Cgil, Cisl e Uil non credono alla riforma degli ammortizzatori sociali del Governo | Autore: fabrizio salvatori da: controlacrisi.org

Con altri 678 milioni il governo prova a fronteggiare l’emergenza su cassa integrazione e mobilita’ in deroga nel 2014. I sindacati, però,non sono convinti. I primi giudizi sono positivi, anche perché si sana una situazione di difficoltà, ma le prospettive,al contrario, non lasciano intravedere niente di buono; anche perche’ “i criteri restrittivi potrebbero comunque compromettere la funzionalita’ degli ammortizzatori in deroga per contrastare la crisi”, come sottolinea Serena Sorrentino, della segreteria nazionale della Cgil. Da un punto di vista contabile, poi, l’esecutivo ha trovato le risorse prendendole dagli incentivi per l’occupazione e dalla formazione continua. “Appare quindi una forzatura – prosegue la dirigente sindacale – cio’ che afferma il ministro Poletti sul fatto che ci siano risorse in piu’”. Inoltre, aggiunge Sorrentino, “rimane pesante aver introdotto l’aumento dell’anzianita’ lavorativa per poter accedere agli ammortizzatori in deroga che penalizzera’ proprio quei contratti temporanei fortemente incentivati dal governo”.
La Cisl, con il segretario confederale Luigi Sbarra, fa notare che il decreto “ha accolto solo parzialmente le osservazioni critiche del sindacato”, e avverte: “La soluzione individuata sulla durata massima degli ammortizzatori in deroga (11 mesi per il 2014, 5 mesi per il 2015), se da una parte fa salvo il 2014, dall’altra non fa che rinviare l’emergenza al 2015, anno per il quale le previsioni economiche sono ancora negative”; se c’e’ “apprezzamento” per l’iniezione di risorse, c’e’ anche preoccupazione per le nuove “forti restrizioni” che “creeranno nel Paese e sopratutto nelle aree del Mezzogiorno problemi e tensioni sociali che il Governo sta sottovalutando”.
Anche la Uil teme “tensioni sociali”, soprattutto al Sud. E rileva che le misure di rifinanziamento annunciate dal Governo “per un verso rappresentano una vera e propria boccata di ossigeno”, ma che tuttavia – dice il segretario confederale Guglielmo Loy – “se osservate nel loro complesso” le misure varate “non sembrano risolutive e sufficienti per gestire la transizione verso un sistema di tutele di tipo universale”.
Mentre “e’ paradossale che si continui a indebolire, saccheggiandone le risorse, le poche misure di politiche attive presenti nel nostro mercato del lavoro”.

I veri obiettivi della politica sul lavoro di Renzi Fonte: Quaderni di San Precario | Autore: Andrea Fumagalli

Non passa giorno che il nuovo governo Renzi, forte del 40% ottenuto alle elezioni europee, non emani una declamatoria in nome della semplificazione e delle riforme (Costituzione, Giustizia, Tasse, Legge elettorale, ecc.). Finora alle parole non sono seguiti i fatti. Con un’eccezione significativa: il mercato del lavoro. In questo campo, l’attivismo del governo – bisogna riconoscerlo – è stato particolarmente vivace e la trasformazione del decreto Poletti in legge, come prima parte del Jobs Act, ne è la testimonianza. E’ quindi necessario analizzare dove questo attivismo vada a parare. E il quadro che si prospetta non promette nulla di buono per i precarie e le precarie (siano essi/e occupati/e in modo stabile, in modo atipico o disoccupati/e). Nulla di nuovo sotto il sole, anzi d’antico….

 

Il 1 luglio è iniziato il semestre europeo a guida italiana. Renzi debutta in Europa con la dote del 40% dei voti delle ultime elezioni europee. L’11 luglio avrebbe dovuto esserci l’importante summit sulla (dis)occupazione giovanile, che molto saggiamente, visto il clima di accoglienza … poco benevola che si stava preparando, è stato spostato in autunno in luogo e data da decidere ancora. A tale appuntamento, Renzi avrebbe voluto presentarsi con la sua ricetta, pardon, riforma salvifica. Ma a differenza delle chiacchiere che hanno accompagnato altre declamatorie di riforme, quella sul mercato del lavoro si preannuncia già in fase operativa. E gli effetti, purtroppo, non saranno indolori.

In un contributo di Gianni Giovannelli, siamo già entrati nel merito dei provvedimenti che il jobs act ha già introdotto nel mercato del lavoro italiano. A un mese di distanza e nel corso del dibattito sulla legge delega del legge Poletti, vogliamo cominciare a studiarne gli effetti e a definire la strategia che il governo di Renzi, targato PD, intende perseguire per la definitiva normalizzazione (leggi precarizzazione) del mercato del lavoro italiano

Precarietà e disoccupazione: ovvero l’inesistente nesso tra flessibilità e occupazione.

Analizziamo dunque le ragioni economiche (se ci sono) che stanno alla base del Jobs Act, partendo da tre ordini di considerazioni:

1. Nel periodo pre-crisi, 2002-2008, gli occupati complessivi sono aumentati di 1,164 milioni di unità (vedi Tab. a10.8, p. 76 Appendice Relazione Banca d’Italia, maggio 2014). Contemporaneamente, gli inoccupati sono calati di 366.000. Tali dati possono essere interpretati , come è stato fatto, alla luce degli effetti di flessibilizzazione del mercato del lavoro indotti dagli interventi legislativi promulgati nel 1997 (pacchetto Treu), 2001 (riforma del contratto a tempo determinato), 2003 (Legge Maroni). Ma tali provvedimenti hanno effettivamente creato lavoro? Analizziamo il periodo in maggior dettaglio.

In primo luogo, occorre notare che le Unità di lavoro equivalenti (Ula) sono aumentate di 797.000, in misura inferiore (di circa un terzo, 32%) rispetto al numero degli occupati . Le Ula sono soprattutto concentrate nei settori del terziario avanzato. Infatti dalla tab. 10.12 (fonte Istat) si può osservare come nel solo comparto “Intermediazione monetaria e finanziaria; attività immobiliari e imprenditoriali” si concentra quasi il 50% dell’aumento. Nel settore dell’industria, il numero delle Ula addirittura si riduce, nonostante un aumento di 67.000 occupati.

In secondo luogo, occorre ricordare che nel periodo 2002-2008, con due sanatorie, sono state regolarizzati poco meno di 250.000 migranti irregolari, che da invisibili sono diventati del tutto visibili, anche per le statistiche ufficiali. Di conseguenza, la reale crescita occupazionale risulta assai più contenuta. In terzo luogo, analizzando la dinamica del valore aggiunto a prezzi correnti nell’intero periodo, si può osservare che l’industria in senso stretto è cresciuta del 12%, mentre nel comparto del terziario avanzato la crescita è stata di oltre il 30%.
Ne consegue che la dinamica dell’occupazione risulta più strettamente correlata alla dinamica del valore aggiunto e risulta di fatto indipendente dall’incremento del processo di flessibilizzazione del lavoro. Anzi, analizzando la disparità tra dinamica occupazionale e Ula, la crescente precarizzazione del lavoro ha favorito un processo di sostituzione tra lavoro standard e lavoro non standard.

2. Nel periodo più recente, 2009-13, in piena fase recessiva, la spinta alla crescita dell’occupazione non solo si è del tutto bloccata, ma, in linea con la dinamica del Pil, è visibilmente calata, sino alla perdita di quasi 1,5 milioni di posti di lavoro. Tale declino ha favorito, pur in presenza di dati negativi, un ulteriore processo di sostituzione tra lavoro precario e lavoro stabile. Analizzando, infatti, i dati Isfol, gli avviamenti al lavoro con contratto a tempo indeterminato sono passati dal 21,6% di inizio 2009 al 15,8% del IV trim. 2013. Tra le tipologie precarie, quella che ha principalmente beneficiato è stato proprio il Contratto a Tempo Determinato (CTD), che il Jobs Act ha ulteriormente liberalizzato, rendendolo acausale. Da inizio 2009 a fine 2013, la quota degli avviamenti CDT sul totale è passata dal 63,2% al 68,5% sul territorio nazionale. Se scomponiamo tale crescita a seconda della durata del CDT, sempre i dati Isfol mostrano come i contratti della durata massima di un mese sono ben il 43,5% del totale con una tendenza crescente. In altre parole, assistiamo ad una ulteriore precarizzazione del maggior contratto precario utilizzato in Italia. Se questa è la situazione, che bisogno c’è di liberalizzare ulteriormente il CDT?

3. Si afferma che il Jobs Act abbia come fine la riduzione di un tasso di disoccupazione giovanile senza precedenti (“drammatico” secondo Renzi), superiore al 46%. I dati Eurostat, pubblicati nell’Empoyment Outlook Ocse 2013, mostrano che in Italia nella fascia giovanile 15-24 anni la quota di giovani occupati precari sul totale è pari al 52,9%, un valore di poco superiore alla media dell’area Euro a 17 (51,3% ) e di poco inferiore al corrispondente dato per la Francia e la Germania. Se però osserviamo non tanto lo stock al 2012 ma i flussi dal 2009 al 2012, si può notare come l’Italia abbia manifestato il tasso di crescita più elevato, pari al 3,1% annuo, contro il -1,8% della Germania, il + 0,25% della Francia e + 0,8% della Spagna. Ciò significa che il processo di precarizzazione dei giovani occupati è stata quasi tre volte superiore a quella europea. Nonostante ciò, il tasso di disoccupazione giovanile non solo non ha arrestato la sua crescita, ma la ha accelerata!

La brevi analisi di questi dati ufficiali convergono verso un’unica conclusione. Non esiste un rapporto di correlazione positiva tra flessibilizzazione del mercato del lavoro e crescita occupazionale, soprattutto giovanile. Piuttosto, nelle fasi recessive, è ravvisabile un rapporto di correlazione inversa: quando l’occupazione cala, l’effetto è quello di aumentare la già esistente flessibilità del lavoro, favorendo contratti ancor più precari e peggiorando le condizioni di vita e di reddito, oltre che di disoccupazione. Inoltre si liberalizza un contratto, quello CTD, che è già di gran lunga il più usato e abusato. Giustificare il Jobs Act sostenendo che occorre agevolare l’uso del CDT (come ha fatto Poletti) cozza contro qualsiasi realtà.

Occorre prendere atto di questa dinamica, che in Italia, a differenza di altri paesi europei, appare accentuata da carenze strutturali del sistema produttivo e lavorativo, sulle quali non abbiamo il tempo di soffermarci.

In altre parole, la precarizzazione del lavoro svolge una funzione anti-ciclica nella fasi di espansione, seppur limitata, del ciclo economico e pro-ciclica nelle fasi di recessione.
Intervenire solo sul lato dell’offerta di lavoro – via aumento della precarietà – non è né condizione necessaria, né men che meno sufficiente, a favorire l’occupazione. Quest’ultima dipende infatti più dalla domanda di lavoro. Anche se il lavoro costasse zero (sul modello del protocollo di Expo-Comune-Sindacati, siglato a Milano il 23 luglio 2013, che prevede l’assunzione di 18.500 lavoratori volontari gratuiti e 700 tra CDT e apprendisti in deroga all’allora normativa: questa è la parte che viene recepita dal Jobs Act), le imprese non assumerebbero comunque, perché la domanda di lavoro (da parte delle imprese) non dipende dalle condizioni dell’offerta di lavoro quando queste sono quelle che sono (precarie e a basso e intermittente reddito) ma dalle prospettive di vendita e di crescita della domanda. Si può offrire lavoro gratis (pardon, come si dice, oggi: volontario) alle imprese, ma se queste non aumentano la produzione, non accettano neanche il lavoro gratis.

La politica economica dei due tempi (ovvero chi di precarietà ferisce, prima o poi di precarietà perisce)

A partire dagli anni Ottanta (dopo la sconfitta delle lotte operaie e sociali degli anni Settanta, che tanto avevano contribuito al processo di modernizzazione dell’Italia) e soprattutto dagli anni Novanta, si mette a fuoco una nuova metodologia della politica economica, che si manifesterà concretamente nei decenni a venire (perché, checché se ne creda, in Italia si fa politica
economica): una politica economica che possiamo definire dei due tempi. Un primo tempo finalizzato all’incremento di quella competitività del sistema economico in fase di globalizzazione come unica condizione per favorire la crescita che, in un secondo tempo, avrebbe dovuto – nelle migliori intenzioni riformiste – generare le risorse per migliorare la distribuzione sociale del reddito e, quindi, il livello della domanda. Le misure per creare competitività, nel contesto della cultura economica dominante, hanno riguardato in primo luogo due direttrici: lo smantellamento dello stato sociale e la sua finanziarizzazione privata (a partire dalle pensioni, per poi via via intaccare l’istruzione e oggi la sanità) e la flessibilizzazione del mercato del lavoro, al fine di ridurre i costi di produzione e creare i profitti necessari per incoraggiare un eventuale investimento. I risultati non sono stati positivi: lungi dal favorire un ammodernamento del sistema produttivo, tale politica ha generato precarietà, stagnazione economica, progressiva erosione dei redditi da lavoro, soprattutto dopo gli accordi del 1992-93, e quindi calo della produttività. Il secondo tempo non è mai cominciato e sappiamo che, sic rebus stantibus, non comincerà mai.

Tutto ciò è poi avvenuto mentre era in corso una rivoluzione copernicana nei processi di valorizzazione capitalistica, che ha visto la produzione immateriale-cognitiva acquisire sempre più importanza a danno di quella materiale-industriale. Oggi i settori a maggior valore aggiunto sono quelli del terziario avanzato (come i dati sul valore aggiunto ci confermano) e le fonti della produttività risiedono sempre più nello sfruttamento delle economie di apprendimento e di rete, proprio quelle economie che richiedono continuità di lavoro, sicurezza di reddito e investimenti in tecnologia: in altre parole, una flessibilità lavorativa che può essere produttiva solo se a monte vi è sicurezza economica (continuità di reddito) e libero accesso ai beni comuni immateriali (conoscenza, mobilità, socialità). Il mancato decollo del capitalismo cognitivo in Italia è la causa principale dell’attuale crisi della produttività. L’attuale mantra sulla crescita parte dall’ipotesi che l’eccessiva rigidità del lavoro sia la causa prima della scarsa produttività italiana. La realtà invece ci dice l’opposto. È semmai l’eccesso di precarietà il principale responsabile del problema. Chi di precarietà ferisce, prima o poi di precarietà perisce.
In altre parole, per creare occupazione e maggior stabilità, invece di flex-security, è necessaria una politica di secur-flexibility.

Le vere intenzioni del governo Renzi e il piano europeo

I dati e le analisi riportati non sono frutto di un’attività di ricerca fatta da alcuni autonomi e sovversivi. Chiunque si occupa del mercato del lavoro con competenza e serietà conosce questa situazione.

Il Jobs Act si muove quindi in una direzione antica e fallimentare. Può darsi che ci sia qualche politico o sindacalista che in buona fede (!) senta il richiamo delle sirene di Renzi e creda ancora che aumentando la flessibilità del mercato del lavoro si possa favorire la crescita dell’occupazione. Ma chi ha pensato queste provvedimenti vuole raggiungere altri obiettivi.

Cerchiamo di capirli.

In primo obiettivo è quello di impedire il ricorso giudiziario e evitare le cause di lavoro, così da eliminare definitivamente una possibile arma a tutela dei lavoratori (così come si era cominciato a fare con il Collegato Lavoro). Tale obiettivo è stato dichiarato, probabilmente con un lapsus, dallo stesso Ministro del lavoro Poletti in un’intervista al quotidiano L’Unità, di qualche mese fa. Dall’osservatorio di San Precario, relativo alla Lombardia, poco meno di un lavorator* su dieci, una volta che il contratto a termine non viene rinnovato, fa causa al datore di lavoro. Una piccola percentuale, che però vede il 90% dei ricorrenti ad avere ragione. Infatti, anche se il CTD prevedeva la causale, i datori di lavori lo applicavano spesso senza giustificato motivo facendone un abuso, proprio contando che solo una minima parte sarebbe ricorsa alla pretura del lavoro per far valere i propri diritti. Ora, l’intento è evitare che rimanga anche questa possibilità. Tutto ciò rientra nel progetto di semplificazione, di cui Renzi fa una bandiera. Una semplificazione che si attua rendendo legale ciò che prima era considerato illegale. In tal modo, uno dei pochi strumenti rimasti – il ricorso legale (consci comunque che chi crede troppo nella giustizia prima o poi verrà giustiziato) – per far valere le proprie ragione, viene cancellato.

Il secondo e pretenzioso obiettivo è disegnare un mercato del lavoro ad uso e consumo del padronato. Ricordiamoci che nel governo Renzi fanno parte due esponenti che ben rappresentano le lobby che definiscono la governance del capitale (e i suo interessi) sul lavoro: il ministro Poletti, in rappresentanza delle cooperative rosse e bianche (la distinzione oggi non esiste più) come punto di riferimento di un sistema produttivo che proprio sulla precarietà e lo sfruttamento del lavoro nero e migrante basa il suo potere, e la Ministra Guidi, che invece, rappresentata gli interessi confindustriali relative alle grandi imprese familiari che gestiscono il sistema delle commesse di Stato e degli appalti, delle grandi opere e di quel capitalismo non manageriale, bigotto e reazionario che è la principale causa del mancato decollo di un capitalismo cognitivo in Italia.

Il progetto è alquanto ambizioso.

Si tratta di ridurre il mercato del lavoro italiano in tre segmenti principali (ancora fa capolino, la magica parola “semplificazione”!), in grado di procedere ad una razionalizzazione della rapporto di lavoro precario, che ne consenta la strutturalità e la generalizzazione, in una condizione di ricatto (e sfruttamento) continuo:

a. si punta a fare del CTD il contratto standard per tutti/e, dai 30 anni all’età della pensione. Tale contratto, basato su un rapporto individuale, ricattabile e subordinato (che prevede una tutela sindacale funzionale alle esigenze delle imprese, quando c’è) deve diventare il contratto di riferimento, in grado di sostituire per obsolescenza il contratto a tempo indeterminato.

b. per i giovani con minor qualifica, l’ingresso al mkt del lavoro diventa il contratto di apprendistato, ora trasformato, in seguito alle “innovazioni” introdotte dal Jobs Act, in semplice contratto di inserimento a bassi salari (- 30%) e minor oneri per l’impresa. Il target di riferimento sono essenzialmente i giovani al di sotto dei 29 anni che non hanno titoli universitari (trimestrale e magistrale).

c. per i giovani under 29 anni che invece hanno qualifica medio-alta (laurea o master di I e II livello) entra in azioni invece il piano “garanzia giovani”, che utilizzando i fondi europei del progetto 2020 (1,5 miliardi di euro stanziati per l’Italia, in vigore dal 1 maggio di quest’anno, su base regionale), intende definire piattaforma di incontro tra domanda e offerta di lavoro, con intermediazione di società pubblico-private garantire a livello regionale, in cui si delineano tre percorsi di inserimento al lavoro in attesa di poter essere poi assunti con CTD: servizio civili (semi gratuito), stage (semi gratuito), lavoro volontario (gratuito). Il modello è quello delineato dal contratto del 23 luglio 2013 per l’Expo di Milano, che ora viene esteso a livello nazionale. L’obiettivo è aumentare – come si dice nel linguaggio europeo – l’occupabilità (employability), ovvero definire occupati a costo zero circa 600.000 giovani, così da toglierli dalle statistiche sulla disoccupazione giovanile e consentire al governo Renzi di mostrare che nel 2015 il tasso di disoccupazione è miracolosamente diminuito di 10-15 punti!

Questi provvedimenti, già diventati operativi, dovranno essere accompagnati – secondo le promesse dichiarate – anche da una riforma del sussidio di disoccupazione in forma più allargata dell’attuale, in grado di assorbire l’Aspi e il mini-Aspi della riforma Fornero e la cassa integrazione in deroga (comunque destinata a finire, visto che i finanziamenti europei sono terminati) . La cassa integrazione ordinaria estraordinaria non viene toccata, perché fa troppo comodo alle imprese (che scaricano così sulla socialità i costi privati delle ristrutturazioni) e ai sindacati confederali (che grazie alla gestione della Cassa Integrazione giustificano la loro ragion d’essere).Tale sussidio di disoccupazione è, sul modello del workfare anglosassone, fortemente condizionato. Non stupirebbe se nella sua proposizione si proponesse di rendere obbligo un certo numero di ore settimanali volontarie per poterne avere diritto (come è stato discusso recentemente in Inghilterra).

Al fine di rendere meno dolorose queste “semplificazioni”, l’attenzione mediatica nel periodo elettorale si è fortemente concentrata sulla mancia degli 80 euro ai soli dipendenti salariati e oggi si concentra sulla proposta di un “contratto a tutele crescenti”. Entrambi questi provvedimenti non sono altro che povere “foglie di fico”. 80 euro in busta paga per qualche milione di lavoratori dipendenti (quelli che costituiscono non a caso la base della declinante base sindacale italiana) sono un infimo risarcimento di quanto ha ceduto il potere d’acquisto del reddito di lavoro negli ultimi venti anni a partire dall’abolizione della scala mobile del 1993. Riguardo al contratto a tutele crescenti (annesso che venga approvato, il che non è del tutto scontato visto l’opposizione strumentale della Confindustria), perché mai un imprenditore italiano dovrebbe farvi ricorso quando ha a disposizione un CTD che può rinnovare a piacimento? E’ evidente che siamo più o meno alla farsa.

In conclusione il piano Renzi per il lavoro, espressione dei poteri forti di questo paese subordinati ai diktat delle oligarchie finanziarie globali, prevede un dualismo all’interno della condizione di precarietà, che non solo conferma di essere strutturale, esistenziale e generalizzata, ma che viene oggi anche istituzionalizzata, sancita per legge. Anche in barba alle disposizioni europee, che comunque, seppur solo dal punto di vista formale, dichiarano che il contratto di lavoro di riferimento è ancora quello a tempo indeterminato.

E’ su questi temi che si sarebbe dovuto discutere l’11 luglio a Torino nel summit europeo. Renzi, che doveva fare gli onori di casa, si sarebbe fatto portatore di una proposta che fa perno sulla creazione di un nuovo dualismo del mercato del lavoro: non quello tra garantito e non garantito, ma quello tra lavoro precario, subordinato e ricattabile, e lavoro volontario e gratuito. E gli altri paesi europei, in primis la Germania che ha già perseguito questa strada con le varie riforme Harz che hanno introdotto i mini jobs.

E’ necessario essere coscienti di tutto ciò. Ed è, alla luce di quanto scritto, importante che i movimenti europei siano in grado di presentare una piattaforma propositiva di contro-potere. Una piattaforma che sancisce la sua validità nella proposta di Commonfare, welfare del comune, centrata su tre assi strategici:

• Un salario minimo europeo;
• Un reddito di base incondizionato a partire da chi è al di sotto della soglia povertà relativa, in grado poi di estendersi a una platea crescente di possibili beneficiari, all’aumentare della soglia minima di riferimento: un reddito individuale, dato ai residenti e non solo ai “cittadini”, incondizionato e finanziato dalla fiscalità generale;
• L’accesso libero gratuito ai beni comuni materiali (acqua, ambiente, casa, trasporti) gestiti in maniera pubblica e collettiva e al “comune” (istruzione, sanità, socialità, mezzi monetari), in forme autogestite

Un welfare del comune che, tramite diversi strumenti e dispositivi, sia in grado di favorire un processo di riappropriazione di quel valore che la nostra vita produce e quindi aprire non solo a spazi di libertà e autodeterminazione ma a anche a possibili scenari produttivi auto-organizzati, non mercificabili, finalizzati alla produzione dell’uomo per l’uomo.

Lettera aperta a Maria Carrozza | Fonte: www.amigi.org | Autore: Piero Bevilacqua

 

Cara ministra Carrozza,
ho nutrito qualche speranza per le sorti della nostra università quando lei ne ha assunto il dicastero. Ho immaginato che – pur all’interno di un governo che tradiva il mandato degli elettori e nell’auspicata brevità del suo mandato – potesse intervenire almeno su un aspetto limitato, ma importante della vita dei nostri atenei. Un aspetto, come chiarirò più avanti, che non comporta alcuna spesa, realizzabile in tempi brevissimi con un dispositivo di legge. L’ho sperato perché lei è donna di scienza ed è per giunta pisana, come Galilei.

E dunque rammenterà bene il motto cui si ispirava l’Accademia del Cimento: «Provando e riprovando ». Dove quel “riprovando”, come lei ben sa, non significa “provare di nuovo”. Questo in genere lo credono gli economisti neoliberisti – per lo meno quelli che hanno notizia dell’Accademia del Cimento – i quali immaginano che le loro ricette falliscono e producono effetti dannosi, perché male applicate e non perché errate in sé e alla prova dei fatti. Per tal motivo vogliono “riprovare” a imporle. Mentre il “riprovare” galileiano significa rigettare, rifiutare come erronea una ipotesi che ha mostrato la sua fallacia alla verifica sperimentale.

Ora lei aveva (e ha) la cultura e gli strumenti per cominciare a riprovare il Grande Errore, sperimentato in Europa negli ultimi 15 anni, che sta distruggendo le nostre università. E il Grande Errore – che ha certificato il suo universale fallimento nella Grande Crisi in cui ci dibattiamo – ha la sua radice nell’idea di assoggettare l’intero sistema formativo alle stringenti necessità competitive delle imprese. L’università ridotta ad azienda, secondo la perfetta esemplificazione popolare. Tale pretesa, imposta a suon di leggi, senza alcun confronto e dibattito con la comunità dei docenti e degli studenti, ha cambiato radicalmente la vita delle nostre università. Essa ha dissolto ogni preoccupazione del legislatore per la qualità dell’insegnamento e della ricerca, per il contenuto delle discipline, il modo di insegnarle (non solo nell’università, anche nella scuola), e ha trasferito tutta l’attenzione riformatrice, con una furia normativa senza precedenti, sul versante della “produttività”, dei risultati e del loro asfissiante controllo. Non più il che e il come, ma il quanto. Quanti “prodotti” ( è questo il termine che si usa ormai per nominare libri e saggi) sono stati pubblicati dai docenti, quanti laureati producono le varie Facoltà, in quanto tempo, per quale mercato del lavoro? Il mostro burocratico dell’Anvur, inefficiente e sbagliato, è figlio di questa idea. Ad essa ubbidiscono ormai da anni gli sforzi quotidiani di docenti, amministratori, studenti impegnati nel compito di rendere misurabili e giudicabili le loro prestazioni. E sotto lo stesso cielo basso si muove ora la sua trovata del Liceo breve. In Italia, in maniera particolare, la pressione del Ministero e dei rettori ha un carattere manifestamente punitivo, come ha ben mostrato Gaetano Azzariti (il manifesto, 12.11.2013). Sicché, paradosso già evidente in vari ambiti sociali, la cultura neoliberista, che critica l’intromissione dello stato e il peso delle burocrazie, opera in direzione esattamente contraria. Non c’era mai stato, nelle nostre università, tanto Stato e tanta burocrazia quanto oggi.

Lentamente il modello storico dell’università cambia, da istituzione che realizza ricerca e fornisce insegnamento, diventa il luogo in cui si fa insegnamento (sempre meno alimentato dalla ricerca) e amministrazione. Affannosa amministrazione di norme sempre nuove. La pretesa del legislatore di controllare l’economicità di ciò che si studia e di ciò che si insegna non solo ruba tempo ed energia agli studi e alla ricerca. Non solo ha portato a sottrarre risorse rilevanti alle discipline umanistiche considerate poco utili all’economia del paese. Non solo tende a impedire per l’avvenire progetti di grande respiro, che richiedono lavoro di lunga lena da parte dei giovani studiosi. Lei immagina oggi, cara ministra, un giovane Fernand Braudel che investe anni di ricerca per scrivere il suo vasto affresco sul Mediterraneo, non avendo alcuna certezza della sua stabilità, mentre i suoi colleghi vincono i concorsi pubblicando brevi articoli? Non è solo questo, che è già grave: un piano di rimpicciolimento delle figure intellettuali delle generazioni venture. Avanza l’idea perniciosa di piegare il mondo degli studi e della ricerca a una pianificazione di tipo “sovietico”, nel tentativo di stabilire non solo quali discipline, ma anche quali professioni sono da privilegiare e quali da bandire.

Il numero chiuso, gli sbarramenti che tante Facoltà innalzano per impedire le iscrizioni dei giovani, annunziano questa crescente subordinazione della formazione delle nuove generazioni alle richieste mutevoli e contingenti del mercato del lavoro. Ma qui c’è una frontiera invalicabile che l’università deve difendere. Debbo proprio ricordarle che l’università già ubbidisce, in maniera mediata, alla divisione sociale del lavoro del nostro tempo? Per quale ragione le nostre Facoltà laureano ingegneri, chimici, medici se non per rispondere con saperi specialistici al mercato del lavoro di una società industriale avanzata? Ma tra le imprese e l’università sino a oggi ha operato l’autonomia di quest’ultima. Oggi la tendenza dispiegata è di piegare le università a criteri di economicità aziendale e rozzamente produttivistici. Il modello irresistibile è quello delle imprese di ricerca biotecnologiche, quotate in borsa, che finalizzano gli studi alla produzione di brevetti e alla realizzazione di profitti. Sapere per fare danaro. Ma questa linea decreterebbe la morte del sapere libero quale finora l’abbiamo conosciuto, il taglio delle radici della nostra civiltà. E si tratta per giunta di una tendenza miope e miserabile anche sotto il profilo economico.

E’ la cultura che crea l’economia, non il contrario. Occorre capovolgere il pensiero neoliberista. Non sono le ragioni transitorie di un capitalismo selvaggio e senza regole che devono comandare gli orizzonti della ricerca. L’università non deve solo ubbidire al mercato del lavoro, lo deve anche creare. Il sapere deve inventare nuovi scenari e professioni possibili. Carlo Cattaneo, nel suo secolo (forse più lungimirante del nostro), usò una suggestiva metafora per indicare l’apporto che la scienza e il dinamismo urbano avevano dato alla sviluppo delle nostre campagne. «La nuova agricoltura – scriveva – nasce nelle città ». E’ questa oggi l’altezza della sfida. L’università non solo deve creare la “nuova economia”, deve contribuire a una idea di società possibile, perché quella che ci lascia in eredità il capitalismo tardonovecentesco è in rovina.

E allora, cara ministra, anche senza risorse lei, col concorso di tanti parlamentari, potrebbe azionare la leva capace di avviare un processo di liberazione della nostra università. Bandisca i crediti come criterio di misurazione delle discipline. Tolga dalle nostre Facoltà e dalle menti degli studenti l’ossessione dell’accumulo di esami e lezioni come mezzi finanziari per realizzare un profitto. Restituisca ai saperi la loro dignità, li rifaccia diventare Letteratura italiana, Filosofia teoretica, Antropologia culturale, Storia contemporanea…Oggi sono numeri di una banca virtuale. Favorisca il ritorno di una didattica orientata da materie fondamentali e complementari con cui gli studenti possano programmare con semplicità il loro curriculum. A molti può sembrare una richiesta minimale, soprattutto alla luce della drammatica scarsità di risorse in cui l’università è stata gettata. Non è così. Occorre strappare almeno in un punto l’ordito totalitario del pensiero unico. Da qui si può partire per cominciare a rovesciare il Grande Errore, che è prima di tutto culturale, trovare lo slancio per cancellare a poco a poco la montagna burocratica sotto cui sta soffocando il mondo degli studi. Anche così la rivendicazione per nuove risorse e investimenti in sapere può ritrovare energia e prospettiva.

Conosciamo, cara ministra, l’obiezione possibile a tale iniziativa: i crediti sono uno strumento di valutazione ormai utilizzato negli atenei d’Europa. La risposta che viene d’istinto è: non c’è alcun obbligo a imitare la stupidità sol perché essa viene praticata a scala continentale. Quella meditata dice: si possono far corrispondere ai vari insegnamenti delle numerazioni per l’interfaccia con quelli europei e il problema è risolto. Perché non dovremmo essere noi italiani a far uscire dal sonno dogmatico gli atenei d’Europa? Dopo tutto, l’università è nata da noi. Avremmo qualche ragione storica e autorevolezza per avviare la liberazione dell’università europea dall’abiezione e dalla stupidità dell’economicismo.