Sant’Agata, padre Resca a gamba tesa: «Questa festa non è cristiana, va cambiata radicalmente» da: lascilia.it

di Padre Salvatore Resca

Il vice parroco della Chiesa di Santi Pietro e Paolo interviene sulle celebrazioni della Patrona e propone una serie di modifiche

Ecco l’intervento di padre Salvatore Resca, vice parroco della Chiesa di Santi Pietro e Paolo, pubblicato su LA SICILIA di oggi 6 febbraio.

 

Cittadini! Viva Sant’Agata! E’ significativa questa acclamazione che non chiama i devoti, cristiani, cattolici, fedeli, ma “cittadini”; e pensavo a quanto bisogno di “cittadinanza” vera, autentica, ci sia in questa città, purtroppo priva di senso civico, di spirito di collaborazione, di interesse al bene comune, di cura per le cose di tutti, dal verde della aiuole, alla pulizia delle strade, dal rispetto del codice stradale, alle più elementari regole di convivenza, una città in cui spesso sono sotto processo amministratori che hanno fatto uso disinvolto del pubblico denaro e manca l’essenziale soprattutto per la gente particolarmente priva di assistenza e di servizi umanamente decenti… Una “cittadinanza” assente che però, si materializza numerosissima ed entusiasta dietro il fercolo della santa, gridando: “W Sant’Agata”.

 

La festa di Sant’Agata non è cristiana! Non sono d’accordo con il titolo de “la Sicilia” di ieri e con molti passi dell’articolo di Padre Zito. La festa di Sant’Agata, come quella di San Gennaro, di San Giorgio, o di qualunque altro santo non è da abolire perché è in mano alla mafia, perché si fanno le scommesse sull’orario di rientro, o perché la cera seminata per le strade crea disagi alla circolazione a partire dal 6 di febbraio.

 

Non bisogna abolirla! Tutt’altro! Bisogna solo “ridefinirla”, “rinominarla! Non è fuor di luogo, per un cristiano interrogarsi sul significato di questa festa partendo proprio dalla santa, dalla festeggiata.

 

Agata, secondo la tradizione che parla di lei, è stata una ragazza forte e decisa, una vera cristiana! Nei tempi in cui si dice sia vissuta, essere cristiani, testimoniare Cristo non era una cosa facile e scontata.

 

Il contesto religioso e sociale del tempo non accettava i cristiani i quali erano spesso, se coerenti con la loro fede, soggetti alla persecuzione fino al martirio. Il loro modo di vivere, il loro modo di pensare, il loro modo di fare era diametralmente opposto al modo di fare, di vivere, di pensare comune. La fede cristiana, a quei tempi era una testimonianza di speranza, di amore, di impegno, spesso di segno contrario al modo di vedere e di pensare e di agire di tutti gli altri.

 

Anche i riti, le processioni, le feste religiose pagane non attiravano per nulla i cristiani, essi li consideravano come superstizioni indegne della vera fede in Dio. Agata è stata testimone di tutto questo. Per questo è stata imprigionata. Per questo è stata torturata. Per questo è stata uccisa. Per questo la chiamiamo “santa”… Io non lo so, non ho contatti diretti con il paradiso.

 

Ma sarei tanto curioso di sapere che ne pensa la stessa Sant’Agata di questa festa che, per gli strani scherzi del destino, ricalca, come molte feste dei santi ai nostri giorni, le feste pagane dei suoi tempi. Perché questa festa, stiamo attenti, è una festa religiosa, anzi religiosissima. La festa religiosa più bella del mondo, la definiscono, con un pizzico di esagerazione i “devoti”. Il culto, il voto, la processione, la candela, il cero, gli evviva a Sant’Agata o a San Gennaro quando rinnova il miracolo, sono uno stupendo fenomeno religioso, popolare, spontaneo, umano.

 

Se andate su Internet, li potete vedere, questi riti, con alcune trascurabili varianti, in India come nel Tibet, in Africa o in Mongolia come espressione della sincera religiosità di quei popoli. Assicurarsi la protezione dei santi, (o degli dei) onorarli, pregarli, far loro dei voti, accendere lumini e candele per impetrarne la protezione, trasportarne i simulacri e le statue urlando dietro la propria devozione è un modo di fare comune a tutte le feste religiose in ogni parte del mondo.

 

Fanno parte della religiosità umana. Io faccio qualcosa per Dio, faccio un sacrificio, come facevano gli ebrei, un bue, una capra o una pecora, esprimo un voto, accendo una candela… più grossa è la candela più grande è la mia religiosità…, e la divinità o i santi, nel nostro caso, fanno qualcosa per me, vengono incontro ai miei bisogni, soddisfano le mie necessità, risolvono i miei problemi.

 

A volte, ma qui è truffa, come avete certamente letto nei giornali di qualche anno fa, è possibile acquistare una bottiglietta di acqua miracolosa, l’acqua alla luce bianca, che ha delle potenzialità straordinarie, proveniente da Lourdes o da Medjugorje, come diceva di aver scoperto una dottoressa che si chiama Enza Maria Ciccolo, 71 anni e una laurea in biologia: Sette gocce di Fatima al mattino, sette gocce di Medjugorje la sera: 200 euro al flacone.

 

Questa è religione, e come religione va benissimo. Il guaio è che il cristianesimo, quel cristianesimo che Agata ha vissuto, che ha fatto di lei una martire, una santa, è un’altra cosa. Agata lo sapeva bene che Cristo è venuto per indicarci strade completamente diverse per realizzare il nostro rapporto con Dio. Lei ha capito che Cristo non ci insegna a mettere al sicuro noi stessi. Lei ci ha detto e ancora ci dice, che è necessario perdersi per salvarsi, che è necessario portare la croce, affrontare anche la morte per testimoniare Cristo, farsi carico, mettersi sulle spalle i mali del mondo non le vare dei santi. Offrire a Dio non le candele per ottenere una grazia, ma, giorno per giorno, la propria vita per essere vicini agli altri.

 

Lei certamente avrà conosciuto e meditato quelle parole di Cristo nel vangelo di Matteo: “Non fate come i pagani che quando pregano sprecano molte parole, credendo di essere esauditi a furia di parole”. (Immaginiamo le urla dietro la vara…) “Il padre vostro celeste sa di che cosa avete bisogno. Cercate anzitutto il regno di Dio, e vedrete che tutto il resto, tutte le altre cose, vi saranno date in più…” C’è moltissima religiosità, nella migliore delle ipotesi, nei devoti che vestono il sacco e vanno dietro a Sant’Agata per tre giorni.

 

Ma spesso, non c’è la fede cristiana. La fede è un’altra cosa. La religiosità dice a Dio: “Che cosa puoi fare tu per me? La fede chiede a Dio: Che cosa posso fare io per te? L’uomo religioso dice a Dio: “Ecco il mio voto, la mia offerta, la mia candela… tu, in cambio mi devi benedire, mi devi aiutare, devi risolvere i miei problemi, devi cambiare la testa della gente…, devi farmi trovare l’amore, quello giusto, il lavoro, la casa, devi farmi vincere un terno al lotto, devi guarirmi dalla malattia… L’uomo di fede dice a Dio: “A Te, Signore, affido la mia vita… Sono al tuo servizio… Io lo so che tu mi vuoi bene… Se sono al tuo servizio i miei problemi li affido a te…, tu conosci meglio di me le mie necessità… Io voglio che tu mi benedica, che dica bene di me, non ti chiedo di liberarmi dai guai, li voglio affrontare i guai, come ogni donna, come ogni uomo di questo mondo, come hai fatto Tu, come ha fatto Agata… Io non ti offro né sacrifici, né olocausti, un corpo mi hai dato… Ecco, per questo io vengo, Signore, a fare la tua volontà… La religione o la religiosità è il tentativo di liberarsi dei guai servendosi di Dio.

 

La fede è il coraggio di affrontare i guai per servire Dio, è la capacità di affrontare con la forza che viene da Dio, i guai della nostra vita, di dare prova di speranza anche quando le cose non vanno per il verso giusto, di non cessare mai di amare, con l’amore e la carità di Dio giorno per giorno nella nostra vita.

 

Mi hanno chiesto, di far parte di un comitato che cerca di correggere le cose storte di questa festa: le infiltrazioni mafiose, la cera dalle strade, gli “arrusti e mancia” ad ogni angolo di via Etnea, i ritardi del rientro… Ho rifiutato.

 

Perché questa festa non bisogna correggerla. Bisogna cambiarla radicalmente. Come? Io non dico di abolirla. Si perderebbe un patrimonio di credenze, di tradizioni, di folklore, di cultura: tutte cose che fanno parte di un popolo. Io vorrei che si distinguesse, da parte della comunità cristiana la religione dalla fede. Fate pure la festa, le processioni, sparate tutte le bombe che volete, mangiate tutta la carne di cavallo che vi piace, ma distinguete la fede dalla devozione dei “devoti.

 

I preti sulla vara o sul fercolo, a raccogliere soldi e candele, no! Confonde! La mescolanza delle messe mattutine o vespertine con le bombe, no! Confonde! Le autorità che hanno ridotto questa città al lumicino, dietro la vara a sorridere alla gente per farsi applaudire e far dimenticare le loro magagne, no! Confonde! Le scommesse sull’ora di rientro della santa, con i relativi risvolti affaristici e mafiosi, insieme alle preghiere in cattedrale, no! Confonde! Forse la religiosità potrebbe diventare l’anticamera della fede, ma, perché questo avvenga è necessario distinguere ed educare, pigliare le distanze e sottolineare le differenze, altrimenti regna la confusione; e lo si vede seguendo in diretta le trasmissioni locali, dove, conduttori laici e ecclesiastici, non sono mai riusciti a evidenziare questa distinzione.

 

Ma non possono farlo! Perderebbero l’ascolto, perderebbero l’audience. Voi siete il sale della terra! sembra che abbia detto Gesù Cristo. Voi siete la luce del mondo! Se il sale diventa scipito, a che serve? Penso che queste parole di Cristo, riportate nel vangelo di questa domenica, potrebbero far riflettere quanti hanno a cuore il vero significato della fede cristiana!

Fonte: sbilanciamoci.infoAutore: Vincenzo Comito Vincenzo Comito: Vecchi e nuovi problemi per l’economia tedesca

I due pilastri principali del successo industriale tedesco – auto e macchinari – sono sempre di più aggrediti dalle tecnologie digitali mentre quasi tutte le grandi società tedesche operano nella vecchia economia

Sono stati da poco pubblicati in Germania i dati economici per il 2016 ed essi appaiono molto positivi. Tra l’altro, il pil è cresciuto rispetto all’anno precedente dell’ 1,9%, cifra che, almeno in Europa, appare di tutto rispetto e comunque tale aumento è superiore a quello del 2015 ed, inoltre, esso si presenta come il più elevato degli ultimi cinque anni.

Contribuisce al risultato una bilancia commerciale in forte avanzo: le esportazioni hanno raggiunto nel 2016 i 1,2 trilioni di euro, più di un terzo del pil (Jones, 2017); il saldo export-import si è collocato intorno ai 300 miliardi di euro ed esso ha superato persino quello della Cina di circa 50 miliardi ed ha inoltre raggiunto il 9% del pil.

Si è verificata anche una certa crescita dei consumi interni. Essa è stata indotta dall’introduzione del salario minimo, che aveva invece suscitato, al momento del varo del provvedimento, molti timori tra gli economisti ed i politici più conservatori; inoltre, dall’aumento delle retribuzioni di molte categorie, nonché dalla dinamica positiva prodotta sui consumi dallo stesso arrivo di un’ondata massiccia di immigrati, circa un milione di persone in 18 mesi.

Certo si potrebbe fare molto di più per spingere gli stessi consumi, ma comunque la situazione appare un poco migliorata.

Il bilancio pubblico presenta, come nel 2015, un importante surplus.

Infine l’elevato livello degli ordini all’industria, rilevabile nel dicembre 2016, indica che l’andamento positivo dell’economia continuerà ancora almeno per diversi mesi nel 2017.

Le minacce tradizionali alla crescita dell’economia del paese

Da diversi anni e da molte parti vengono peraltro ricordate le tradizionali minacce potenziali che potrebbero contrastare, almeno nel medio termine, lo sviluppo dell’economia del paese.

Esse vengono individuate, tra l’altro, nel bassissimo tasso di natalità della popolazione; nella concentrazione del sistema economico su pochissimi settori (soprattutto auto, poi meccanica strumentale e chimica); nel povero stato di molte infrastrutture di base in mancanza di investimenti adeguati, in relazione anche alla volontà di mantenere il bilancio pubblico dentro i binari della più stretta ortodossia; nei rischi legati ad uno sviluppo trascinato dalle sole esportazioni, con una rilevante depressione invece della domanda interna; infine dalla debolezza della crescita della produttività, indotta anche dall’andamento non soddisfacente degli investimenti privati, fenomeni questi ultimi comuni peraltro a tutti i paesi occidentali importanti.

Cosa ha portato di nuovo il 2016 su tali fronti?

Per quanto riguarda il primo punto sopra ricordato, il recente, massiccio, ingresso nel paese dei profughi prevalentemente medio-orientali sembrava indicare una via per contribuire a risolvere con il tempo il problema, ma tale ondata si è poi arrestata di fronte all’ostilità anche molto forte di una parte almeno dell’opinione pubblica.

Per quanto riguarda la concentrazione dello sviluppo su pochi settori, niente è cambiato di recente e lo stesso è avvenuto per quanto riguarda il livello degli investimenti infrastrutturali: il bilancio pubblico è rimasto refrattario ad iniziative significative su tale questione.

In relazione invece al penultimo punto, va considerato che, accanto allo sviluppo delle esportazioni, è aumentato, come già indicato, anche se in misura limitata, il livello dei consumi interni e questa appare una novità rilevante. Infine anche nel 2016 abbiamo assistito ad una riduzione degli investimenti privati e ad un aumento molto basso nei livelli della produttività.

Intanto si vanno addensando piuttosto rapidamente nuove e minacciose nubi all’orizzonte. Ne segnaliamo due veramente di peso.

L’arrivo dell’economia numerica  

In un articolo pubblicato di recente su questo stesso sito ricordavamo le rilevanti minacce portate all’economia del paese dagli sviluppi recenti che toccano il settore dell’auto.

Da una parte, cresce rapidamente la produzione di vetture elettriche, in relazione anche alla stretta sulle norme ambientali registrabile in tutti i principali mercati del mondo, ciò che, vista la semplicità tecnica delle nuove auto, porta ad una sostanziale riduzione del mercato della componentistica, in cui la Germania eccelle, mentre esso comporta anche un aumento del peso delle vetture prodotte in Cina; dall’altra, lo sviluppo dell’auto a guida autonoma e una serie di altre novità (internet delle cose, mutamenti nella cultura e nelle modalità del trasporto) dovrebbero avere tra l’altro come conseguenza una drastica riduzione nel numero delle auto vendute ogni anno.

In parallelo si assiste ad una crescente numerizzazione del prodotto; circa il 50% -60% del valore di una vettura consisterà presto in apparecchiature e strumenti di tipo digitale (Chazan, 2017).

Tali sviluppi stanno contribuendo ad un massiccio ingresso nel settore delle grandi imprese esperte di tecnologie numeriche, sia cinesi che statunitensi, mentre impongono alle aziende tedesche un grande sforzo per recuperare un rilevante ritardo da esse accumulato sulla questione. I rischi di essere lasciati indietro appaiono molto rilevanti.

Ma la numerizzazione non tocca fortemente soltanto il settore dell’auto, ma anche, ad esempio, quello dei macchinari, altra grande eccellenza tedesca (non c’è quasi un’officina cinese che non ne possieda un qualche esemplare).

Così i due pilastri principali del successo industriale tedesco sono sempre di più aggrediti dallo sviluppo delle tecnologie digitali, mentre, più in generale, quasi tutte le grandi società tedesche operano nella vecchia economia (Chazan, 2017).

Ora la Germania è stata negli ultimi due secoli tra i paesi in testa dell’innovazione tecnologica del mondo; ma da qualche tempo essa sembra essersi addormentata, come del resto sta accadendo all’intera Europa, che assiste ormai quasi solo da spettatrice alla gara su tale fronte tra Cina e Stati Uniti. Dove sono le Silicon Valley europee?

Le minacce commerciali statunitensi

Registriamo ormai ogni giorno, come è noto, delle prese di posizione della nuova amministrazione americana che prendono di petto molti paesi, nell’ambito, tra l’altro, di una visione molto protezionistica delle relazioni economiche. In questo quadro non poteva mancare l’apertura da parte di Trump di un importante cahier de doléances nei confronti della Germania.

Il paese teutonico ha registrato nel 2016 un surplus commerciale con gli Stati Uniti di circa 65 miliardi di dollari, collocandosi dopo la Cina e appena dietro il Giappone (Jones, 2017). Il mercato statunitense è ormai per esso il primo mercato, assorbendo circa il 10% del suo export totale (Boutélet, 2017). Alcuni settori, come quello chimico, vendono più del 60% della loro produzione all’estero (Jones, 2017).

Il segretario al commercio statunitense, Peter Navarro, ha affermato che la Germania si sta avvantaggiando di un euro grossolanamente sottovalutato, ciò che danneggerebbe fortemente gli Stati Uniti, mentre Trump ha minacciato, tra le altre cose, di imporre dei dazi del 35% alle vetture della BMW se essa continuerà a vendere negli Stati Uniti quelle prodotte in Messico. Ora ricordiamo, a questo proposito, che l’industria dell’auto tedesca ha collocato nel 2016 oltre Atlantico veicoli e parti di ricambio per circa 32 miliardi di euro (Boutélet, 2017).

E’ stato calcolato che una chiusura totale dei rapporti tra i due paesi comporterebbe una perdita di 1,6 milioni di posti di lavoro diretti nel paese europeo (Boutélet, 2017).

Qualcuno è arrivato a ricordare la situazione tra le due guerre, quando i conflitti commerciali avevano contribuito a far affondare l’economia mondiale.

La reazione di Wolfgang Schauble alle accuse statunitensi è stata sorprendentemente quella di approfittarne per attaccare ancora una volta Draghi. Secondo le dichiarazioni del ministro dell’economia la colpa del surplus commerciale sarebbe da attribuire interamente alla BCE, che con le sue politiche di quantitative easing mantiene l’euro ad un livello molto basso di cambio con il dollaro.

A parte Schauble, comunque, la reazione delle imprese e del governo tedeschi è, per il momento, improntata alla cautela, ma le prime indicazioni mostrano che i vari gruppi industriali appaiono incerti su quanto potenziare gli investimenti in Usa e quanto invece cercare di sviluppare maggiormente nuovi mercati, in particolare in Asia, in Cina e altrove.

Conclusioni

L’economia tedesca è chiaramente soggetta, oltre che alle forte tensioni derivanti dal difficile andamento generale del progetto europeo sul piano economico come su quello politico, a forti difficoltà potenziali e specifiche provenienti da diverse parti.

Le possibili minacce al paese destano preoccupazione anche perché l’economia teutonica appare di gran lunga quella trainante nel nostro continente e un suo arresto, o una sua rilevante frenata, metterebbero in difficoltà in particolare i paesi più deboli come l’Italia.

I due pericoli delineati nel testo imporrebbero ancora di più all’Europa una più stretta integrazione economica e politica e, in dettaglio, l’avvio di grandi programmi comuni anche nel campo dell’economia numerica da una parte, un fronte unito, dall’altra, in un ambiente che sta cambiando velocemente e diventando per molti aspetti meno favorevole, in relazione in particolare alle strategie della nuova amministrazione statunitense, anche se non solo ad esse.

 

Testi citati nell’articolo

-Boutélet C., L’Allemagne redoute le protectionnisme américain, Le Monde , 31 gennaio 2017

-Chazan G., Why Germany needs to accelerate into the digital fast lane, www.ft.com , 25 gennaio 2017

-Comito V., I licenziamenti alla Volkswagen e il futuro tedesco, www.sbilanciamoci.info , 22 dicembre 2016

-Jones C., Germany’s exporters fear Trump effect on trade, www.ft.com , 1 febbraio 2017

Fonte: 14° Rapporto sui diritti globaliAutore: Orsola Casagrande Guerra infinita, esodo permanente

Cifre, storie, morti. La guerra permanente è oggi sempre più anche sinonimo di esodo permanente. Teorizzata e voluta dall’ex presidente degli Stati Uniti George W. Bush insieme all’ex primo ministro inglese Tony Blair e ai capi di Stato “volenterosi” (Italia e Francia comprese) ha usato come pretesto l’attentato alle Torri Gemelle rivendicato da al-Qaeda l’11 settembre del 2001.Quindici anni sono passati da allora è il costo delle guerre avviate dopo quell’attentato è enorme, così come il costo di vite umane. Le conseguenze drammatiche di questo conflitto permanente sono davanti agli occhi di tutti: morte, distruzione, macerie.

È un mondo in fuga dalla guerra, dalla repressione, dalla fame, dalla siccità

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Il Rapporto sui diritti globali, realizzato dalla associazione Società INformazione e dalla sua redazione , promosso dalla CGIL, nel suo ultimo volume, il 14°, giunto da poco in libreria, contiene un Focus di approfondimento relativo all’intreccio causale tra guerre e migrazioni e agli effetti globali in particolare sotto il profilo dei diritti umani, curato da Orsola Casagrande.

Proponiamo qui un estratto dal Focus.

Qui   scaricabili l’indice generale del volume, la prefazione di Susanna Camusso e l’introduzione di Sergio Segio.

Il Rapporto integrale può essere acquistato in libreria o richiesto all’e ditore Ediesse

 

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Quando a muoversi è un mondo

«Siamo di fronte alla crisi di profughi e sfollati più grande dei nostri tempi. Però soprattutto questa non è una crisi di numeri, è anche una crisi di solidarietà», così l’ex Segretario delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon. Parole che rivelano una drammatica realtà ma anche l’impotenza della stessa ONU, ormai sempre più ridotta a un mero ufficio di “contabilità”: e i conti che fa sono quelli a sei cifre dei profughi, dei morti, delle vittime, di guerre, disastri naturali, crimini di guerra e di pace perpetrati dai governi degli stessi Paesi che la compongono in un perverso gioco delle parti, dove carnefici e salvatori hanno sempre più spesso lo stesso volto.

Quelle fornite dall’UNHCR (United Nation High Commissioner for Refugees) sono forse le cifre più vicine alla realtà, sapendo che è estremamente difficile calcolare il numero di persone che muore ogni giorno nei vari conflitti del mondo, che fugge da quei conflitti, che si sposta – nomadi loro malgrado – da un territorio all’altro o all’interno della loro nazione, anime senza pace.

In quello che sembra un disperato tentativo di rimanere “ottimisti” in una situazione drammatica come è quella che stiamo vivendo, l’UNHCR apre il suo Rapporto Global Trends 2015 con queste parole: «Mentre il tasso di incremento è rallentato se paragonato al drastico aumento degli ultimi due anni, il numero attuale degli sfollati globalmente rimane il più alto dalla fine della Seconda guerra mondiale». Dal 2011, infatti, quando l’UNHCR ha annunciato un nuovo record di 42,5 milioni di persone costrette a spostarsi dalla loro terra, l’aumento è stato costante e drammatico: 51,2 milioni nel 2013 e 59,5 milioni nel 2014 e 65,3 milioni a fine 2015.

La cifra totale comprende 3,2 milioni di persone che erano in attesa di decisione sulla loro richiesta d’asilo in Paesi industrializzati a fine 2015; 21,3 milioni di rifugiati nel mondo (1,8 milioni in più rispetto al 2014 e il dato più alto dall’inizio degli anni Novanta); 40,8 milioni di persone costrette a fuggire ma che si trovavano ancora all’interno dei confini del loro Paese (il numero più alto mai registrato, in aumento di 2,6 milioni rispetto al 2014).

Durante il 2015 oltre 12,4 milioni di individui sono stati costretti a lasciare le loro case. Di questi, 8,6 milioni di persone si sono spostate all’interno dei loro confini nazionali, mentre 1,8 milioni di persone hanno cercato protezione all’estero. Le richieste di asilo politico presentate nel 2015 sono state 2 milioni (UNHCR, 2016 a).

Per immaginare anche visivamente che cosa significano queste cifre, basti dire che i profughi oggi sono un numero maggiore all’intera popolazione del Regno Unito. Se si costituissero in Paese, sarebbero il ventunesimo Paese più popolato del mondo.

Alcune nazionalità sono state maggiormente colpite da questo esodo forzato di altre. Si stima che alla fine del 2015 siano state 11,7 milioni le persone in possesso di passaporto siriano costrette a lasciare la propria casa dall’inizio del conflitto nel 2011 (4,9 milioni i profughi fuggiti all’estero, 6,6 milioni quelli interni, più 250 mila i richiedenti asilo).

Alla fine del 2015 le altre nazionalità costrette a questa fuga forzata, sia all’interno dei confini nazionali che all’esterno, sono state (tutte con oltre 2 milioni di sfollati) quella afghana, colombiana, congolese, irachena, nigeriana, somala, sudanese, sud sudanese e yemenita.

In vent’anni i profughi sono aumentati del 75%, passando da 37,3 milioni nel 1996 ai 65,3 milioni del 2015. Di nuovo, per cercare di “visualizzare” queste cifre che non possono rimanere solo numeri, basti dire che, durante il 2015, ogni minuto, 24 persone sono state costrette ad abbandonare la loro casa.

 

Immigrati imprescindibili per l’economia dei Paesi sviluppati

In un articolo pubblicato nelle pagine di economia il 19 giugno 2016 sul quotidiano spagnolo “El Pais”, il giornalista David Fernandez ha affrontato il “fenomeno” dell’immigrazione da un punto di vista assai diverso da quello cui ci hanno abituato i media. Il titolo non lanciava nessun grido d’allarme, nessun pericolo di invasione; anzi, al contrario, analizzava alcuni rapporti economici e demografici pubblicati da alcune delle più importanti società e gruppi (Fernandez, 2016).

Il Rapporto The Silver Dollar – Longevity Revolution Primer realizzato da Bank of America e Merrill Lynch sostiene, tra le altre cose, che l’Unione Europea ha bisogno di ricevere annualmente per i prossimi dieci anni almeno 1,8 milioni di persone se vuole anche solo arrivare ai livelli di crescita della mano d’opera degli USA e così sperare di arrestare le prevedibili conseguenze economiche e sociali del rapido invecchiamento della popolazione europea e del basso tasso di natalità. Gli esperti sottolineano che nel 2050 la popolazione mondiale con oltre 60 anni di età raggiungerà i 2 miliardi (oggi ci sono 900 milioni di over 60). Questo invecchiamento però non sarà omogeneo e riguarderà soprattutto i Paesi più sviluppati e le economie emergenti, con la sola eccezione dell’India. Come una reazione a catena il fatto che la popolazione mondiale over 65 passerà dal 9% (nel 2010) al 19% in appena quarant’anni significherà inevitabilmente un aumento della spesa sociale (salute e assistenza).

A conclusioni simili giunge anche il Rapporto Global Aging 2016: 58 Shades Of Gray, di Standard & Poor’s. Queste previsioni offrono una lettura senza dubbio differente del “fenomeno” immigrazione e dovrebbero in realtà servire ai governi per gestire in maniera meno scellerata e allarmista il flusso di persone che ogni giorno arriva sulle nostre coste. L’immigrazione è di fatto un’opportunità per i Paesi sviluppati. Rimangono chiaramente gravi le responsabilità di questi stessi Paesi che spesso sono tra i promotori delle guerre che costringono milioni di persone a fuggire (Bank of America & Merrill Lynch, 2016; Standard & Poor’s, 2016).

 

 

Guerre senza fine: Siria e Iraq

Le guerre, e soprattutto quelle in Siria (iniziata nel 2011) e Iraq (un conflitto ininterrotto da quando, nel 2003, il Paese fu invaso per la seconda volta dagli USA, Regno Unito e dalla cosiddetta “coalizione dei volenterosi”), hanno contribuito sostanzialmente all’aumento del numero di profughi. Oltre un milione di nuovi profughi provenienti dalla Siria sono stati registrati nel 2015, portando il totale di persone che hanno cercato protezione fuori dal loro martoriato Paese a circa 5 milioni. La maggior parte di questo milione di nuovi profughi (946.800 persone) sono stati registrati in Turchia. Questa nuova ondata di arrivi ha fatto sì che la Turchia diventasse il Paese che ospita il più alto numero di profughi al mondo (circa 2,54 milioni di persone, per la maggior parte di passaporto siriano). Verso la fine del 2015 e nei primi mesi del 2016 si sono registrati spostamenti di profughi siriani dalla Turchia ad altri Paesi europei. Questo è dovuto in buona parte alle pessime condizioni in cui i profughi sono costretti a vivere in Turchia.

Difficile vedere la luce in fondo al tunnel del lungo conflitto in Siria. È evidente che qui si gioca il futuro di vecchie e nuove alleanze strategiche. A ottobre 2015 è scesa ufficialmente in campo a fianco del presidente siriano, Bashar al-Assad, la Russia, con una serie di bombardamenti (più o meno) mirati contro obiettivi dello Stato Islamico. A febbraio 2016, l’inviato speciale del Segretario Generale ONU, Staffan de Mistura, ha facilitato a Ginevra colloqui tra il governo siriano e alcuni rappresentanti della variegata e confusa opposizione. Trentacinque gruppi hanno riconosciuto la Risoluzione 2254 come la road map di un possibile e auspicabile processo di pace in Siria. I colloqui sono stati avviati ad aprile 2016, tra crisi e interruzioni. La Turchia, dal canto suo, dopo aver dato appoggio logistico e militare ai militanti dell’ISIS, ha cominciato a cambiare rotta, riavvicinandosi progressivamente al governo di Bashar al-Assad, lo stesso che aveva giurato di voler abbattere solo un anno prima. Uno degli obiettivi principali di questo riavvicinamento per la Turchia è quello di impedire ai kurdi in Siria di ottenere un’autonomia dal governo centrale. Quest’ultimo, peraltro, non sembra particolarmente interessato ad accordargliela.

A ottobre 2015, stime sicuramente per difetto, confermavano l’enorme costo umano di questa guerra: almeno 250 mila i morti, oltre 100 mila civili. Almeno 640 mila persone vivono sotto assedio, mentre 11 milioni di persone, come visto, sono state costrette a fuggire all’interno della stessa Siria o in altri Paesi. I profughi siriani residenti in 120 Paesi nel mondo sono ormai 4,9 milioni. Molti sono bambini. Nella sola Turchia ci sono almeno 665 mila minorenni siriani che non stanno frequentando la scuola (Asquith e Kayali, 2016).

Molti di questi ragazzini sono costretti a lavorare, in nero e in pessime o inesistenti condizioni di sicurezza. I settori tessile e calzaturiero sono quelli in cui maggiormente vengono impiegati bambini (Kingsley, 2016).

Grandi marche come Esprit, H&M, DeFacto, Next sono state denunciate in questi anni per l’impiego, in loro fabbriche turche, di bambini siriani (Pitel, 2016).

 

Quando a fuggire sono i bambini

Uno degli aspetti forse più drammatici delle guerre infinite e dell’esodo massiccio di cui il pianeta è vittima, riguarda i bambini. Vittime indifese e per questo più colpite dalle tragedie causate dal mondo degli adulti, quegli adulti che dovrebbero proteggerli. Secondo l’ONU, la metà dei profughi, alla fine del 2015 erano bambini. Il numero di minori non accompagnati che ha richiesto asilo nel 2015 è stato di 98.400: nel 2014 le domande erano state 34.300. Essendo più vulnerabili i bambini sono anche i più esposti a violazioni e abusi di ogni genere. Sarebbero almeno 26 mila i bambini non accompagnati entrati in Europa nel 2015 secondo Save the Children, che stima in un 27% del milione di profughi giunti in Europa nel 2015, la quota di minori. Secondo l’Europol, almeno 10 mila sono scomparsi dopo il loro arrivo in Europa. Molti, secondo l’agenzia di intelligenza criminale della UE sarebbero finiti in mano di organizzazioni criminali che si dedicano alla prostituzione. Il responsabile di Europol, Brian Donald, ha dichiarato all’inglese “The Observer” che «cinquemila bambini sono scomparsi in Italia, mentre mille risultano spariti in Svezia». Europol ha anche documentato un incrocio tra le organizzazioni che si dedicano al traffico umano per sfruttare uomini e donne per il mercato del sesso e la schiavitù e le organizzazioni che favoriscono e gestiscono i passaggi di migranti verso l’Europa.

 

Delle quasi 100 mila richieste di asilo presentate da minori non accompagnati, la maggior parte (circa un quinto del totale) sono state presentate in Svezia (35.800 domande rispetto alle 7 mila del 2014). La gran parte delle richieste è stata di minori afghani (23.600), seguiti da minori siriani (3.800), somali (2.200), eritrei (1.900) e iracheni (1.100). In Germania sono stati 14.400 i minori non accompagnati che hanno presentato richiesta di asilo nel 2015 (erano stati 4.400 nel 2014). Anche in questo caso le domande più numerose, 4.700, sono state presentate da minori afghani, seguiti da minori siriani (4 mila).

In totale sono state presentate 50.300 domande da minori afghani (erano state 8.600 nel 2014). I minori afghani con meno di 15 anni che hanno presentato domanda di asilo sono stati 14.400. Al secondo posto per numero di richieste di asilo i minori non accompagnati provenienti dalla Siria (14.800), seguiti da eritrei (7.300), iracheni (5.500) e somali (4.100) (Donald, 2016; Save the Children, 2016).

 

Il conflitto in Iraq non sembra allentarsi. A soffrire come sempre è soprattutto la popolazione civile. Nel 2015 ci sono stati poco meno di 20 mila morti tra la popolazione civile. Vittime della guerra contro l’ISIS, come vuole la vulgata, però la realtà parla anche di esecuzioni sommarie, autobombe, omicidi, bombardamenti, regolamenti di conti, conflitti tra le varie fazioni e gruppi iracheni. Un orrore permanente in cui l’Iraq – occorre sempre ricordarlo – è stato gettato dalla seconda invasione di Stati Uniti, Regno Unito e degli altri alleati europei. Secondo l’ONU, milizie pro-governative hanno commesso omicidi, distruzione di proprietà e hanno fatto sparire numerose persone. Da giugno 2014 sono stati 3,2 milioni gli iracheni costretti a lasciare le loro case. La scuola per 3 milioni di bambini rimane un lontano ricordo, così come, per ampi strati della popolazione l’accesso all’acqua pulita, al cibo e all’assistenza medica.

 

Rapporto Chilcot sull’Iraq

Il Rapporto Chilcot sulla guerra in Iraq pubblicato a luglio2016 conferma che l’allora premier Tony Blair decise di seguire gli Stati Uniti nell’invasione dell’Iraq prima che tutte le opzioni pacifiche fossero state provate. L’opzione militare, dunque, non è stata usata dal Regno Unito come ultima risorsa. Allo stesso modo, il Rapporto ribadisce che Blair esagerò deliberatamente la minaccia posta dal regime iracheno per presentare l’opzione militare come l’unica possibile davanti al Parlamento.

Il Rapporto offre anche nuove prove sulla resistenza del governo inglese a riconoscere le vittime irachene della guerra e appoggia l’idea che sia ormai giunto il momento di contribuire alla creazione di un registro delle vittime non solo della guerra in Iraq ma anche di altri conflitti in cui il Regno Unito ha partecipato. Nonostante l’ammissione di questa grave lacuna, l’inchiesta guidata da Sir John Chilcot non fa nemmeno il tentativo di dare una sua stima della sofferenza irachena (Chilcot, 2016; Kettle, 2016).

 

 

I casi Burundi e Sudan del Sud

Nel corso del 2015 almeno 221.600 persone sono state costrette a lasciare il loro Paese natale, il Burundi, a causa della guerra. Il numero così alto di profughi ha catapultato il Paese africano al secondo posto della triste classifica dei Paesi di provenienza dei nuovi profughi nel 2015. Al terzo posto è finito il Sudan del Sud (162.100 profughi nel 2015), il Paese più giovane del pianeta, nato nel 2011 dopo il referendum che ne ha sancito la separazione dal Sudan (Fisas, 2016; Oxfam, 2016).

Per quel che riguarda il Burundi, il conflitto risale al 1983 quando l’allora primo ministro di etnia Hutu viene assassinato, scatenando un ciclo di violenza che conduce alla morte di almeno 300 mila persone. I primi negoziati di pace iniziano nel 1998 in Tanzania e nel 2000 viene raggiunto un accordo di pace, che in teoria getta le basi per un governo condiviso. La guerra però non si ferma. Questa nuova ondata di violenza è stata innescata dall’elezione, per la terza volta consecutiva, di Pierre Nkurunziza, nel 2015. Dopo un fallito tentativo di golpe, il presidente ha messo da parte la Costituzione per assicurarsi il terzo mandato, (ottiene il 70% dei voti al termine di una campagna segnata da violenze e morte). Il Paese è nel caos e il rischio, ha ammonito l’ONU nel giugno 2016, è di una recrudescenza della violenza etnica che potrebbe scatenare un nuovo conflitto civile tra Tutsi e Hutu. Cento persone in media al giorno hanno attraversato il confine cercando rifugio in Tanzania, andando a ingrossare le fila dei quasi 222 mila profughi già fuggiti, nel 2015, non solo in Tanzania ma anche in Uganda, Rwanda, Repubblica Democratica del Congo, in campi sovraffollati e dove il cibo scarseggia. David Miliband, presidente di International Rescue Committee, dopo una visita al campo profughi di Nyarugusu (in Tanzania, il terzo centro profughi nel mondo, popolato in condizioni estreme da oltre 150 mila persone) ha detto che «bisognerà prepararsi per il peggio: la gente non ha né prospettive né desiderio di tornare in Burundi. Questa è una crisi che durerà anni» (Graham-Harrison, 2016).

 

Palestina senza pace

Sono 5,2 milioni i profughi palestinesi registrati con l’UNRWA (United Nations Relief and Works Agency). In Palestina vivono 4,5 milioni di persone e nella Striscia di Gaza 1,8 milioni. Il 70% della popolazione di Gaza è costretto a vivere di aiuti umanitari. Nella West Bank vivono poco più di 2,6 milioni di persone. Israele continua a fornire sicurezza, servizi amministrativi, casa, educazione e assistenza medica ai circa 560 mila coloni che risiedono in insediamenti illegali nella West Bank, compresa Gerusalemme est. Israele ha inoltre autorizzato la costruzione, nel 2015, di 566 nuovi insediamenti, dei quali 529 già realizzati a fine 2015. I palestinesi che vivono nell’Area C (l’area sotto controllo totale di Israele, che rappresenta il 60% della West Bank) sono soggetti a una feroce e costante repressione: hanno limitato accesso all’acqua, elettricità, scuola e altri servizi statali, oltre a subire restrizione nei movimenti e accesso, demolizione di case, trasferimenti forzati, violenza da parte dei coloni. A novembre 2015 risultavano essere state demolite da parte del governo di Israele 481 case palestinesi: 601 persone (tra cui 296 bambini) sono rimaste senza casa e costrette a trovare soluzioni di emergenza. Il Libano ospita circa 400 mila profughi palestinesi (Commissione Europea, 2016 a).

 

 

Alla fine di aprile 2016, Riek Machar, ex leader dei ribelli e vice presidente del Sudan del Sud, fa il suo rientro trionfante all’aeroporto di Juba, accolto da una folla esultante e un volo di colombe bianche, simbolo di pace. Solo due settimane più tardi le strade di Juba vengono occupate dai carrarmati, i quartieri sono sotto le bombe, centinaia di migliaia di civili sono costretti a fuggire, almeno 300 persone muoiono negli scontri e quello stesso aeroporto è chiuso e sotto attacco.

Non è facile comprendere chi combatte contro chi e perché, quello che è certo è che le truppe nominalmente fedeli al presidente Salva Kiir stanno combattendo quelle fedeli a Machar. La guerra civile iniziata nel 2013 e culminata, dopo delicati e complicati negoziati, in un accordo di pace nell’agosto del 2015, potrebbe riprendere (Burke, 2016).

Quel conflitto ha ucciso migliaia di persone. Quasi due milioni le persone costrette a fuggire dal Paese più giovane del mondo. Almeno la metà degli 11 milioni di abitanti del Sudan del Sud sono minacciati dalla fame. Va notato che si stima che la terza riserva di petrolio dell’Africa sub-sahariana si trovi proprio nel Sudan del Sud. Il Paese è sì terzo in classifica, ma per ben altre ragioni. Nel 2015, infatti, sono stati 162.100 i profughi registrati dall’ONU. Nei primi giorni di agosto 2016 si è verificata la fuga di 60 mila persone, la maggior parte (circa 52 mila) hanno cercato rifugio in Uganda (l’85% sono donne e bambini), settemila in Sudan e un migliaio in Kenya, secondo i dati forniti dall’ONU. Alla fine del 2015 i profughi provenienti dal Sudan del Sud sparsi per il mondo erano 778.700, secondo le stime dell’ONU (erano 616.200 nel 2014).