Fabrizia come Giulio e Valeria Nel suo diario l’Italia migliore da: corrieredellasera.it

Venivano da un Paese che non offre opportunità per i giovani e che spesso li manda via. Ma sarebbe ingiusto ridurre la loro scelta, dovuta anche a questo, soltanto alla ricerca di una società più attenta. La loro patria è la diversità delle culture

di Paolo Lepri

Fabrizia Di Lorenzo (Ansa)
Fabrizia Di Lorenzo (Ansa)

E’ un eroismo moderno – nella versione laica, anti-retorica, di una parola classica della quale non dobbiamo avere paura – la cifra che unisce + il nome di Fabrizia Di Lorenzo a quelli di Valeria Solesin e di Giulio Regeni. «La morte è una cosa disumana», diceva lo scrittore Hans Keilson, poco prima di arrendersi a questo assurdo impegno con il nulla dopo una vita dedicata a salvare i bambini traumatizzati dalla deportazione dei genitori. Un eroe «normale».

Come questi tre giovani con i quali non possiamo più condividere, purtroppo, l’unica ideologia che resiste alla storia: la passione. Per colpa dei loro assassini questo è stato un anno di dolore. Fabrizia, Valeria e Giulio non sono scappati. Non si può parlare per loro di esilio. Né tantomeno di «silenzio» e di «astuzia», le altre due armi del Dedalusjoyciano. Hanno parlato, invece, evitando compromessi con la passione.

Certo, venivano da un Paese che non offre opportunità per i giovani e che spesso li manda via. Ma sarebbe ingiusto ridurre la loro scelta, dovuta anche a questo, soltanto alla ricerca di una società più attenta. La loro patria era la diversità delle culture. E restavano legati ad un’Italia che non volevano lasciare affondare. Ce lo spiega, questo, il diario in pubblico di Fabrizia. Tutto è più limpido se chi usa i social media lo fa per lanciare segnali di conoscenza del mondo, per affidarsi alla forza delle idee.

Nel suo Bildungsroman berlinese in capitoli di centoquaranta caratteri troviamo l’odore degli shisha bar nello Alt Moabit, il tempo dei single che «vale quanto quello di chi ha famiglia», la gioia di capire, la delusione per le mancate riforme italiane, e, perché no, la Giostra cavalleresca di Sulmona. Le piaceva il vocabolo «uberempfindlich», che vuol dire in tedesco «permaloso», ma, letteralmente – aggiungeva – «supersensibile», elogiando così la bellezza della lingua che aveva tanto studiato. Supersensibile. Come lei. Come altri che non conosciamo.

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