Matteo Renzi in difficoltà, il grande comunicatore perde smalto e pezzi da: l’espresso

Il premier interviene alle Camere ma non ritrova la verve di un tempo. Con le trincee in Europa, le barricate per la scuola, l’assedio sui territori, Civati e Fassina che salutano il partito qualcosa si è rotto. E le paure dei renziani prendono forma

di Marco Damilano

24 giugno 2015

Matteo Renzi in difficoltà, il grande comunicatore perde smalto e pezzi

C’era una qualche curiosità alla vigilia: che Renzi sarebbe stato quello chiamato a parlare per la prima volta davanti alle Camere dopo la sconfitta delle elezioni amministrative? Renzi Uno il Rottamatore o Renzi Due l’Istituzionale, secondo le stesse auto-definizioni del premier? La domanda circola già alle nove del mattino a Palazzo Madama, quando l’inquilino di Palazzo Chigi si prepara a intervenire per esporre la linea del governo italiano al Consiglio europeo dei prossimi giorni. Occasione solenne: un anno fa Renzi si era presentato fresco di trionfo alle urne, era il signor Quaranta per cento, aveva segnato il cambio di linea, via i cento giorni e il cronoprogramma dei primi tre mesi di governo, l’annuncio dei mille giorni e dell’Italia da cambiare passo dopo passo.

In aula ci sono Giorgio Napolitano e Mario Monti. Ai banchi del governo Maria Elena Boschi saluta tutti, Angelino Alfano arriva in ritardo e fa alzare la ministra Stefania Giannini dal posto accanto al premier. Paolo Gentiloni ingobbito. Renzi comincia, al solito, premendo sull’acceleratore, parla a braccio con un occhio sugli appunti con i post-it gialli, rossi e verdi: la Grecia sta messa peggio di noi italiani, per la prima volta l’Italia non è sul banco degli imputati o tra gli studenti che devono fare i compiti (cosa che gli costerà una velenosa correzione di Monti: “la procedura di infrazione fu chiusa nel 2013”, durante il governo tecnico), le riforme strutturali sono il nostro fondo salva-Stati, la nostra vera clausola di salvaguardia…

Giulio Tremonti lo ascolta in piedi, come tormentato da un rovello. La senatrice grillina Paola Taverna va su e giù per i banchi, inquieta, L’ex Forza Italia Manuela Repetti è già traslocata nel gruppo misto, dalle parti del Pd. Il Senato è già lo specchio di una situazione politica mutata. Sabbie mobili che avanzano. Effetti speciali che non incantano più. E quando arriva a parlare dell’immigrazione Renzi mostra tutte le sue difficoltà a fronteggiare sul piano comunicativo l’ondata della Lega di Matteo Salvini: “Non mi spaventano i toni demagogici”, avverte, “una classe dirigente deve saper trovare le parole giuste per trasmettere al Paese la giusta via tra la paura e il cedimento strutturale al buonismo”. Renzi ne pronuncia una, rivolto a sinistra: rimpatrio. Ma la giusta via il grande comunicatore di Palazzo Chigi non la trova neppure oggi. Spariscono dalle dichiarazioni della vigilia le quote obbligatorie di accoglienza dei profughi nei vari paesi europei, la necessità di rivedere il trattato di Dublino che obbliga i richiedenti asilo a restare nel paese di prima accoglienza (“non c’è oggi il consenso in Europa per cambiarlo e non ci sarà domani”, ammette Renzi), anche la guerra agli scafisti sparisce dall’agenda.

Nel pomeriggio alla Camera, se possibile, il dibattito è ancora più grigio. Dai banchi della maggioranza e del Pd arrivano quattro flebili applausi in mezz’ora. Renzi prova ad accelerare. Contro l’Europa e la sua inconcludenza, il premier si dice euro-deluso: “Il quartetto dei presidenti della Ue non brilla per ambizione. Sta facendo manutenzione dell’esistente. Non vola alto”. La premessa, forse, per rovesciare il tavolo in caso di conflitto con gli altri governi. E contro i talk show, i sondaggi, “le forme banali di un tweet”, i media che diffondono la paura dell’immigrazione, i muri che si rialzano mentre nell’89 i muri erano caduti… E intanto nuovi, invisibili muri si alzano in Parlamento: tra la maggioranza e le opposizioni, Forza Italia, Movimento 5 Stelle, Lega, all’interno del Pd, perché tra un discorso di Renzi e l’altro, all’ora di pranzo, anche Stefano Fassina ha annunciato l’addio. E le paure dei renziani prendono forma dentro e fuori l’aula di Montecitorio.

Fuori, in Transatlantico, il testo più citato tra i deputati del Pd è l’articolo del professor Roberto D’Alimonte di ieri sul “Sole 24 Ore” in cui il politologo ipotizza di rivedere la legge elettorale Italicum appena approvata, nel punto che vieta la possibilità per i partiti di fare alleanze tra il primo e il secondo turno: “Improvvisamente molti si sono accorti che il Movimento 5 Stelle potrebbe andare al ballottaggio e addirittura vincere”. Dentro l’aula in quel momento sta parlando il deputato di M5S Alessandro Di Battista. Un discorso ben scritto e ben interpretato, il possibile candidato sindaco per il dopo-Marino infila il suo miglior intervento della legislatura e definisce il Movimento “alternativa di governo”. E per la prima volta non suona come un artificio retorico.

Alla fine di una giornata cominciata alle nove del mattino a Palazzo Madama e terminata nel pomeriggio nell’aula di Montecitorio l’immagine del premier in partenza per il Consiglio europeo rispecchia le difficoltà di questo momento. In trincea in Europa, sul fronte immigrazione. Sulle barricate al Senato dove le votazioni sulla buona scuola fotografano una maggioranza che regge ma fa catenaccio. Con un Pd che perde i pezzi, ieri Civati, oggi Fassina, domani chissà. E assediato sui territori, dalla Campania di Vincenzo De Luca alla Roma di Ignazio Marino. Così, alla fine di una giornata trascorsa nel limaccioso terreno di gioco dei “signori del Parlamento”, come li chiama il premier, la domanda iniziale resta senza risposta. Oggi non c’è Renzi Uno e neppure Renzi Due, forse un Renzi Tre. Evasivo. Nebuloso. Sospeso. Disperso in un cloud.

Fassina, Civati, e gli altri: il 4 luglio assemblea al Palladium. In arrivo anche Mineo? Autore: fabrizio salvatori da: controlacrisi.org

Il 4 luglio, al teatro Palladium (a Garbatella, Roma) Stefano Fassina insieme a Monica Gregori, a Pippo Civati, Sergio Cofferati, Luca Pastorino e accanto a uomini e donne che hanno lasaciato il Partito democratico, che sono stati fondatori, iscrirtti, militanti, dirigenti del partito e che ora si sentono abbandonati, si ritroveranno per avviare un percorso politico autonomo. Stefano Fassina, che oggi ha tenuto la sua conferenza stampa di addio al Pd alla Camera, parla dell’importanza dei “territori” e di un percorso politico “plurale, che possa raccogliere quelle tante energie che in questi mesi sono andate all’astensionismo, sono rimaste a casa, si sono demotivate”. “Vorremo provare a ricoinvolgerle per una sinistra che sia sinistra di governo ma con un’agenda alternativa”, aggiunge. Questo, fuori dalle formule, vuol dire che in questa legislatura il suo voto non andrà immediatamente a pesare nelle file dell’opposizione. Intanto, all’orizzonte si preannunciano altre fuoriuscite. Oggi, Corradino Mineo, parlamentare del Pd, ha dichiarato che non voterà la fiducia sulla scuola. “E se ci sara’ possibilita’ di fare politica fuori dal gruppo parlamentare del Pd – ha aggiunto – me ne andrò anche dal gruppo”. Per Mineo, non sono posizioni isolate. “Molti pensano la stessa cosa – aggiunge – solo che non hanno il coraggio che ha Fassina di dire certe cose con quella franchezza”.Per Fassina il Pd si è riposizionato “in termini di cultura politica, di programma, di interessi che intende rappresentare. Il Pd è sempre più attento ai Marchionne, agli uomini della finanza internazionale che oramai dilagano in tutte le amministrazioni pubbliche di carattere economico, un Pd che in Europa continua a essere subalterno a una politica economica fallimentare e che mette in difficoltà gli interessi dell’Italia”.

“Le dichiarazioni di Renzi sulla Grecia – ha proseguito Fassina -confermano la subalternità dell’Italia a un ordine imposto dalla Germania e dagli organismi dell’eurozona che è sempre più pericolosa per la tenuta economica, sociale e monetaria dell’Unione. Lasciamo il Pd ma vogliamo continuare e rafforzare l’impegno per dare una rappresentanza politica al mondo del lavoro, della scuola, della piccola impresa che non hanno una rappresentanza politica adeguata”. Sul futuro della sinistra “fuori dal Pd” siamo ad una fase cruciale. Pochi giorni fa l’asse l’assemblea di Possibile, il gruppo fondato da Pippo Civati. Decisive saranno le prossime settimane, a cominciare dall’assemblea nazionale di Sel dell’11 luglio. Anche se sono stati diversi i vendoliani presenti all’assemblea del 21 giugno, affiancati da fuorisciti dal M5S (inclusi Tancredi Turco e Marco Baldassarre di Alternativa Libera), dal segretario del Prc Paolo Ferrero e dai civatiani che, dalla Liguria alla Sicilia, nei mesi scorsi hanno detto addio al Pd, a partire da Luca Pastorino.

Matteo Renzi è una lepre di pezza, il PD è un cane morto da: antimafia duemila

renzi-pd-eff-lodatodi Saverio Lodato – 13 maggio 2015
Per un Pippo Civati che se ne va, a migliaia ne arrivano di nuovi.
Se Stefano Fassina se ne va, il problema è suo, mica del partito.
Nel mondo la “sinistra riformista” vince, a Londra e in Liguria perde la “sinistra masochista”.
Il sindacato sciopera per la scuola? Il sindacato teme di perdere potere.
La Consulta boccia il blocco delle pensioni? La Consulta non dice che c’è l’obbligo di restituire tutto.
Candidati campani in odor di Gomorra? Alcuni candidati mi imbarazzano, ma il Pd è pulito.
Maurizio Landini segretario della Fiom? Landini è un soprammobile da talk show.
L’abolizione dell‘articolo 18? L’abolizione dell’articolo 18 è “di sinistra”, di “sinistra riformista”.
Lo stato della giustizia in Italia? I giudici hanno ferie troppo lunghe.
Il popolo ha fame, come si sarebbe detto una volta? Che si mangiassero l’Italicum, in assenza delle brioches di Maria Antonietta…
Fermiamoci. Può bastare. Che è Matteo Renzi, ancor prima che: chi è?

Che è? Che interessi rappresenta e difende? Che scuola di partito l’ha mai programmato? A chi appartiene? Dove intende andare a parare? Chi sono quelli del coretto che si è messo al fianco? E’ forse la sintesi e la personificazione vivente di “mondi di sotto”, “di sopra” e “di mezzo”? Fa solo di testa sua? Risponde a qualcuno? Fa in tempo a pensare prima di parlare? Come può venirgli in mente di cambiare l’Inno di Mameli per inaugurare l’Expo?
Si esprime macinando battute. Non pronuncia mai una frase dal senso compiuto. Non risponde mai alle poche domande di pochi giornalisti audaci al punto da apparire eroici. Alterna metafore calcistiche, parole d’ordine vagamente marziali e stentoree, titoli di film, nomi di personaggi di fiction televisive, previsioni meteo che volgono inevitabilmente al bel tempo, schizzatine di veleno per l’avversario di turno, prevalentemente se proviene dal mondo del centro sinistra, silenzi eloquenti quando è chiamato a dire la sua sulle situazioni imbarazzanti e scandalose del suo governo o che riguardano uomini del centro destra.
Ha annunciato che cambierà il PD. Troppo tardi: il PD è bello che defunto e seppellito. Ha annunciato che cambierà il nome al PD. Questa poi: non si è mai visto il padrone di un cane cambiare il nome al cane morto. Annuncia che la sinistra sta vincendo, ha vinto e vincerà. L’Italia sta cambiando, è cambiata e cambierà.
Forza Italia è ridotta al 4 per cento? La “sinistra masochista” rischia di rianimare Forza Italia.
La Lega sta triplicando i suoi voti? E chissenefrega: su questo Renzi preferisce tacere.
In Italia, si voterà, forse all’inizio del quarto millennio. Poi si vedrà.
Concludendo: fior di pensatori lanciano l’allarme sul rischio del Partito Unico Della Nazione. E denunciano l’abnormità dell’”uomo solo al comando”. Capiamo queste preoccupazioni. Ma c’è un dettaglio sul quale ci permettiamo di dissentire: Renzi non è affatto l’”uomo solo al comando”. Ha le spalle coperte, copertissime. Da chi? Questo lo vorremmo tanto sapere, ma lo ignoriamo.
Sapete semmai che ci fa venire in mente la corsa di Matteo Renzi? Ci fa venire in mente la corsa della finta lepre, quella di pezza, programmata nei cinodromi per far correre i levrieri, a beneficio dello spettacolo taroccato.
Ma chi ha messo in pista la finta lepre?
Come vedete, la domanda si ripropone.

saverio.lodato@virgilio.it

Jobs act: le dure critiche di Ferrero, Cgil, Vendola, Fassina, De Magistris Autore: fabrizio salvatori da: controlacrisi.org

Il Jobs Act è il mantenimento delle differenze e non la lotta alla precarietà”. Coglie nel segno il primo commento della Cgil sul provvedimento che Renzi ha definito di portata “epocale”. “Il contratto a tutele crescenti – aggiunge la Cgil –è la modifica strutturale del tempo indeterminato che ora prevede, nel caso di licenziamento illegittimo o collettivo, che l’azienda possa licenziare liberamente pagando un misero indennizzo”. E aggiunge: “Il governo parla di diritti ma mantiene la precarietà, dimentica le partite Iva e regala a tutti licenziamenti e demansionamenti facili. Per rendere i lavoratori più stabili non bisogna per forza renderli più licenziabili o ricattabili”. Per la Cgil “quello che il governo sta togliendo e non estende ai lavoratori stabili e precari, andrà riconquistato con la contrattazione e con un nuovo Statuto dei lavoratori”.

Secondo il segretario del Prc Paolo Ferrero, ora la precarietà per i giovani “sarà per legge e per tutta la vita: il jobs act è una legge contro i giovani, al contrario di quanto dice Renzi, per garantire il lavoro usa e getta. “Alla fine dei conti l’unica cosa che resta, nel jobs act di concreto – aggiunge Ferrero – è la libertà di licenziare, come giustamente denuncia la Cgil: non è così che si risolve la piaga della disoccupazione, non è così che si aiutano i giovani a trovare lavoro. Al di là della demagogia, ancora una volta, Renzi non sa fare altro che regali ai padroni, come il suo amico Marchionne”.

Nichi Vendola parla di “controriforma” che “conferma nonostante la volonta’ contraria del Parlamento i licenziamenti collettivi, non chiarisce quali siano le risorse utili ad alimentare gli ammortizzatori sociali, conferma la sparizione dell’art. 18, sparisce il diritto al lavoro e avanza il diritto al licenziamento, restano 45 contratti atipici su 47. Siamo ad un punto di svolta ma molto, molto, molto negativo”.

Critiche anche da Stefano Fassina. ”Con questo decreto il Pd di Renzi diventa il partito degli interessi forti”, dichiara. “Dopo essere arrivato sulle posizioni di Ichino ora ha raggiunto Sacconi che, a questo punto, può entrare nel Pd di Renzi”, aggiunge il deputato della minoranza del Pd, intervistato da Repubblica. ”È una straordinaria operazione propagandistica – sottolinea ancora -. Restano tutte le forme di contratti precari. Con questo decreto il diritto del lavoro italiano torna agli anni Cinquanta. Renzi attua l’agenda della Troika economica con una fedeltà che, sono certo, il professor Monti invidierà”. ”La rottamazione dei co.co.co c’è già stata, rimangono solo nella pubblica amministrazione dove, per il blocco delle assunzioni, non ci sarà alcuna trasformazione”, specifica l’esponente del Pd. ”Per esempio resterà tutto come adesso per i professionisti senza partita Iva. Rimangono anche i contratti a tempo determinato senza causalità; restano il lavoro intermittente, il lavoro accessorio e pure l’apprendistato senza requisiti di stabilizzazione. Il carnet di contratti precari non cambia. È una foglia di fico per coprire l’unico vero obiettivo di questo governo sul lavoro: cancellare la possibilità del reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento ingiustificato, cioè cancellare l’articolo 18”. Anche perché il previsto aumento dei contratti a tempo indeterminato ci sarà non grazie alla cancellazione dell’articolo 18 bensì per effetto del taglio dei contributi per tre anni per i neoassunti nel 2015. Una misura che costa tantissimo e che, date le condizioni della nostra finanza pubblica, non sarà ripetibile”.

Infine, Luigi De Magistris,sindaco di Napoli. “Con il Jobs Act Renzi passa alla storia come il premier che ha rottamato 50 anni di lotte operaie”. Per De Magistris si tratta di “macelleria sociale arrogante e violenta”. La “rottamazione dell’articolo 18 – scrive il sindaco di Napoli – distrugge i diritti dei lavoratori, mortifica la loro dignità. L’Italia è debole senza diritti. Ingiustizia fatta”, conclude.

Paolo Ciofi: Discutendo di lavoro e libertà | Autore: Paolo Ciofi da: controlacrisi.org

Punto di partenza dell’ultimo libro di Fassina è la necessità di una svolta radicale rispetto alle scelte economiche dominanti.

Non si esce però da una impostazione “distributiva”. La prospettiva diversa che è alla base della Costituzione.
La questione della proprietà e l’esigenza di un nuovo socialismo. Le analisi e le proposte.

L’ultima fatica letteraria di Stefano Fassina, un’ampia ricognizione su temi cruciali di questa fase storica e sul ruolo della sinistra (Lavoro e libertà. La sinistra nella grande transizione, a cura di Roberto Bertoni e Andrea Costi, postfazione di Martin Schulz, Imprimatur, Reggio Emilia 2014, pp. 107), esce dagli usuali schemi del riformismo senza riforme tipico di questi anni, e riprendendo le argomentazioni di un precedente libro (Il lavoro prima di tutto, Donzelli 2013) ha l’ambizione di porre al centro dell’attenzione la questione del lavoro, dalla quale non si può prescindere se si vogliono prendere di petto le cause vere della crisi.
Nella visione dell’autore viene superata di slancio la tradizionale distinzione, codificata da Norberto Bobbio, secondo cui l’uguaglianza è di sinistra e la libertà è di destra. E infatti se la destra, attaccando frontalmente il lavoro e i suoi diritti, ha lesionato profondamente il principio di libertà, d’altra parte la sinistra, sradicata dalla sua base sociale, non è stata in grado di innalzare la bandiera né dell’uguaglianza né della libertà. Ma, osserva subito Fassina, «non riesco a declinare i principi di uguaglianza e libertà se non parto dal lavoro» (p. 11), come del resto la Costituzione prescrive.

Necessità di una svolta radicale

Nel nostro impianto costituzionale, il lavoro (la persona che lavora, l’insieme della classe lavoratrice) è il fondamento sia dell’uguaglianza che della libertà. Questo punto d’approdo di portata storica non andrebbe mai smarrito, e da qui dovrebbe muovere la sinistra per aprire un nuovo orizzonte di civiltà in Occidente, che oggi pone a fondamento della società la ricchezza e l’egoismo proprietario. Al contrario, nella crisi che non cessa, Fassina considera il lavoro «il vettore fondamentale, anche se non unico, per la dignità della persona» (p. 12). Di conseguenza, l’alternativa non è tra vecchio e nuovo, ma si misura sui contenuti, su un nuovo paradigma economico-sociale.
«La distinzione è tra cambiamento progressivo e cambiamento regressivo. Il cambiamento è progressivo quando lavoro e libertà entrano in sinergia, quando il lavoro acquista soggettività politica e nella partecipazione democratica la persona, a partire dal lavoro, prende in mano il proprio destino»; in definitiva, quando la «riappropriazione del lavoro» diventa «condizione di trasformazione della società», «partecipazione alla riorganizzazione della produzione», «liberazione del lavoro» (pp. 17,16).
Parole forti, che indicano la necessità di una svolta radicale rispetto alle scelte economiche dominanti dettate da un pensiero dogmatico che svalorizza e sottostima il fattore umano, ridotto a variabile subalterna della invariabile naturalità delle “leggi” dell’economia, o a espressione puramente quantitativa in quanto “fattore” della produzione. E che richiedono perciò, insieme alla ricerca di un nuovo pensiero critico, altrettanta radicalità nelle scelte politiche: senza di che l’auspicato cambiamento progressivo rimane appeso in aria, nel cielo delle innumerevoli (e impotenti) buone intenzioni.
A maggior ragione ciò è necessario perché nell’analisi di Fassina quella che attraversiamo non è una semplice «lunga crisi congiunturale» e neanche una “normale” crisi ciclica del capitale, bensì «una fase straordinaria, di transizione multidimensionale, […] nella quale si intrecciano e interagiscono movimenti su diversi piani: lo spostamento dell’asse geoeconomico e geopolitico, l’involuzione dei rapporti tra capitale e lavoro e la “crisi antropologica” che stiamo vivendo» (p. 19).
Detto diversamente, siamo immersi in una crisi sistemica che abbraccia tutti i campi delle attività umane. È la crisi di un’intera civiltà, del capitalismo dei “liberi mercati” americani, uscito vincitore nella guerra fredda contro il “socialismo realizzato” dell’Unione sovietica. Questa è la portata della sfida. Perciò, piuttosto che ripercorre nel dettaglio le analisi e le indicazioni fornite da Fassina, è opportuno segnalare le sue valutazioni su alcuni passaggi significativi che danno il senso della profondità della svolta da compiere.
Per restare all’attualità politica di casa nostra, il giudizio sul decreto Poletti è netto. «Si muove lungo la scia delle raccomandazioni della Commissione europea: la svalutazione del lavoro come via per il recupero di competitività per l’export» (p. 20). Lo stesso indirizzo sembra orientare il disegno di legge delega sul lavoro, il tanto sbandierato Jobs Act. «La regressione del lavoro non è mai abbastanza […]. Si punta a superare il contratto nazionale di lavoro e dare mano libera alle imprese per i licenziamenti». Anche il contratto a tempo indeterminato con tutele crescenti, che dovrebbe caratterizzare il Jobs Act, viene da più parti declinato in modo tale da «eliminare la residua tutela del lavoratore prevista dall’articolo 18».
Inoltre, l’ambito di applicazione del salario minimo dovrebbe riguardare anche coloro che sono coperti da contratti nazionali. «È evidente che si punta a spingere verso il basso le retribuzioni contrattuali minime e, inevitabilmente, tutte le retribuzioni, in coerenza con l’obiettivo della svalutazione del lavoro» (pp. 20,21). Il contrario di ciò che servirebbe per uscire dalla crisi.
Per ciò che concerne gli indirizzi della Comunità europea, confermati nella sostanza dopo le recenti elezioni e la nomina di Jean-Claude Juncker a presidente della Commissione, la tesi di fondo che Fassina argomenta, e su cui ruotano le sue critiche e le sue proposte alternative, è la seguente: la persistente penalizzazione e svalorizzazione del lavoro, in termini di disoccupazione e precarietà e di riduzione dei salari reali, comprimendo il potere d’acquisto e la domanda effettiva, deprime l’economia fino alla deflazione, condanna l’Europa alla stagnazione e tiene accesa la miccia che può far esplodere l’euro e la stessa Comunità.
Di fatto, le raccomandazioni della Commissione europea si collocano sulla stessa linea del Washington Consensus, che in Europa ha parlato per bocca di Blair e che è stato il fattore scatenante della crisi: «Un impianto ideologico sostenuto da interessi forti, quelli che si appropriavano e continuano ad appropriarsi in via esclusiva della ricchezza prodotta fino a “impallare” il motore della crescita per eccessiva concentrazione del prodotto» (p. 27).
Insomma, vecchie idee del passato che producono drammatiche conseguenze per il presente e per il futuro, poiché «austerità cieca e svalutazione del lavoro non solo hanno danneggiato l’economia reale, ma hanno anche determinato un incremento dei debiti pubblici dei paesi dell’Eurozona: in media del 30 per cento dal 2007 al 2013. Senza una radicale inversione di rotta, basata sulla domanda interna europea, sul sostegno agli investimenti e sulla redistribuzione del reddito e dei tempi di lavoro, mi sento di affermare – precisa l’esponente del Pd – che il destino dell’euro è segnato» (pp. 43-44).

Neoumanesimo laburista

Dentro questa radicale inversione di rotta, volta a promuovere una crescita sostenibile dal punto di vista sociale e ambientale, hanno senso ed efficacia, secondo Fassina, specifiche proposte per l’abbattimento del debito come quelle avanzate nel Manifesto di Alexis Tsipras per l’Europa. Ma per evitare che in condizioni di rigidità dei cambi e di scarsa innovazione di prodotti e di processi il vettore della competitività sia la svalorizzazione del lavoro, che pone i lavoratori e le lavoratrici in lotta tra di loro in una disperata rincorsa al ribasso, e per costruire una effettiva dimensione sociale e democratica dell’Europa, non basta intervenire dal lato delle politiche monetarie e di bilancio. Imprescindibile è la fissazione a livello europeo di comuni standard salariali e sociali, insieme a una nuova dimensione contrattuale e di welfare. Altrettanto imprescindibile è il controllo dei mercati e dei capitali.
In proposito è d’obbligo il riferimento a Thomas Piketty, e al suo Il capitalismo nel XXI secolo, ampiamente citato, perché l’economista francese dimostra che in forza della tendenza storica plurisecolare alla concentrazione del capitale si producono crescenti disuguaglianze nella distribuzione del redditi e della ricchezza, e quindi nei rapporti di forza tra capitale e lavoro drammaticamente accentuate nella fase dei “liberi mercati” globalizzati. «Ritengo che, nonostante le possibili accuse di protezionismo, vadano costruiti standard sociali e ambientali per lo scambio di merci e servizi e che vada definita anche una regolazione dei movimenti dei capitali, se vogliamo davvero riequilibrare il rapporto tra capitale e lavoro» (p. 68), commenta Fassina. Al quale non sfugge che per compiere tale rivolgimento è necessario capovolgere i canoni correnti della politica.
Dunque, quale politica? E quale sinistra? E a quali principi e culture ispirarsi, per agire e trasformare la realtà? Il pilastro teorico-culturale che regge tutto l’impianto fassiniano, da lui stesso definito «neoumanesimo laburista», viene rappresentato come sintesi del personalismo cattolico e del pragmatismo socialdemocratico. Un orientamento che dovrebbe «ridefinire il rapporto tra persona e lavoro e superare così, da un lato, la visione della persona astratta dalle relazioni sociali asimmetriche e, dall’altro, l’interpretazione del lavoratore come soggetto indifferenziato, componente di una classe omogenea» (p. 16). In tal senso si tratta di «recuperare i punti d’identità che vi sono nelle tradizioni e nella storia del cattolicesimo sociale, del socialismo e del movimento operaio europeo, a partire dall’idea di tenere insieme la persona e la dimensione sociale nella quale essa si costituisce» (p. 18).

La cultura della Costituzione

Una visione sicuramente più idonea a chiarificare le cause della crisi, e quindi a illuminare i possibili percorsi del suo superamento, al di là delle rozze falsificazioni del pensiero unico neoliberista e anche delle semplicistiche interpretazioni finanziarie della crisi. Siamo sul terreno ben più solido dell’economia e della società reali e non nel cielo delle astrazioni della finanza, ma pur sempre all’interno di un’impostazione che chiamerei distributiva, secondo cui l’origine della crisi consiste in una “squilibrata” distribuzione dei redditi e della ricchezza, e quindi nelle disuguaglianze che ne conseguono. Un’impostazione che però, dopo anni e anni di crisi di cui non si vede la fine, pone a sua volta una domanda molto difficile da rimuovere: qual è la causa che dà origine alla persistente “squilibrata” distribuzione dei redditi e della ricchezza?
Se le crisi si ripetono e quella che stiamo attraversando si prolunga nel tempo con gli esiti distruttivi che Fassina efficacemente descrive, dovrebbe risultare chiaro che la risposta va cercata nella natura stessa del capitale, ovvero nel rapporto di produzione (che giuridicamente coincide con il rapporto proprietario), non nella sfera distributiva. Tanto meno nelle “asimmetrie” etiche e psicologiche del capitale. A dire la verità, le teorie del neuropsichiatra Massimo Fagioli, cui Fassina fa riferimento, non sembrano al riguardo di grande aiuto.
Di ben altra levatura e profondità era il confronto tra le culture e le idealità che si sono misurate nella fase costituente della Repubblica. In particolare tra la cultura d’ispirazione marxista, cui allora facevano riferimento il Pci e il Psi, e quella d’ispirazione cristiana, cui faceva riferimento la Dc. Un solidarismo d’origine diversa – annotava Palmiro Togliatti intervenendo sul progetto di Costituzione – che però «arrivava […] a risultati analoghi cui arrivavamo noi». «Questo è il caso dell’affermazione dei diritti del lavoro, dei cosiddetti diritti sociali; è il caso della nuova concezione del mondo economico, non individualistica né atomistica, ma fondata sul principio della solidarietà e del prevalere delle forze del lavoro; è il caso della nuova concezione e dei limiti del diritto di proprietà». E, per quanto attiene alla dignità e alla libertà della persona, vi è qui – precisava – «un altro punto di confluenza della nostra corrente, comunista e socialista, con la corrente solidaristica cristiana. Non dimenticate infatti che socialismo e comunismo tendono a una piena valutazione della persona umana»(1).

Da questa confluenza, che non annulla l’individuo nella classe e al tempo stesso supera l’egoismo proprietario, nasce un nuova visione dell’uguaglianza e della libertà. E infatti la Costituzione, ponendo a fondamento della Repubblica democratica la persona che lavora e non più il cittadino possidente, apre la strada a un avanzamento di civiltà: non basta l’uguaglianza davanti la legge e la libertà non può essere scissa dal gravame soffocante della proprietà, quando si assume che i lavoratori debbano elevarsi al rango di classe dirigente. Nell’articolo tre sta scritto: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Dove è evidente che, per assicurare la libertà e l’uguaglianza, garantire il pieno sviluppo delle persona umana e consentire ai lavoratori di partecipare in prima persona a tutti gli aspetti della vita del Paese, si ritiene necessario intervenire nel rapporto di produzione capitalistico, vale a dire nel rapporto di proprietà (articoli 41-45). I principi di uguaglianza e libertà non vengono dunque retoricamente enunciati, ma sono legati alla trasformazione progressiva del modo di produrre e di distribuire la ricchezza. Di conseguenza i nuovi diritti della persona, in particolare i diritti sociali, sono correlati ai limiti della proprietà sui mezzi di produzione, di comunicazione e di scambio, allo scopo di assicurarne la funzione sociale.
Alla supremazia totalitaria della proprietà privata si sostituisce nell’assetto dell’economia e della società il pluralismo delle forme proprietarie, la combinazione di pubblico e privato, di comunitario e individuale, di regolazione e imprenditività: in modo che l’iniziativa economica non si svolga in contrasto con l’utilità sociale e non rechi danno alla libertà, alla sicurezza e alla dignità umana, e il profitto sia impiegato non per l’arricchimento di pochi, ma per il soddisfacimento dei bisogni della società.
A questa impostazione fortemente innovativa dell’impianto costituzionale, in grado oggi di fornire strumenti efficaci per fronteggiare i problemi del presente, vale a dire gli effetti distruttivi del capitalismo in crisi, si perviene perché le culture più evolute d’ispirazione marxista e cristiana furono allora in grado di misurarsi con la natura profonda del capitale, da cui scaturiscono le disuguaglianze nella distribuzione dei redditi e della ricchezza. E quindi di dare risposte di portata strategica ai problemi emersi con la Grande Depressione del secolo passato, che in Europa ha generato il nazismo e poi l’esplosione del secondo conflitto mondiale.

Capitale e lavoro oggi

Ma, nonostante le dure lezioni della storia, si continua a ignorare, in particolare dalla dottrina economica mainstream, e a nascondere o a oscurare, ciò che ormai dovrebbe essere riconosciuto con solare evidenza. Vale a dire che il capitale non è una “cosa”, un inerte accumulo di merci sotto forma di mezzi finanziari, di beni strumentali, macchinari e materie prime, o la semplice funzione di un algoritmo nell’immaterialità della finanza, bensì un rapporto sociale storicamente determinato in continua evoluzione, e tuttavia ben definito nella sua essenzialità, che si fonda sulla grande discriminante che divide chi vende la propria forza-lavoro (fisica e intellettuale) per procurarsi i mezzi per vivere e chi la compra per ottenere un profitto. Tuttavia su questa fondamentale “asimmetria” è calato un silenzio tombale.
Annotava già Karl Marx: «Se il capitale non è una cosa, bensì un determinato rapporto di produzione sociale, appartenente a una determinata formazione storica della società», ed «è costituito dai mezzi di produzione monopolizzati da una parte determinata della società» medesima, «ne deriva da sé la ripartizione dei mezzi di consumo»(2). In termini moderni ciò significa che la distribuzione del reddito e della ricchezza dipende in ultima analisi dalla configurazione della proprietà.
Oggi, nella fase della globalizzazione del capitale finanziarizzato, esplode in modo drammatico proprio la divisione del mondo tra chi compra e chi vende forza-lavoro. E la lotta di classe condotta dall’alto verso il basso ha portato al dominio pressoché assoluto del capitale sul lavoro.
È l’epoca dei proprietari universali, della massima concentrazione e della universalità della proprietà capitalistica, espressione essa stessa di un’insuperabile contraddizione che viene scaricata sull’intera comunità. Il capitale infatti ha bisogno di comprimere i salari per alzare i profitti, ma i bassi salari deprimono il potere d’acquisto e perciò costituiscono un ostacolo alla realizzazione dei profitti. Qui sta la ragione di fondo per cui l’intera economia cade in depressione. Le ricorrenti crisi distruttive – fino alla esplosione delle guerre e all’occupazione dei territori altrui – sono il mezzo per ristabilire un temporaneo equilibrio.

La finanziarizzazione globale è un tentativo di superare la contraddizione di fondo connaturata al capitale. Da una parte, la spinta verso l’economia del casinò, per dirla con Keynes, che privilegia gli impieghi speculativi a danno degli investimenti produttivi; dall’altra, l’elevazione del debito al ruolo di propulsore dei consumi in regime di bassi salari. Fino al crollo dell’intero castello di carta quando in America i mutui subprime diventano carta straccia.
L’indebitamento privato e pubblico come fattore propulsivo dell’economia in sostituzione del lavoro e della sua valorizzazione è indubbiamente una novità. Ma è anche la manifestazione vistosa (peraltro a lungo magnificata dal sistema dei media) del declino di un sistema. Ed è il salatissimo prezzo che noi paghiamo per non aver affrontato, come la Costituzione prevede, la questione proprietaria, vero convitato di pietra di questa crisi.
Eppure viviamo, come lo stesso Fassina sottolinea, in una fase dalle enormi potenzialità ancora in larga misura inesplorate. Oggi la dualità lavoro-capitale è segnata da una continua innovazione della tecnica, come pure da un’invalicabile limite ambientale, da una progressiva femminilizzazione della forza-lavoro che ne ridefinisce forme e contenuti, da significativi avanzamenti della scienza e dei saperi.
In questo campo il punto più elevato si raggiunge nel momento in cui è la scienza stessa a configurarsi come motore dell’innovazione, che impiega la tecnica come strumento di produzione sempre più manovrabile e flessibile, e che richiede la presenza di una classe lavoratrice superiore dalle capacità onnilaterali. La quale però viene costantemente frantumata e dispersa dalla precarietà, dalla disoccupazione, dallo sfruttamento intensivo. La connessione tra lavoro e sapere è immanente all’avanzamento della scienza come forza produttiva diretta. Ma questa connessione viene distrutta dal dominio del capitale, che nella forma massimamente concentrata di una proprietà parassitaria si appropria dei frutti del lavoro sociale.
Con tutta evidenza il rapporto di produzione capitalistico è diventato una camicia di forza che soffoca lo sviluppo delle forze produttive. Potenzialmente siamo in presenza delle condizioni di base necessarie per liberare il lavoro dalla schiavitù dello sfruttamento e per soddisfare i bisogni della comunità umana. Ma per mettere a tema la questione proprietaria, che coincide con il superamento del rapporto di produzione capitalistico, ormai troppo angusto, inefficiente, ingiusto e insostenibile per soddisfare i bisogni e le esigenze dell’umanità, c’è bisogno di una associazione di donne e di uomini liberi, cioè di un partito politico (se vogliamo chiamarlo così), che con la chiarezza e la forza necessarie si ponga questo obiettivo. In assenza di un’alternativa credibile la prospettiva è un arretramento di civiltà e il disfacimento della democrazia.

L’analisi e la proposta

Nell’affresco di Fassina quel che colpisce è la sproporzione tra l’ampiezza dell’analisi della fase e l’angustia dell’indicazione politica. Alla domanda quale sinistra per il futuro, la risposta appare sfocata e deludente. Non solo perché l’esponente del Pd evita di misurarsi con il tema che ormai non si può più eludere: quello di un nuovo socialismo, e quindi di una sinistra nuova. Ma perché la sua risposta, schiacciata sulle contingenze del momento, è troppo condizionata dalla tattica ed entra in contrasto con le stesse analisi poste in premessa. Sembra che Fassina si sia consegnato all’idea che siccome Renzi vince le elezioni, bisogna comunque sostenere Renzi e il suo partito. Vincere le elezioni e praticare una politica che ponga al centro il lavoro e sia in grado di farci uscire dalla crisi non è però la stessa cosa. Sarebbe il caso di tenere sempre presente che Thatcher, Reagan e anche Hitler sono andati al potere per via elettorale, tuttavia ciò non toglie che le loro politiche fossero sbagliate e abbiano provocato disastri.
Ma al di là delle polemiche, è lo stesso Fassina a ricordare che «il capitalismo […] amplia le disuguaglianze e tende a concentrare la ricchezza nelle piccole frazioni più ricche della popolazione. Mentre noi, la sinistra postcomunista, abbiamo recitato imbambolati gli slogan liberisti (meno ai padri, più ai figli) e abbiamo accettato subalterni, come traguardo riformista, lo spostamento del conflitto sociale nel conflitto generazionale, la disuguaglianza tra i padri esplodeva e veniva inevitabilmente trasferita sui figli» (p. 33). In altri termini, mentre nel Pd si predicava la fine della lotta di classe, e perfino la fine delle classi, la lotta di classe la stava vincendo su tutti i fronti il capitale, come ha candidamente confessato uno del ramo, il re degli speculatori Warren Buffett.
Se la più alta forma di lotta di classe consiste esattamente nel negare l’esistenza delle classi e dell’antagonista di classe, spossessandolo della sua identità, della sua memoria e della sua organizzazione, come di fatto è avvenuto nel ventennio trascorso, allora bisogna riconoscere che in questa fase di transizione epocale, rappresentata da Fassina a tinte fosche, una reale alternativa alla classe dominante non può nascere se non si conquista l’autonomia politica e culturale delle lavoratrici e dei lavoratori subordinati, precari, disoccupati e delle nuove figure intellettuali generate dalla rivoluzione informatica: insomma, del lavoro del XXI secolo.
Ritiene davvero Fassina, dopo le parole spese per criticare il decreto Poletti, che il Pd sia la sede della unificazione politica dei lavoratori, e che Renzi sia il paladino dei diritti del lavoro? D’altra parte, se non si costituisce un’autonoma e libera rappresentanza politica dei lavoratori, chi è in grado di mettere sotto controllo i mercati e le banche, come egli stesso chiede?
C’è bisogno di una operazione di portata strategica, che guardi al di là delle scadenze elettorali. È ancora Fassina a ricordarci che «un partito è innanzitutto una visione della storia e della funzione che intende svolgere nel passaggio storico in cui si opera» (p. 89). Ma tale concezione del partito, sia detto con il massimo sforzo di obiettività, risulta del tutto estranea alla cultura e alla pratica politica esibite da Renzi.
E le minoranze interne al Pd? La risposta è una stilettata che non lascia scampo: «Un vuoto in cerca di un contenitore», come il protagonista del film La grande bellezza. «Vuoto di elaborazione e di progettualità in cerca di un assetto organizzativo per supplire alla debolezza del messaggio politico. Quattro cinque minoranze senza bussola». Appunto, «come Jep Gambardella nelle notti di Roma» (p. 90). Ma se questa è la condizione del Pd, come si può pensare che tale partito sia in grado di rovesciare il paradigma dominante, mettendo al centro della politica il lavoro, dando corpo a un diverso indirizzo fondato sulla sostenibilità sociale e ambientale?
Chi scrive è convinto che il Pd non da oggi sia un’entità irriformabile dai contorni centristi, e che perciò sia indispensabile percorrere altre strade allo scopo di costruire una sinistra all’altezza dei tempi. Questa convinzione si rafforza seguendo il percorso di Fassina nell’analisi dei fatti. Egli dichiara che «va fatto un profondo ripensamento rispetto alla tradizione “clintonian-blairiana” del libero mercato» (p. 68). Non c’è dubbio. Ma questo è stato, ed è, il concreto approdo della socialdemocrazia europea, che ha cancellato su questioni di fondo ogni differenza tra destra e sinistra, e ha coperto con un linguaggio sedicente di sinistra scelte di destra. Se il liberismo è stato per lungo tempo, e continua a essere, l’ideologia prevalente della socialdemocrazia, questo ci dice che per costruire una sinistra nuova in Europa e in Italia non basta sottoporre a critica i principi del liberismo. Occorre andare oltre le coperture ideologiche del capitale e smontare criticamente il suo modo di essere e di funzionare.
Riflettiamo sul tema che pone Fassina, il quale va in cerca di un umanesimo laburista in cui il lavoro si coniughi con la libertà. Se stiamo ai fatti e osserviamo la realtà che ci circonda, nel dilagare della disoccupazione, della precarietà, dell’impoverimento che cresce, inevitabilmente si presenta un problema: può essere libera una persona che non dispone delle condizioni della sua riproduzione? Vale a dire dei mezzi necessari alla produzione delle sue condizioni di vita? E che quindi è costretta a mettersi sul mercato per vendere le proprie attitudini e capacità? Evidentemente no. Ecco allora che la questione del rapporto di produzione, ossia del rapporto di proprietà, che definisce la natura del capitale, oggi diventa centrale. E come si libera, questa persona, se non è in grado di associarsi politicamente per determinare gli indirizzi economici e politici, volti a cambiare le condizioni della sua riproduzione, cioè della sua vita?
Bisognerebbe riprendere il discorso là dove lo ha lasciato Enrico Berlinguer. Berlinguer della rivoluzione copernicana da realizzare in politica: prima i contenuti e poi gli schieramenti. Che davanti ai cancelli della Fiat dice agli operai: sto dalla vostra parte. Berlinguer che lotta per costruire una «terza fase» del movimento operaio in Europa dopo l’esperienza sovietica, crollata per le sue interne contraddizioni, e quella socialdemocratica, inidonea a mettere in discussione il sistema di sfruttamento del capitale. Si tratta di aprire un’altra strada – sosteneva – «e di aprirla, prima di tutto, nell’occidente capitalistico». «Con l’obiettivo del superamento di ogni forma di sfruttamento e di oppressione dell’uomo sull’uomo, di una classe sulle altre, di una razza sull’altra, del sesso maschile su quello femminile, di una nazione su altre nazioni». Un «nuovo socialismo»(3). E una sinistra nuova.
(1)  P. Togliatti, «Sul progetto di Costituzione» in Discorsi parlamentari I, Camera dei Deputati, Roma 1984, p. 63
(2)  K. Marx, Il Capitale, Libro terzo, Editori Riuniti, Roma 1965, pp. 927-28 e «Critica al programma di Gotha»in Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 962
(3) E. Berlinguer, Un’altra idea del mondo, Antologia 1969-84 a cura di P. Ciofi e di G. Liguori, Editori Riuniti University Press, Roma 2014, p.279, 306, 271

La solitudine del lavoratore | Fonte: sbilanciamoci | Autore: Angelo Marano

Nell’attuale, drammatica, impossibilità per molti di trovare una qualsivoglia fonte di reddito, è comprensibile che le modalità e i contenuti del lavoro rimangano in secondo piano. Vi sono eccezioni, ad esempio il recente Lavoro e libertà , nel quale Stefano Fassina, richiamando Bruno Trentin, riafferma che qualità e dignità del lavoro sono elemento imprescindibile della democrazia. La tesi prevalente è, però, che la creazione e il mantenimento di posti di lavoro passi inevitabilmente per l’ulteriore svalutazione del lavoro. Dunque, si perseguono attivamente la riduzione delle tutele, la precarizzazione dei contratti, la flessibilizzazione dell’uso della manodopera, la riduzione dei salari, la riaffermazione del totale dominio dell’impresa sui propri occupati. La sola possibilità di fuga offerta è quella individuale, se si è così “choosy” da pretendere qualcosa di più dal proprio lavoro, mentre coloro che provano ad opporsi collettivamente sono accusati di far fuggire le imprese e distruggere l’economia. È così che il lavoro diventa alienazione, sia per quelli che non ce l’hanno, privati di quello che è unanimemente considerato lo strumento primario di inclusione sociale, sia per quelli che ce l’hanno, costretti ad aggrapparsi ad una qualsivoglia attività, spesso di pura sopravvivenza, che tende a fagocitare l’intera vita.

Eppure la vulgata continua a decantare le umane sorti e progressive di un mondo nel quale qualificazione e progresso tecnologico interagiscono, liberando l’uomo dalla fatica e, al contempo, riempendo di contenuto la sua attività. Ma la realtà è che moltissimi lavorano sempre più e in condizioni di lavoro peggiori. A un grappolo di lavori altamente qualificati, creativi e adeguatamente remunerati che si creano (ma anche, a volte, velocemente si distruggono), si contrappone una massa di lavori ripetitivi, frammentati, spesso dequalificati. Certo, il lavoratore non è più un’appendice della macchina, deve essere in grado di utilizzare i computer, spesso addirittura li possiede ed è considerato formalmente lavoratore autonomo. Ma la capacità di utilizzare i computer si riduce a generica alfabetizzazione, mentre il lavoratore diventa un’appendice del software, da questo controllato e costretto, mentre, il più delle volte, la capacità di utilizzarlo, acquisita in pochi giorni e spesso sul campo, non garantisce una specifica qualificazione o professionalità.

In effetti, le schiere di lavoratori dei call center, o quelli che passano senza soluzione di continuità da un contratto trimestrale (se va bene) ad un altro, o i nuovi cottimisti a domicilio potrebbero ragionevolmente iniziare ad interrogarsi se effettivamente il problema è che non hanno, individualmente, le qualifiche richieste per altro (colpa loro!) o se, piuttosto, non sia il sistema produttivo nel suo complesso che, al di là di generiche capacità simboliche, di specifiche professionalità ormai ha bisogno limitato, cosicché le conoscenze acquisite con l’istruzione, o anche quelle specifiche sviluppate nei vari lavori, vengono tranquillamente disperse in un processo di appiattimento generico.

Varrebbe allora la pena riprendere il classico Lavoro e capitale monopolistic o di Harry Braverman, ampiamente discusso negli anni ’70 e ’80, ma con riferimento soprattutto al lavoro operaio, almeno per due aspetti. Innanzitutto, perché è forse il primo libro che offra un’analisi dettagliata e approfondita anche dell’evoluzione del lavoro informatico, pur necessariamente facendo riferimento alla tecnologia disponibile in America negli anni ’70. In secondo luogo, perché mette in evidenza alcuni elementi strutturali della produzione capitalistica che spingono alla sistematica degradazione e dequalificazione del lavoro. Il primo, l’aumento della produttività che si ottiene con la parcellizzazione del lavoro, resa possibile dall’aumentare delle dimensioni della produzione, già posto da Adam Smith a base della ricchezza delle nazioni. Il secondo, il cosiddetto principio di Babbage, per cui la parcellizzazione del lavoro consente di minimizzare i costi, perché il lavoratore più qualificato si concentrerà solo sulla lavorazione più difficile, mentre, per le altre lavorazioni, si potrà assumere personale meno qualificato, più a buon mercato.

La forza di questi due principi posti da Braverman al centro della sua analisi è che sono elementi strutturali, insiti nel nostro sistema di produzione, laddove le modalità attraverso le quali essi poi si estrinsecano a livello produttivo variano con la tecnologia in uso nello specifico momento storico (così, ad esempio, la possibilità tecnologica di coniugare controllo e decentramento ha permesso di superare il taylorismo).

Se dunque la parcellizzazione e la dequalificazione del lavoro, in tutte le sue forme, non sono un breve intermezzo della storia, una fase di transizione fra lo sviluppo della produzione di massa e quello dell’automazione nella quale la riduzione del lavoratore a appendice della macchina è stato un costo da pagare alla successiva liberazione dalla fatica e alla riconquista del lavoro come attività qualificata, bensì processi direttamente connessi alla massimizzazione della produttività e alla minimizzazione dei costi, ci si dovrebbe legittimamente tornare a porre il problema di un’agenda politica che riscopra la qualità del lavoro. Come acutamente sintetizza Ugo Pagano in un vecchio saggio sui Quaderni piacentini , «soltanto se le masse si riappropriano del potere di ideare e progettare i processi produttivi, ricostituendo, sebbene a un livello più complesso, l’unità di ideazione ed esecuzione, diventa possibile la realizzazione di una società realmente socialista e non solo formalmente democratica».

Governo, il six pack e l’ostaggio delle pensioni. Ecco perché Renzi farà piangere l’Italia Autore: fabio sebastiani da: controlacrisi.org

“Sulle pensioni c’è un gran caos”. Fa bene la Cgil a mettere l’accento sulla girandola di ipotesi campate in aria che tra palazzo Chigi e il Parlamento segnano gli ultimi dieci giorni che ci dividono dal colpaccio di Renzi sul fiscal compact. Un colpaccio che sono in molti a temere, anche se le idee non sono molto chiare. Ma proprio per questo motivo l’allarme non è da sottovalutare. E questo per il semplice motivo che i tagli alle pensioni sono una delle poche armi che l’ex sindaco di Firenze ha in mano per evitare la bocciatura dell’Europa.

In base alle regole del six pack, il saldo strutturale di bilancio deve scendere almeno dello 0,5% del Pil ogni anno (circa 10 miliardi), “salvo motivate eccezioni”. Deviazioni temporanee dalla misura dello 0,5% possono essere accettate, oltre che in presenza di eventi eccezionali, anche nel caso in cui un Paese abbia effettuato riforme strutturali rilevanti (con particolare riferimento a quelle pensionistiche), con un effetto quantificabile sulla sostenibilita’ a lungo termine delle finanze pubbliche. E’ proprio su questo punto che si gioca la partita fra Roma e Bruxelles: dimostrando che il deficit e’ sotto il 3% e il debito e’ nel percorso di rientro previsto, che le riforme sono state fatte e altre sono in cantiere, il Governo italiano potrebbe ottenere uno sconto su quel 0,5% (4-5 miliardi).

Le ipotesi di intervento sono le più varie, si va da un contributo di solidarietà, non si sa ancora finalizzato a cosa, che ha come bersaglio pensioni sopra i 5.000 euro (ma si è parlato anche di una asticella a 2.000) ad un ricalcolo degli assegni che adesso ancora stanno nel regime retributivo con il metodo contributivo.

Sul fronte sindacale, il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, vede nelle diverse ipotesi solo “una nuova tassa” e bisognerebbe piuttosto aggredire gli sprechi della politica. Sulla stessa linea l’Ugl. La Cgil intanto torna a bollare come “inaccettabile” un taglio delle retributive. E ancora la Uil dice “stop ad operazioni di cassa”, chiedendo al Governo “di aprire un confronto” sul tema. Non si spegne anche il dibattito politico: Cesare Damiano (Pd) avverte: “Sarebbe improponibile che per fare cassa si mettessero nuovamente le mani sulle pensioni del ‘ceto medio'”. Dello stesso parere Stefano Fassina (Pd). Il sottosegretario al Mef, Enrico Zanetti, si sofferma sulla destinazione degli eventuali risparmi, indicando “i giovani”. Passando all’opposizione, il Mattinale, la nota politica del gruppo di Fi avvisa: “Guai a chi le tocca”. Apre invece l’ex ministro del Lavoro, Elsa Fornero: “Lo Stato in un momento di crisi da’ a chi ha meno e non di piu'”.

Fiscal compact, Renzi tenterà il blitz ma la maggioranza è a rischio Autore: fabio sebastiani da: controlacrisi.org

Il Consiglio dei ministri del 29 agosto, dove Renzi proverà il blitz “fiscal compact” per andare sul sicuro il giorno dopo a Bruxelles, non sarà una “passeggiata di salute”. Insomma, non è detto che la maggioranza uscirà propriamente indenne. Ilricatto di Forza Italia è sempre lì al varco. La posta in ballo è alta. La tentazione di alzare il prezzo in un momento delicato anche. Intanto, Renzi, fa finta di niente e continua a twittare (#maddeche) su giustizia e scuola. Provvedimenti che a questo punto servono a nascondere la sostanza del fallimento del premier, la cui ancora di salvezza a questo punto è la Bce. Di fatto, la Troika.

Il punto è semplice, di gravare ancora sulle tasche degli italiani non se ne parla. Con la deflazione alle porte potrebbe essere una delle tante micce accese sulla rivolta sociale trasversale, soprattutto di chi ha un qualche titolo di debito. L’unico spazio di manovra sono i tagli, i tagli e ancora i tagli. E con questa aria da elezioni anticipate, ogni partito difenderà il suo orticello. Il muro del debito, intanto, è troppo alto. E il Quantitative easing della Bce, in caso, non garantisce proprio niente se non un aumento della spesa per interessi, anche se a tassi inferiori rispetto al mercato!

Anche sui tagli, insomma, lo smembramento della maggioranza è in agguato. Stefano Fassina, ex viceministro all’Economia del governo Letta, intervistato dalla Stampa invita a fregarsene dei vincoli e a fare “una manovra espansiva per il 2015 di 16 miliardi per rendere strutturale il bonus degli 80 euro, esteso ad incapienti e partite Iva”.

L’ex viceministro si sofferma anche sull’ipotesi di un prelievo sulle pensioni: “Per ottenere miliardi bisognerebbe tagliare in modo drastico la parte superiore a quel livello di 2500 euro e lo sconsiglio vivamente”. La spending review? “L’obiettivo di 16 miliardi e’ irraggiungibile nel 2015 e vorrebbe dire mutilare welfare, sanita’, scuola, trasporto pubblico locale, quindi le condizioni di vita delle classi medie”.

L’Ncd,che da un paio di settimane ha puntato tutto sulle elezioni anticipate, dopo aver visto sfumare l’ipotesi Art. 18 ecco che riparte alla carica con la diminuzione della pressione fiscale. Secondo Fabrizio Cicchitto (Ncd) la riduzione della pressione fiscale sulle imprese va finanziata attraverso un taglio incisivo della spesa pubblica secondo l’impostazione Cottarelli “partendo da quelle partecipate di regioni,comuni e dello stesso Stato che costituiscono oggi il cuore del sistema di potere di una parte del Pd che come vediamo resiste in tutti i modi”. Ma su quel tesoretto le mani lunghe di Renzi sono ben posizionate con la replica del bonus.

A ricordare che con la deflazione “non si possono piu’ chiedere sacrifici a lavoratori, disoccupati e imprese”. E che “il debito pubblico aumenta a prescindere” è Francesco Boccia (Pd), presidente della commissione Bilancio della Camera. “Siamo usciti dalla procedura d’infrazione durante il governo Letta dopo una serie di interventi cumulati – dice Boccia – che tutti gli italiani ricordano. Non si puo’ dire che non abbiamo rispettato le regole comuni”.
Anche Boccia, come Fassina, crede che il debito “ha piu’ senso farlo aumentare consapevolmente per due anni a fronte di una maxi riduzione delle imposte per dare uno shock definitivo all’economia italiana in una legge di stabilita’ triennale tutta proiettata sulla crescita”.
Anche per Boccia la direzione è la diminuzione delle imposte.

A dare consigli alla Banca Centrale Europea, che non dovrebbe seguire l’esempio della Federal Reserve con un programma di acquisto di titoli di stato (quantitative easing) è sul Financial Times il vice-presidente di BlackRock ed ex governatore della banca centrale svizzera, Philipp Hildebrand. ”Italia e Francia sono messe talmente male – dice – che nessun piano di quantitative easing riuscirebbe a farle crescere”.
L’autore aggiunge che Roma e Parigi ”devono riformare il mercato del lavoro, ridurre le tasse che pesano sulle imprese, snellire la burocrazia e continuare a risanare i conti pubblici” e ”non parlarne solamente, perche’ non serve”.

Con l’ANPI in difesa della Costituzione di Francesco Baicchi *

 

ANPI1Nonostante il giorno feriale, teatro Eliseo esaurito per ascoltare gli interventi di Stefano Rodotà e Gianni Ferrara, introdotti da un intervento del presidente nazionale dell’ANPI Carlo Smuraglia. Assente giustificata la professoressa Lorenza Carlassare, il cui messaggio di rammarico è stato letto dallo stesso Smuraglia. Tante le bandiere e gli striscioni delle sezioni locali ANPI, ma anche una delegazione della CGIL in rappresentanza della segretaria Camusso che non ha potuto essere presente e qualche ‘politico’, fra cui Stefano Fassina. Moltissime le donne e, ottima sorpresa di questi tempi, anche tanti giovani.
Questo il quadro in cui si è svolta martedì 29 aprile l’iniziativa dell’ANPI, il cui manifesto non lasciava molti dubbi sull’argomento da trattare: ‘Riforme, rappresentanza, coerenza costituzionale nel cambiamento: una questione democratica’.
L’associazione dei partigiani e di quanti si riconoscono idealmente nell’antifascismo al di là delle bandiere di partito ha deciso di esprimere pubblicamente la propria preoccupazione per le conseguenze che potrebbero avere sul nostro sistema istituzionale le ‘riforme’ concordate dal segretario del PD con il padrone di Forza Italia e attualmente all’esame del Parlamento, con un appello alla prudenza e soprattutto con un forte richiamo ai valori etici espressi nella nostra Costituzione.
Perché nel momento in cui sono più forti le pressioni per una rapida approvazione dei testi presentati al Senato, crescono anche il dissenso e le perplessità, presenti un po’ in tutti i partiti.
E l’apertura, affidata a un video che riproponeva un estratto della nota lezione di Piero Calamandrei agli studenti milanesi del 1955 e alla lettura di un documento molto critico formulato da un gruppo di giovani iscritti, non è stata certo casuale.
I tre interventi, pur con accentuazioni diverse, hanno concordemente riproposto i rischi che potrebbero derivare dalla applicazione di una legge elettorale che distorcerebbe in maniera intollerabile la rappresentanza della volontà popolare, assegnando la maggioranza della Camera alla lista più votata, indipendentemente dall’entità del consenso ottenuto (una soluzione peggiore della legge truffa del 1953′ ha affermato Rodotà), e la contemporanea trasformazione del Senato in un organismo con competenze irrilevanti e privo di legittimazione popolare. Hanno anche sottolineato che nella valutazione degli ‘spazi di democrazia’ non possono non rientrare comportamenti discutibili come il continuo ricorso alla decretazione d’urgenza e alle ‘questioni di fiducia’, e la compressione dei tempi del dibattito parlamentare, che cancellano di fatto la separazione fra il potere legislativo e quello esecutivo.
Rodotà, che parlava a nome sia di Libertà e Giustizia che degli altri promotori della manifestazione ‘La via Maestra’ dell’ottobre scorso, ha ribattuto anche alle polemiche dei giorni scorsi, affermando che, se la Costituzione non è di competenza esclusiva dei ‘professori’, non è nemmeno proprietà del Presidente del Consiglio, ma del popolo italiano, che deve essere informato correttamente e coinvolto nel processo decisionale di eventuali modifiche.
Il professore ha anche lamentato l’opacità dei contenuti dell’accordo fra Renzi e Berlusconi, al cui rispetto ci si richiama continuamente senza che ne siano realmente noti i contenuti: ‘Se Renzi vuole veramente la trasparenza, tolga il segreto ai reali obiettivi su cui è stato trovato l’accordo.’ ha affermato, denunciando che siamo ormai in presenza di due visioni contrapposte della società e della democrazia, fra chi vuole cancellare il sistema parlamentare rappresentativo presente in tutte le democrazie avanzate, e chi invece lo ritiene migliorabile ma insostituibile.
Il professor Gianni Ferrara ha poi denunciato la gravità della scelta di non tenere conto della sentenza della Corte Costituzionale, che ha di fatto dichiarato la dubbia legittimità di un Parlamento eletto con procedure dichiarate incostituzionali, che avrebbe dovuto essere al più presto rinnovato e non ha l’autorevolezza necessaria per modificare la Carta costituzionale.
Ferrara ha anche ricordato come il tema della ‘governabilità’ abbia sempre nascosto tentazioni presidenzialistiche, da quando venne sollevato da Craxi alle ultime affermazioni di J.P.Morgan che tentano di attribuire all’eccessiva democraticità dei sistemi istituzionali europei l’origine della crisi socio-economica dei nostri Paesi. In realtà si vorrebbe sostituire al criterio della ‘rappresentanza’ parlamentare quello della ‘investitura’ di un capo dell’esecutivo con poteri quasi assoluti.
Comune la constatazione della forte involuzione culturale e della caduta del livello etico della politica negli ultimi venti anni, cui fa riscontro la crescita della aggressività nei confronti di quanti dissentono o propongono visioni diverse, che si esprime anche con l’irrisione nei confronti della ‘cultura’, cui si contrappone l’esaltazione di un attivismo approssimativo.
Sia Ferrara che Rodotà si sono associati all’appello che era stato lanciato in apertura dal presidente nazionale dell’ANPI Carlo Smuraglia per una azione unitaria finalizzata a fornire ai cittadini una informazione oggettiva sui reali contenuti delle ‘riforme’ all’esame del Parlamento, e per rifiutare l’imposizione di scelte affrettate dettate solo da esigenze elettorali, inaccettabili su temi così rilevanti.
Come ha ricordato Smuraglia, nessuno nega la possibilità di superare il bicameralismo perfetto, ma mantenendo pari dignità alle due Camere pur con funzioni diverse, come avviene nella grande maggioranza dei Paesi evoluti, e non facendo prevalere l’obiettivo, legittimo, della ‘governabilità’ su quello irrinunciabile della ‘rappresentanza’.
Da sottolineare infine il richiamo del presidente ANPI per una maggiore attenzione alla rinascita in Europa di pericolosi movimenti di estrema destra, quando non esplicitamente nazi-fascisti, spesso esaltati dall’espressione di un anti-europeismo becero; un tema colpevolmente assente dalle campagne elettorali in corso proprio per l’elezione del nuovo Parlamento dell’Unione.
In conclusione con la manifestazione dell’Eliseo si conferma l’esistenza e l’ampiezza di una vasta area di dissenso nei confronti di una politica dettata più da esigenze di affermazione personale dei protagonisti del ‘patto del Nazareno’ che dalla reale volontà di affrontare i problemi concreti del Paese, che non può prescindere dalla ‘questione democratica’.

L’autore è socio di Pistoia

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