e che diventerà effettiva ad agosto con la ratifica di dieci Paesi. Oltre a questo, persone singole, organizzazioni, associazioni varie che non si sono mai occupate di femminicidio, se da una parte sono state sensibilizzate, dall’altra hanno visto un possibile business e improvvisando, hanno messo in piedi progetti e proposte che non tengono conto dell’esperienza di quelle associazioni e delle reti che con un lavoro sul campo di 20 anni lontano dai riflettori, hanno costruito alcune linee guida del contrasto alla violenza contro le donne in Italia, contribuendo al progresso del Paese malgrado finanziamenti sempre incerti e sul filo del rasoio.
La decisione quindi di far arrivare senza precise indicazioni e criteri chiari di assegnazione che rispettino il lavoro svolto finora, quei 17 milioni di euro stanziati per due anni nel pacchetto sicurezza varato nel 2013 — e in cui compaiono anche norme sul contrasto alla violenza sulle donne – nelle casse delle Regioni, sembra chiarire la vera intenzione di questo governo: il disinteresse totale nel contrastare il femminicidio in Italia. Ma soprattutto dimostra a chi sedeva a quei tavoli convocati dalla viceministra Guerra e pensava di aver risolto tutti problemi, che le battaglie si vincono insieme e che basta un attimo per essere spazzate via.
Pochi giorni fa, prima in un articolo apparso sul Sole 24 ORE (27 giugno 2014) e poi in un comunicato di DiRe (la rete che raggruppa numerosi centri antiviolenza in Italia), si fa presente che i soldi stanziati per contrastare la violenza contro le donne non solo saranno destinati alle Regioni senza direttive nazionali chiare ma che queste provvederanno a finanziare progetti su base di bandi e in base a una mappatura del territorio dai “criteri illeggibili”, e che di questi 17 milioni ai Centri Antiviolenza e Case Rifugio, toccheranno 2.260.000 euro, circa 6.000 euro per ciascun centro in due anni, una cifra che porterà molte strutture che da tempo lavorano con esperienza collaudata, a chiudere e obbligherà molte italiane a rimanere a casa e a subire violenza fisica, sessuale, psicologica, economica (dato che l’80% in Italia è violenza domestica), o a rivolgersi a strutture che sperimenteranno su di loro come si opera quando una donna si rivolge a un centro. DiRe precisa che “tutti i centri, pubblici e privati, saranno finanziati allo stesso modo, senza tenere conto del fatto che diversamente dai privati i centri pubblici hanno sedi, utenze e personale già pagati”, e che questa scelta del governo contravviene in modo netto alla “Convenzione per la prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica” (Istanbul 2011), che l’Italia ha ratificato e che prevede: “adeguate risorse finanziarie e umane per la corretta applicazione delle politiche integrate, misure e programmi per prevenire e combattere tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione, incluse quelle svolte da organizzazioni non governative e dalla società civile (Articolo 8)”.
Si sottolinea cioè il fatto che mentre la Convenzione di Istanbul privilegia il lavoro dei centri e strutture indipendenti creati e gestiti dalle donne stesse e con un’esperienza solida alle spalle — che sono una garanzia per le donne che chiedono aiuto – il governo sceglie di destinare la maggior parte dei finanziamenti alle reti di carattere istituzionale, mettendo le basi per un controllo capillare di quello che succede nelle case italiane e per poter pilotare al meglio non l’uscita dalle donne dalla violenza e la loro indipendenza ma il ristabilimento dello status quo (siamo sempre un Paese con un forte impianto cattolico), tralasciando le cause e quindi impedendo un vero e proprio percorso di superamento della discriminazione di genere: un’idea che trapelava già da parte di alcune forze politiche all’interno del dibattito parlamentare, nonché dallo stesso pacchetto sicurezza approvato dalla maggioranza del parlamento, e fortemente voluto dal ministero degli interni dove come consigliera delle pari opportunità c’è Isabella Rauti.
I centri che già ci sono in Italia e che sono nati venti anni fa dalla volontà delle donne e della società civile per supplire al grave deficit istituzionale in materia di contrasto alla violenza contro le donne, hanno saputo nell’arco di tutto questo tempo, aggiornarsi a livello internazionale e portare avanti un dibattito profondo sulla discriminazione di genere che è indispensabile per affrontare il problema. E il pericolo è che sia le strutture istituzionali, che anche gli amici degli amici che approfittano del bando per mettere su uno affare, non solo non saranno in grado di rispondere alle domande delle donne vittime di violenza garantendo anonimato, ascolto competente e soprattutto il rispetto della volontà delle donne, ma che facciano tornare indietro un intero Paese che già non brilla in materia.
Per non dover tornare a un non augurabile Medioevo, l’unica via è quindi quella del confronto e del ricompattamento all’interno della stessa società civile e dell’attivismo, e di tutte quelle associazioni e organizzazioni che si erano ritrovate insieme nella conferenza indetta dall’allora ministra Idem, dove figuravano più di cento associazioni specificamente operanti sulla violenza contro le donne, e che oggi dovranno riprendere la parola in modo autorevole e determinante tutte insieme.
Filed under: donne | Tagged: organizzazioni non governative, pari opportunità, società civile, violenza contro le donne, violenza sulle donne | Leave a comment »
Da giorni in stato d’abbandono i migranti sbarcati a Catania
Al PalaSpedini i migranti arrivati a Catania il 1° luglio a bordo della nave militare Orione sono poco meno di 100, il resto sono stati trasferiti al Cara di Mineo ed in altri centri; non si sa dove siano i 27 superstiti del naufragio del gommone nel quale risultano disperse almeno 74 persone.
I migranti rimasti, uomini provenienti dall’Africa subsahariana, non sanno ancora dove andranno e non hanno avuto modo di avvisare i parenti di essere arrivati vivi; al Palaspedini mancano i bagni e le docce e non vengono forniti prodotti igienici (sapone, spazzolini,dentifrici) nonostante il tormentato viaggio e un giorno di attesa in mare per il temuto caso di malattia infettiva di un migrante, poi accertato che si trattava di varicella.
Il sindaco Bianco non perde occasione per dichiarare che Catania sarebbe città dell’accoglienza, ma non riusciamo a capire perché non si approntano strutture di prima accoglienza più adeguate, come interi ospedali in disuso, mentre le palestre sono la peggiore soluzione e rispondono solo a vergognose logiche segregazioniste, visto che i migranti sono in stragrande maggioranza richiedenti asilo.
Purtroppo a causa di ottusi burocrati istituzionali e di disumane leggi razziali, che chi ci governa si ostina a mantenere ed addirittura potenziare, i naufragi aumentano, le mafie mediterranee si ingrassano e le operazioni di polizia riescono a catturare soprattutto presunti scafisti, in buona parte minorenni.
La proposta di assumere il diritto d’asilo europeo nell’ultimo vertice sulle politiche migratorie a Bruxelles è stata respinta, mentre si vuole potenziare la vergognosa operazione Frontex per il “contrasto dell’immigrazione clandestina” in combutta con i militari dei peggiori regimi liberticidi.
Facciamo appello ai media a non spegnere i riflettori sulle sempre più frequenti violazioni dei diritti umani dei migranti, monitorando non solo lo “spettacolo” dello sbarco ma anche le condizioni dei centri in cui i migranti vengono accolti. Invitiamo l’associazionismo solidale catanese a supportare nelle sedi istituzionali la richiesta di fornire strutture adeguate non solo alla prima accoglienza, per fare in modo che i minori non accompagnati possano usufruire di adeguate tutele e gli adulti non finiscano nel business della pseudo accoglienza nel megaCara di Mineo (oltre 5000 presenze), ma possano inserirsi in progetti di accoglienza diffusa nei territori e in SPRAR, gestiti da personale qualificato, visto che proliferano strutture interessate solo ai finanziamenti.
Ct 5 luglio
Filed under: Antirazzismo | Tagged: catania, PalaSpedini, Report | Leave a comment »
Non passa giorno che il nuovo governo Renzi, forte del 40% ottenuto alle elezioni europee, non emani una declamatoria in nome della semplificazione e delle riforme (Costituzione, Giustizia, Tasse, Legge elettorale, ecc.). Finora alle parole non sono seguiti i fatti. Con un’eccezione significativa: il mercato del lavoro. In questo campo, l’attivismo del governo – bisogna riconoscerlo – è stato particolarmente vivace e la trasformazione del decreto Poletti in legge, come prima parte del Jobs Act, ne è la testimonianza. E’ quindi necessario analizzare dove questo attivismo vada a parare. E il quadro che si prospetta non promette nulla di buono per i precarie e le precarie (siano essi/e occupati/e in modo stabile, in modo atipico o disoccupati/e). Nulla di nuovo sotto il sole, anzi d’antico….
Il 1 luglio è iniziato il semestre europeo a guida italiana. Renzi debutta in Europa con la dote del 40% dei voti delle ultime elezioni europee. L’11 luglio avrebbe dovuto esserci l’importante summit sulla (dis)occupazione giovanile, che molto saggiamente, visto il clima di accoglienza … poco benevola che si stava preparando, è stato spostato in autunno in luogo e data da decidere ancora. A tale appuntamento, Renzi avrebbe voluto presentarsi con la sua ricetta, pardon, riforma salvifica. Ma a differenza delle chiacchiere che hanno accompagnato altre declamatorie di riforme, quella sul mercato del lavoro si preannuncia già in fase operativa. E gli effetti, purtroppo, non saranno indolori.
In un contributo di Gianni Giovannelli, siamo già entrati nel merito dei provvedimenti che il jobs act ha già introdotto nel mercato del lavoro italiano. A un mese di distanza e nel corso del dibattito sulla legge delega del legge Poletti, vogliamo cominciare a studiarne gli effetti e a definire la strategia che il governo di Renzi, targato PD, intende perseguire per la definitiva normalizzazione (leggi precarizzazione) del mercato del lavoro italiano
Precarietà e disoccupazione: ovvero l’inesistente nesso tra flessibilità e occupazione.
Analizziamo dunque le ragioni economiche (se ci sono) che stanno alla base del Jobs Act, partendo da tre ordini di considerazioni:
1. Nel periodo pre-crisi, 2002-2008, gli occupati complessivi sono aumentati di 1,164 milioni di unità (vedi Tab. a10.8, p. 76 Appendice Relazione Banca d’Italia, maggio 2014). Contemporaneamente, gli inoccupati sono calati di 366.000. Tali dati possono essere interpretati , come è stato fatto, alla luce degli effetti di flessibilizzazione del mercato del lavoro indotti dagli interventi legislativi promulgati nel 1997 (pacchetto Treu), 2001 (riforma del contratto a tempo determinato), 2003 (Legge Maroni). Ma tali provvedimenti hanno effettivamente creato lavoro? Analizziamo il periodo in maggior dettaglio.
In primo luogo, occorre notare che le Unità di lavoro equivalenti (Ula) sono aumentate di 797.000, in misura inferiore (di circa un terzo, 32%) rispetto al numero degli occupati . Le Ula sono soprattutto concentrate nei settori del terziario avanzato. Infatti dalla tab. 10.12 (fonte Istat) si può osservare come nel solo comparto “Intermediazione monetaria e finanziaria; attività immobiliari e imprenditoriali” si concentra quasi il 50% dell’aumento. Nel settore dell’industria, il numero delle Ula addirittura si riduce, nonostante un aumento di 67.000 occupati.
In secondo luogo, occorre ricordare che nel periodo 2002-2008, con due sanatorie, sono state regolarizzati poco meno di 250.000 migranti irregolari, che da invisibili sono diventati del tutto visibili, anche per le statistiche ufficiali. Di conseguenza, la reale crescita occupazionale risulta assai più contenuta. In terzo luogo, analizzando la dinamica del valore aggiunto a prezzi correnti nell’intero periodo, si può osservare che l’industria in senso stretto è cresciuta del 12%, mentre nel comparto del terziario avanzato la crescita è stata di oltre il 30%.
Ne consegue che la dinamica dell’occupazione risulta più strettamente correlata alla dinamica del valore aggiunto e risulta di fatto indipendente dall’incremento del processo di flessibilizzazione del lavoro. Anzi, analizzando la disparità tra dinamica occupazionale e Ula, la crescente precarizzazione del lavoro ha favorito un processo di sostituzione tra lavoro standard e lavoro non standard.
2. Nel periodo più recente, 2009-13, in piena fase recessiva, la spinta alla crescita dell’occupazione non solo si è del tutto bloccata, ma, in linea con la dinamica del Pil, è visibilmente calata, sino alla perdita di quasi 1,5 milioni di posti di lavoro. Tale declino ha favorito, pur in presenza di dati negativi, un ulteriore processo di sostituzione tra lavoro precario e lavoro stabile. Analizzando, infatti, i dati Isfol, gli avviamenti al lavoro con contratto a tempo indeterminato sono passati dal 21,6% di inizio 2009 al 15,8% del IV trim. 2013. Tra le tipologie precarie, quella che ha principalmente beneficiato è stato proprio il Contratto a Tempo Determinato (CTD), che il Jobs Act ha ulteriormente liberalizzato, rendendolo acausale. Da inizio 2009 a fine 2013, la quota degli avviamenti CDT sul totale è passata dal 63,2% al 68,5% sul territorio nazionale. Se scomponiamo tale crescita a seconda della durata del CDT, sempre i dati Isfol mostrano come i contratti della durata massima di un mese sono ben il 43,5% del totale con una tendenza crescente. In altre parole, assistiamo ad una ulteriore precarizzazione del maggior contratto precario utilizzato in Italia. Se questa è la situazione, che bisogno c’è di liberalizzare ulteriormente il CDT?
3. Si afferma che il Jobs Act abbia come fine la riduzione di un tasso di disoccupazione giovanile senza precedenti (“drammatico” secondo Renzi), superiore al 46%. I dati Eurostat, pubblicati nell’Empoyment Outlook Ocse 2013, mostrano che in Italia nella fascia giovanile 15-24 anni la quota di giovani occupati precari sul totale è pari al 52,9%, un valore di poco superiore alla media dell’area Euro a 17 (51,3% ) e di poco inferiore al corrispondente dato per la Francia e la Germania. Se però osserviamo non tanto lo stock al 2012 ma i flussi dal 2009 al 2012, si può notare come l’Italia abbia manifestato il tasso di crescita più elevato, pari al 3,1% annuo, contro il -1,8% della Germania, il + 0,25% della Francia e + 0,8% della Spagna. Ciò significa che il processo di precarizzazione dei giovani occupati è stata quasi tre volte superiore a quella europea. Nonostante ciò, il tasso di disoccupazione giovanile non solo non ha arrestato la sua crescita, ma la ha accelerata!
La brevi analisi di questi dati ufficiali convergono verso un’unica conclusione. Non esiste un rapporto di correlazione positiva tra flessibilizzazione del mercato del lavoro e crescita occupazionale, soprattutto giovanile. Piuttosto, nelle fasi recessive, è ravvisabile un rapporto di correlazione inversa: quando l’occupazione cala, l’effetto è quello di aumentare la già esistente flessibilità del lavoro, favorendo contratti ancor più precari e peggiorando le condizioni di vita e di reddito, oltre che di disoccupazione. Inoltre si liberalizza un contratto, quello CTD, che è già di gran lunga il più usato e abusato. Giustificare il Jobs Act sostenendo che occorre agevolare l’uso del CDT (come ha fatto Poletti) cozza contro qualsiasi realtà.
Occorre prendere atto di questa dinamica, che in Italia, a differenza di altri paesi europei, appare accentuata da carenze strutturali del sistema produttivo e lavorativo, sulle quali non abbiamo il tempo di soffermarci.
In altre parole, la precarizzazione del lavoro svolge una funzione anti-ciclica nella fasi di espansione, seppur limitata, del ciclo economico e pro-ciclica nelle fasi di recessione.
Intervenire solo sul lato dell’offerta di lavoro – via aumento della precarietà – non è né condizione necessaria, né men che meno sufficiente, a favorire l’occupazione. Quest’ultima dipende infatti più dalla domanda di lavoro. Anche se il lavoro costasse zero (sul modello del protocollo di Expo-Comune-Sindacati, siglato a Milano il 23 luglio 2013, che prevede l’assunzione di 18.500 lavoratori volontari gratuiti e 700 tra CDT e apprendisti in deroga all’allora normativa: questa è la parte che viene recepita dal Jobs Act), le imprese non assumerebbero comunque, perché la domanda di lavoro (da parte delle imprese) non dipende dalle condizioni dell’offerta di lavoro quando queste sono quelle che sono (precarie e a basso e intermittente reddito) ma dalle prospettive di vendita e di crescita della domanda. Si può offrire lavoro gratis (pardon, come si dice, oggi: volontario) alle imprese, ma se queste non aumentano la produzione, non accettano neanche il lavoro gratis.
La politica economica dei due tempi (ovvero chi di precarietà ferisce, prima o poi di precarietà perisce)
A partire dagli anni Ottanta (dopo la sconfitta delle lotte operaie e sociali degli anni Settanta, che tanto avevano contribuito al processo di modernizzazione dell’Italia) e soprattutto dagli anni Novanta, si mette a fuoco una nuova metodologia della politica economica, che si manifesterà concretamente nei decenni a venire (perché, checché se ne creda, in Italia si fa politica
economica): una politica economica che possiamo definire dei due tempi. Un primo tempo finalizzato all’incremento di quella competitività del sistema economico in fase di globalizzazione come unica condizione per favorire la crescita che, in un secondo tempo, avrebbe dovuto – nelle migliori intenzioni riformiste – generare le risorse per migliorare la distribuzione sociale del reddito e, quindi, il livello della domanda. Le misure per creare competitività, nel contesto della cultura economica dominante, hanno riguardato in primo luogo due direttrici: lo smantellamento dello stato sociale e la sua finanziarizzazione privata (a partire dalle pensioni, per poi via via intaccare l’istruzione e oggi la sanità) e la flessibilizzazione del mercato del lavoro, al fine di ridurre i costi di produzione e creare i profitti necessari per incoraggiare un eventuale investimento. I risultati non sono stati positivi: lungi dal favorire un ammodernamento del sistema produttivo, tale politica ha generato precarietà, stagnazione economica, progressiva erosione dei redditi da lavoro, soprattutto dopo gli accordi del 1992-93, e quindi calo della produttività. Il secondo tempo non è mai cominciato e sappiamo che, sic rebus stantibus, non comincerà mai.
Tutto ciò è poi avvenuto mentre era in corso una rivoluzione copernicana nei processi di valorizzazione capitalistica, che ha visto la produzione immateriale-cognitiva acquisire sempre più importanza a danno di quella materiale-industriale. Oggi i settori a maggior valore aggiunto sono quelli del terziario avanzato (come i dati sul valore aggiunto ci confermano) e le fonti della produttività risiedono sempre più nello sfruttamento delle economie di apprendimento e di rete, proprio quelle economie che richiedono continuità di lavoro, sicurezza di reddito e investimenti in tecnologia: in altre parole, una flessibilità lavorativa che può essere produttiva solo se a monte vi è sicurezza economica (continuità di reddito) e libero accesso ai beni comuni immateriali (conoscenza, mobilità, socialità). Il mancato decollo del capitalismo cognitivo in Italia è la causa principale dell’attuale crisi della produttività. L’attuale mantra sulla crescita parte dall’ipotesi che l’eccessiva rigidità del lavoro sia la causa prima della scarsa produttività italiana. La realtà invece ci dice l’opposto. È semmai l’eccesso di precarietà il principale responsabile del problema. Chi di precarietà ferisce, prima o poi di precarietà perisce.
In altre parole, per creare occupazione e maggior stabilità, invece di flex-security, è necessaria una politica di secur-flexibility.
Le vere intenzioni del governo Renzi e il piano europeo
I dati e le analisi riportati non sono frutto di un’attività di ricerca fatta da alcuni autonomi e sovversivi. Chiunque si occupa del mercato del lavoro con competenza e serietà conosce questa situazione.
Il Jobs Act si muove quindi in una direzione antica e fallimentare. Può darsi che ci sia qualche politico o sindacalista che in buona fede (!) senta il richiamo delle sirene di Renzi e creda ancora che aumentando la flessibilità del mercato del lavoro si possa favorire la crescita dell’occupazione. Ma chi ha pensato queste provvedimenti vuole raggiungere altri obiettivi.
Cerchiamo di capirli.
In primo obiettivo è quello di impedire il ricorso giudiziario e evitare le cause di lavoro, così da eliminare definitivamente una possibile arma a tutela dei lavoratori (così come si era cominciato a fare con il Collegato Lavoro). Tale obiettivo è stato dichiarato, probabilmente con un lapsus, dallo stesso Ministro del lavoro Poletti in un’intervista al quotidiano L’Unità, di qualche mese fa. Dall’osservatorio di San Precario, relativo alla Lombardia, poco meno di un lavorator* su dieci, una volta che il contratto a termine non viene rinnovato, fa causa al datore di lavoro. Una piccola percentuale, che però vede il 90% dei ricorrenti ad avere ragione. Infatti, anche se il CTD prevedeva la causale, i datori di lavori lo applicavano spesso senza giustificato motivo facendone un abuso, proprio contando che solo una minima parte sarebbe ricorsa alla pretura del lavoro per far valere i propri diritti. Ora, l’intento è evitare che rimanga anche questa possibilità. Tutto ciò rientra nel progetto di semplificazione, di cui Renzi fa una bandiera. Una semplificazione che si attua rendendo legale ciò che prima era considerato illegale. In tal modo, uno dei pochi strumenti rimasti – il ricorso legale (consci comunque che chi crede troppo nella giustizia prima o poi verrà giustiziato) – per far valere le proprie ragione, viene cancellato.
Il secondo e pretenzioso obiettivo è disegnare un mercato del lavoro ad uso e consumo del padronato. Ricordiamoci che nel governo Renzi fanno parte due esponenti che ben rappresentano le lobby che definiscono la governance del capitale (e i suo interessi) sul lavoro: il ministro Poletti, in rappresentanza delle cooperative rosse e bianche (la distinzione oggi non esiste più) come punto di riferimento di un sistema produttivo che proprio sulla precarietà e lo sfruttamento del lavoro nero e migrante basa il suo potere, e la Ministra Guidi, che invece, rappresentata gli interessi confindustriali relative alle grandi imprese familiari che gestiscono il sistema delle commesse di Stato e degli appalti, delle grandi opere e di quel capitalismo non manageriale, bigotto e reazionario che è la principale causa del mancato decollo di un capitalismo cognitivo in Italia.
Il progetto è alquanto ambizioso.
Si tratta di ridurre il mercato del lavoro italiano in tre segmenti principali (ancora fa capolino, la magica parola “semplificazione”!), in grado di procedere ad una razionalizzazione della rapporto di lavoro precario, che ne consenta la strutturalità e la generalizzazione, in una condizione di ricatto (e sfruttamento) continuo:
a. si punta a fare del CTD il contratto standard per tutti/e, dai 30 anni all’età della pensione. Tale contratto, basato su un rapporto individuale, ricattabile e subordinato (che prevede una tutela sindacale funzionale alle esigenze delle imprese, quando c’è) deve diventare il contratto di riferimento, in grado di sostituire per obsolescenza il contratto a tempo indeterminato.
b. per i giovani con minor qualifica, l’ingresso al mkt del lavoro diventa il contratto di apprendistato, ora trasformato, in seguito alle “innovazioni” introdotte dal Jobs Act, in semplice contratto di inserimento a bassi salari (- 30%) e minor oneri per l’impresa. Il target di riferimento sono essenzialmente i giovani al di sotto dei 29 anni che non hanno titoli universitari (trimestrale e magistrale).
c. per i giovani under 29 anni che invece hanno qualifica medio-alta (laurea o master di I e II livello) entra in azioni invece il piano “garanzia giovani”, che utilizzando i fondi europei del progetto 2020 (1,5 miliardi di euro stanziati per l’Italia, in vigore dal 1 maggio di quest’anno, su base regionale), intende definire piattaforma di incontro tra domanda e offerta di lavoro, con intermediazione di società pubblico-private garantire a livello regionale, in cui si delineano tre percorsi di inserimento al lavoro in attesa di poter essere poi assunti con CTD: servizio civili (semi gratuito), stage (semi gratuito), lavoro volontario (gratuito). Il modello è quello delineato dal contratto del 23 luglio 2013 per l’Expo di Milano, che ora viene esteso a livello nazionale. L’obiettivo è aumentare – come si dice nel linguaggio europeo – l’occupabilità (employability), ovvero definire occupati a costo zero circa 600.000 giovani, così da toglierli dalle statistiche sulla disoccupazione giovanile e consentire al governo Renzi di mostrare che nel 2015 il tasso di disoccupazione è miracolosamente diminuito di 10-15 punti!
Questi provvedimenti, già diventati operativi, dovranno essere accompagnati – secondo le promesse dichiarate – anche da una riforma del sussidio di disoccupazione in forma più allargata dell’attuale, in grado di assorbire l’Aspi e il mini-Aspi della riforma Fornero e la cassa integrazione in deroga (comunque destinata a finire, visto che i finanziamenti europei sono terminati) . La cassa integrazione ordinaria estraordinaria non viene toccata, perché fa troppo comodo alle imprese (che scaricano così sulla socialità i costi privati delle ristrutturazioni) e ai sindacati confederali (che grazie alla gestione della Cassa Integrazione giustificano la loro ragion d’essere).Tale sussidio di disoccupazione è, sul modello del workfare anglosassone, fortemente condizionato. Non stupirebbe se nella sua proposizione si proponesse di rendere obbligo un certo numero di ore settimanali volontarie per poterne avere diritto (come è stato discusso recentemente in Inghilterra).
Al fine di rendere meno dolorose queste “semplificazioni”, l’attenzione mediatica nel periodo elettorale si è fortemente concentrata sulla mancia degli 80 euro ai soli dipendenti salariati e oggi si concentra sulla proposta di un “contratto a tutele crescenti”. Entrambi questi provvedimenti non sono altro che povere “foglie di fico”. 80 euro in busta paga per qualche milione di lavoratori dipendenti (quelli che costituiscono non a caso la base della declinante base sindacale italiana) sono un infimo risarcimento di quanto ha ceduto il potere d’acquisto del reddito di lavoro negli ultimi venti anni a partire dall’abolizione della scala mobile del 1993. Riguardo al contratto a tutele crescenti (annesso che venga approvato, il che non è del tutto scontato visto l’opposizione strumentale della Confindustria), perché mai un imprenditore italiano dovrebbe farvi ricorso quando ha a disposizione un CTD che può rinnovare a piacimento? E’ evidente che siamo più o meno alla farsa.
In conclusione il piano Renzi per il lavoro, espressione dei poteri forti di questo paese subordinati ai diktat delle oligarchie finanziarie globali, prevede un dualismo all’interno della condizione di precarietà, che non solo conferma di essere strutturale, esistenziale e generalizzata, ma che viene oggi anche istituzionalizzata, sancita per legge. Anche in barba alle disposizioni europee, che comunque, seppur solo dal punto di vista formale, dichiarano che il contratto di lavoro di riferimento è ancora quello a tempo indeterminato.
E’ su questi temi che si sarebbe dovuto discutere l’11 luglio a Torino nel summit europeo. Renzi, che doveva fare gli onori di casa, si sarebbe fatto portatore di una proposta che fa perno sulla creazione di un nuovo dualismo del mercato del lavoro: non quello tra garantito e non garantito, ma quello tra lavoro precario, subordinato e ricattabile, e lavoro volontario e gratuito. E gli altri paesi europei, in primis la Germania che ha già perseguito questa strada con le varie riforme Harz che hanno introdotto i mini jobs.
E’ necessario essere coscienti di tutto ciò. Ed è, alla luce di quanto scritto, importante che i movimenti europei siano in grado di presentare una piattaforma propositiva di contro-potere. Una piattaforma che sancisce la sua validità nella proposta di Commonfare, welfare del comune, centrata su tre assi strategici:
• Un salario minimo europeo;
• Un reddito di base incondizionato a partire da chi è al di sotto della soglia povertà relativa, in grado poi di estendersi a una platea crescente di possibili beneficiari, all’aumentare della soglia minima di riferimento: un reddito individuale, dato ai residenti e non solo ai “cittadini”, incondizionato e finanziato dalla fiscalità generale;
• L’accesso libero gratuito ai beni comuni materiali (acqua, ambiente, casa, trasporti) gestiti in maniera pubblica e collettiva e al “comune” (istruzione, sanità, socialità, mezzi monetari), in forme autogestite
Un welfare del comune che, tramite diversi strumenti e dispositivi, sia in grado di favorire un processo di riappropriazione di quel valore che la nostra vita produce e quindi aprire non solo a spazi di libertà e autodeterminazione ma a anche a possibili scenari produttivi auto-organizzati, non mercificabili, finalizzati alla produzione dell’uomo per l’uomo.
Filed under: politica nazionale | Tagged: mercato del lavoro | Leave a comment »
“Gli aumenti del gas – ha proseguito – hanno sicuramente risentito del costo della materia prima e del tasso di cambio, mentre l’energia elettrica dell’andamento delle quotazioni petrolifere e dell’aumento degli oneri generali di sistema, in particolare per la copertura degli schemi di incentivazione delle fonti rinnovabili. I trasporti urbani, invece, hanno segnato gli aumenti del costo del carburante e quello del lavoro. Non va dimenticato che molti rincari sono stati condizionati anche, e qualche volta soprattutto, dall’aggravio fiscale”. “Tuttavia, nonostante i processi di liberalizzazione avvenuti in questi ultimi decenni abbiano interessato gran parte di questi settori, i risultati ottenuti sono stati poco soddisfacenti. In linea di massima oggi siamo chiamati a pagare di più, ma la qualità dei servizi non ha subito miglioramenti sensibili”, ha sottolineato Bortolussi .
Pur riconoscendo il limite di questa comparazione, l’Ufficio studi della Cgia fa notare che tra i settori presi in esame in questa elaborazione quello dei taxi è l’unico ad avere le tariffe totalmente amministrate, cioè definite attraverso una delibera comunale. “Ebbene, ad esclusione del servizio telefonico, che nell’ultimo decennio ha registrato una contrazione dei prezzi di quasi il 16%, il servizio taxi ha subito l’incremento percentuale più contenuto tra tutte le voci analizzate”. L’ultima parte dell’analisi elaborata dall’Ufficio studi della Cgia di Mestre ha preso in esame l’aumento delle tariffe registrato da alcune voci nel periodo intercorso dall’anno di liberalizzazione fino al 2013.
“Sia chiaro – ha affermato Bortolussi – che noi non siamo a favore di un’economia controllata dal pubblico. Ci permettiamo di segnalare che le liberalizzazioni hanno portato pochi vantaggi nelle tasche dei consumatori italiani. Anche perché in molti settori si è passati da un monopolio pubblico ad un regime oligarchico che ha tradito i principi legati ai processi di liberalizzazione”.
Filed under: politica nazionale | Tagged: tasso di inflazione | Leave a comment »
Lo spaventoso verdetto preliminare dell’autopsia eseguita sulla salma il giorno seguente, in Israele ma alla presenza anche di un medico legale dell’Autorita’ Nazionale Palestinese. A riferirlo è stato il procuratore generale della stessa Anp, Mohammed Abdel Ghani al-Uweili, citato dall’agenzia di stampa ‘Maan’. Secondo Uweili, nella trachea e nei polmoni del ragazzo sono state trovate tracce di fumo e di fuliggine: cio’ significa che respirava ancora quando i suoi assassini gli hanno dato fuoco. “Mohammed presentava anche una profonda ferita alla testa”, ha aggiunto il magistrato, “ma non e’ stata quella la causa del decesso”. I risultati definitivi delle analisi saranno comunque disponibili a breve.
La vittima sarebbe stata costretta a salire a bordo di un’auto, probabilmente da ebrei ultra-nazionalisti, che avrebbero inteso vendicare in tal modo l’omicidio dei tre adolescenti israeliani, Naftali Frankel, Gil-Ad Shaer e Eyal Yifrach, sequestrati in Cisgiordania il 12 giugno, e i cui corpi erano stati rinvenuti lunedi’ nei pressi di Hebron.
Intanto, la situazione al confine tra Israele e la Striscia torna in bilico: nonostante le voci di un possibile cessate il fuoco tra le parti, anche oggi sono caduti razzi e colpi di mortaio e ieri sera l’aviazione israeliana ha compiuto un raid a Gaza centrando, secondo il portavoce militare, tre ”obiettivi del terrore”.
Filed under: Politica internazionale | Tagged: Gerusalemme Est, Mohammed Abdel Ghani al-Uweili, Mohammed Abu Khder, Naftali Frankel | Leave a comment »