Biancavilla “Storie di Donne” 8 marzo 2013

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Biancavilla: presentazione del libro “Padre Nostro”

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Catania: al Piccolo Teatro il 22 marzo 2013: motomimetico presenta “I monologhi della darboka”

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23 marzo #bastabossifini: istruzioni per l’uso

Il 23 marzo i migranti chiamano tutti/e a Bologna per una manifestazione politica di massa contro la legge Bossi-Fini e lo sfruttamento. Parte alle ore 15 da piazza XX settembre, di fronte all’autostazione.

Cosa fare fino al 23 marzo: 

1.Diffondere la notizia che i migranti chiamano a manifestare a Bologna contro la Bossi-Fini, con qualsiasi governo e qualsiasi parlamento (leggi l’appello);

2.Usare facebook e twitter per diffondere la notizia: evento, #bastabossifini;

3.Scaricare i volantini, stamparli, e distribuirli mentre si va al lavoro tra i colleghi, a tutti gli amici e conoscenti: il passaparola funziona. I volantini in Italiano, Bengalese, Francese, Urdu, Inglese, Arabo si trovano QUI;

4.Sostenere le ragioni dei lavoratori che lottano nella logistica e dello sciopero che faranno il 22 marzo;

5.Per chi è a Bologna e vuole dare una mano: contattare il Coordinamento Migranti;

6.Per chi non è di Bologna, informarsi per prendere il treno (controlla orari) o l’autobus in gruppo per arrivare a Bologna sabato 23 marzo entro le 15, la manifestazione parte vicino alla stazione (trova il trasporto più comodo in ER);

7.Organizzarsi per venire tutti e tutte a Bologna il 23 marzo con tutte le famiglie: questa è una manifestazione anche per i diritti dei nostri figli e delle nostre figlie!

Non facciamoci dividere dalle leggi, è ora di uscire e di scendere in piazza insieme! Noi siamo forti, se lottiamo uniti possiamo vincere.

Usiamo ogni giorno fino al 23 marzo per riempire Bologna!

www.coordinamentomigranti.org

Respingere l’indifferenza, la rassegnazione, la “distrazione”, in nome di quei giovani che a partire dal 1943 ebbero il coraggio di riprendere in mano il loro destino e il loro futuro

Intervento del Presidente Nazionale dell’ANPI, Carlo Smuraglia, in
occasione della manifestazione di apertura del 70° anniversario della
Resistenza, a Torino, al Teatro Carignano, per ricordare gli scioperi
del marzo 1943

Si avvia qui, oggi, nella splendida cornice di un bellissimo e glorioso
Teatro, gremito, un lavoro che ci impegnerà per i prossimi tre anni, per
ricordare degnamente l’anniversario della Resistenza. Un avvio felice,
bisogna dire, poiché oltre al ricordo ed alla rievocazione degli scioperi del
marzo 1943, che saranno tenuti dal Sindaco di Torino, Fassino, da un
illustre storico come il Prof. Della Valle e dal Presidente Nazionale
dell’Anpi a nome di tutte le Associazioni partigiane, ci sarà anche una
importante tavola rotonda con i tre Segretari Generali delle
Confederazioni sindacali CGIL, CISL e UIL, da cui dovrà nascere non solo
un giudizio su quei fatti, ma anche un’attualizzazione.
E’ bene, infatti, che ci impegniamo tutti a fare in modo che le
“celebrazioni” del 70° riescano ad evitare il connotato “liturgico” e di
pura celebrazione. E’ doveroso, certamente, ricordare gli scioperi del ‘43,
un atto di enorme coraggio e di grandissimo impegno politico; è doveroso
anche ricordare le vittime, perché vi furono arrestati e deportati e non
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pochi persero la vita. Ma è altrettanto, e forse più, doveroso cogliere
l’occasione per cercare di recare un contributo alla conoscenza ed alla
valutazione dei fatti, da molti – ancora oggi – ignorati, per una riflessione
sul loro significato e valore, anche alla luce del presente e del futuro.
E’ stata, dunque, una scelta positiva quella di abbandonare il carattere
celebrativo che troppe volte ha contraddistinto le nostre manifestazioni
sulla Resistenza, per cercare di comprendere appieno ciò che è avvenuto in
Italia tra il ’43 e il ’45 e per cogliere il ruolo rappresentato dagli scioperi,
nel contesto complessivo della Resistenza; nel quale essi si inseriscono a
buon diritto, anche perché quelli del marzo 1943 furono solo l’avvio di un
movimento, che continuò con gli scioperi dell’estate, dell’autunno,
dell’inverno del ’43, per poi arrivare ai grandissimi scioperi della
primavera 1944, in concomitanza con le iniziative della Guerra di
Liberazione e in particolare della Resistenza armata.
La Resistenza, infatti, è stata una vicenda straordinaria, forse la più bella e
significativa della storia d’Italia; una vicenda che colpisce anche per la
sua complessità, perché la lotta armata si coniugò con la resistenza non
armata, nelle sue mille forme e manifestazioni, perché – per la prima volta
nella storia – si trovarono a reagire alla dittatura fascista e poi alla
occupazione tedesca, persone di varie ideologie, di varie professioni e
mestieri, uomini e donne uniti nella stessa ansia di libertà e di democrazia.
Anche se è ormai pacifico che gli scioperi, anche quelli del marzo 1943,
furono contrassegnati da una forte carica politica, è altrettanto sicuro che
essi furono effettuati da tanti lavoratori diversi per idee e per
consapevolezza, ma concordi nel cercare non solo la protesta ma anche il
riscatto. Così, in tutta la Resistenza, poterono operare insieme comunisti,
socialisti, cattolici, liberali, perfino monarchici e molti anche
semplicemente contrari al fascismo e ansiosi di libertà.
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E’ in questo contesto che si inserisce l’esplosione del 5 marzo 1943 e dei
giorni seguenti, che lasciò stupiti e impreparati molti cittadini e molti
fascisti, questi ultimi – poi – pronti a reagire con la violenza del potere.
Ed è questa la ragione per cui sono contrario a ridurre la Resistenza ai
venti mesi che vanno dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 ed a
valorizzare soltanto gli aspetti della lotta armata.
La Resistenza fu un insieme di atti e di comportamenti, armati e non, diretti
a contrastare la prepotenza fascista, a liberare il Paese dalla dittatura e
dall’occupazione tedesca, a preparare un futuro di democrazia. Ed è in
questo complessivo contesto che vanno considerati anche gli scioperi,
come parte integrante di un movimento di liberazione estremamente
complesso e ricco.
Di questo quadro, intendo sottolineare prima di ogni altra cosa un dato
che è la costante di tutto ciò che è stata la Resistenza: il coraggio e la
responsabilità delle scelte.
Per meglio capirlo, occorre partire dalla contestualizzazione degli scioperi
del marzo 1943, che aprirono – appunto – una fase di lotta e di impegno
civile che si concluse solo con l’insurrezione del 25 aprile.
Quando i lavoratori di Torino incrociarono le braccia, alle 10 del 5 marzo,
da più di 20 anni erano spariti l’associazionismo, la solidarietà di classe,
lo sciopero. Era dal 1926 e più ancora dal 1930, con l’avvento del nuovo
codice penale, che lo sciopero era diventato un reato. E quale reato! Il
codice penale lo puniva, soprattutto se collegato a finalità politiche, con
pene severe, che – considerata anche l’aggravante dello stato di guerra e
quella della finalità coercitiva dell’Autorità – prevedevano una sanzione
fino a 2 anni di carcere per i partecipi e fino a 4 anni per i capi e
promotori.
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Ma il fatto, inconcepibile per il fascismo, era di per sé inseribile anche fra
i reati contro la personalità dello Stato; e in questo caso si passava
dall’associazionismo sovversivo, punito da 5 a 12 anni, al disfattismo
politico o economico, punibile con pena non inferiore a 5 anni. La
competenza non era più del Tribunale ordinario o della Corte di Assise, ma
del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, (organismo più politico che
giudiziario) o addirittura dei Tribunali Militari.
Ma c’è ancora di più: essere considerato sovversivo, allora, significava
essere esposto a qualcosa di più immediato delle sanzioni penali: dopo
l’arresto, l’invio ai campi di concentramento o di sterminio, dove il
trattamento è a tutti noto.
Di fatto, chi entrò in sciopero, sapeva a quali conseguenze andava
incontro; e non era un’ipotesi teorica, perché, in effetti, furono centinaia
gli arrestati o deportati; e di essi, non pochi non fecero più ritorno.
Eppure, al suono delle sirene, a partire dal 5 marzo, decine di migliaia di
lavoratori entrarono in sciopero a Torino, a Milano, a Sesto S. Giovanni e
in tanti altri luoghi (217 aziende e oltre 150.000 scioperanti, solo tra
marzo e luglio).
Scioperi determinati da motivi economici, ma che contenevano qualcosa di
molto più rilevante, dimostrando una frattura irreversibile rispetto alla
continuità del regime fascista.
E furono soprattutto i fascisti a coglierne l’aspetto politico. Fu il
comandante dei C.C. Hazon, fu il questore di Torino, fu il Capo della
polizia Senise a cogliere lo sfondo politico e, a loro dire, “sedizioso” degli
scioperi, perfino al di là della consapevolezza dei singoli manifestanti.
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D’altronde, le parole d’ordine “pane e pace”, come la richiesta di fine
della guerra erano incompatibili con l’accettazione della sopravvivenza
del regime fascista.
Ebbene, la caratteristica fondamentale di questi scioperi, fu – appunto – il
coraggio, l’accettazione dei rischi gravissimi e facilmente prevedibili.
E’ questo che dobbiamo ricordare, prima di ogni altra cosa, anche per far
conoscere una realtà spesso dimenticata e sottovalutata, soprattutto da
parte di generazioni abituate a sentire parlare dello sciopero come di un
diritto e ad esercitarlo liberamente.
Un coraggio che accomuna queste azioni che oggi ricordiamo, a tutto il
resto della Resistenza e colloca gli scioperi all’interno di essa.
L’impostazione che a lungo ha prevalso e di cui ho fatto cenno, pur
comprensibile, non coglie tutti gli aspetti della Resistenza ampiamente
intesa, che è composta da tutto ciò che è stato reazione e rivolta contro il
fascismo e impegno contro l’occupazione nazista e contro la R.S.I., e
comprende un insieme di atti e di comportamenti che hanno tutti alla base
il coraggio delle scelte e la responsabilità.
E’ coraggio quello di chi intraprese e condusse la resistenza armata, ben
conoscendo i propri limiti di preparazione e di esperienza militare e ben
conoscendo l’enorme disparità di mezzi, strumenti ed uomini rispetto ad un
esercito attrezzato e organizzato come quello tedesco. Eppure, quei
combattenti – che spesso pagarono il loro coraggio con la morte – non
esitarono ad affrontare i rischi, con la ferma volontà di ottenere la
liberazione del Paese, a qualunque costo ed a qualunque prezzo.
E’ coraggio quello degli scioperanti del ‘43, consapevoli dei gravi rischi
cui andavano incontro.
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E’ coraggio quello dei giovani renitenti alla leva, che, al richiamo della
R.S.I., si trasformarono in “sbandati” per sottrarsi all’arresto ed alle
peggiori conseguenze e, molti, finirono poi per aderire alle bande che
intanto si erano formate nelle montagne, oppure operavano nelle città.
E’ coraggio quello dei circa 600.000 militari che, dopo l’8 settembre,
rifiutarono di aderire all’invito dei tedeschi e dei repubblichini a
collaborare e in effetti, furono trattati – molti – non come prigionieri di
guerra, ma come schiavi, alcuni finirono nei lager, e molti non fecero
ritorno.
E’ coraggio quello del complesso di azioni e comportamenti che è stato
giustamente inserito non già nel concetto di resistenza passiva, troppo
riduttivo, ma in quello di “resistenza non armata”, che comprende tutti
coloro che rifiutarono la guerra e contribuirono alla liberazione nei mille
modi che la storia ci ricorda: dalle donne che, non solo combatterono con
le armi, ma affrontarono il pericolosissimo mestiere di staffetta o furono
amorevoli soccorritrici di prigionieri e feriti e misero in campo – nelle
repubbliche partigiane – un complesso di “intendenza”, come scrivono
alcuni storici, che andava al di là di qualunque esperienza del passato, ai
contadini che spesso aiutarono i partigiani ben sapendo che se li avessero
scoperti, tedeschi e fascisti, li avrebbero fucilati, e incendiate le loro case;
ai sacerdoti che cercarono di difendere le popolazioni dalle violenze e
brutalità, pagando spesso con la loro vita.
Questa è, dunque, la Resistenza, che oggi dobbiamo ricordare nella sua
interezza, proprio partendo da una vicenda, come quella degli scioperi
della primavera del ‘43, così diversa dalla lotta armata, ma così ricca di
implicazioni, di significati, di valori.
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Questa è la Resistenza che dobbiamo non solo ricordare, ma prima di tutto
far conoscere, contro ogni forma di negazionismo, di revisionismo o anche
di semplice sottovalutazione. Una Resistenza da ricordare ad un Paese
smemorato, che troppo spesso preferisce dimenticare o rifiuta di conoscere
anziché menarne vanto ed esserne orgoglioso, come accade, invece, in ogni
Paese a riguardo delle pagine più straordinarie della sua storia.
Perchè da questa Resistenza nasce non solo un ricordo e neppure solo una
memoria che stenta a diventare collettiva, ma viene un grande
insegnamento, di cui dovremmo fare tesoro. In quel coraggio delle scelte,
degli scioperanti come degli altri, armati o non armati, c’è la forza di un
esempio. Se negli scioperanti, così come in tutti i combattenti per la libertà,
gli internati militari, le donne, i contadini, i sacerdoti, ci fosse stato un
calcolo sui rischi, la Resistenza non ci sarebbe stata, il nostro Paese si
sarebbe coperto di disonore ed a questo avremmo aggiunto il discredito di
essere stati liberati da altri.
Quel coraggio, che non è fatto di spregiudicatezza e di sterile ardimento,
ma di consapevolezza e di volontà politica, dev’essere per noi un simbolo
ed un incitamento.
Viviamo in tempi difficili e duri e stiamo attraversando una crisi che
assume sempre di più caratteri drammatici e preoccupanti, riguardando –
insieme – l’economia, la vita sociale, la politica e la stessa democrazia. Ma
ne abbiamo viste tante, in questo dopoguerra, dagli attacchi alla
Resistenza e alla Costituzione, alle iniziative e manifestazioni neofasciste,
ai tentativi di golpe, alle stragi di cittadini inermi, fino al terrorismo. E
siamo riusciti a vincere le difficoltà, a superarle, con fatica, ma ritrovando
ogni volta la solidarietà, la volontà di libertà e di democrazia, l’impegno
collettivo.
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Oggi, nell’affrontare le dure difficoltà di una crisi gravissima e l’incertezza
che colpisce intere generazioni e soprattutto i giovani, dobbiamo riferirci a
quegli esempi, richiamarci alle scelte ed al coraggio di chi seppe resistere,
ai combattenti per la libertà, ai valori che li ispiravano e che poi sono
stati trasfusi in una Costituzione molto avanzata, ma troppo esposta ad
attacchi, insidie e pericoli. Nelle peggiori difficoltà, nei momenti più
difficili, dobbiamo pensare a quegli uomini , a quelle donne che, a partire
dal marzo 1943, ebbero il coraggio di riprendere in mano il loro destino e
il loro futuro, assumendo le proprie responsabilità e considerando
l’impegno civile e l’obiettivo finale superiori di gran lunga ai rischi che
potevano correre.
In loro nome dobbiamo respingere l’indifferenza, la rassegnazione, la
“distrazione” che ancora permea troppi cittadini del nostro Paese e ad
esse contrapporre la volontà di riscatto, per uscire dalla degenerazione
economica, sociale e politica in cui versa il nostro Paese. Dobbiamo anche
ricordare che la Resistenza non è nata solo da una sterile protesta contro i
fascisti e i tedeschi, ma è stato coraggioso impegno, sforzo di volontà per
compiere scelte decisive e vincenti.
E’ con questa ispirazione che dobbiamo procedere alle celebrazioni del
70° anniversario della Resistenza; restando ancorati fermamente al
passato, a quegli anni straordinari, a quel movimento complesso che
abbiamo definito “Resistenza”, a quelle aspirazioni non solo alla libertà,
ma anche alla democrazia; ma nello stesso tempo dobbiamo sapere
guardare al futuro, con il coraggio e il senso di responsabilità di chi si
rende conto di avere un grande debito nei confronti di coloro che si sono
impegnati per la nostra libertà, e un forte dovere verso quanti , da noi, si
aspettano di ricevere sicurezza, libertà, uguaglianza e democrazia. Lo
dobbiamo soprattutto ai giovani, che si trovano a vivere in una società
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ingiusta ed hanno il diritto di aspirare ad un presente e ad un futuro
migliore di quello attuale e, infine, più degno di essere vissuto.
Torino – 9 marzo 2013

Libri & Conflitti. Lo stralcio da LA TORTURA, di Patrizio Gonnella da: controlacrisi.org

Libri & Conflitti. La tortura in Italia, di Patrizio Gonnella. Parole, luoghi e pratiche della violenza pubblica. Prefazione di Eligio Resta Postfazione di Mauro Palma. (www.deriveapprodi.org) La tortura è un crimine contro la dignità umana. Eppure non ovunque e non sempre è proibita. La sua interdizione legale è tutto sommato storia recente. Forse anche per questo assistiamo a frequenti smottamenti. E non è un caso che con l’11 settembre del 2001 ci si sia spinti fino a riproporne la legittimità.
Con la progressiva riduzione della sovranità economica e politica degli Stati, assistiamo a un paradossale rafforzamento del loro potere punitivo che man mano si fa arbitrario e indifferente al sistema costituzionale e internazionale dei diritti umani. Come se la «sanzione punitiva» fosse l’unica prerogativa statuale rimasta. Da cui una diffusa impunità dei torturatori, che ha le proprie premesse nella necessità di segnare la vittoria del potere politico su tutto il resto.
Costruito a partire dalle «parole chiave» che scandiscono l’universo della tortura, questo libro si propone come un’analisi della violenza pubblica intrecciata a quella dei concetti, delle norme e delle vicende individuali.
La tortura non si consuma unicamente quando una persona è sottoposta a sofferenze e la sua pratica spesso non è riconducibile all’arbitrio di un «eccesso» di potere o a uno stato di eccezione. Per questo occorre allargare lo sguardo al sistema complesso che la produce, che la promuove, che la protegge.

Crisi, il “lavoro da buttare” per giovani e donne in Italia | Autore: fabrizio salvatori

Aumentano le disuguaglianze sociali in Italia a causa della crisi. La percentuale di individui in famiglie senza occupati e’ passata, tra il 2007 e il 2011, dal 5,1 per cento al 7,2 per cento. Ne hanno fatto maggiormente le spese i giovani under25, per i quali il dato e’ cresciuto dal 5,4 all’8 per cento, e il Mezzogiorno, dove dal 9,9 si e’ passati al 13,5 per cento. Parallelamente, si e’ registrata una diminuzione del 5 per cento del potere d’acquisto dal 2007 al 2011. Il complessivo peggioramento del benessere economico e’ certificato da Istat e Cnel, nel loro primo rapporto sul benessere equo e sostenibile in Italia.
La condizione lavorativa soprattutto tra donne e giovani peggiora. I dati, gia’ tra i piu’ critici dell’Ue27, sono ulteriormente peggiorati negli ultimi anni a causa della crisi. Il tasso di occupazione, nella classe 20-64 anni, e’ sceso dal 63 per cento del 2008 al 61,2 per cento del 2011, mentre quello di mancata partecipazione e’ salito dal 15,6 per cento al 17,9 per cento. Donne, giovani e Sud sono particolarmente penalizzati: il tasso di occupazione per loro e’, rispettivamente, del 49,9 per cento, 33,8 per cento tra i 20-24enni e 47,8 per cento. Il tasso di mancata partecipazione al lavoro e’ del 22,6 per cento, 41,7 per cento e 32,1 per cento. La costante incidenza dei lavoratori a termine per piu’ di 5 anni (19,2 per cento) denota una condizione d’instabilita’ che non si attenua. La mancata stabilizzazione dei contratti investe soprattutto i giovani (dal 25,7 per cento del 2008 al 20,9 per cento del 2011). Anche la presenza di lavoratori con bassa remunerazione (10,5 per cento) e di occupati irregolari (10,3 per cento) rimane stabile, mentre aumenta la percentuale di lavoratori sovra-istruiti rispetto alle attivita’ svolte (dal 15,4 per cento del 2004 al 21,1 del 2010).
Non mancano le disuguaglianze nell’accesso al lavoro, territoriali, generazionali e di cittadinanza, ulteriormente accentuate con la crisi. Fa eccezione il divario occupazionale tra uomini e donne, dal momento che la crisi ha colpito maggiormente il settore edile e manifatturiero, che impiega quasi esclusivamente uomini. Eppure il divario di genere resta tra i piu’ elevati d’Europa: il tasso di occupazione 20-64 anni passa dal 72,6 per cento maschile al 49,9 per cento femminile. Le donne, intanto, continuano a fare i conti con un sovraccarico di ore dedicate al lavoro, retribuito o meno: il 64 per cento lavora piu’ di 60 ore a settimana, compreso il lavoro di cura. Resta inoltre stabile al 72 per cento il rapporto tra il tasso di occupazione delle donne con figli in eta’ prescolare e quello delle donne senza figli. “Le condizioni peggiori delle donne meridionali fanno supporre che ad alimentare l’insoddisfazione sia anche la carenza di servizi” scrivono i curatori del rapporto. Fino al 2009 i colpi della crisi sono stati parati grazie al potenziamento degli interventi di sostegno al reddito e al funzionamento delle reti di solidarieta’ familiare. Questo ha permesso di mantenere stabili i tassi di poverta’ e deprivazione grave (rispettivamente al 18,4 per cento e al 7 per cento). Ma poi l’equilibrio si e’ rotto. Nel 2011 la grave deprivazione e’ aumentata di 4,2 punti, passando dal 6,9 per cento all’11,1 per cento, preceduta da un incremento, nel 2010, del rischio di poverta’ nel Centro (dal 13,6 per cento al 15,1 per cento) e nel Mezzogiorno (dal 31 per cento al 34,5 per cento) e da un aumento della disuguaglianza del reddito (il rapporto tra il reddito posseduto dal 20 per cento piu’ ricco della popolazione e il 20 per cento piu’ povero dal 5,2 sale al 5,6).Le famiglie hanno tamponato la progressiva erosione del potere d’acquisto intaccando il patrimonio, risparmiando meno e, in alcuni casi, indebitandosi. La quota di persone in famiglie che hanno ricevuto aiuti in denaro o in natura da parenti non coabitanti, amici, istituzioni o altri e’ passata dal 15,3 per cento del 2010 al 18,8 per cento del 2011 e, nei primi nove mesi del 2012 la quota delle famiglie indebitate e’ passata dal 2,3 per cento al 6,5 per cento

Anonymous abbatte Casapound da: controlacrisi.org

Anonymous, la rete di hacker che ‘sanziona’ chi, secondo loro, se lo merita, ieri pomeriggio ha colpito il sito del movimento politico di estrema destra ‘casapound.org’ rendendolo irraggiungibile. I pirati del web considerano CasaPound un partito da “chiudere”, e chiedono l’intervento del capo dello Stato. Nel testo diffuso da Anonymous si legge: “Salve, questo pomeriggio abbiamo attaccato e mandato offline il sito ufficiale di CasaPound Italia. Assieme a questo attacco abbiamo voluto iniziare una raccolta firme indirizzata al Presidente Della Repubblica per chiudere quello

Resistenza femminile, un filo rosso globale | Fonte: il manifesto | Autore: Enrico Terrinoni

«L’EREDITÀ DI ANTIGONE» DI RICCARDO MICHELUCCI
Un libro edito da Odoya che narra, in dieci storie, esistenze di donne coraggiose. Ritratti di Mairéad Farrell, Norma Parenti e Sophie Scholl

«Si voltò di scatto, in preda al panico. Una sirena della polizia aveva squarciato all’improvviso la calma apparente di quella domenica pomeriggio (…) Alle loro spalle, sbucati fuori chissà da dove, c’erano quattro uomini in abiti civili e inequivocabili sembianze da poliziotti. Poi fu solo il buio. La prima pallottola la raggiunse al volto e la fece cadere a terra. Poi altri colpi la raggiunsero alla schiena, finendola». Inizia così una delle dieci microstorie incluse nell’ultimo libro di Riccardo Michelucci, L’eredità di Antigone. Storie di donne martiri per la libertà (Odoya edizioni, pp. 278, euro 18, con prefazione di Emma Bonino). Il testo riporta alla luce, con accorta sapienza narrativa, le esistenze di donne coraggiose, per lo più dimenticate o riposte all’ombra della Storia ufficiale, nonostante il loro grande contributo nelle lotte per la libertà nei diversi paesi di provenienza.
Sono vite, quelle raccontate nel libro, tutte unite dal filo rosso della resistenza. La vicenda di cui sopra riguarda Mairéad Farrell, socialista e volontaria dell’Ira, già prigioniera politica nel carcere femminile di Armagh, in Irlanda del Nord. Nota in patria e all’estero per aver partecipato alla dirty protest e poi a uno sciopero della fame – forme di lotta parallele a quelle di Bobby Sands e compagni, nel non troppo lontano carcere di Long Kesh – Farrell venne freddata alle spalle a Gibilterra, all’età di trentuno anni nel 1981, da agenti delle teste di cuoio inglesi inviati per dare una «lezione esemplare» all’indomito Esercito Repubblicano Irlandese. Mairéad, insieme a Seán Savage e Daniel McCann, giustiziati nella stessa occasione, stava tentando di organizzare un attentato contro il Royal Anglian Regiment.
La storia di Farrell è solo una delle tante biografie esemplari del testo. Tra queste spicca quella di Norma Parenti, la cui memoria è ancora vivissima a Massa Marittima e nel grossetano, ma si perde e svanisce una volta solcati i confini della Toscana. Norma Parenti, partigiana, madre e moglie, figlia di un muratore e di una casalinga, diviene una staffetta per il raggruppamento «Amiata» della III Brigada Garibaldi, trasportando armi e viveri che spesso nasconde sotto la carrozzina del proprio bambino. La sua fine ultima ed eroica è avvolta nel mistero, essendo stata uccisa dai nazifascisti poche ore prima dell’arrivo degli Alleati, senza testimoni oculari. La storia di Norma, medaglia d’oro al valor militare alla memoria, viene tratteggiata a tinte vividissime, e ancora una volta, a ritroso.
L’andamento di questo affascinante libro di storie minime è infatti scandito dal ritmo intenso di una narrazione che dalla fine rincorre il proprio inizio. Le vicende di Norma Parenti sono inaugurate dalla rievocazione di un evento chiave e simbolico, prossimo alla sua morte: siamo a Massa Marittima, è il 9 maggio del 1944. Il cadavere sfregiato del partigiano «Boscaglia», al secolo Guido Radi, è stato abbandonato in piazza del Duomo dai nazifascisti. È fatto divieto a chiunque di tumularne la salma nel cimitero comunale, eppure Norma – come Antigone di fronte un’autorità che non rispetta le leggi della natura – la consegna alla terra alla presenza dei familiari di Radi. Il gesto, insieme a tanti altri atti di sfida, le varrà la futura condanna a morte.
Similmente viene presentata la fugace esistenza di Sophie Scholl, del gruppo giovanile della Rosa Bianca – forse la più nota tra le tante donne martiri del libro, per via di un famoso film, dal titolo La Rosa Bianca, candidato all’Oscar. Sophie fu condannata a morte nel 1943 insieme al fratello Hans e a Christoph Probst, per aver istigato il popolo tedesco alla disobbedienza nei confronti dell’egemonia nazista. Un’altra storia esemplare è quella di Marianella García Villas, torturata e uccisa nel 1983 nella scuola militare di San Salvador dalle spietate forze di polizia del regime di El Salvador. Marianella, molto vicina al Monsignor Romero – freddato da un sicario durante la celebrazione di una messa nel marzo del 1980 – ne aveva seguito l’esempio, portando nella sua comunità e all’estero, persino in Italia, la propria testimonianza delle efferatezze compiute dai militari nel proprio paese, con la palese connivenza degli Stati Uniti d’America.
Da un punto di vista eminentemente stilistico, il metodo narrativo del libro ricorda quello che in critica letteraria è noto come New Historicism, con l’uso sapiente di aneddoto iniziale da cui poi si dipana l’analisi. Tornando più indietro nel tempo, ma sempre in ambito letterario, non è peregrina l’ipotesi di una certa affinità con i Portraits in Miniature di Lytton Strachey, nonostante l’evidente divario in termini di tensione politica e morale. Un simile uso in ambito storiografico, invece, delle potenzialità narrative di minime storie eroiche, lo ritroviamo in libro recente dal titolo Voci dalla resistenza, a cura di Andrea Comincini, con prefazione di Salvatore Cingari (Aracne, pp. 168, euro 11).
Il testo di Michelucci, mosso da un ingiusto oscuramento nell’immaginario collettivo e sociale di figure femminili attive in vari contesti di resistenza, intende non solo rendere omaggio a personaggi le cui storie sono spesso dimenticate, ma si pone un obbiettivo più specifico: restituire loro una collocazione adeguata nel pantheon di una Storia che le ha immancabilmente relegate a posizioni del tutto marginali. La rievocazione del sacrificio di donne coraggiose e pronte ad opporsi all’ingiustizia fino alla morte ha quindi un valore non agiografico, di exempla da ammirare, ma politico nel senso più nobile del termine.
Le loro esistenze sono ingranaggi di un meccanismo che, spesso in senso rivoluzionario, ha portato a cambiamenti radicali in quelle società che per breve tempo le hanno ospitate. Evocando con forza e intensità narrativa delle storie dimenticate, il merito di questo libro è di presentarcele in quanto tasselli imprescindibili nella ricomposizione del mosaico ideale delle nostre coscienze.

Rischio Grecia con l’austerità «espansiva» Fonte: ilsole24ore.com | Autore: RiccardoRealfonzo

I risultati elettorali rendono molto difficile costruire un governo che garantisca stabilità e autorevolezza, proprio ora che sarebbero necessarie scelte incisive e una rinnovata capacità di dialogo con i partner europei. Il punto su cui occorre grande chiarezza è che il quadro macroeconomico non consente all’Italia di onorare gli “impegni” assunti con l’Europa.Approvando il six-pack e il fiscal compact, tra il 2011 e il 2012, ci siamo frettolosamente disposti a perseguire sin da quest’anno il pareggio di bilancio (in termini strutturali, aggiustato cioè con l’andamento ciclico) per proseguire successivamente con una politica di contrazione del debito pubblico tendente ad abbattere in venti anni il rapporto tra debito e Pil, dall’attuale 127% sino al 60 per cento. È la drastica politica di austerità voluta dalla Germania, che se effettivamente perseguita produrrebbe conseguenze nefaste, esponendo il Paese – come paventato nella Lettera sottoscritta nel 2010 da 300 economisti – al rischio di scivolare in una “spirale greca” e persino di essere infine costretto a lasciare l’euro.
Per precisare quanto siano insostenibili quegli “impegni”, cominciamo col ragionare prendendo per buone le ipotesi contenute nella “Nota di aggiornamento” del Governo Monti, del settembre scorso, per quel che concerne il tasso di crescita del Pil (reale, nominale e potenziale) nonché l’andamento del costo medio del debito. L’analisi mostra che per ottenere il pareggio del bilancio in termini strutturali e poi abbattere il debito ai ritmi previsti dal fiscal compact (portando il debito al di sotto del valore del Pil già tra il 2020 e il 2021) sarebbe necessario portare l’avanzo primario sopra il 5% del Pil. In altre parole, per fare i “compiti a casa” (e meritarci anche gli eventuali aiuti del fondo salva-Stati) dovremmo arrivare a mettere in fila, per ben venti anni, manovre tali da contenere la spesa pubblica al di sotto delle entrate fiscali (interessi sul debito a parte) in misura superiore agli 80 miliardi di euro. Per avere un metro di confronto, si ricordi che il valore netto della manovra salva-Italia di Monti era di poco superiore ai venti miliardi e che l’avanzo primario nel 2012 è stato di circa due punti e mezzo. Dovrebbe essere già chiaro, quindi, quanto quel sentiero non sia percorribile sul piano economico, sociale e politico.
Quel che è peggio è che l’analisi appena descritta può essere considerata indicativa solo in primissima battuta. Come si è detto, infatti, essa si fonda sulle ipotesi ottimistiche del Governo uscente e non tiene adeguatamente conto degli effetti di retroazione negativi che ulteriori dosi di austerità avrebbero sulla crescita. Quanti vogliono continuare a credere nella favola dell’austerità espansiva sono naturalmente liberi di farlo, ma – come ho già avuto modo di scrivere sul Sole 24 Ore – numerosi centri di ricerca internazionali ormai riconoscono che i moltiplicatori della politica fiscale (che misurano gli effetti di una variazione dei saldi fiscali sulla crescita) sono stati sottostimati dai governi d’Europa, italiano incluso. Tutto ciò semplicemente significa che gli avanzi primari da 80 miliardi di euro necessari per pareggiare il bilancio e abbattere il debito, ridurrebbero ulteriormente la domanda delle famiglie e delle imprese, con effetti contrattivi sul Pil e sulle stesse entrate fiscali. Da qui il rischio di una “spirale greca”, dove l’austerità genera la recessione e il fallimento degli obiettivi di finanza pubblica; a ciò segue nuova austerità, e così via.
È chiaro che il nuovo Governo italiano dovrebbe ricontrattare regole e obiettivi di finanza pubblica con l’Europa, chiedendo in questa fase di non andare oltre la stabilizzazione del rapporto tra debito pubblico e Pil ai livelli attuali, con riferimento all’orizzonte temporale della legislatura. Una strada, questa, prudente e concretamente perseguibile, che permetterebbe di tenere fermo l’avanzo primario su valori inferiori al 3% del Pil, dando respiro all’economia. Certo, è estremamente difficile ottenere il via libera in Europa su un percorso simile, tenuto conto della rigidità del blocco intorno alla Merkel. Ma per salvaguardare la tenuta dell’eurozona serve proprio una svolta in direzione di politiche fiscali più espansive, opportunamente assecondate da una banca centrale che agisca non diversamente dalla Fed statunitense.