Stop al cognome materno ai figli da: il manifesto

A sor­presa e a un passo dal tra­guardo, la legge per la pos­si­bi­lità del dop­pio cognome, già appro­vata all’unanimità in com­mis­sione Giu­sti­zia e che avrebbe dovuto essere licen­ziata entro oggi, è stata bloc­cata dalla richie­sta di Fra­telli d’Italia di farla tor­nare in com­mis­sione. «Quanto acca­duto in Aula è estre­ma­mente tri­ste: lo stop è arri­vato per i veti cul­tu­rali oppo­sti da alcuni depu­tati, maschi, e il Pd non ha saputo, a mio parere, tenere la barra dritta», ha spie­gato la rela­trice Michela Mar­zano, del Pd

Strage di via D’Amelio, i fratelli di Borsellino: “No alla sfilata degli avvoltoi” da: palermo.repubblica.it

borsellino-rita-salvatore-c-giorgio-barbagallo16 luglio 2014

Rita e Salvatore chiedono verità e giustizia sull’attentato in cui morì il magistrato. A Palermo tutto pronto per il ventiduesimo anniversario. Polemica con Maria Falcone, sorella di Giovanni, che ribatte: “Ognuno ha le sue idee. Io rispetto le itituzioni”
“Da più di vent’anni non c’è verità e giustizia e i magistrati che la cercano, piuttosto di essere appoggiati, vengono ostacolati anche dai più alti gradi delle istituzioni. Noi saremo in via D’Amelio per impedire che persone non degne, avvoltoi, vengano a portare corone. Non faremo altra contestazione che sollevare in alto un’agenda rossa e girare le spalle così come abbiamo fatto gli altri anni”. Lo ha detto Salvatore Borsellino, presentando a Palermo le manifestazioni per ricordare le vittime della strage del 19 luglio 1992. “Credo non si debba mai generalizzare – ha aggiunto Rita Borsellino -. Le istituzioni, lo diceva Paolo, sono sacre. Purtroppo molto spesso ci sono uomini che le occupano abusivamente, a loro diciamo di stare lontani da via D’Amelio”.

Parole dalle quali prende le distanza la sorella di Giovanni Falcone, Maria: “Non ho nulla da ribattere a Salvatore Borsellino che non è nuovo a queste dichiarazioni, ognuno ha le sue idee. Io rispetto le istituzioni, a prescindere dai politici…”. Una polemica scaturita dalle parole di Salvatore Borsellino: “Noi – ha detto il fratello del giudice ucciso – non disponiamo di grandi navi della legalità proprio perché non vogliamo una sfilata di avvoltoi e personaggi politici che non hanno il diritto di parlare di Paolo e di quella strage o di portare corone di fiori in via D’Amelio”. Ogni anno, per il 23 maggio, anniversario della strage di Capaci, Maria Falcone organizza le navi della legalità facendo arrivare a Palermo migliaia di studenti e tanti politici e forze di polizia per ricordare il fratello Giovanni Falcone.

In questo clima Palermo si prepara a ricordare, 22 anni dopo quel 19 luglio, la strage di via D’Amelio, in cui furono uccisi il magistrato Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta – Emanuela Loi, Agostino Catalano, Eddie Walter Cosina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina – con una serie di iniziative organizzate dal movimento delle Agende Rosse insieme al “Fatto Quotidiano” e al periodico “Antimafia Duemila”.

Si comincia domani alle 21, a Villa Savoia, a Monreale, con la manifestazione “XX Legami di memoria”, con, tra gli altri, Rita Borsellino, Domenico Gozzo, Vittorio Teresi. Si prosegue l’indomani con il sit-in di Scorta Civica alle 18 davanti al palazzo di giustizia. Dalle 20.30 nell’atrio della facoltà di Giurisprudenza si terrà la conferenza “Un Paese senza verità. Continuare a cercarla 22 anni dopo la strage di via D’Amelio”. Parteciperanno, tra gli altri, Salvatore Borsellino, fondatore del movimento Agende Rosse e fratello di Paolo, i sostituti procuratori di Palermo Antonino Di Matteo e Francesco Del Bene, di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo, l’ex pm Antonio Ingroia, Margherita Asta, figlia di Barbara Rizzo e sorella di Salvatore e Giuseppe Asta, uccisi nella strage di Pizzolungo.

Sabato in via D’Amelio, dalle 9.30 alle 13, le iniziative degli studenti. Dalle 15.30 si alterneranno gli interventi dei familiari vittime delle stragi. Alle 16 un flash mob e alle 16.58, ora dell’attentato, ci sarà un minuto di silenzio. Alle 21 sarà la volta dei dibattiti sul palco su “depistaggi e trattative” con Fabio Repici, legale dei familiari vittime di mafia, e “Romanzo Quirinale”, con Marco Travaglio. Domenica 20 luglio le conclusioni con, alle 9, la salita al Castello Utveggio da via D’Amelio e, alle 18, all’ex fonderia reale, dibattito su “Commissione antimafia: parole o fatti?”, con Giulia Sarti (M5S), Beppe Lumia (Pd), Claudio Fava (gruppo misto) e il deputato 5 stelle all’Ars Giorgio Ciaccio. A seguire la proiezione del Docufilm “Fuori la mafia…”.

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Foto © Giorgio Barbagallo

Il mio intervento in aula sulla riforma del Senato di Corradino Mineo

Il mio intervento in aula sulla riforma del Senato

16 luglio 2014 alle ore 12.20

Signor Presidente del Senato, signora ministro, senatori, il 6 maggio – allora facevo ancora parte della Commissione Affari Costituzionali – dissi che il governo stava commettendo un grave errore, a impuntarsi e a pretendere che il disegno di legge Renzi Boschi, fosse assunto, senza modifiche, come testo base. E questo nonostante molte ore di dibattito parlamentare e l’audizione di autorevoli esperti e costituzionalisti consigliassero di correggerlo almeno in parte. Per averlo detto, e non per aver sabotato la maggioranza trasformandola in minoranza – cosa che non ho fatto – sono stato allontanato dalla commissione

 

Sono passati più di due mesi, i relatori Finocchiaro e Calderoli – quel sei maggio su posizioni contrapposte – hanno poi preso a collaborare, Forza Italia ha trovato l’intesa con il Pd, il governo ha smussato gli spigoli. Tanto che il Presidente Calderoli ha potuto vantarsi, in quest’aula, di aver domato il drago governativo e di aver fatto passare, nel documento che qui discutiamo, 11 punti su 12 del suo famoso ordine del giorno. Con diverso stile, la relatrice Finocchiaro ha sostenuto che il progetto di riforma deve “ritenersi (ora) significativamente arricchito e precisato”. Se così fosse, presidente Finocchiaro, se il Parlamento avesse riaffermato la sua centralità e significativamente corretto il testo del governo, allora persino la sostituzione di Mauro e Mineo – pur creando un precedente, stabilendo cioè che l’articolo 67 della Costituzione non possa valere in commissione – beh persino quella destituzione avrebbe avuto un senso, se – come si dice – tutti i salmi finissero in gloria.

 

Purtroppo, presidente Finocchiaro, citando un dirigente politico, che lei conosce, uno dei maggiori della Prima Repubblica, parlo di Pietro Ingrao, debbo dirle oggi: non mi ha persuaso. Vede, mi consenta per questa volta di essere poco “senatoriale”, come invece il presidente Zanda ci chiede sempre di essere. Insomma, mi permetta di parlare con la stessa franchezza con cui facevo il mio antico mestiere, quello del giornalista. Il testo Boschi aveva un peccato originario. Giustapponeva alla riforma largamente condivisa (fine del bicameralismo paritario, fiducia e leggi di bilancio solo alla Camera, e invece garanzie costituzionali, autonomie e trattati europei al Senato) una seconda intenzione: quella di ridurre  competenze e provvidenze per le autonomie, ma al tempo stesso di invitare in trasferta, a Roma e in Senato, i sindaci più potenti e i presidenti delle Regioni. In tempi di vacche magre per i trasferimenti agli enti locali, questo faceva trasparire l’intenzione del governo di creare una camera di compensazione, di trasformare quest’aula nel luogo di una trattativa diretta. Era troppo. Si possono scrivere in Costituzione  le procedure che devono presiedere al confronto, se si vuole alla trattativa, fra le due Camere, ma non si poteva avallare un improprio e invasivo mercato tra governo centrale e governi regionali.

 

Ecco che i relatori ci propongono oggi un Senato eletto, sia pure con un’elezione di secondo grado. Ma con quale grado di legittimazione? Questo è il punto. Si fa riferimento al sistema francese, dimenticando che nella costituzione del 58 è il Presidente, eletto a suffragio universale diretto, che “garantisce” la comunità  nazionale, e sottacendo che i grandi elettori del Senato francese sono cento volte più numerosi di quanti non siano da noi i consiglieri regionali. Si è citato l’esempio tedesco, dimenticando che il Bundestag viene eletto con la proporzionale, che il 42 per cento non è bastato alla Cancelliera per governare da sola. E senza tener conto del prestigio dei Laender, che le nostre regioni non possono rivendicare,  e il fatto che i membri del Bundesrat traggono autorevolezza dall’essere rappresentanti dei rispettivi governi e non hanno, in questo caso, no-autonomia di mandato.

 

Ma c’è dell’altro. Come verranno scelti i senatori? Che vuol dire che i seggi (senatoriali) “sono attribuiti in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun consiglio”. Che i partiti presenti nel consiglio dovranno mettersi d’accordo sui nomi, che se il partito o la coalizione di maggioranza, sceglierà il sindaco – senatore, allora dovrà poi rinunciare a un consigliere – senatore, per far tornare i conti. Senatori eletti? No, nominati dai partiti.

 

E non è andata meglio con la modifica – della modifica – del titolo quinto. Ha ragione Calderoli: aumentano le competenze del Senato, qualcuno – oggi lo scrive D’Alimonte – teme perfino che ritorni dalla finestra il bicameralismo paritario messo fuori dalla porte. Ma d’altra parte la relatrice Finocchiaro ha dovuto fissare dei paletti per non travisare l’impianto del governo e lo ha fatto definendo le competenze esclusive di Stato e Regioni, a  scapito della legislazione concorrente. Non funziona, Il presidente emerito della Corte Suprema, De Siervo, prevede che così crescerà ancora il contenzioso costituzionale. Vede, Presidente, Finocchiaro, l’autonomismo scritto in costituzione  intanto è diverso da centralismo e federalismo, in quanto la Regione e il Comune abbiano  potestà politica di programmare la crescita del loro territorio e di concorrere, conciliare, influenzare l’intera legislazione nazionale. Questa autonomia non è stata realizzata. Per vent’anni perché forze imponenti si ergevano a difesa dello stato centrale, erede di quello monarchico e fascista, poi perché le regioni ordinarie nacquero al tempo della rivolta di Reggio Calabria, e le regioni furono allora invocate – ricorderà l’intervista del sindaco di Reggio,Battaglia, a Giorgio Bocca –  come fabbriche di clientele, erogatrici di denaro pubblico, intermediato da borghesie parassitarie e in qualche caso mafiose.

 

Le Regioni hanno avuto poca autonomia politica e  tanti soldi da spendere. Sono oggi forse l’istituzione più colpita dalla crisi politica e morale che attraversa il paese. È nelle regioni, nei consigli e nelle giunte regionali, che i partiti, purtroppo tutti i partiti, hanno conosciuto il grado di più grave compromissione con gli affari. Noi invece di riformarle, gli consegniamo il Senato e ai partiti affidiamo la nomina di senatori coperti dall’immunità

 

Signor Presidente, mantengo il mio dissenso sulla composizione e la modalità di elezione del nuovo Senato e voterò l’emendamento Chiti, che propone l’elezione diretta, a suffragio universale e proporzionale, dei senatori, contestualmente al voto per il rinnovo dei Consigli regionali.

 

Ma la questione che più allarma è l’evidente sproporzione tra il numero dei senatori, 100, e quello dei deputati 630. Ciò di per sé rende secondario il ruolo del nuovo Senato. Ma soprattutto getta un’ombra sull’elezione del Presidente della Repubblica e sulla indispensabile autonomia della Corte Suprema. Qui noto un’omissione davvero grave, Si dice, “prima la riforma costituzionale poi quella elettorale, che è legge ordinaria”. Ma possono i legislatori costituenti fingere di ignorare che si vuole eleggere la Camera in forza di una legge maggioritaria? Possono dimenticare che l’Italicum,  approvato dalla Camera, prevede soglie di sbarramento che tagliano tutti fuori i partiti tranne i primi 3, liste bloccate e un premio di maggioranza che consente a chi ottenga il 37 per cento dei voti espressi di contare su 340 deputati su 630? I conti sono presto fatti. Il quorum per eleggere il presidente della repubblica sia pure al nono scrutinio, è di 365 grandi elettori. 340 deputati + 35 senatori (cioè il 37 per cento del totale) fanno 375. Chi vince le elezioni, la sera stessa della sua vittoria, non solo saprà di essere il prossimo inquilino di Palazzo Chigi, ma saprà di poter determinare la scelta del Presidente della Repubblica, il quale spetta di nominare un terzo dei giudici costituzionali, mentre un altro terzo sarà scelto dal parlamento. Non può tanto il Cancelliere tedesco né il premier britannico né – che io sappia – il capo del governo in nessun paese di democrazia liberale.

 

Ci sono proposte emendative. Non mi pare risolutiva quella Gotor di far votare per il presidente anche i parlamentari italiani a Strasburgo. Meglio la proposta Casini e cioè eleggere il presidente garante a suffragio universale diretto se ai primi tre scrutini,  in parlamento, maggioranza e opposizioni non avessero trovato l’intesa.

 

Così come spero che si rifletta sulle norme che riguardano i referendum, che, al di là delle intenzioni, che saranno le migliore, suonano come un invito ai cittadino di non disturbare il manovratore, e cioè i maggiori partiti. Si pensi che con queste regole non si sarebbe votato per il primo referendum Segni, quello che apri la strada ai sistemi elettorali maggioritari. Per non parlare delle firme, troppo, che scoraggiano uno strumento di democrazia diretta, prevista dalla Costituzione del 48, proprio ora che di democrazia diretta tutti parlano

 

Onorevoli senatori, dopo due mesi di incontri e trattative, l’accordo tra maggioranza e una delle minoranze mi sembra ancora non definito. Un Quasimodo, ancora  in fieri. Per questo, non perché i dissidenti abbiano frapposto ostacoli, è per questo che permane su quest’aula una certa incertezza. Coraggio, modifichiamo, miglioriamo, rendendo più coerente con le intenzioni dei costituenti, questo frettoloso quanto travagliato parto del governo e dei relatori. Le posizioni di chi ha avuto il coraggio di non coprirsi dietro le trattative tra i partiti, di non sottostare ai do ut des, e hanno preferito dissentire in modo esplicito su poche questioni fondamentali, quelle posizioni sono ormai note. In quest’aula e anche fuori da qui. È già un successo. Non decisivo certo, ma pur sempre un successo.

Vertenza Gela, verso uno sciopero nazionale nei siti Eni | Autore: fabrizio salvatori

Uno sciopero generale nazionale dei lavoratori dell’energia nei siti Eni italiani. Così Cgil, Cisl e Uil intendono portare avanti la “vertenza Gela”confermando la linea dura del sindacato contro la decisione aziendale di chiudere la raffineria e cancellare i previsti 700 milioni di investimento. La decisione, concordata con le altre sigle sindacali, e’ stata comunicata nell’attivo delle Rsu aderenti alla Filctem-Cgil, a Gela, che si e’ svolto con la partecipazione del segretario nazionale, Emilio Miceli. “Non possono venire a dirci – ha detto Miceli – che e’ difficile gestire gli impianti di Gela mentre l’Eni non batte ciglio davanti a situazioni di conflitti armati come quelle di Libia, Nigeria o Afghanistan, dove piuttosto si continua a investire denaro”. Sulle nuove ipotesi di progetti per la produzione di bio-carburanti e di rigasificatori, “ben vengano le proposte – dicono le Rsu – ma confrontiamoci a impianti in marcia, tenendo conto che prima dell’incendio di marzo al topping-coking, la raffineria gelese era terza in assoluto per riduzione delle perdite economiche”.

Scuola, sciopero unitario a ottobre contro il blitz Giannini-Reggi | Fonte: Il Manifesto | Autore: Roberto Ciccarelli

Istruzione. Sindacati e docenti mobilitati contro l’annunciata legge delega che dovrebbe contenere l’aumento dell’orario di lavoro e la cancellazione delle supplenze brevi per i precari. Critiche al governo da Sinistra Ecologia e Libertà e Movimento Cinque StelleBloc­cati da una camio­netta dei cara­bie­nieri e cin­que della poli­zia tra piazza Mon­te­ci­to­rio, via della Colonna Anto­nina e via della Guglia, ieri a Roma due­cento docenti e pre­cari della scuola ade­renti ai sin­da­cati hanno dovuto rinun­ciare ad un cor­teo verso piazza delle 5 Lune al Senato.

Il pre­si­dio, con­vo­cato dai coor­di­na­menti delle scuole romane, dai sin­da­cati di base e dalla Flc-Cgil, ha pro­te­stato con­tro l’annunciato aumento dell’orario di lavoro per i docenti, il taglio di un anno di scuola alle supe­riori, la pro­po­sta di tenere aperte le scuole fino alle 22, la can­cel­la­zione delle sup­plenze brevi e il supe­ra­mento del con­tratto di lavoro fermo al 2007. Dovreb­bero essere que­ste le linee guida della legge delega alla quale sta­rebbe lavo­rando il governo in que­sti giorni e che potrebbe vedere la luce tra que­sta set­ti­mana e il 20 luglio. Il governo avrebbe inten­zione di lan­ciare una con­sul­ta­zione da svol­gere nelle scuole e nei prov­ve­di­to­rati; poi dovrebbe incon­trare i sin­da­cati sul pos­si­bile rin­novo del con­tratto; infine pro­ce­dere ad una con­sul­ta­zione online con i cit­ta­dini. Il tutto in due set­ti­mane, a scuole chiuse.

Con­tro il blitz legi­sla­tivo estivo, annun­ciato, smen­tito , in fondo riba­dito dal sot­to­se­gre­ta­rio all’istruzione Reggi (Pd) i lavo­ra­tori auto­con­vo­cati delle scuole di Roma hanno con­vo­cato un’assemblea il 15 set­tem­bre e pen­sano ad mobi­li­ta­zione già all’inizio del pros­simo anno sco­la­stico. Di «scio­pero uni­ta­rio» entro otto­bre parla anche la Flc-Cgil: «L’unico vero obiet­tivo – ha detto il segre­ta­rio Dome­nico Pan­ta­leo — è tagliare ulte­rior­mente le risorse peg­gio­rando occu­pa­zione, con­di­zioni di lavoro e diritti. In que­sta fase dif­fi­cile è neces­sa­ria la mas­sima unità tra le orga­niz­za­zioni sin­da­cali e il forte pro­ta­go­ni­smo delle Rsu».

«Il Mini­stro Gian­nini e il sot­to­se­gre­ta­rio Reggi non pos­sono usare le inter­vi­ste per par­lare con il mondo della scuola» ha detto il coor­di­na­tore nazio­nale di Sini­stra Eco­lo­gia e Libertà Nicola Fra­to­ianni. Cri­tico anche il Movi­mento 5 Stelle: «Die­tro que­sta pro­po­sta si celano i soliti tagli ad una scuola già ves­sata e saccheggiata».

La legge delega dovrebbe aumen­tare l’orario di lavoro a parità di sala­rio, pre­ve­dendo una non ancora meglio spe­ci­fi­cata serie di premi per i docenti «meri­te­voli». La pro­po­sta è stata già avan­zata dall’ex mini­stro Pro­fumo e non inter­viene su uno dei guai pro­vo­cati dal blocco degli scatti del per­so­nale voluti da Tre­monti nel 2010. Da allora, i lavo­ra­tori della scuola ven­gono pagati dallo stato con i loro stessi soldi. Le atti­vità fun­zio­nali come la cor­re­zione dei com­piti, o il lavoro nelle com­mis­sioni, sono pagate con il sala­rio accessorio.

Si ritiene anche che si vogliano can­cel­lare 250 mila pre­cari nelle varie gra­dua­to­rie abo­lendo le sup­plenze brevi, da affi­dare ai docenti di ruolo. Chi ha retto le scuole per 10 anni verrà man­dato in strada per legge. Tra le righe rie­merge anche il vec­chio dise­gno di legge Aprea sugli ordini col­le­giali, riti­rato dal governo Monti dopo una mobi­li­ta­zione degli stu­denti. Sem­bra infatti che il governo voglia esau­to­rare i mec­ca­ni­smi di deci­sione ela­bo­rati dai decreti dele­gati in poi a bene­fi­cio dei poteri di indi­rizzo dei diri­genti scolastici.

Quanto alla pro­po­sta «pop» di aprire le scuole fino alle 22, 11 mesi su 12, chi ieri si è mobi­li­tato ha tenuto a rive­lare il tra­nello. Per i sin­da­cati la pro­po­sta sarebbe rea­liz­za­bile isti­tuendo l’organico fun­zio­nale, sta­bi­liz­zando 130 mila pre­cari e allun­gando il tempo scuola. Un pro­getto lon­tano dalle inten­zioni del governo che sem­bra invece essere orien­tato ad aprire le porte della scuola ai privati.

Milano, la vita sui tetti delle madri nella crisi | Fonte: Il Manifesto | Autore: Marta Cosentino Santamato

Lavoro. Il racconto dell’occupazione del policlino. Sedici notti di fila, tra manifestazioni, flash mob, assemblee e una richiesta: riconoscere le professionalità e i diritti maturati in anni di precarietàUna volta rag­giunto a piedi il quinto piano del Padi­glione Alfieri, biso­gna bus­sare, farsi rico­no­scere e aspet­tare che venga tolta la scala che blocca l’accesso al tetto. Die­tro la porta c’è sem­pre qual­cuno per­chè c’è anche la cen­tra­lina dell’ascensore.

«Biso­gna essere tem­pe­stivi nell’agevolare l’intervento dei tec­nici, in caso di gua­sto» spie­gano le occu­panti. Davanti all’ingresso, un car­tello con le parole con cui, lo scorso 25 mag­gio, il sub­co­man­dante Mar­cos ha annun­ciato il suo ritiro: «Per lot­tare è neces­sa­rio pos­se­dere solo un po’ di ver­go­gna, tanta dignità e molta orga­niz­za­zione». E di orga­niz­za­zione le Madri nella Crisi, sul tetto del poli­cli­nico di Milano per la 16esima notte di fila, sem­brano pro­prio averne.

Per loro, decise a non scen­dere fino a che non ver­ranno ricol­lo­cate, la vita da pre­si­dio all’aperto è ormai quasi una rou­tine. Sia che fac­cia caldo o che piova. Hanno ripro­po­sto i ruoli di un tempo, quando lavo­ra­vano come ope­ra­trici socio sani­ta­rie al Poli­cli­nico: la «capo­sala» tiene le fila dei turni che si decli­nano tra la mat­tina, il pome­rig­gio e la notte. A dor­mire restano almeno in 4, più un uomo.

Ci si alterna per­chè lo spa­zio nella tenda è poco e per­chè sono in tante ad avere a casa dei figli. Spesso manca un com­pa­gno. Si avvi­cen­dano nel fare la spesa e nel tenere in ordine quella che è diven­tata la loro seconda casa. Hanno un for­nello elet­trico, un pic­colo frigo e anche una gri­glia, per qual­che svago serale. L’altra sera rac­con­tano di aver man­giato tutte insieme i taglio­lini al tar­tufo. «Ce l’hanno rega­lato», precisano.

Sul tetto c’è sem­pre qual­cuno. Costante è la pre­senza al ban­chetto di rac­colta firme alle­stito all’ingresso dell’ospedale. Ne hanno rag­giunte due­mila e pre­sto le con­se­gne­ranno all’Assessore Comu­nale alle poli­ti­che sociali di Milano, Pier Fran­ce­sco Majo­rino che lo scorso 10 luglio, insieme all’assessore al lavoro, Cri­stina Tajani, ha incon­trato i dele­gati Usb. Ne è uscito l’impegno a sol­le­ci­tare quello Regio­nale alla Sanità, Mario Man­to­vani che finora è rima­sto zitto. Con un nulla di fatto invece si è con­cluso il tavolo con Ful­vio Matone, il diret­tore gene­rale dell’Arifil.

Il con­fronto con Palazzo Marino resta aperto fanno sapere le rap­pre­sen­tanze sin­da­cali. Aspet­tano a giorni delle altre rispo­ste. Con le van­canze incom­benti, tutto rischia di slit­tare a settembre.

Lunedì si è svolta un’assemblea cit­ta­dina dove le ex lavo­ra­trici del Poli­cli­nico hanno invi­tato le varie anime della pre­ca­rietà mila­nese a far rete. Pre­senti il coor­di­na­mento 3 otto­bre, quello dei pre­cari della scuola che hanno pas­sato la notte accam­pati davanti al Pirel­lone e un rap­pre­sen­tante degli ope­ra­tori sociali. Un flash mob ha inau­gu­rato la discus­sione: lungo la rampa d’ingresso dell’ospedale, dispo­ste in tre file, la fionda alla mano, le madri nella crisi hanno teso l’elastico verso l’edificio in cui hanno pre­stato ser­vi­zio per diversi anni.

Hanno imper­so­ni­fi­cato l’immagine di una donna con una fionda che evoca il sim­bolo delle muje­res libre, un col­let­tivo fem­mi­ni­sta di pre­ca­rie bolo­gnesi che prende il nome dal movi­mento anar­chico di donne attivo in Spa­gna durante la rivo­lu­zione degli anni ’30. La loro lotta è ispi­rata alla sta­gione dei tetti e agli ope­rai della Innse che nel 2009 erano saliti sulla gru per difen­dere il loro posto di lavoro.

Una donna ha sus­sur­rato alla col­lega: «Loro ce l’hanno fatta. Hanno vinto». E ha sorriso.

«Basta divisioni tra i palestinesi, nessuna fazione decida da sola» Fonte: il manifesto | Autore: Michele Giorgio

Intervista. Parla Mariam Abu Daqqa del Fplp: «Siamo uniti nella lotta per la libertà del popolo di Gaza ma non può decidere tutto un solo partito»

fplp

Mariam Abu Daqqa chiede l’attenzione del mondo sull’offensiva mili­tare israe­liana con­tro Gaza, l’applicazione del diritto inter­na­zio­nale per i Ter­ri­tori occu­pati ma vuole anche che le deci­sioni riguar­danti il popolo pale­sti­nese siano prese assieme da tutte le forze poli­ti­che. «E’ un altro momento duro per il nostro popolo, da giorni sog­getto a que­sta nuova aggres­sione di Israele. Ma è il momento che deve risol­vere i pro­blemi che riguar­dano tutti i pale­sti­nesi sotto occu­pa­zione. Per­ciò le nostre forze poli­ti­che devono essere coin­volte, tutte, senza esclu­sioni nel pro­cesso deci­sio­nale», dice la sto­rica atti­vi­sta dei diritti delle donne pale­sti­nesi e da anni mem­bro della dire­zione poli­tica del Fronte popo­lare per la libe­ra­zione della Pale­stina (Fplp), la prin­ci­pale com­po­nente della sini­stra pale­sti­nese. Abbiamo inter­vi­stato Mariam Abu Daqqa ieri a Gaza.

Tutti i pale­sti­nesi chie­dono la fine dell’assedio e libertà per Gaza. C’è tut­ta­via dibat­tito sulla deci­sione di Hamas di respin­gere la pro­po­sta egi­ziana per un ces­sate il fuoco imme­diato. Qual’è la posi­zione del Fplp
Prima di tutto è fon­da­men­tale chia­rire che i pale­sti­nesi si stanno difen­dendo da una gra­vis­sima aggres­sione israe­liana. Lo dico per­chè, come sem­pre, Israele in que­ste occa­sioni viene fatto pas­sare come una vit­tima dai mezzi d’informazione e dai governi occi­den­tali. Attacca, uccide cen­ti­naia di civili, com­pie mas­sa­cri e alla fine risulta la parte più debole. Ma le vit­time sono i pale­sti­nesi, tenuti come pri­gio­nieri a Gaza, privi di diritti. I pale­sti­nesi che lan­ciano razzi si difen­dono, sfi­dano l’occupazione che vuole rin­chiu­derli per sem­pre den­tro Gaza. Anche nel caso di que­sto ces­sate il fuoco, lo Stato di Israele sta deci­dendo tutto da solo. Vuole la tre­gua e uni­la­te­ral­mente fa i suoi passi, senza che si vada alla solu­zione dei pro­blemi veri. Poi, tra sei mesi o un anno, saremo punto e a capo, messi di fronte a una nuova offen­siva mili­tare. Invece noi vogliamo chiu­dere e per sem­pre con il sistema che ci opprime e ci tiene pri­gio­nieri. Non ci bastano più accordi di breve respiro che non cam­biano nulla nella sostanza e che sono gestiti di fatto solo da Israele.

Quindi appog­giate la deci­sione di Hamas di respin­gere la pro­po­sta egiziana.
Non posso dare un giu­di­zio sulla deci­sione di Hamas, posso solo affer­mare la posi­zione del Fplp e insi­stere su di un punto. Noi cre­diamo che sia venuto il momento che i pale­sti­nesi pren­dano tutti insieme le deci­sioni più impor­tanti sul loro futuro. Anche noi come Hamas non siamo stati inter­pel­lati o infor­mati dall’Egitto e abbiamo appreso della pro­po­sta egi­ziana solo dai mezzi d’informazione. Allo stesso tempo non abbiamo avuto alcun con­tatto anche da Hamas, riguardo la sua deci­sione di respin­gere la pro­po­sta egi­ziana e di con­ti­nuare la lotta (armata) con­tro Israele. Que­sto atteg­gia­mento (di Hamas) deve mutare. Mi rife­ri­sco al rap­porto che le forze poli­ti­che e della resi­stenza pale­sti­nese dovreb­bero avere in que­ste situa­zione. Le deci­sioni non pos­sono più essere prese solo da una com­po­nente poli­tica pale­sti­nese. Deve con­cre­tiz­zarsi un coor­di­na­mento poli­tico rap­pre­sen­ta­tivo di tutta la popo­la­zione, supe­rando l’egemonia della fazione più forte.

Anche nel 2012, quando fu fir­mato l’accordo di tre­gua nau­fra­gato nei giorni scorsi, il Fplp non mancò di rivol­gere cri­ti­che ad Hamas per la sua deci­sione di accet­tare i pic­coli miglio­ra­menti della con­di­zione di Gaza pre­vi­sti da quelle intese.
Met­temmo in evi­denza l’inconsistenza dell’accordo rag­giunto (con la media­zione egiì­ziana, ndr) con Israele men­tre occor­reva recla­mare i diritti del nostro popolo davanti al mondo intero sulla base delle leggi inter­na­zio­nali, pro­prio per supe­rare defin­ti­va­mente l’oppressione israe­liana. Per que­sto ser­vono deci­sioni prese da tutti, per evi­tare errori e passi falsi.