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ANPI CATANIA vi invita a partecipare alla Giornata della Memoria Catania ore 17.00 presso la Sala Conferenze Scienze Politiche via Gravinana n. 12
Mario Calabresi: “Dove c’è intolleranza c’è fascismo” da: patriaindipendente.it
Parla il nuovo direttore di “Repubblica”. Tonino Milite e la bandiera della pace. Quell’incontro mancato con Enrico Berlinguer. Rimettere al centro i diritti umani. L’importanza dell’innovazione digitale per i periodici

Mario Calabresi, giornalista e scrittore, figlio del commissario Luigi Calabresi, assassinato nel 1972, è stato alla guida della Stampa dal 2009. Da oggi, 15 gennaio 2016, è il nuovo direttore del quotidiano la Repubblica. Tra i suoi libri ricordiamo Spingendo la notte più in là, dedicato alle vittime del terrorismo. Il titolo è tratto dal verso di una poesia di Tonino Milite, poeta e pittore, nuovo compagno di Gemma Capra Calabresi, scomparso lo scorso dicembre 2015.
Mario Calabresi, il concetto di pace è per lei quasi una memoria di famiglia…
La mia prima volta a una manifestazione fu per la pace. Mi ci portò Tonino Milite. Era apparso nella mia vita poco prima che iniziassi ad andare a scuola. Avevo perso mio padre a due anni e mezzo. E fu Tonino ad accompagnarmi il primo giorno di scuola. Era pittore e maestro elementare, e mia madre, anche lei insegnante, lo aveva conosciuto proprio a scuola. Era un convinto pacifista e nel periodo delle tensioni per gli euromissili andammo a una manifestazione in centro a Milano, a Porta Castello. Rimasi impressionato dall’enorme moltitudine di persone in piazza. C’erano anche tantissime bandiere di partiti e sindacati e non sapevamo dove metterci: “Se non sei di un partito e vuoi manifestare per la pace, per un valore universale – mi disse – devi sfilare per forza sotto una di queste bandiere”. Facemmo tutto il percorso al fianco del corteo e, tornati a casa, cominciò a dire che bisognava fare una bandiera diversa da tutte le altre.

E la realizzò?
Pensò all’arcobaleno, composto di tutti i colori, poi scoprì che già altri avevano accostato l’iride a un segno di pace. Allora brevettò una bandiera con il lato esterno diagonale, non rettangolare. Una forma diversa per dire che il vessillo della pace non era come quello di un partito o di uno Stato. Non doveva essere un simbolo divisivo, distintivo, che rappresentasse cioè solo una parte di persone, ma l’espressione di una volontà universale. In seguito partecipammo a una manifestazione dove c’era Enrico Berlinguer e Tonino avrebbe voluto sollevarmi oltre le transenne per andare a porgere la bandiera arcobaleno al Segretario. Però io mi vergognavo e non ci sono voluto andare. Ancora oggi me ne pento perché credo sarebbe stata un’occasione interessante: io, bambino, che consegno la bandiera a questa persona simbolo della sinistra italiana. Tonino Milite me lo ricordava sempre: “Mannaggia, non hai avuto il coraggio di andare da Berlinguer!”.
Dopo cosa accadde?
Dal prototipo della bandiera Tonino tirò i primi mille esemplari. La Federazione milanese del Pci ne prese alcune ed ebbero un certo successo. Il Pci milanese decise di riprodurle e purtroppo, secondo me, in una maniera un po’ miope: se le stampò in proprio, senza coinvolgere Tonino. Non c’era nulla da guadagnare, per carità. Ma tant’è: con gli stessi colori, si tornò al formato tradizionale e fu aggiunta la scritta “PACE”. Ricordo che lui contestò la nuova versione, sia perché la parola dall’altra parte si leggeva al contrario, sia perché scrivendola in italiano si ri-nazionalizzava il concetto: “L’arcobaleno è di tutti, in questo modo diventa nuovamente solo di un popolo”. Era proprio dispiaciuto che si fosse tornati a ragionare nella logica di una sola lingua, di un solo Paese.
Quella bandiera della pace era stata ideata un po’ proprio per lei…
Nacque perché Tonino voleva dare a un figlio la possibilità di sfilare per la pace senza andare sotto le bandiere di partito. E per il senso che gli aveva dato sarebbe stata bene alle manifestazioni dopo le stragi di Charlie Hebdo e del Bataclan. Lo spirito era esattamente quello del superamento delle contrapposizioni e delle divisioni: nazionali, etniche, religiose. Per affermare che la pace è un diritto.
In questo momento, per timore del terrorismo Isis, viviamo continuamente sotto scorta dell’esercito. Saremo “blindati” per sempre?
Da una parte va compresa la paura delle persone e occorre dare risposte in termini di sicurezza, dall’altra però bisogna abituare le persone al dialogo. L’unico modo per sconfiggere la paura, il terrorismo e soprattutto le culture che lo generano è continuare a vivere. Altrimenti ci arrendiamo. I sondaggi di questi giorni devono far riflettere: molte persone dicono di rinunciare a uscire la sera per la paura. È un segnale devastante.
Dopo le ultime grandi manifestazioni globali del 2003, oggi è possibile un nuovo movimento internazionale per la pace?
Allora c’era la sensazione di una guerra non giustificata e pretestuosa. Questo aveva mobilitato le coscienze. Oggi la società occidentale è impaurita dal terrorismo. Quello che si nota oggi – e lo scriverò nel mio primo editoriale su Repubblica – è una stanchezza nei confronti della pace e della difesa dei diritti umani. Questi temi vanno assolutamente rimessi al centro del dibattito delle idee. Per esempio, l’Arabia Saudita mette a morte quarantasette persone perché hanno manifestato pacificamente per la libertà di espressione. In Occidente c’è qualche timida protesta, punto. Un avvocato cinese molto noto viene condannato a tre anni di carcere, togliendogli per sempre il diritto a esercitare la professione, solo perché ha pubblicato quattro tweet per chiedere libertà di pensiero e democrazia. In Europa e in Occidente abbiamo percorso un cammino secolare in fatto di diritti umani e rischiamo di cancellarlo per la crisi economica: pur di strappare un contratto in più, passiamo sopra a tutto e annientiamo le conquiste della nostra cultura.

Quali sono i suoi progetti per la Repubblica?
Sento molto la responsabilità e il peso di questo incarico, dopo due direttori che hanno guidato il giornale per vent’anni ciascuno. Innanzitutto c’è bisogno di comprendere i nuovi modi con cui le persone si informano. Oggi la maggioranza dei lettori di Repubblica non legge il quotidiano sulla carta bensì sul telefonino. In Italia troppo a lungo si è pensato che non fosse serio trasferire dalla carta i temi più impegnativi e che invece potessero viaggiare on line le notizie più semplici, più veloci e leggere, per così dire, come l’intrattenimento informativo. Penso invece che il digitale, primo o unico strumento per moltissime persone, debba essere un luogo dove c’è anche qualità, approfondimento, valore. Quindi serve anche una maggiore distinzione tra digitale e carta.
Cambiando il modo di raggiungere i lettori, cambieranno i contenuti?
Ritengo che l’opinione pubblica sia stanca di vedere i fatti interpretati semplicemente sulla base delle coordinate destra-sinistra o governo-opposizione. Ci si schiera molto di più su temi quali innovazione-conservazione e, soprattutto, sui diritti. Un esempio sono le unioni civili e i matrimoni gay. In Italia stiamo ancora discutendo sulle coppie di fatto. In Irlanda, addirittura nella cattolicissima Irlanda, facendo riferimento agli schemi tradizionali si sarebbe potuto pensare che fosse impossibile approvare i matrimoni gay. Invece è successo. La divisione tra favorevoli e contrari non rispecchia – almeno, non del tutto – gli schieramenti tradizionali ma attraversa la società in modi diversi e nuovi che sul giornale vorremmo esplorare.
La società italiana si è molto trasformata, ci sono altri diritti da riconoscere con urgenza?
L’elenco stesso dei diritti va aggiornato. È un tema che ho molto a cuore. Ed esistono diritti antichi e già tutelati, come per esempio il diritto al lavoro, che vanno nuovamente definiti: oggi intere aree di popolazione ne vengono progressivamente escluse, dai giovani ai precari, dalle donne agli inattivi e sfiduciati. E poi ci sono nuovi diritti da tutelare, quali il diritto alla salute e anche ai servizi, come la mobilità. Le persone sono ancora interessate al dibattito tra i partiti – vedi Alfano che litiga con Renzi – ma lo sono molto di più sui temi che incrociano le loro vite: la scuola, il lavoro, l’assistenza sanitaria, i trasporti. Penso che oggi sia questa la sfida, anche del giornalismo.
C’è ancora un senso nel parlare di fascismo e antifascismo?
Certo, se li si interpreta come tolleranza e intolleranza. Il fascismo esiste ancora dove risorgono forme di intolleranza contro il diverso, contro il pensiero degli altri, contro il dibattito e il confronto, contro le espressioni e le parole di dissenso. Spesso si tratta di forme estreme di populismo e in Europa ne esistono molti casi. L’antifascismo per me, oggi, è soprattutto opporsi all’intolleranza.
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L’antifascismo è vivo se non è autoreferenziale Fonte: Il ManifestoAutore: Saverio Ferrari
Si terrà a Rimini dal 12 al 15 maggio il 16° congresso nazionale dell’Anpi, l’Associazione nazionale dei partigiani d’Italia. Per la discussione, che nelle sezioni si inizia in questo mese, è stato approntato un corposo documento, più di quaranta pagine, che spazia dal quadro mondiale alla politica italiana, per incentrarsi sui «compiti» futuri dell’associazione. Un documento con ogni evidenza scritto a più mani, con non poche sovrapposizioni e qualche contraddizione tra le diverse parti, per un congresso definito di «continuità» e non di «svolta».
Nell’analisi del contesto internazionale dominante è la preoccupazione per «l’esplosione dei peggiori fondamentalismi» da connettersi alla «profonda crisi mondiale» come crisi anche di civiltà, con il restringimento degli spazi di «democrazia», a Est e a Ovest, con l’avanzare di governi di destra nel cuore dell’Europa (si pensi all’Ungheria e alla Polonia), il ripresentarsi sulla scena di movimenti neonazisti (rilevante il caso ucraino), lo scatenarsi di ondate razziste e xenofobe a fronte dei giganteschi fenomeni migratori alimentati dalle guerre in Africa e nel Medio Oriente. Un quadro condivisibile nelle sue linee generali pur nell’omissione della centralità della vicenda palestinese, colpevolmente ignorata.
La realtà politica italiana è invece affrontata evidenziando in primis la decisa opposizione dell’Anpi alle riforme costituzionali e alla nuova legge elettorale che rischiano di svuotare il Parlamento e consegnare il Paese a un «padrone». Il timore di una deriva verso il non-voto e la non-partecipazione sono sottolineati con forza, così la «degenerazione della politica» e la sua connessione con la «delinquenza organizzata», che fanno della «questione morale una tra le più fondamentali». Il tutto come una breve introduzione (non più di otto pagine) al documento vero e proprio.
Pur nel massimo rispetto dell’Anpi, della sua storia, con la speranza di una discussione utile e feconda che travalichi l’associazione stessa, data la sua autorevolezza morale e rilevanza nel campo dell’antifascismo, senza supponenze di sorta da parte dei suoi gruppi dirigenti, come accaduto in altre occasioni indisponibili se non sordi a un confronto vero, ci permettiamo di avanzare alcuni rilievi di fondo al testo proposto, a partire dall’autoreferenzialità. L’Anpi che esce da questo documento sembrerebbe concepire se stessa come unica e assoluta detentrice del monopolio dell’antifascismo. Come se non vi fosse altro, quando lo svilupparsi di realtà e movimenti, soprattutto giovanili, impegnati su questo terreno, è andato crescendo in tutto il Paese, da Nord a Sud, impattando spesso con la stessa associazione dei partigiani, non di rado sollecitandola o costringendola all’azione. Pensare di ignorarlo o continuare a farlo, rappresenterebbe un grave errore, come demonizzare (pagina 32 del documento) le «cattive compagnie da evitare», chiaramente riferito ai giovani antifascisti di questi movimenti. Un atto di chiusura miope. Quest’area antifascista cresciuta fuori dall’Anpi, ricca di potenzialità, articolatasi in collettivi e comitati, già bollata a vario titolo come «antagonista» (definizione che accomuna ormai chiunque sia al di fuori del Pd), non solo è un dato di fatto, ma anche la reazione positiva a profondi mutamenti intervenuti, dalla crisi dei partiti della sinistra (in alcuni casi al suo mutamento genetico) alla riduzione dell’antifascismo a pura retorica celebrativa (che è cosa ben diversa dal coltivare la memoria), alla presa d’atto dell’inefficacia del contrasto ai nuovi fenomeni razzisti e neofascisti, rivolgendosi unicamente alle istituzioni. L’Anpi in questo quadro non ha, per altro, ancora colto la trasformazione in atto nella natura stessa delle istituzioni repubblicane, sempre meno corrispondenti alla Costituzione antifascista e impegnate nel garantire il rispetto di leggi ordinarie, quali la legge Scelba e la legge Mancino, deputate al perseguimento delle organizzazioni e dei comportamenti di stampo fascista, come dell’incitamento all’odio razziale, etnico e religioso. Un mutamento che non viene percepito nella sua valenza epocale.
Nel documento congressuale si scrive della necessità che «lo Stato diventi realmente antifascista». Senza nulla argomentare riguardo questa affermazione, né offrire una chiave di lettura sul piano storico, ma soprattutto indicare il modo per perseguire questo obiettivo. Emerge una visione del rapporto fra istituzioni e antifascismo per così dire statica, priva di una dialettica conflittuale, come se nulla fosse accaduto in questi settant’anni. Come se non ci fossero mai stati movimenti che avessero costretto le istituzioni a essere più antifasciste. L’Anpi, per altro, ne è stata protagonista assoluta. Pensiamo al luglio Sessanta e agli anni della strategia della tensione, con la mobilitazione popolare in grado di far cadere governi o sventare progetti eversivi, fino a costringere (tra il 1973 il 1976) le istituzioni a sciogliere le formazioni nazifasciste più compromesse come Ordine nuovo e Avanguardia nazionale. Ora siamo a un ripiegamento sostanziale con istituzioni sempre meno antifasciste. Questo, il punto.
A maggior ragione bisognerebbe ragionare attorno al movimento che si vorrebbe mettere in campo. Il concepire, da questo punto di vista, se stessi come un’istituzione fra le istituzioni e non come uno strumento per dar vita a un articolato movimento, rappresenta un limite non da poco. L’orizzonte dei rapporti, indicato nel documento (pagina 32), ristretto alla sola Arci, Cgil, Auser (l’Associazione per l’invecchiamento attivo) e Miur (il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca), dice di questa impostazione che rischia davvero di fare dell’Anpi una realtà che, al di là della propria storia e dei propri numeri (120mila iscritti e tremila sezioni), si riduca a custode del solo passato incapace di crescere come strumento efficace nel presente. Proprio come piacerebbe al Pd.
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Noi, gli accademici e le accademiche e gli scienziati e le scienziate di questo paese non saremo parte di questo crimine! da: UIKI Onlus & Rete Kurdistan
Il testo che segue è un appello firmato da 112 accademici e accademiche in Turchia. Si stanno chiedendo firme e sostegni a tutto il mondo intellettuale occidentale perché è un appello che chiede, pace, diritti e democrazia. Aver firmato questo testo ha già esposto alla repressione del governo Erdogan, numerose persone colpevoli solo di non volere più vivere in uno stato di guerra.
Lo Stato turco, a Sur, Silvan, Nusaybin, Cizre e in molte altre località, attraverso coprifuoco della durata di settimane, condanna i suoi cittadini e le sue cittadine a morire di fame e di sete. In condizioni di guerra, interi quartieri e città vengono attaccati con armi pesanti. Il diritto alla vita, all’incolumità fisica, alla libertà, all’essere al sicuro dagli abusi, in particolare il divieto di tortura e maltrattamenti, praticamente tutte le libertà civili che sono garantite dalla Costituzione turca e dalle Convenzioni Internazionali vengono violate e abrogate.
Questo modo di procedere violento messo in pratica in modo mirato e sistematico, manca di qualsiasi fondamento giuridico. Non è solo una grave ingerenza nell’ordinamento giuridico, ma lede le normative internazionali come il Diritto Internazionale, che sono vincolanti per la Turchia.
Chiediamo allo Stato di mettere immediatamente fine a questa politica di annientamento e espulsione nei confronti dell’intera popolazione della regione, che tuttavia è rivolta essenzialmente contro la popolazione curda. Tutti i coprifuoco devono essere immediatamente revocati. Gli autori e i responsabili di violazioni di diritti umani debbono renderne conto. I danni materiali e immateriali lamentati dalla popolazione vanno documentati e risarciti. A questo scopo chiediamo che osservatori indipendenti nazionali e internazionali abbiano libero accesso alle zone distrutte per poter valutare e documentare la situazione sul posto.
Invitiamo il governo a creare le condizioni per una soluzione pacifica del conflitto. A questo scopo il governo deve presentare una roadmap che renda possibile un negoziato e che tenga conto delle richieste e della rappresentanza politica del movimento curdo. Per coinvolgere l’opinione pubblica in questo processo, al negoziato debbono essere ammessi osservatori indipendenti provenienti dalla popolazione. Con questo manifestiamo la nostra disponibilità a prendere parte di nostra libera volontà al processo di pace. Ci opponiamo a tutte le misure repressive mirate all’oppressione dell’opposizione sociale.
Chiediamo l’immediata cessazione della repressione dello Stato contro le cittadine e i cittadini. Come accademici e accademiche e scienziati e scienziate, così manifestiamo che non saremo parte di questi crimini e prenderemo iniziativa nei partiti politici, in parlamento e nei confronti dell’opinione pubblica internazionale, fino a quando le nostre richieste troveranno ascolto.
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Turchia, l’appello degli accademici: “Basta repressione!” Autore: redazione da: controlacrisi.org

Gli accademici e le accademiche che hanno firmato questo appello, il giorno stesso sono stati minacciati da Presindente Recep T. Erdogan e addirittura sono stati aperti procedimenti contro i loro e alcuni sono stati sollevati dal loro incarico e arrestati.
“Noi, gli accademici e le accademiche e gli scienziati e le scienziate di questo paese non saremo parte di questo crimine!Lo Stato turco, a Sur, Silvan, Nusaybin, Cizre e in molte altre località, attraverso coprifuoco della durata di settimane, condanna i suoi cittadini e le sue cittadine a morire di fame e di sete. In condizioni di guerra, interi quartieri e città vengono attaccati con armi pesanti. Il diritto alla vita, all’incolumità fisica, alla libertà, all’essere al sicuro dagli abusi, in particolare il divieto di tortura e maltrattamenti, praticamente tutte le libertà civili che sono garantite dalla Costituzione turca e dalle Convenzioni Internazionali vengono violate e abrogate.
Questo modo di procedere violento messo in pratica in modo mirato e sistematico, manca di qualsiasi fondamento giuridico. Non è solo una grave ingerenza nell’ordinamento giuridico, ma lede le normative internazionali come il Diritto Internazionale, che sono vincolanti per la Turchia.
Chiediamo allo Stato di mettere immediatamente fine a questa politica di annientamento e espulsione nei confronti dell’intera popolazione della regione, che tuttavia è rivolta essenzialmente contro la popolazione curda. Tutti i coprifuoco devono essere immediatamente revocati. Gli autori e i responsabili di violazioni di diritti umani debbono renderne conto. I danni materiali e immateriali lamentati dalla popolazione vanno documentati e risarciti. A questo scopo chiediamo che osservatori indipendenti nazionali e internazionali abbiano libero accesso alle zone distrutte per poter valutare e documentare la situazione sul posto.
Invitiamo il governo a creare le condizioni per una soluzione pacifica del conflitto. A questo scopo il governo deve presentare una roadmap che renda possibile un negoziato e che tenga conto delle richieste e della rappresentanza politica del movimento curdo. Per coinvolgere l’opinione pubblica in questo processo, al negoziato debbono essere ammessi osservatori indipendenti provenienti dalla popolazione. Con questo manifestiamo la nostra disponibilità a prendere parte di nostra libera volontà al processo di pace. Ci opponiamo a tutte le misure repressive mirate all’oppressione dell’opposizione sociale.
Chiediamo l’immediata cessazione della repressione dello Stato contro le cittadine e i cittadini. Come accademici e accademiche e scienziati e scienziate, così manifestiamo che non saremo parte di questi crimini e prenderemo iniziativa nei partiti politici, in parlamento e nei confronti dell’opinione pubblica internazionale, fino a quando le nostre richieste troveranno ascolto”.
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Renzi casinista, la patata bollente del deposito dei rifiuti nucleari. Girotto (M5S): “Europa pronta alle sanzioni” Autore: fabio sebastiani da: controlacrisi.org

sanzioni per la mancata applicazione della direttiva Euratom che chiedeva al Governo italiano di redigere un programma nazionale
per la gestione dei rifiuti radioattivi entro il 31 dicembre 2014. Il programma avrebbe dovuto contenere un piano con soluzioni e scadenze temporali chiare per la gestione dell’eredita’ nucleare italiana ma l’inadempienza di una politica incapace e distratta su una questione cosi’ cruciale per la sicurezza e la salute dei cittadini, rischia di costarci cara anche dal punto di vista economico.
Non è una inadempienza per superficialità ma perché Renzi una soluzione non ce l’ha. E la questione del deposito dei rifiuti nucleari rischia di essere l’ennesimo dossier che complica l’orizzonte politico del “rottamatore”.
In questa intervista il senatore di M5S Gianni Girotto spiega che cosa sta accadendo. Tra le altre cose, la vicenda dell’energia atomica non è così piana come sembra, visto che dopo Cop 21 sono ripresi i rumors di un ritorno a questa modalità di produzione dell’elettricità.
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