Una pagina Facebook dedicata al latitante Messina Denaro. Scoppia la polemica da:palermorepubblica.it

di Giorgio Ruta
Sul social anche post firmati da qualcuno che si spaccia per la primula rossa di Castelvetrano. La denuncia dell’imprenditrice antiracket Ferraro e del sindaco della cittadina.

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“Happy new year”. Firmato Matteo Messina Denaro, con tanto di cuoricini. È l’ultimo post di una pagina Facebook dedicata al boss di Castelvetrano, latitante dal ’93. “Matteo Messina Denaro, l’ultimo Padrino di Cosa Nostra”, si chiama il profilo seguito da 1185 persone. C’è chi lo ringrazio e chi si rivolge così: “Padrino siete un grande e io ho sparato i fuochi in vostro onore un abbraccio e buon anno 2016 e libertà assoluta e per sempre”. Oppure: “Auguri grande Zio”.

Gli autori della pagina si rivolgono anche alle forze dell’ordine con messaggi non proprio felici: “Auguroni a tutto il corpo dello stato, con un messaggio: Tempo al Tempo. Cunnuiti”. Si va anche oltre: “Sentir cantare il suono del kalashnikov, mi ricorda i bei tempi passati della mia misteriosa gioventù. La stessa fine gliela auguro a tutto il corpo armato dello stato e a tutti i Magistrati. ‘Tempo al Tempo’”, si legge in un post.
La pagina  –  creata nel 2012 – ha suscitato indignazione. Il primo a chiedere l’intervento della magistratura è stata su Facebook l’imprenditrice antiracket Elena Ferraro. Interviene anche il primo cittadino di Castelvetrano, città natale del latitante, Felice Errante. “Sconcerto, indignazione e tristezza nel leggere quale livello di subcultura può ancora serpeggiare nella nostra città. Un manipolo di disadattati, non sono secondo me semplici idioti, non può costringere una comunità sana a dovere replicare a tali nefandezze. Faccio veramente fatica, prima da cittadino, poi da sindaco a comprendere come si possa inneggiare ad un criminale”, dice Errante.

Ma anche sui social non mancano le reazioni di sdegno: “Vergogna”, “ammazzatevi”, “ho segnalato la pagina”, sono alcuni tra i commenti postati nella pagina dedicata a Messina Denaro.

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“Passo ma non chiudo. La storia di Sara, sindacalista, licenziata dalla Coop, attraverso le sue parole” Autore: fabio sebastiani da: controlacrisi.org

Sara Catola, mamma di tre bimbi, separata, addetta in un punto vendita Coop di Livorno, è stata licenziata alla fine del 2015. La sua reazione, da buona sindacalista (Usb), è stata immediata. Ha scritto una lettera aperta che sta facendo il giro del web. E sta ricevendo molta solidarietà e consensi. Non è un caso. Il suo è stato un licenziamento ingiusto e cavilloso. Ha intitolato la sua lettera “Passo ma non chiudo”. Controlacrisi l’ha intervistata…

Quali sono le circostanze che hanno portato al tuo licenziamento?
La storia è presto detta. Ha inizio a fine settembre, inizio ottobre quando vengo convocata dal direttore in un momento in cui mi trovavo ancora in aspettativa, la prima in tredici anni di servizio. Presa, tra l’altro, con il congedo parentale, per stare dietro ai miei figli. Mai assente sul lavoro, quindi. Avevo necessità di fare la mamma al cento per cento.Vengo convocata dopo una lettera di contestazione in cui si parla di sospetta attività lavorativa. Giorni incriminati, tra luglio e agosto, quando portai i miei figli al mare. Li portai presso lo stabilimento balneare del mio ex marito. Lì mi hanno visto apparecchiare e appendere una lavagna con il menù. Ci sono anche separazioni normali, dico. E mi è stata chiesta una mano nel momento del bisogno. Per me è un comportamento normale.Il tuo impegno sindacale, c’entra?
E certo che sì. La mia convinzione è che se non fossi stata delegata sindacale qunto meno non avrei ricevuto questo tipo di punizione.

Una volta i sindacalisti quasi non venivano toccati…
Si forse, anche perché il nostro modo di fare sindacato con il mio sindacato Usb non è ben accetto dall’azienda.

Il settore è un po’ in subbuglio. Molte aziende non sembrano avere intenzione di rinnovare il contratto di lavoro. Si stanno facendo due conti sul costo del lavoro. E’ un settore connotato da forte flessibilità e buste paga molto basse.
Bassi salari e part time a go go. Nonostante ci siano richieste di straordinario quasi costanti, i contratti sono al palo, così come si parte al momento del primo coinvolgimento con l’azienda.

Nella tua lettera parli esplicitamente di quanto tu tenga al tuo lavoro. Non è un elemento secondario, perché ci si domanda come può un’azienda bruciare tanta professionalità.
Il punto è semplice, le aziende non riconoscono più i mestieri. Sei sostituibile in qualsiasi momento. Con poca formazione l’azienda ti fa fare qualsiasi cosa. La verità è che la professionalità non si apprende con la sola formazione. Ci sono caratteristiche imprescindibili come il contatto con la clientela di cui non si tiene conto. Ci hanno detto che tutti possono imparare a far tutto. Ed è la scusa per non pagarti la professionalità e quindi il livello e l’inquadramento. Abbiamo aperto una vertenza e ne sono usciti bene solo i fornai.

Ma dietro non hai il sospetto che ci sia un tentativo di ristrutturazione?
Credo di sì, perché il punto vendita è cambiato tantissimo. Ed è quasi irriconoscibile. In particolare nel reparto freschissimi, quello dell’ipermercato.

C’è una parte bella dell’intervista, e riguarda la solidarietà dei colleghi e dei clienti.
Il nostro è un negozio di giornata. Ogni mattina, noi del reparto freschi, aspettiamo sempre le stesse facce. E questo ha creato anche legami e amicizie importanti tra noi addetti e i clienti. Oltre alla solidarietà bellissima dei colleghi, anche degli altri punti vendita della città, c’è stata quella dei clienti.

Quali sono le prossime scadenze di questa vicenda…
Sono in attesa della data definitiva della prima udienza che dovrebbe esserci a fine gennaio. Quando vieni messo fuori senza la tua volontà devi fare un attimo mente locale. Non c’è l’abitudine a star fermi e quindi aumenta la trepidazione dell’attesa. Il giudice si deve esprimere al più presto. Anche perché l’azienda non ha voluto interloquire nemmeno con l’avvocato. Il mio posto di lavoro lo rivoglio, per i miei bimbi e per me, per la stabilità economica. Quello di cui loro mi accusano non sussiste. Sono stata sempre disponibile. Ho dato sempre molto, tutto quello che potevo e anche di più sacrificando anche i miei tre bimbi. Sono sempre stata disponibile a trasferte e cambi. Sì delegata, ma delegata operaia. Sono dell’idea che se non lavori e non stai nel mucchio non puoi fare sindacato. Attendo l’udienza per girare pagina o per rientrare nel mio mondo, più fiera di prima. Queste ingiustizie, questi affronti sono botte forti, senza valutare i danni che portano per un eventuale nuovo impiego. Nel licenziamento per giusta causa, per esempio, ci sono di fatto “aggravanti” indesiderate che portano gli altri potenziali datori di lavoro ad inquadrarti quasi come un assassino o un ladro. E non parliamo del fatto che sei sindacalista. Dal giorno dopo che sono stata messa a casa ho iniziato a mandar curriculum e ogni volta si crea la stessa situazione di rifiuto strisciante.

Mi sembra abbastanza singolare che in una situazione di part time generalizzato e imposto un’azienda motivi il licenziamento in relazione ad un cosiddetto secondo lavoro. Ti pagano part time ma pretendono una reperibilità totale.
Siamo diventati un po’ troppo reperibili, diciamo.

Sinistra Italiana e Pd divisi alle Amministrative Fonte: affaritaliani.itAutore: Alberto Maggi

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“Non c’è più l’automatismo del Centrosinistra. E’ Renzi con le sue scelte politiche ad aver abbattuto il Centrosinistra a livello nazionale. Dopodiché, a livello locale, si deciderà caso per caso sulla base della qualità delle singole candidature e dei singoli progetti amministrativi. Quindi non c’è né l’automatismo dell’alleanza con il Pd – e fa tenerezza francamente oggi chi immagina che la sinistra debba appoggiare il Pd a prescindere dopo tutto ciò che Renzi ha fatto in questi mesi – ma non vi è neppure un automatismo per cui sulla base di posizioni romane si rompono le alleanze dappertutto”. Alfredo D’Attorre, uno dei fondatori di Sinistra Italiana, intervistato da Affaritaliani.it , fa il punto della situazione sui rapporti nel Centrosinistra in vista delle elezioni amministrative della primavera .

“In molte parti – spiega D’Attorre – le strade evidentemente si divideranno. Sarà così a Torino e a Bologna e, con ogni probabilità, anche a Roma e a Napoli. A Milano vediamo come si conclude la vicenda delle primarie e poi le forze della sinistra milanese valuteranno”.

Ci saranno nuovi ingressi in Sinistra Italiana dal Pd? “Credo proprio di sì e poi soprattutto continua la diaspora a livello parlamentare. C’è un punto di fondo: diventa sempre più chiaro che il referendum dell’autunno prossimo sarà, piaccia o no, un referendum a tutto su ciò che il governo Renzi ha realizzato in questi due anni. E lì bisognerà schierarsi in maniera chiara e netta. La possibilità di riaprire una prospettiva di Centrosinistra in Italia passa per una sconfitta del modello renziano”.

Renzi si dimetterà in caso di sconfitta al referendum? “E’ inevitabile che sia così avendo caricato tutto il peso del governo sulle riforme costituzionali ed elettorali. Il referendum del prossimo autunno è quindi l’appuntamento decisivo. La campagna referendaria sarà per noi di Sinistra Italiana anche la campagna fondativa del nuovo partito perché in quel referendum si misureranno con tutta evidenza due idee di democrazia e due idee di società. Tutti vedono che c’è un legame strettissimo tra la restrizione degli spazi di partecipazione democratica, che è insita nel modello renziano, e la riduzione dei diritti sociali e del lavoro. Il modello renziano esclude sul piano democratico perché vuole escludere anche sul piano sociale. Sarà un grande pronunciamento popolare e spero che anche le forze della sinistra Pd fino al referendum possano maturare una presa di distanza più netta dal renzismo. Una vittoria di Renzi sarà solo di Renzi ma una sconfitta di Renzi, che reputo lo scenario più probabile, rischia di essere anche la sconfitta definitiva di chi ha accompagnato Renzi in questo percorso”, conclude D’Attorre.

Pioggia di diserbanti su Gaza, Israele conferma «operazione di sicurezza» Fonte: Il ManifestoAutore: Michele Giorgio

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«È un disastro per centinaia di famiglie contadine e non conosciamo gli effetti che questi prodotti chimici potranno avere sulla popolazione di Gaza». Scuote la testa Khalil Shahin, vice direttore del Centro per i Diritti Umani, che sta indagando sull’irrorazione, con diserbanti e defolianti, fatta nei giorni scorsi da aerei agricoli israeliani di almeno 150 ettari di terreni coltivati nella fascia orientale di Gaza, adiacente alle linee di confine. «Non è la prima volta che accade, l’Esercito israeliano sostiene che distruggendo la vegetazione si impediscono i lanci di razzi e altri attacchi» ci spiega Shahin «ma negli anni passati questa irrorazione era limitata a pochi terreni vicini alle recinzioni di confine. Nei giorni scorsi gli aerei israeliani invece si sono spinti in profondità, per molte centinaia di metri. In alcuni casi i liquidi, spinti dal vento, sono arrivati fino a due km di distanza dal confine, quindi a ridosso dei centri abitati di Gaza».

Da parte israeliana si conferma l’uso di erbicidi e di inibitori di germinazione, allo scopo di «garantire lo svolgimento delle operazioni di sicurezza lungo il confine», ha spiegato un portavoce militare. Anche gli Stati Uniti, negli anni Sessanta, parlavano di «condizioni di sicurezza da garantire» quando spruzzavano ampie porzioni del Vietnam con il famigerato Agente Arancio, per rimuovere le foglie degli alberi e privare i Vietcong della copertura del manto vegetale. Il conto negli anni successivi lo hanno pagato tanti civili vietnamiti, soggetti agli effetti cancerogeni dell’Agente Arancio, senza dimenticare i neonati malformati. La comunità internazionale intervenne con una convenzione del 1978 che vieta o limita fortemente l’uso degli erbicidi durante i conflitti, alla luce alle conseguenze devastanti che hanno sulle persone. Israele non l’ha firmata.

Cosa significherà questa pioggia di diserbanti peruna porzione della popolazione di Gaza si saprà solo in futuro. Così come si stanno ancora studiando le possibili contaminazioni causate dai bombardamenti dal cielo e da terra compiuti da Israele nell’estate del 2014 — nella stessa fascia di territorio orientale di Gaza irrorata nei giorni scorsi — e quelle precedenti provocate delle offensive militari del 2012 e del 2008–9 (sono proprio questi i giorni dell’anniversario dell’Operazione “Piombo fuso”).

La conseguenza immediata è economica: centinaia di famiglie con i campi nelle zone di Qarara e Wadi al Salqa hanno visto distrutti in poche ore spinaci, piselli, prezzemolo e fagioli. Contadini che già devono fare i conti tutto l’anno con le restrizioni imposte da Israele all’ingresso nella cosiddetta “no-go zone”, la zona lungo il confine, larga fino a 300 metri (è la più fertile della Striscia), dove i palestinesi non possono entrare. Qui l’Esercito negli ultimi tre mesi ha ucciso almeno 16 persone e ferito altre 400 durante le manifestazioni innescate dall’Intifada di Gerusalemme.

Di cosa potranno ora vivere i contadini palestinesi rimasti senza raccolto non è un problema che interessa all’esercito israeliano. Senza dimenticare che raramente le produzioni agricole riescono ad uscire da Gaza. E quando accade, sempre con l’autorizzazione di Israele, la spedizione non va sempre a buon fine. Nei giorni scorsi alcune tonnellate di pomodori sono state rispedite al mittente dagli israeliani. Perchè, secondo le autorità militari, erano state aggiunte illegalmente a un carico di altri ortaggi. A Gaza però sono circolate altre voci. Pare che i pomodori contenessero alte concentrazioni di un pesticida, usato in modo improprio, quindi pericoloso per la salute. Il ministero dell’agricoltura palestinese però ha smentito, sostenendo che queste voci «fanno solo il gioco dell’occupante israeliano».

Intanto Ocha, l’ufficio di coordimento delle attività umanitarie dell’Onu, ha diffuso alcuni dati sull’anno che finisce oggi. Nel 2015, fino al 28 dicembre, sono stati uccisi almeno 170 palestinesi e 26 israeliani (ieri è morto un colono ferito a metà mese a Hebron), in attacchi e scontri nel territorio palestinese occupato e in Israele, avvenuti in maggioranza dopo il 1 ottobre, data con la quale si indica l’inizio dell’Intifada di Gerusalemme. Durante il 2015, le autorità israeliane hanno fatto demolire “per mancanza di permesso” 539 edifici palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Sono state ridotte in macerie, a scopo punitivo, altre 19 case appartenenti a palestinesi accusati di attacchi contro gli israeliani.

Alleanze criminali Fonte: Il ManifestoAutore: Tommaso Di Francesco

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La messa a morte del leader sciita al-Nimr è una bomba contro il processo in atto in Medio Oriente e le coalizioni ufficialmente in campo contro lo Stato islamico.

Ma devastante come se non peggio dell’abbattimento in Siria dell’aereo russo da parte della Turchia. L’esecuzione, avvenuta con altre 46 persone, deflagra però non solo nel lontano Medio Oriente, ma in Occidente e qui in Italia. Occidente ed Italia fin qui silenziosi sul massacro in corso nello Yemen da parte dei bombardamenti aerei sauditi, taciturno sulle pene capitali emesse dallo stato più boia al mondo in percentuale rispetto al numero degli abitanti, strabico di fronte ad una dittatura feroce che opprime opposizioni e diritti umani. Eppure l’ultimo leader occidentale arrivato a omaggiare il regime medioevale dei Saud è stato proprio un mese e mezzo fa il «nostro» Matteo Renzi.

Si capisce per il «made in Italy», per la metropolitana che le imprese italiane stanno costruendo e, manco a dirlo, per i più sostanziosi traffici in armi di Finmeccanica in tutti i Paesi del Golfo. La petromonarchia dei Saud manda un messaggio di sangue al mondo, alla coalizione anti-Isis di nuovo conio (la stessa che da apprendista stregone ha attivato le forze jihadiste in tutta l’area, dalla Libia, all’Iraq alla Siria) e insieme al mondo sciita nemico giurato.

Vale a dire all’Iran, all’organizzazione libanese Hezbollah, al governo di Baghdad che combattono armi alla mano sul campo le forze del Califfato. A noi manda a dire che non sarebbe vero che Riyhad aiuta il terrorismo jihadista anzi lo condanna a morte: ma come dimenticare che proprio il regime dei Saud lo ha organizzato per anni in chiave di destabilizzazione dell’intera area. Ma al-Nimr, decapitato ieri, è responsabile solo di avere guidato, sull’onda delle tanto care quanto dimenticate Primavere arabe del 2011, la protesta democratica della minoranza sciita in Arabia saudita, repressa come quella in Barhein con violenza dall’esercito saudita, armato e addestrato dall’Occidente.

Che accadrà ora sul fronte della guerra all’Isis in Siria e in Iraq? L’Ue, alle prese con la crisi dei migranti, e gli Usa hanno da tempo deciso di assegnare un ruolo risolutore della crisi a Turchia e Arabia saudita, i baluardi militari ed economici dei nostri interessi. Pur sapendo che sono gli stessi Paesi che con il nostro aiuto hanno attivato la distruzione della Siria per fare a Damasco quello che è riuscito a Tripoli. Questi due Paesi sono ormai considerati decisivi per la riuscita del conflitto.

Ma con la provocazione dell’esecuzione del leader sciita al-Nimr appare sempre più chiaro – come scriveva ieri Gian Paolo Calchi Novati — il fatto che, anche di fronte ad una sconfitta parziale di Daesh — visti i mille nuovi rigagnoli del l’integralismo jihadista internazionale sempre più forte, denuncia lo stesso Pentagono, in aree come l’Afghanistan che dovrebbero essere bonificate dopo quattordici anni di intervento della Nato — che non c’è alcuna «vittoria» all’orizzonte. La guerra nell’area è destinata ad allargarsi. E stavolta non più solo per procura.

Il governo italiano, impegnato sia a sostenere Israele cancellando la questione palestinese, sia sul fronte delle guerre appaltate dagli Usa in Afghanistan, a Mosul in Iraq e prossimamente in Libia, esprimerà due righe di «alto» sdegno. Non romperà certo i rapporti diplomatici con Riyadh come sarebbe giusto se è la pace che si vuole conquistare.

E tutto continuerà come e peggio di prima.

Acqua, la grande rapina sulle tariffe. Federconsumatori: “Situazione al limite della sostenibilità” Autore: redazione da: controlacrisi.org

Federconsumatori ha realizzato il monitoraggio, il 14esimo, in tutte le città capoluogo sulle tariffe e sugli standard di qualita’ forniti agli utenti. Si confermano grandi differenze da citta’ a citta’ nella spesa annua 2015 di una famiglia media di 3 persone per un consumo annuo pari a 150 mc, dove la spesa media nazionale si attesta a 276 euro annui, per un costo medio al mc di 1,84 euro.

Rispetto alla spesa registrata nel 2014 si registra un aumento medio del +6,4%, pari a 16 euro, a fronte di un’inflazione che non supera lo 0,1% nell’anno appena trascorso. Se allarghiamo il confronto al 2011, anno in cui la regolazione della tariffa e’ passata alla Aeegsi a seguito del dopo referendum contro la privatizzazione, la spesa annua tipo e’ passata dai 217 euro del 2011 agli attuali 276 euro con un aumento del 22% a fronte di una inflazione inferiore al 4,6% nel medesimo periodo.

Per quanto riguarda il 2016 si prevedono aumenti analoghi a seguito della delibera approvata il 29 dicembre scorso per il periodo di regolazione 2016-2019 sulle tariffe dell’acqua con il metodo tariffario idrico 2 che ricalca quello del precedente periodo 2014/15 oggetto di pronuncia a seguito dei diversi ricorsi compreso quello presentato proprio da Federconsumatori presso il Consiglio di Stato.

Una situazione al limite della sostenibilita’ per 7 milioni di cittadini in poverta’ assoluta ed altrettante si collocano poco sopra questa stessa soglia. Cio’ richiede con urgenza l’intervento del Governo per “definire i criteri per il nuovo bonus idrico” che secondo il Collegato ambientale approvato in via definitiva alla Camera il 22 dicembre scorso devono essere approvati entro 90 giorni e “garantire anche il quantitativo minimo vitale per utenti morosi “e che l’Aeegsi dovra’ darvi subito dopo applicazione dopo aver sentito le parti sociali”. Bonus idrico che deve essere nazionale affinche’ venga data copertura a “tutto il territorio nazionale di forme minime di sostegno per accedere al servizio idrico anche per quel 25% della popolazione che qualora si trovassero in condizioni di poverta’ oggi non puo’ accedervi perche’ privi di qualsiasi regolamentazione nel proprio territorio”.

Le citta’ invece piu’ care per la bolletta si trovano in prevalenza in Toscana: Pisa 442 euro, Siena 436, Grosseto 436, Frosinone 432, Enna 419, Pesaro e Urbino 418, Firenze 402, Carrara 396, Arezzo 392, Cesena 388, Ferrara 374, Forli’ 366. Le citta’ meno care sono Milano 106 euro, Campobasso 120, Catania 137, Imperia 140, Caserta 144, Varese 153, Como 158, Udine 165, Savona e Monza 168, Rieti 169. Le macroaree con la bolletta piu’ elevate sono il Centro Italia, seguita dal Nordest, e poi il Sud e Isole e il Nordovest.

Infine un’ultima considerazione molto importante: in questi ultimi due anni, scrive Federconsumatori, “stiamo registrando una ripresa degli investimenti importanti per ridurre le perdite e rendere piu’ efficiente il servizio idrico ma guarda caso con risorse ricavate dagli aumenti in bollette in particolare dalle utenze domestiche dove contribuiscono per i 2/3 nella quota investimenti. Una situazione inaccettabile che bisogna invertire radicalmente, il governo, le regioni, i comuni devono creare un piano poliennale di investimenti pubblici ad hoc utilizzando al meglio le risorse dei fondi europei spesso nel sud inutilizzati ed mettendo risorse recuperate nuove dalla battaglia sulla evasione fiscale o dai risparmi dal bilancio dello Stato”.