Agricoltura: almeno 100mila sotto caporale Fonte: rassegna

Solo in Italia sono circa 400.000 i lavoratori e le lavoratrici esposte al lavoro nero o grigio in agricoltura, di cui circa 100.000 subiscono veri e propri fenomeni di caporalato e grave sfruttamento paraschiavistico. La denuncia e i numeri del fenomeno sono contenuti nel nuovo numero di ASud’Europa, rivista del Centro Pio La Torre, che sarà presentato martedì 24 febbraio presso il Dipartimento di Scienze Agrarie di Palermo.

L’inchiesta – come anticipa l’agenzia Agi – analizza il dilagare di forme moderne di caporalato e di sfruttamento dei nuovi immigrati presenti nei centri di accoglienza in Sicilia. C’è chi ha dovuto pagare cinque, sei o perfino diecimila euro per arrivare in Italia, con un barcone verso le coste italiane nel caso dei migranti africani o medio orientali, o semplicemente con un visto turistico, come nel caso di indiani e bengalesi, piuttosto che con pulmini organizzati dalla Romania o dalla Bulgaria.

Il punto di partenza è sempre costituito da un intermediario che promette un lavoro regolare e un permesso di soggiorno. Promessa che si rivela assolutamente falsa, con i migranti che, dopo aver affrontato un vero e proprio viaggio della speranza si ritroveranno costretti a ripagare il debito contratto e quindi disposti a lavorare in nero, sotto caporale.

In Italia – ricostruisce ancora Asud’Europa – altri intermediari, spesso caporali etnici, gestiranno la tratta interna, portando la manodopera laddove ce n’è più bisogno, il tutto per conto di imprenditori italiani senza scrupoli.

“Deve far riflettere tutti , forze sociali e politiche, governi locali, regionali e nazionali, la nascita di forme moderne di caporalato e di sfruttamento dei nuovi immigrati presenti nei centri di accoglienza presenti i Sicilia – dice il presidente del Centro La Torre, Vito Lo Monaco – Le piaghe del sommerso e del lavoro nero nell’agricoltura siciliana ci sono sempre state, ma non era organizzato da caporali come avviene oggi usando anche la tratta dei nuovi schiavi del ventunesimo secolo ospitati presso il Cara di Mineo, i cui proprietari e gestori sono stati lambiti dall’indagine Mafia Capitale. Il caporalato è ormai un reato punito – aggiunge Lo Monaco – ma ciò non basta a prevenirlo e garantire il rispetto della dignità della persona e della legalità per tutti, europei e immigrati. Al rispetto di questa va subordinato l’accesso alle agevolazioni pubbliche, ipotizzando una premialità per le aziende agricole che adottano i protocolli di legalità”.

Dove per essere almeno schiavo devi avere un’amica da: l’espresso

Dove per essere almeno schiavo devi avere un’amica

Un articolo da pelle d’oca di Fabrizio Gatti:

pomodo schiavi-2Il padrone ha la camicia bianca, i pantaloni neri e le scarpe impolverate. È pugliese, ma parla pochissimo italiano. Per farsi capire chiede aiuto al suo guardaspalle, un maghrebino che gli garantisce l’ordine e la sicurezza nei campi. “Senti un po’ cosa vuole questo: se cerca lavoro, digli che oggi siamo a posto”, lo avverte in dialetto e se ne va su un fuoristrada. Il maghrebino parla un ottimo italiano. Non ha gradi sulla maglietta sudata. Ma si sente subito che lui qui è il caporale: “Sei rumeno?”. Un mezzo sorriso lo convince. “Ti posso prendere, ma domani”, promette, “ce l’hai un’amica?”. “Un’amica?”. “Mi devi portare una tua amica. Per il padrone. Se gliela porti, lui ti fa lavorare subito. Basta una ragazza qualunque”. Il caporale indica una ventenne e il suo compagno, indaffarati alla cremagliera di un grosso trattore per la raccolta meccanizzata dei pomodori: “Quei due sono rumeni come te. Lei col padrone c’è stata”. “Ma io sono solo”. “Allora niente lavoro”.

Non c’è limite alla vergogna nel triangolo degli schiavi. Il caporale vuole una ragazza da far violentare dal padrone. Questo è il prezzo della manodopera nel cuore della Puglia. Un triangolo senza legge che copre quasi tutta la provincia di Foggia. Da Cerignola a Candela e su, più a Nord, fin oltre San Severo. Nella regione progressista di Nichi Vendola. A mezz’ora dalle spiagge del Gargano. Nella terra di Giuseppe Di Vittorio, eroe delle lotte sindacali e storico segretario della Cgil. Lungo la via che porta i pellegrini al megasantuario di San Giovanni Rotondo. Una settimana da infiltrato tra gli schiavi è un viaggio al di là di ogni disumana previsione. Ma non ci sono alternative per guardare da vicino l’orrore che gli immigrati devono sopportare.

Sono almeno cinquemila. Forse settemila. Nessuno ha mai fatto un censimento preciso. Tutti stranieri. Tutti sfruttati in nero. Rumeni con e senza permesso di soggiorno. Bulgari. Polacchi. E africani. Da Nigeria, Niger, Mali, Burkina Faso, Uganda, Senegal, Sudan, Eritrea. Alcuni sono sbarcati da pochi giorni. Sono partiti dalla Libia e sono venuti qui perché sapevano che qui d’estate si trova lavoro. Inutile pattugliare le coste, se poi gli imprenditori se ne infischiano delle norme. Ma da queste parti se ne infischiano anche della Costituzione: articoli uno, due e tre. E della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Per proteggere i loro affari, agricoltori e proprietari terrieri hanno coltivato una rete di caporali spietati: italiani, arabi, europei dell’Est. Alloggiano i loro braccianti in tuguri pericolanti, dove nemmeno i cani randagi vanno più a dormire. Senza acqua, né luce, né igiene. Li fanno lavorare dalle sei del mattino alle dieci di sera. E li pagano, quando pagano, quindici, venti euro al giorno. Chi protesta viene zittito a colpi di spranga. Qualcuno si è rivolto alla questura di Foggia. E ha scoperto la legge voluta da Umberto Bossi e Gianfranco Fini: è stato arrestato o espulso perché non in regola con i permessi di lavoro. Altri sono scappati. I caporali li hanno cercati tutta notte. Come nella caccia all’uomo raccontata da Alan Parker nel film ’Mississippi burning’. Qualcuno alla fine è stato raggiunto. Qualcun altro l’hanno ucciso.

Adesso è la stagione dell’oro rosso: la raccolta dei pomodori. La provincia di Foggia è il serbatoio di quasi tutte le industrie della trasformazione di Salerno, Napoli e Caserta. I perini cresciuti qui diventano pelati in scatola. Diventano passata. E, i meno maturi, pomodori da insalata. Partono dal triangolo degli schiavi e finiscono nei piatti di tutta Italia e di mezza Europa. Poi ci sono i pomodori a grappolo per la pizza. Gli altri ortaggi, come melanzane e peperoni. Tra poco la vendemmia. Gli imprenditori fanno finta di non sapere. E a fine raccolto si mettono in coda per incassare le sovvenzioni da Bruxelles. ’L’espresso’ ha controllato decine di campi. Non ce n’è uno in regola con la manodopera stagionale. Ma questa non è soltanto concorrenza sleale all’Unione europea. Dentro questi orizzonti di ulivi e campagne vengono tollerati i peggiori crimini contro i diritti.

Non ci vuole molto per entrare nel mercato più sporco dell’Europa agricola. Qualche nome inventato da usare di volta in volta. Una fotocopia del decreto di respingimento rilasciato un anno fa a Lampedusa dal centro di detenzione per immigrati. E la bicicletta, per scappare il più lontano possibile in caso di pericolo. Il caporale che pretende una ragazza in sacrificio controlla la raccolta dei perini a Stornara. Uno dei primi campi a sinistra appena fuori paese, lungo il rettilineo di afa che porta a Stornarella. Meglio lasciar perdere. Per arrivare fin qui bisogna pedalare sulla statale 16 e poi infilarsi per dieci chilometri negli uliveti. Il borgo è una piccola isola di case nell’agro. Alla stazione di Foggia, Mahmoud, 35 anni, della Costa d’Avorio, aveva detto che quaggiù la raccolta, forse, è già cominciata. Lui, che dorme in una buca dalle parti di Lucera, è senza lavoro: lì a Nord i pomodori devono ancora maturare. Così Mahmoud campa vendendo informazioni agli ultimi arrivati in treno. In cambio di qualche moneta.

Oggi dev’essere la giornata più torrida dell’estate. Quarantadue gradi, annunciavano i titoli all’edicola della stazione. Sperduta nei campi appare nell’aria bollente una stalla abbandonata. È abitata. Sono africani. Stanno riposando su un vecchio divano sotto un albero. Qualcuno parla tamashek, sono tuareg. Un saluto nella loro lingua aiuta con le presentazioni. La segregazione razziale è rigorosa in provincia di Foggia. I rumeni dormono con i rumeni. I bulgari con i bulgari. Gli africani con gli africani. È così anche nel reclutamento. I caporali non tollerano eccezioni. Un bianco non ha scelta se vuole vedere come sono trattati i neri. Bisogna prendere un nome in prestito. Donald Woods, sudafricano. Come il leggendario giornalista che ha denunciato al mondo gli orrori dell’apartheid. “Se sei sudafricano resta pure”, dice Asserid, 28 anni. È partito da Tahoua in Niger nel settembre 2005. È sbarcato a Lampedusa nel giugno 2006. Racconta che è in Puglia da cinque giorni. Dopo essere stato rinchiuso quaranta giorni nel centro di detenzione di Caltanissetta e alla fine rilasciato con un decreto di respingimento. Asserid ha attraversato il Sahara a piedi e su vecchi fuoristrada. Fino ad Al Zuwara, la città libica dei trafficanti e delle barche che salpano verso l’Italia. “In Libia tutti gli immigrati sanno che gli italiani reclutano stranieri per la raccolta dei pomodori. Ecco perché sono qui. Questa è solo una tappa. Non avevo alternative”, ammette Asserid: “Ma spero di risparmiare presto qualche soldo e di arrivare a Parigi”. Adama, 40 anni, tuareg nigerino di Agadez, ha fatto il percorso inverso. A Parigi è atterrato in aereo, con un visto da turista. Poi gli è andata male. Dalla Francia l’hanno espulso come lavoratore clandestino. Ed è sceso in Puglia, richiamato dalla stagione dell’oro rosso. “Questo è l’accampamento tuareg più a Nord della storia”, ride Adama. Ma c’è poco da ridere. L’acqua che tirano su dal pozzo con taniche riciclate non la possono bere. È inquinata da liquami e diserbanti. Il gabinetto è uno sciame di mosche sopra una buca. Per dormire in due su materassi luridi buttati a terra, devono pagare al caporale cinquanta euro al mese a testa. Ed è già una tariffa scontata. Perché in altri tuguri i caporali trattengono dalla paga fino a cinque euro a notte. Da aggiungere a cinquanta centesimi o un euro per ogni ora lavorata. Più i cinque euro al giorno per il trasporto nei campi. Lo si vede subito quanto è facile il guadagno per il caporale. Alle due e mezzo del pomeriggio arriva con la sua Golf. E la carica all’inverosimile. “Davvero questo è africano?”, chiede agli altri davanti all’unico bianco. Nessuno sa dare risposte sicure. “Io pago tre euro l’ora. Ti vanno bene? Se è così, sali”, offre l’uomo, calzoncini, canottiera e sul bicipite il tatuaggio di una donna in bikini ritratta di schiena.

Si parte. In nove sulla Golf. Tre davanti. Cinque sul sedile dietro. E un ragazzo raggomitolato come un peluche sul pianale posteriore. Solo per questo trasporto di dieci minuti il caporale incasserà quaranta euro. I ragazzi lo chiamano Giovanni. Loro hanno già lavorato dalle 6 alle 12.30. La pausa di due ore non è una cortesia. Oggi faceva troppo caldo anche per i padroni perché rinunciassero a una siesta. Giovanni si presenta subito dopo, guardando attraverso lo specchietto retrovisore: “Io John e tu?”. Poi avverte: “John è bravo se tu bravo. Ma se tu cattivo…”. Non capisce l’inglese né il francese. E questo basta a far cadere il discorso. Ma il pugnale da sub che tiene bene in vista sul cruscotto parla per lui. Amadou, 29 anni, nigerino di Filingue, rivela lo stato d’animo dei ragazzi: “Giovanni, oggi è venerdì e non ci paghi da tre settimane. Ormai stiamo finendo le scorte di pasta. Da quindici giorni mangiamo solo pasta e pomodoro. I ragazzi sono sfiniti. Hanno bisogno di carne per lavorare”. I tre euro l’ora promessi erano solo una bugia. Ma Giovanni promette ancora. Quando risponde dice sempre: “Noi turchi”. Anche se la targa della macchina è bulgara. E per il suo accento potrebbe essere russo oppure ucraino. “Ti giuro su Dio”, continua il caporale, “oggi arrivano i soldi e vi paghiamo. Tu mi devi credere. Io lavoro come te a Stornara. Non prendo in giro i miei colleghi”. Giovanni abita alla periferia. Un villino di mattoni sulla destra, a metà del rettilineo per Stornarella. Quasi di fronte a un’altra stalla pericolante senz’acqua, riempita di materassi e schiavi.

Sono almeno cinquemila. Forse settemila. Nessuno ha mai fatto un censimento preciso. Tutti stranieri. Tutti sfruttati in nero. Rumeni con e senza permesso di soggiorno. Bulgari. Polacchi. E africani. Da Nigeria, Niger, Mali, Burkina Faso, Uganda, Senegal, Sudan, Eritrea. Alcuni sono sbarcati da pochi giorni. Sono partiti dalla Libia e sono venuti qui perché sapevano che qui d’estate si trova lavoro. Inutile pattugliare le coste, se poi gli imprenditori se ne infischiano delle norme. Ma da queste parti se ne infischiano anche della Costituzione: articoli uno, due e tre. E della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Per proteggere i loro affari, agricoltori e proprietari terrieri hanno coltivato una rete di caporali spietati: italiani, arabi, europei dell’Est. Alloggiano i loro braccianti in tuguri pericolanti, dove nemmeno i cani randagi vanno più a dormire. Senza acqua, né luce, né igiene. Li fanno lavorare dalle sei del mattino alle dieci di sera. E li pagano, quando pagano, quindici, venti euro al giorno. Chi protesta viene zittito a colpi di spranga. Qualcuno si è rivolto alla questura di Foggia. E ha scoperto la legge voluta da Umberto Bossi e Gianfranco Fini: è stato arrestato o espulso perché non in regola con i permessi di lavoro. Altri sono scappati. I caporali li hanno cercati tutta notte. Come nella caccia all’uomo raccontata da Alan Parker nel film ’Mississippi burning’. Qualcuno alla fine è stato raggiunto. Qualcun altro l’hanno ucciso.

Padroni senza legge
Dietro il triangolo degli schiavi ci sono gli imprenditori dell’agricoltura foggiana e molte industrie alimentari. Piccole o grandi aziende non fanno differenza. Quando devono assumere personale stagionale per la raccolta nei campi, quasi tutte scelgono la scorciatoia del caporalato. Il compenso per gli stranieri varia da 2,50 a 3 euro l’ora (ai quali però vanno tolti tutti i ’servizi’ per il caporale). Anche per questo gli italiani sono scomparsi da questo tipo di lavoro. Solo una piccola minoranza degli agricoltori interpellati da ’L’espresso’ dice di pagare i braccianti da 4 a 4,50 euro l’ora. Ma sempre in nero e rivolgendosi a caporali. In Veneto e in Friuli un raccoglitore guadagna in media 5,80 euro l’ora più i contributi, se in regola. Oppure da 6,20 a 7 euro l’ora se ingaggiato in nero.

La legge prevede una retribuzione ordinaria di 35 euro al giorno. Per favorire le assunzioni regolari, il governo ha abbassato i contributi che gli imprenditori devono versare di circa il 75 per cento. Mentre il contributo dell’8,54% che il bracciante deve dare all’Inps è rimasto inalterato. I controlli sono inefficaci o inesistenti. Nell’ultimo anno in provincia di Foggia soltanto un imprenditore, a Orta Nova, è stato arrestato per sfruttamento dell’immigrazione clandestina.

I medici accusano: arrivano sani e si ammalano qui
Vivono in condizioni disumane. Proprio in questi giorni decine di abitanti del Ghetto, tra Foggia e Rignano, si sono ammalati di gastroenterite per le pessime condizioni dell’acqua. Ma anche quest’anno, l’Asl Foggia 3 ha rifiutato di mettere a disposizione strutture e ricettari per assistere gli stranieri sfruttati come schiavi nei campi. La denuncia è dell’associazione francese Medici senza frontiere che invece ha ottenuto la collaborazione dell’Asl Foggia 2 per l’assistenza sanitaria e umanitaria nel Sud della provincia. Da tre anni un ambulatorio mobile di Msf visita le campagne tra Cerignola e San Severo. Come se la provincia di Foggia fosse un fronte di guerra. Ci sono un medico, un’assistente sociale e un coordinatore: quest’anno Viviana Prussiani, Carla Manduca e Teo Di Piazza. “Per il terzo anno consecutivo siamo stati costretti a continuare questo progetto”, spiega Andrea Accardi, responsabile delle missioni italiane di Msf: “E ancora una volta nell’estate 2006 ci troviamo di fronte alla stessa situazione: gli stranieri arrivano sani e si ammalano a causa delle indecenti condizioni che trovano nelle campagne. Manca qualsiasi forma di accoglienza. Il sistema economico è totalmente ipocrita e vede la connivenza e il coinvolgimento di tutti gli attori. A partire dal governo e dalle istituzioni locali, ovvero Comuni e prefetture, fino ad arrivare alle Asl, alle organizzazioni di produttori e ai sindacati”.

Nel 2005 Msf ha pubblicato il rapporto “I frutti dell’ipocrisia” sulle drammatiche condizioni degli immigrati sfruttati come schiavi non solo in Puglia. Perché, secondo il tipo di raccolto, situazioni simili si ripetono in Calabria, Campania, Basilicata e Sicilia. Le malattie più gravi sono state diagnosticate negli stranieri che vivono in Italia da più tempo, tra 18 e 24 mesi. Il 40 per cento dei lavoratori nell’agricoltura vive in edifici abbandonati. Oltre il 50 non dispone di acqua corrente. Il 30 non ha elettricità. Il 43,2 per cento non ha servizi igienici. Il 30 ha subito qualche forma di abuso, violenza o maltrattamento

(fonte: L’ESPRESSO)

29 Comments

  1. Proporrei per la prossima raccolta, i nostri parlamentari (finalmente lavorerebbero un po’), buona parte dei consiglieri regionali soprattutto della Lombardia!.. e tanti,tanti altri in modo particolare tutti coloro i quali vivono di politica e null’altro. Parassiti vergognatevi.

MANIFESTAZIONE DEI/DELLE MIGRANTI domenica 18 maggio ore 16 – Piazza XX settembre Bologna (autostazione)

 

MANIFESTAZIONE DEI/DELLE MIGRANTI
domenica 18 maggio
ore 16 – Piazza XX settembre
Bologna (autostazione)
 
– CONTRO L’APERTURA DEL CENTRO DI IDENTIFICAZIONE ED ESPULSIONE DI BOLOGNA
– Contro le cattive pratiche nel rinnovo del permesso e della carta di soggiorno della Questura di Bologna

– Contro il legame tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro
– Contro il razzismo istituzionale
 
La Questura di Bologna non rinnova il permesso di soggiorno se il padrone non versa i contributi, continua a dare permessi per ricerca lavoro di 6 mesi anche se la legge prevede che siano di un anno, non rispetta i 60 giorni per fare i rinnovi e  consegna i permessi quasi scaduti, non rilascia i permessi a tutti coloro che hanno partecipato all’ultima sanatoria, non rispetta i tempi per la concezione della cittadinanza. Come se non bastasse, oggi questura e prefettura sono pronte a riaprire il Centro di identificazione ed espulsione di via Mattei, dove i migranti sono rinchiusi per mesi per il solo fatto di non avere o di avere perso il permesso di soggiorno. E’ ORA DI DIRE BASTA! TUTTI IN PIAZZA!
 
Per Info:

MANIFESTAZIONE DEI/DELLE MIGRANTI ore 16 – Piazza XX settembre bologna

MANIFESTAZIONE DEI/DELLE MIGRANTI
domenica 18 maggio
Bologna (autostazione)
 
La Questura di Bologna non rinnova il permesso di soggiorno se il padrone non versa i contributi, continua a dare permessi per ricerca lavoro di 6 mesi anche se la legge prevede che siano di un anno, non rispetta i 60 giorni per fare i rinnovi e  consegna i permessi quasi scaduti, non rilascia i permessi a tutti coloro che hanno partecipato all’ultima sanatoria, non rispetta i tempi per la concezione della cittadinanza. Come se non bastasse, oggi questura e prefettura sono pronte a riaprire il Centro di identificazione ed espulsione di via Mattei, dove i migranti sono rinchiusi per mesi per il solo fatto di non avere o di avere perso il permesso di soggiorno. E’ ORA DI DIRE BASTA! TUTTI IN PIAZZA!
 
Per Info:

Libri & Conflitti. La recensione di CIE E COMPLICITA’ DELLE ORGANIZZAZIONI UMANITARIE | Autore: carlo d’andreis da: controlacrisi.org

Libri & Conflitti. In Italia, in tredici Centri di Identificazione ed Espulsione sono recluse oggi migliaia di persone – nel 2012, 7.012 uomini e 932 donne – che hanno la sola colpa di essere migranti. Miliardi di euro vengono spesi per trattenere queste persone e poi espellerle, verso i Paesi dai quali erano faticosamente e onerosamente partite. Molti di questi soldi pubblici finiscono nelle tasche delle organizzazioni “umanitarie” che hanno accettato di gestire i CIE, ben sapendo che i dispositivi fondamentali sui quali questi non-luoghi sono costruiti sono gli stessi che hanno caratterizzato i campi di internamento storici, compresi i lager nazisti. Le frequenti manifestazioni di disagio dei reclusi nei Centri non lasciano dubbio alcuno sulle condizioni di vita al loro interno. E, d’altra parte, chiudere in gabbia delle persone che si spostano nel mondo non sembra in ogni caso una risposta accettabile. Questo libro vuole aprire una riflessione seria e non ideologica sull’istituzione CIE e invita ciascuno di noi a confrontarsi con la propria personale responsabilità riguardo alla loro esistenza.

L’estratto QUI

Il libro di Davide Cadeddu ci parla dei CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione) oggi più presenti nei mass-media in seguito alle molte rivolte, scioperi ed episodi di autolesionismo accaduti al loro interno. I CIE sono veri e propri luoghi di detenzione, dove uomini e donne che non hanno commesso alcun reato restano reclusi fino a un periodo che può durare – adesso- anche diciotto mesi.

Nei CIE ci si entra per motivi di vario tipo, come ci dice il racconto di Aziz, da cui ne è evaso due volte: “Ai CIE si entra per tanti motivi, con tante storie diverse. La maggior parte delle persone che ho conosciuto è stata portata in un CIE perché, una volta perso il lavoro, ha perso il permesso di soggiorno che a questo è collegato”.
Proprio per questo meccanismo che la macchina delle espulsioni di cui i CIE fanno parte, come rileva l’autore, genera una condizione di terrore negli immigrati che vivono con la paura di tornarsene nei paesi di appartenenza da cui sono fuggiti (di solito per fame, a causa della guerra o perché perseguitati) per giunta con un debito da pagare contratto per comprarsi il viaggio clandestino che con molte sofferenze li ha portati fin qui.

L’autore con il supporto di numerosissime fonti e con l’ausilio di molti articoli affronta il tema dei CIE da vari punti di vista; così apprendiamo che, nonostante “la macchina” delle espulsioni costi duecentomila euro allo Stato, solamente una parte molto esigua dei clandestini è rimpatriata, compito per cui formalmente sono preposti tali apparati. Più avanti si citano tutte le leggi che a vario titolo, e durante governi diversi, hanno modificato la natura e il tempo massimo di permanenza nei CIE.

L’autore cerca inoltre di ripercorrere la storia dei campi d’internamento, in continuità tra loro per la caratteristica di essere Istituti Totali dove i diritti dei reclusi sono sospesi e dove non esistono alcun tipo di regole, a differenza dei carceri, dove esistono delle regole ben precise.

La questione centrale (e anche la più inedita e coraggiosa) di questo libro, dichiarata esplicitamente nel sottotitolo, è la denuncia della complicità delle organizzazioni umanitarie che gestiscono i CIE nella segregazione degli immigrati clandestini come prassi preferenziale.
Queste organizzazioni come la Croce Rossa e Connecting People per tornaconto economico hanno interesse a che i CIE restino operativi: ”I gestori – da sempre- dei campi per migranti, invece di assumersi le proprie responsabilità per il fallimento colossale e sotto gli occhi di tutti del sistema CIE, invece di assumersi le responsabilità morali per aver fatto carne da macello della vita e dei corpi di tanti migranti internati, dicono alle istituzioni che tale insuccesso è dovuto al fatto di non essere stati messi nelle condizioni per poter operare adeguatamente e reclamano così un loro maggior coinvolgimento operativo.”

Pur condividendo le ragioni di questo libro e i molti e giusti argomenti di riflessione ritengo che sia stata un’occasione mancata per portare alla luce alcune delle tante storie e testimonianze che s’intrecciano nei CIE, fatta eccezione per i brevi racconti di Aziz e Angela (ex operatrice CIE).
L’eccesivo ricorso alla trascrizione di testi anche molto lunghi e l’approccio spesso didattico nel cucire i tanti aspetti dell’argomento fanno somigliare il testo, nella forma dell’impianto, a una preziosa tesi di laurea.

Davide Cadeddu (1974), educatore, insegnante e formatore. Vive a Torino, dove, negli ultimi 16 anni, ha promosso e coordinato progetti socioeducativi e formativi nell’ambito del lavoro di strada, delle tossicodipendenze, dell’aggregazione giovanile, dell’accoglienza dei migranti e dei richiedenti asilo politico; ha lavorato nella formazione professionale con giovani e adulti. Attualmente lavora come educatore in una comunità per minori. Ha dato vita all’Associazione Onda Urbana e al progetto “Tana Libera Tutti”, nel quartiere torinese di Porta Palazzo.Cie e le complicità delle organizzazini umanitarie
di Davide Cadeddu
Sensibili alle foglie
isbn 978-88-89883-80-8
Euro 15,00
pagine 128

aggiornamenti su Cassibile da: Rete Antirazzista Catanese

A Cassibile anche quest’anno per i migranti accoglienza zero !
Come ogni anno, da aprile a giugno, in occasione della raccolta delle
patate, ai  circa 5.000 residenti a Cassibile (oltre 300 provengono dal
Marocco), si aggiungono diverse centinaia di migranti. Quest’anno non
essendo elevata la produzione di patate, si stanno intanto raccogliendo
carote ed insalate. I problemi sono legati innanzitutto alla sistemazione
logistica e alla organizzazione del lavoro. In generale, chi arriva proviene
dal Nord Italia e da altre “raccolte” (una vera transumanza del lavoro
migrante nelle campagne meridionali). Negli ultimi anni  il numero dei
lavoratori stagionali (circa 500) si è mantenuto stazionario perché in tanti
hanno perso il posto di lavoro nelle fabbriche e nei cantieri del nord.
La presenza stanziale di una comunità marocchina rende più semplice il
“primo impatto” per chi proviene dal Maghreb. Per loro è infatti possibile
affittare appartamenti o stanze nel centro abitato. Gli altri (Sudanesi,
Somali, Eritrei) hanno potuto negli anni scorsi utilizzare il campo
allestito dalla Croce Rossa, o trovare rifugio, senza acqua né luce,  nei
caseggiati di campagna abbandonati o in tende di fortuna. La Croce Rossa ha
gestito fino al 2012 una tendopoli che in media ha “accolto” solo 140/150
migranti. Ancora più complicata, ovviamente, la situazione per chi è
costretto a inventarsi improbabili ricoveri fra le strutture fatiscenti e
abbandonate. Risolto  il problema del precario riparo notturno, si può
iniziare la sempre più difficile ricerca di un lavoro, anche per una sola
giornata. La stragrande maggioranza dei migranti che arrivano a Cassibile è
regolare con il permesso di soggiorno  – rifugiati, richiedenti asilo,
protezione umanitaria, in regola con il PDS, in attesa di rinnovo –  ma,
non potendo lavorare nel rispetto delle norme contrattuali, viene spinta
verso il lavoro irregolare con il rischio di perdere il permesso di
soggiorno, grazie a vergognose leggi razziali come la Bossi-Fini ed il
“pacchetto sicurezza”. Teoricamente l’assunzione di manodopera dovrebbe
essere eseguita tramite gli uffici preposti, il salario orario netto
dovrebbe essere di 6 euro e venti, sei ore e trenta minuti la giornata
lavorativa, spese logistiche, di trasporto e materiale di lavoro (scarpe
antinfortunistiche, guanti) a carico del datore di lavoro. In realtà il
collocamento è sostanzialmente in mano ai “caporali” (in buona parte di
origine marocchina) e ai subcaporali,  in base alle varie etnie; costoro
gestiscono anche i trasporti (da 3 a 5 euro il costo) e trattano salari
differenziati: chi viene dal Maghreb guadagna fra 35 e 40 euro, gli altri 30
o ancora meno. Gli orari sono “flessibili”, se vuoi lavorare devi comunque
essere in grado di riempire quotidianamente almeno 100 cassette, ognuna del
peso di 20/22 chili. Anche quest’anno la tendopoli della Croce Rossa non ci
sarà . L’accoglienza, gestita da sempre  come emergenza, si è rivelata un
fallimento, oltre che un inutile spreco di denaro: negli anni gli stessi
soldi avrebbero potuto essere investiti in un progetto d’accoglienza
duraturo mentre adesso, in tempi di sanguinosi tagli alle spese sociali, c’è
il rischio che centinaia di migranti possano essere abbandonati al
supersfruttamento di padroni senza scrupoli, in disastrose condizioni di
vivibilità. E’ drammatico che ciò si ripeta ogni anno in una terra dove 45
anni fa ci furono eroiche lotte bracciantili che riuscirono a debellare a
livello nazionale le piaghe delle gabbie salariali e del caporalato. Negli
anni scorsi numerosi migranti hanno inoltre ricevuto la vergognosa
contestazione di “invasione di terreni o edifici e danneggiamento” da parte
delle forze dell’ordine; come al solito lo stato riesce a  dimostrare la sua
forza solo con i deboli, peccato che sia quasi sempre debole con i forti.
Perché non si controlla a monte chi compie il reato di caporalato? Perché ci
si accanisce contro chi non ha il permesso di soggiorno, criminalizzandolo,
quando  invece ci sono tante ditte che evadono i contributi ed ingrassano i
caporali? Perché non si individuano e perseguono le ditte che
commercializzano le patate provenienti da Tunisia, Cipro e Marocco
(conservate più a lungo grazie all’illegale uso di antiparassitari),
spacciandole per prodotti locali?
Oramai il mercato europeo è invaso dalle patate prodotte soprattutto in
Egitto a costi molto inferiori. Il principio di “Uguale salario per uguale
lavoro” o diventa la bussola dell’associazionismo antirazzista e del
sindacalismo conflittuale o la differenziazione etnica dei salari (quest’anno
oscillano da 30 a 40 euro al giorno per 9/10 ore lavorative!) può innescare
fratricide guerre fra poveri, contrapponendo lavoratori italiani e migranti,
e gli stessi migranti di diverse nazionalità, soprattutto in presenza dell’attuale
devastante crisi economica. L’esemplare esperienza dell’estate 2011 a Nardò
ha dimostrato che i migranti possono riuscire ad autorganizzarsi ed a
lottare per i propri diritti nelle campagne, anche grazie al sostegno dell’associazionismo
antirazzista e del sindacalismo conflittuale.
Rilanciamo anche quest’anno l’appello all’associazionismo solidale, ai GAS
(Gruppi di Acquisto Solidale), ai GAP ed alle esperienze di consumo critico
a sostenere la campagna di acquisto delle patate socialmente eque,  prodotte
dalle ditte che rispettano le norme contrattuali (info: 3803266160 –

Rete Antirazzista Catanese

http://www.youtube.com/watch?v=Qg237emc5r8

da: coordinamento migranti bologna : Impedire la riapertura del CIE di via Mattei.

Praticare il dissenso, solidarietà senza confini:

Impedire la riapertura del CIE di via Mattei.

 

Il Ministero dell’Interno ha stanziato i finanziamenti per i lavori di riapertura del CIE di Via Mattei, il centro di detenzione per migranti che ha rappresentato una pagina nera nella storia di Bologna. Noi non siamo disponibili ad accettare la sua riapertura e riteniamo necessario opporre con forza il rifiuto di tutta la città a questa fabbrica di ingiustizia e sofferenza, che rinchiude e priva della libertà i migranti per il solo fatto di non avere o di aver perso il permesso di soggiorno… Un rifiuto dimostrato in oltre quindici anni di lotte che, a Bologna come altrove, hanno espresso – dall’esterno e dall’interno di quelle gabbie – un’opposizione senza ambiguità all’aberrazione umana e giuridica rappresentata dai CIE. Battaglie che hanno denunciato come la detenzione amministrativa – prevista per la prima volta dalla legge Turco-Napolitano – sia funzionale ai dispositivi legislativi che mirano a sfruttare, ricattare, discriminare i migranti, come la legge Bossi-Fini. Grazie a questi percorsi di mobilitazione e al protagonismo dei migranti in lotta dentro e fuori i luoghi di lavoro si è consolidato un patrimonio di dissenso che ha indicato le responsabilità degli attori coinvolti, incluse le amministrazioni locali, oggi a favore della chiusura definitiva del CIE di via Mattei.

Ma non possiamo fermarci qui… Di fronte a politiche europee e nazionali che mirano a separare e diversificare, ci sentiamo sempre più uniti nelle nostre differenze e condizioni. Alla minaccia dell’egoismo e dell’indifferenza reagiremo il 18 maggio, all’interno della settimana di mobilitazione promossa tra gli altri dal coordinamento Europeo Blockupy, con solidarietà e determinazione, consapevoli che libertà e democrazia sono da reinventare e costruire attivamente dalla parte dei migranti, per il diritto a una vita degna per tutti/e, partendo dall’opposizione a tutti gli strumenti del razzismo istituzionale come i centri di detenzione e identificazione… Per questo invitiamo tutte e tutti a partecipare all’assemblea cittadina giovedì 8 maggio alle 20.30 presso Làbas occupato, per costruire insieme una grande manifestazione per domenica 18 maggio a Bologna… continua a leggere cliccando qui…

Adl Cobas, Carovana Europea Bruxelles 2014, Cobas Bologna, Coordinamento Migranti, Cs TPO, Hic Sunt Leones Football antirazzista, Làbas occupato, RID/CommuniaNetwork, ∫connessioni precarie, Scuola Kalima Tpo, SIM – scuola di italiano con migranti Xm24, Sportello medico-legale Xm24, Sportello legale Tpo, Unione sindacale italiana – Associazione internazionale dei lavoratori – lavoratori e lavoratrici anarchici, Vag61…

www.coordinamentomigranti.org

Per adesioni: nocienocara@gmail.com

Evento Facebook: https://www.facebook.com/events/305128942972564/

Elezioni in Turchia, la vittoria dei curdi tra la supremazia di Erdoğan da: uiki

Elezioni in Turchia, la vittoria dei curdi tra la supremazia di Erdoğan

Il ragazzo turco seduto accanto a me sull’aereo che da Istanbul ci sta riportando a Milano parla bene l’italiano. Con occhi curiosi e orgogliosi mi chiede subito se mi è piaciuta la Turchia. Gli dico che mi è piaciuta moltissimo, la vita pulsa in ogni angolo di questa stupenda città che è Istanbul. Si sente tutta l’energia dell’incredibile crescita economica di questi anni. Commentiamo che in questo momento si sta probabilmente meglio in Turchia che in Italia; lui mi dice che se non avesse l’impegno di un bar/kebab aperto a Cremona tornerebbe in Turchia volentieri. Gli chiedo di dove è originario e se è venuto per votare. Noto subito il suo imbarazzo nel rispondermi. Esita, fa un sorrisetto nervoso. Capisco al volo e suggerisco: Kurdistan? I suoi occhi si illuminano. Sì è curdo, viene da Diyarbakir; anche se, come ci tiene a specificare, è ovviamente turco, come tutti, e poi curdo. Certo, gli dico, non preoccuparti ho presente la situazione. In Italia è arrivato con una richiesta di asilo politico. È uno dei casi fortunati: gli è stato concesso e ora ha il permesso di soggiorno, tutto regolare. Non ha combattuto direttamente, ma per quel che ha fatto, per il suo supporto al Pkk, in Turchia non sarebbe uscito carcere per molto, molto tempo.

Il popolo curdo è stato duramente oppresso e soppresso in Turchia; la loro lingua vietata, la bandiera curda bandita, perfino la musica censurata. I curdi hanno lottato, con ogni mezzo, per affermare la loro identità negata, e in parte ce l’hanno fatta. Il curdo non è più vietato, anzi può essere usato nelle scuole, la loro bandiera sventola durante le manifestazioni e si danza al ritmo delle belle musiche curde. Ma, senza dimenticare gli oltre 40.000 morti che si contano dal 1984, migliaia di prigionieri politici sono ancora nelle prigioni turche, sottoposti ad abusi e torture. E sono davvero molti i guerriglieri pronti a imbracciare di nuovo le armi non appena ve ne fosse bisogno. La tregua è fragile e apparente.

Sto tornando proprio da Van, all’estremità della Turchia orientale, geograficamente quasi al confine con l’Iran. Si tratta di una delle più grandi città del Kurdistan turco, un tempo capitale dell’antichissimo regno di Urartu, affacciata sulle sponde del più grande lago della Turchia.

Sono stata qui come membro di una delegazione di osservatori internazionali venuti allo scopo di monitorare le elezioni amministrative del 30 marzo. Nessun incarico ufficiale dell’Onu o dell’Unione Europea (che non avevano mandato osservatori in Turchia). Siamo qui in risposta all’invito rivoltoci dalla società civile curda, ed in particolare dal Partito per la Democrazia e la Pace (Bdp) che sta portando avanti con forza, coraggio e assoluta determinazione la nuova linea dettata da Öcalan: alla lotta armata sostituire la lotta politica. Alla violenza la democrazia. L’invito a deporre le armi per cercare la via della pacificazione è chiaro ed è stato veicolato pochi giorni, fa ancora una volta per lettera, ai milioni di persone che hanno festeggiato il Newroz (il capodanno curdo). Non vi è dubbio che il tentativo sia serio e, da quanto abbiamo potuto osservare, stia già dando i suoi frutti.

Tutti i giornali hanno ripreso la notizia degli otto morti (vittime di scontri tra famiglie a Urfa, non lontano da Diyarbakir) nel giorno delle elezioni, ma nessuno ha parlato della grande responsabilità dimostrata dai rappresentanti curdi del Bdp, che non hanno risposto alle provocazioni, che pure ci sono state, da parte dei militari e della polizia. A tre giorni dal voto, in occasione del comizio a Van tenuto da Erdoğan in persona, la polizia ha sparato – ufficialmente in aria per disperdere dei manifestanti, in realtà, come dimostrano le foto, mirando a bruciapelo – ed ha colpito al petto un giovane che assisteva dalla finestra del Grand Hotel. Poteva essere tragedia, una seconda Gezi Park, e se non lo è stata è solo grazie ai rappresentanti del partito che hanno tenuta a bada la rabbia della gente, richiamando al senso di responsabilità per non fare degenerare la situazione a poche ore dalle elezioni.

Il voto del 30 marzo era di fondamentale importanza non solo per il primo ministro Erdoğan, che aveva  bisogno di verificare il livello di consenso ancora detenuto, a pochi mesi dalle elezioni politiche e presidenziali e nonostante gli scandali che lo hanno travolto nell’ultimo anno.

Queste amministrative hanno assunto significato di referendum anche per i rappresentati del popolo curdo, che puntano ad una autonomia all’interno della Turchia. La campagna elettorale del Bdp è stata entusiasmante e, nonostante la dura repressione da parte del governo turco seguita alle elezioni del 2009 (con migliaia di arresti politici), ancora piena di speranza. L’agenda politica è democratica e progressista, con particolare riguardo alle donne: piuttosto che sulle quote, il modello è basato sulla condivisione di ogni funzione direttiva tra un rappresentante maschile e uno femminile. Questo principio, già applicato per tutte le posizioni di dirigenza del partito, verrà ora esteso alle varie cariche amministrative a livello di zona, comunale, provinciale e regionale. Il Bdp non ha vinto ovunque (molti, anche nella regione orientale hanno votato per il partito di Erdoğan), ma dove ce l’ha fatta, a Diyarbakir, a Hakkari, a Van e in molte altre città e paesi del Kurdistan, la funzione di sindaco sarà ora condivisa da due persone: un uomo e una donna. Nessuna decisione potrà essere presa senza accordo tra i due rappresentati. Sebbene non riconosciuto ufficialmente da Ankara, il modello attuato di fatto dal Bdp nelle sue amministrazioni, ha l’obiettivo non solo di cambiare le istituzioni ma anche di apportare un forte impulso all’interno della società curda, dove la situazione e il ruolo delle donne lasciano ancora molto a desiderare.

Con fuochi d’artificio e clacson incessanti, musica e falò sotto la neve, Van ha festeggiato i risultati elettorali: in realtà i festeggiamenti erano iniziati ben prima dell’annuncio ufficiale dei risultati, tutta la campagna elettorale si è tinta di festa. L’entusiasmo è palpabile da queste parti, almeno quanto la speranza di una nuova stagione politica, che sia in grado di valorizzare l’identità di questo popolo, troppo a lungo negata.

di Chantal Meloni

Il Fatto Quotidiano | 1 aprile 2014

La sostanza della pena: osservazioni non umanitarie sulla cosiddetta abolizione del reato di clandestinità di coordinamentomigranti

Dopo tanti annunci, ecco che il reato di clandestinità è stato (finalmente) abolito. In realtà, il Parlamento ha dato mandato al governo di abolirlo. Si tratta apparentemente di una buona notizia per decine di migliaia di migranti, considerati dei criminali solo perché i documenti non sono in regola, a causa di leggi italiane ed Europee che rendono impossibile muoversi liberamente e mantenere stabilmente un permesso di soggiorno. Eppure, dietro la ‘buona’ notizia, come spesso accade quando si tratta di migranti, si nasconde una trappola politica: il reato, infatti, non è abolito, ma è di fatto “spostato” a dopo l’aver ricevuto un decreto di espulsione. La nuova legge prevede l’arresto per chi rientra in Italia dopo aver ricevuto un “provvedimento di espulsione”. La vera domanda è dunque: adesso che finalmente è stato abolito il reato, inizieranno a finire in carcere i migranti che lottano contro l’espulsione, cosa che prima raramente accadeva?

Grazie all’abolizione si libererà un po’ di lavoro per magistrati e tribunali. Ma cosa cambia davvero? Di fatto, chi entra in condizione d’irregolarità e non può richiedere l’asilo politico, riceverà prima o poi un decreto di espulsione. E se non adempie, o se “ritorna”, sarà passibile di arresto. E allora? Sappiamo che un provvedimento di espulsione non significa automaticamente l’allontanamento reale dal territorio, ma si tratta di un provvedimento la cui applicazione può variare a seconda dei casi. Sappiamo anche che chi migra per cambiare la propria vita non si fa dettare le regole da governi in cerca di legittimità. Spesso chi riceve un decreto di espulsione rimane sul territorio, dove magari vive da anni, ha pagato le tasse e i contributi e ha una famiglia e gli amici. L’abolizione del reato, ma il mantenimento dell’arresto per l’espulsione, significa dunque che saranno tanti i migranti denunciati (e questa volta a rischiare davvero l’arresto) per il solo motivo di non avere i documenti in regola, magari perché hanno perso il lavoro, o perché il loro datore di lavoro li ha truffati per anni senza pagare i contributi. L’espulsione fa semplicemente parte della legge Bossi-Fini, contro la quale i migranti si scontrano ogni giorno.

Migranti in piazza contro la legge Bossi-Fini il 23 marzo scorso a Bologna

È allora necessario chiarire ancora una volta che le leggi sull’immigrazione, sul piano materiale, non regolano gli “ingressi” sul territorio nazionale ed Europeo, ma regolano lo status giuridico e la condizione sociale di uomini e donne che vivono qui, ma provengono da altri paesi. Le leggi sull’immigrazione producono effetti reali, catastrofi politiche e sfruttamento, si basano però sulle finzioni: basti pensare alla logica dei flussi, secondo la quale ogni anno si deve stabilire di quanti ingressi regolari c’è bisogno. Tutti sanno che, in assenza di altri modi per ottenere i documenti, in gran parte si tratta di una sanatoria mascherata, e che i decreti flussi (e le stesse sanatorie) servono soprattutto ai datori di lavoro per non rischiare. A cosa serve allora l’abolizione del reato di clandestinità? Serve soprattutto a risolvere un grosso problema per i tribunali e le forze di polizia italiane, costrette dopo la sua introduzione a non poterlo applicare, ma a dover gestire migliaia di denunce e procedimenti che ne intasano gli uffici. Come ha ben spiegato l’umanitarianissima presidente della Camera Boldrini, se “si volta pagina” è soprattutto per questo.

C’è di più. Il reato di clandestinità è stato introdotto con il cosiddetto pacchetto sicurezza. Cancellarlo, dunque, lascia assolutamente intatta la legge Bossi-Fini e il suo fondamento: il legame tra il permesso di soggiorno e il contratto di lavoro. Rimangono anche i CIE e rimangono le espulsioni, la cui forza viene anzi rafforzata: fatto salvo l’elemento umanitario, infatti, abolire il reato di clandestinità in questo modo aiuta a separare i migranti buoni da quelli cattivi. Quelli ‘buoni’ lavorano e quando glielo si dice se ne vanno in silenzio, oppure arrivano con i barconi scappando dalle guerre, sono indifesi e sarebbe meglio non denunciarli. Quelli ‘cattivi’, invece, decidono dove cercare di migliorare la loro vita e pretendono di continuare a farlo anche contro una legge fatta apposta per sfruttarli, magari alzano la voce, manifestano e scioperano: quelli vanno espulsi e, se ci riprovano, vanno arrestati. La Bossi-Fini esce politicamente rafforzata dalla cancellazione del reato e si capisce bene che chi oggi festeggia o lo fa in malafede, difendendo l’apartheid democratico, oppure non ha capito come funziona la cosiddetta regolazione dell’immigrazione.

Il PD di governo, anziché rincorrere le bandiere leghiste, dovrebbe piuttosto pensare alle sue, come l’esistenza dei CIE (i CPT introdotti dalla Turco Napolitano) e la logica dei flussi. A scanso di equivoci: nemmeno chi ha votato contro l’abolizione del reato lo ha fatto perché è dalla parte dei migranti, ma solo per aggiungere anche le sue stelle nel firmamento del razzismo. Sono tutti d’accordo, infatti, sul modello d’integrazione da perseguire, che ha dei risvolti penosi anche nella sbandierata soluzione “svuota carceri” di far scontare ai migranti la pena nel paese d’origine. Un recente accordo con il Marocco prevede infatti il trasferimento dei detenuti marocchini dalle carceri italiane a quelle del Marocco, in nome del “reintegro” in quella che viene definita la società di “appartenzenza” di questi migranti. Si decide dunque per legge a quale società devono appartenere uomini e donne che, al contrario, mostrano con il loro movimento di voler scegliere liberamente il loro futuro.

Noi siamo ben contenti se si abolisce il reato di clandestinità, del resto già fortemente depotenziato da diversi provvedimenti di tribunali italiani ed Europei. Abbiamo però imparato a conoscere come funzionano il razzismo istituzionale, le gerarchie e lo sfruttamento che produce, e a non fidarci di chi continua a proporre miglioramenti di facciata per mantenere la sostanza del legame tra permesso di soggiorno e rapporto di lavoro. Per questo non fermeremo la nostra lotta.

Reato di soggiorno per punti da:Coordinamento Migranti – Scuola di Italiano con Migranti XM24 – Sportello Legale XM24

Reato di soggiorno per punti

pallottoliereCon una circolare dello scorso febbraio il Ministero dell’Interno ha illustrato alle Prefetture il regolamento sull’accordo di integrazione, rendendo così esecutive le procedure di verifica del cosiddetto “permesso di soggiorno a punti” entrato in vigore nel marzo del 2012 con il decreto dell’allora ministro Maroni. Si tratta di una verifica che riguarda al momento soltanto circa 26 mila migranti (tra questi poco più di 2 mila nella provincia di Bologna). Eppure, l’accordo di integrazione e il relativo permesso a punti costituiscono il futuro orizzonte del razzismo istituzionale volto a definire le nuove gerarchie dello sfruttamento del lavoro migrante.

Ad eccezione di quanti hanno il permesso di soggiorno per asilo e per motivi umanitari, oppure di quanti hanno esercitato il diritto al ricongiungimento familiare o hanno ottenuto un permesso di soggiorno CE di lungo periodo o la carta di soggiorno, tutti i migranti entrati in Italia dopo il 10 marzo 2012 (data del decreto Maroni) sono obbligati a sottoscrivere un accordo di integrazione, firmando una Carta dei Valori e impegnandosi così a raggiungere (partendo da 16 punti) un minimo di 30 punti per non perdere il permesso di soggiorno e non essere espulsi. Dopo due anni dalla firma, lo Sportello Unico dell’Immigrazione è, infatti, chiamato a verificare il rispetto dell’accordo calcolando i punti conquistati e quelli persi. Che cosa stabilisce la Carta dei Valori? E soprattutto come si conquistano o si perdono punti?

La “Carta dei Valori, della Cittadinanza e dell’Integrazione” descrive l’Italia come una comunità di persone e di valori: una sorta di paradiso in terra! Tra i molti valori che rendono gioiosa la vita in paradiso, ci sono: libertà, giustizia, uguaglianza, solidarietà, dignità, la parità tra uomo e donna, i diritti umani e persino quelli sociali, come se il welfare non fosse ormai un miraggio per tutti, precari, operai e migranti. In effetti, quando entrano per la prima volta in questo paese, i migranti forse non sanno che esistono i centri di identificazione ed espulsione (CIE) dove si può essere rinchiusi per mesi senza aver commesso alcun reato, ma soltanto per aver perso il diritto a restare. Non sanno che per rinnovare il permesso dovranno dimostrare continuamente di avere un contratto di lavoro, di avere un reddito sufficiente, una casa con una certa metratura e di aver versato i contributi. Non sanno neanche di dover pagare centinaia di euro a ogni rinnovo per ogni membro della loro famiglia e di dover aspettare mesi (anche se la legge stabilisce un tempo massimo di sessanta giorni) per avere in mano un foglio di carta che talvolta è persino consegnato in scadenza. Non sanno inoltre che non potranno riscattare i contributi versati in anni di lavoro, nel caso perdessero il permesso o decidessero di tornare nel loro paese (a meno di accordi bilaterali stipulati dal governo italiano, ancora però con pochi paesi). Non sanno che dovranno aspettare più di dieci anni per avere la cittadinanza, semmai riusciranno a ottenerla. Non sanno che i loro figli nati e cresciuti qui non sono cittadini, ma dovranno sottostare come loro al ricatto del permesso di soggiorno una volta compiuti 18 anni e terminati gli studi. Non sanno neanche che può succedere che i loro figli siano respinti dalle scuole, si dice per “mancanza di posti”, nonostante il diritto alla scuola dell’obbligo sia stabilito dalla Costituzione. La Carta dichiara inoltre la parità di genere, ma le migranti che entrano per ricongiungimento familiare non sanno che per lo Stato italiano “esistono” soltanto nel permesso di soggiorno del marito. Però la poligamia è vietata. Non sapendo tutto questo, senza dubbio, i migranti aderiranno più che volentieri ai valori di una Carta che li vuole integrare in un paese che affonda le sue radici nella “tradizione ebraico-cristiana”, ma che comunque garantisce la libertà religiosa.

Dopo aver sottoscritto la Carta e stipulato l’accordo di integrazione, i migranti entrano in paradiso direttamente nel girone dei giochi a premi. Ecco alcuni esempi. Dopo due anni, chi dimostrerà di conoscere bene la lingua italiana – avendo conseguito titoli scolastici oppure semplicemente pagando un corso in una scuola d’italiano – conquisterà dai 10 ai 30 punti a seconda del livello di conoscenza. Chi avrà frequentato istituti tecnici o corsi universitari, oppure chi insegnerà nelle università, otterrà fino a un massimo di 50 punti. Diversamente, chi avrà conseguito semplicemente un diploma di istruzione secondaria o avrà aggiornato le proprie competenze con corsi di formazione professionale conquisterà soltanto un misero premio di 4 o 5 punti. Infine, sono previsti 6 punti per chi avrà un regolare contratto di affitto o di acquisto di una casa, e 4 punti per chi sceglierà un medico di base. Sanzioni penali e pecuniarie per reati e illeciti amministrativi e tributari di vario tipo comportano invece la perdita di un minimo di 2 punti fino a un massimo di 25.

A questo punto le regole del gioco a premi dovrebbero essere chiare. Dopo due anni, chi avrà raggiunto 30 punti sarà “libero” di vivere in paradiso pur dovendo sottostare al ricatto del permesso di soggiorno legato al lavoro. Chi invece non avrà raggiunto 30 punti retrocede in purgatorio, rimane cioè sotto “giudizio” e avrà tempo ancora un anno per redimersi. Alla scadenza dell’anno, se i termini dell’accordo di integrazione non saranno rispettati, il suo permesso di soggiorno sarà revocato e si ritroverà in mano il foglio di via: sarà espulso. La revoca del permesso è immediata nel caso di punteggio pari a 0 dopo due anni dalla stipula del contratto. Alla fine del gioco quello che è chiaro è che il paradiso descritto dalla Carta dei Valori non è altro che l’inferno delle nuove gerarchie del razzismo istituzionale, non solo tra migranti e italiani, ma tra gli stessi migranti.

Quando è entrata in vigore ormai più di dieci anni fa, la legge Bossi-Fini ha introdotto in modo più stringente di quanto non fosse in passato il legame tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro: il permesso di soggiorno è così diventato un vero e proprio ricatto che, in particolare in seguito alla crisi economica, ha costretto i migranti ad accettare qualsiasi lavoro, senza qualifiche e sicurezze, con salari sempre più bassi e tempi di lavoro sempre più intensi. In questo modo, mettendo in competizione tra loro migranti, operai e precari italiani, il ricatto del permesso di soggiorno non ha soltanto impoverito il lavoro migrante, ma ha indebolito tutto il lavoro. Oggi, quando i migranti – in particolare nel settore della logistica – hanno nuovamente dimostrato che è possibile rompere il ricatto del permesso lottando insieme per conquistare salario e abolire la legge Bossi-Fini, l’accordo di integrazione e il “permesso  di soggiorno a punti” intendono rafforzare quel ricatto stabilendo nuove e profonde gerarchie. Anche se per il momento coinvolgono poche decine di migliaia di migranti, in prospettiva queste nuove norme avranno un preciso risvolto politico: posizionare i migranti dentro specifiche gerarchie che corrispondono alla loro istruzione, alle loro competenze professionali, al loro comportamento sociale. Se la legge Bossi-Fini ha reso i migranti tutti uguali come forza lavoro usa e getta funzionale alle esigenze dei padroni, l’accordo di integrazione e il permesso a punti vorrebbero stabilire quali migranti possono conquistare il diritto di restare e in quale posizione nel mercato del lavoro, a seconda della loro capacità di adeguarsi alle esigenze delle imprese e alle regole della società. Per certi versi, queste norme hanno anticipato e ora funzionano in modo complementare alle recenti riforme del lavoro (ultimo in ordine di tempo il decreto del ministro del lavoro “cooperativo”) che hanno ulteriormente individualizzato e precarizzato il lavoro, scaricando completamente sul lavoratore la responsabilità di conquistare un’occupazione dando buona prova di sé nella formazione, nel lavoro e nel mercato. Di nuovo, allora, la sfida politica che i migranti lanciano a tutti – movimenti, associazioni, sindacati – è quella di riconoscere e sostenere le rivendicazioni del lavoro migrante contro i centri di detenzione, il ricatto del permesso e la precarizzazione di tutto il lavoro: migranti, precari e operai italiani devono lottare insieme per rompere le gerarchie dello sfruttamento.

Coordinamento Migranti – Scuola di Italiano con Migranti XM24 – Sportello Legale XM24